L'AVVICINARSI DI DIO
Estratto da "La vita senza fine" di
Giovanni Vannucci - O.S.M. – Quaderni di ricerca 21 – 1985
Centro Studi Ecumenici Giovanni XXIII, priorato di sant’Egidio - Sotto il Monte
- Bergamo
«Ci saranno strani segni nel sole, nella luna e nelle stelle. Gli uomini saranno
spaventati da paurose tempeste [...]. Allora verrà dal cielo, pieno di maestà e
di potenza, il Figlio dell’Uomo. Quando queste cose avverranno, alzate la fronte
verso il cielo, perché la vostra liberazione s’avvicina» (Lc 21, 25-28).
L’anno liturgico comincia con la lettura dell’annuncio delle agitazioni e dei
turbamenti che precederanno la fine di un tempo particolare e la fine di tutto
il tempo. Il cuore dei credenti non deve dar segno di agitazione, ma, nel cadere
delle forme, mantenersi sereno per la certezza che ogni periodo di smarrimento
segna un avanzarsi della definitiva apparizione del Figlio dell’Uomo.
Le forze redentrici di Cristo sono inserite, come potenza di crescita, nella
parte viva dell’essere creato, e, lentamente e costantemente, portano l’uomo
verso la sua piena verità.
Il regno di Dio, l’attiva presenza di Gesù nell’universo, è il chicco di senapa
che deve crescere e assumere in sé tutto il creato. Sul piano umano, tale
crescita si compie nella sempre più vasta dilatazione della coscienza e nella
sempre più estesa capacità di amare. L’unica cosa necessaria della realtà
cristiana è che ogni uomo raggiunga la piena latitudine della coscienza e
dell’amore. Tutto il resto seguirà tale ascesa.
Il continuo ascendere della coscienza umana e del cuore nella pienezza
dell’amore travolge tutte quelle forme di vita individuale e sociale che
corrispondevano a stati di più imperfetta coscienza e di più limitato amore. Al
momento della rottura delle forme, il cristiano non è preoccupato dalle
agitazioni e dagli smarrimenti che lo contrassegnano, ma fissa vigile il suo
occhio su quelle realtà interiori che vanno rivelandosi nel turbamento della
dissoluzione delle epoche e dei tempi. A esse uniforma il suo pensare e il suo
volere, perché sa che, attraverso esse, si avvicina il giorno del Figlio
dell’Uomo.
Gesù opera nel creato come un lievito che ne forma la natura intima, elevandolo
a una grandezza sempre più conforme alla sua verità ultima e sacra. La continua
ascesa della coscienza e della dedizione amorosa dello spirito dell’uomo
distrugge le forme insufficienti e crea gli otri nuovi per accogliere il vino
nuovo.
L’azione di Gesù, nella coscienza dell’uomo, opera un continuo superamento dei
limiti che le danno forma nei vari tempi e momenti della sua ascesa. Gesù la
porta oltre i limiti di razza, di nazione, di tribù, di famiglia, di
individualità. Questo andare avanti distrugge tutte le forme che essa ha assunto
nel tempo.
Se così non fosse, l’uomo avrebbe una forma fissa e determinata di esistenza.
L’ape non pensa a trasformare il suo alveare, la sua vita sociale combacia
perfettamente con il suo essere, esistendo nell’alveare una adeguazione esatta
tra forma interiore e forma esteriore. Nell’uomo non è così, la presenza di Gesù
nella parte più vera del suo essere lo sprona di ascensione in ascensione; il
sursum,
il sempre più in alto è il destino dell’uomo.
L'ascesa, come aspirazione e come fatto, Gesù la compie dilatando la coscienza e
il cuore dell'uomo, portando la coscienza oltre tutti i suoi confini
egoistici di famiglia, nazione, razza e rendendo il suo cuore attento a ogni
creatura che viene a esistere in questo mondo.
Questo andare oltre le forme, ne provoca inevitabilmente il crollo. Lo
smarrimento e la costernazione che lo accompagnano non sono il segno
dell’avanzarsi del male, ma il passaggio di Dio, l’avvicinarsi della Redenzione
dell’uomo. Per questo l’anno cristiano parte dalla fine del mondo. Cioè pone
davanti alla coscienza umana il fatto della distruzione delle forme operata
dalla perenne novità di Dio; e il cristiano non deve essere turbato dai segni
strani che appariranno nel cielo e nella terra, ma è invitato a sollevare la
fronte con la più assoluta fiducia nella vicinanza della Redenzione.
Vita religiosa è vita di apertura al mistero che Dio compie nell’uomo e
attraverso l’uomo. Dio è amore implacabile, e non giungerà al suo sabato di
riposo finché l’uomo non abbia raggiunto tutta la sua verità nella coscienza e
nel cuore.
L'UNICO EVENTO VALIDO
«Era
l’anno quindicesimo di Tiberio imperatore,
Ponzio Pilato governava la
Galilea, Filippo e Lisia erano
tetrarchi dei vicini paesi, Anna e Caifa erano i sommi sacerdoti. E la parola di
Dio fu comunicata, nel deserto, a Giovanni, figlio di Zaccaria» (Lc 3, 1-2).
Voce di uno che grida nel deserto:
Preparate la via del Signore,
raddrizzate i suoi sentieri!
Ogni burrone sarà riempito,
ogni monte e ogni colle sarà abbassato;
le vie tortuose diverranno diritte
e quelle impervie, spianate.
Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!
(Lc 3,4-6)
Il cammino di Dio non è quello dell’uomo. Nell’organizzato e strutturalmente
perfetto mondo ebraico-romano, l’avvenimento centrale dell’impero di Tiberio,
del governo di Ponzio Pilato, del sommo sacerdozio di Anna e di Caifa, non si
compie né a Roma, né a Gerusalemme, ma nel deserto e nella sconosciuta persona
di un solitario penitente: Giovanni, figlio di Zaccaria.
A lui è comunicata la parola di Dio, parola che quando, attraverso Gesù, passerà
nel cuore degli uomini distruggerà il potere sacro di Gerusalemme e il potere
civile di Roma e creerà nuove coscienze, nuove strutture umane.
La parola di Dio risuona nel deserto, lontano dalle città costruite dall’uomo,
ed è affidata alla creatura umanamente meno atta, ma protesa con tutta se stessa
ad accoglierla. L’eterno problema — deve o no l’azione religiosa interessarsi
delle strutture storiche create dall’uomo — trova nel brano evangelico di Lc 3,
1-6 la sua soluzione definitiva.
Dio è sovranamente indifferente a ciò che l’uomo costruisce, ma per amore
dell’uomo invia la sua parola a uomini incontaminati dalla civiltà, e la sua
parola li rende gestatori dell’avvenire.
L’umanità, nei secoli successivi, non penserà all’imperatore
Tiberio o al sommo sacerdozio di Anna e Caifa, ma porterà nel cuore, come
immagine conduttrice verso la vera vita, Giovanni, la voce che annunciò la
venuta del Figlio di Dio.
LA QUALITA' DELLA GIUSTIZIA
La liturgia in preparazione al Natale, all’incontro col Fanciullo che nasce, ci
dà ogni domenica delle indicazioni importanti. La prima domenica d’Avvento ci
richiama lo stato dell’umanità in tutti i tempi e in tutti i momenti, che è
quello di essere sotto il giudizio di Dio. E' la parola di Dio che ci giudica,
perché le nostre opere di uomini sono sempre imperfette, incomplete, attorniate
da grandi ombre e da grandi imperfezioni. E allora abbiamo continuamente bisogno
di sentire su di noi una parola che ci giudica.
Nella seconda domenica d’Avvento la liturgia ci invita ad andare nel deserto,
nel silenzio. Il deserto lo dobbiamo trovare in noi, cioè dobbiamo liberarci non
solo dai rumori, dalle dissipazioni e dalle distrazioni che ci vengono
dall’esterno, ma anche da tutto quell’insieme di opinioni, di teorie, di
ideologie che ci posseggono dall’interno e che danno alla nostra mente
l’impossibilità di pensare con le sue proprie forze.
Nella terza domenica d’Avvento la liturgia presuppone che noi siamo entrati nel
deserto, che ci siamo liberati da tutte quelle sovrastrutture che condizionano
il nostro agire di uomini religiosi. E ci indica la prima strada, il primo
momento, il primo passo per giungere alla verità cristiana: esso ci viene
mostrato da Giovanni Battista.
Giovanni Battista appartiene ancora alla qualità della giustizia. Egli indica
alle varie classi che lo avvicinano il modo di attuare la giustizia: «Chi ha due
tuniche,
ne dia una a chi non ne ha. Chi ha da mangiare, dia da mangiare a chi non può
sfamarsi». E agli agenti del fisco dice: «Non esigete più di quello che dovete
esigere». E ai soldati: «Non commettete delle violenze» (cfr. Lc 3, 10-14).
Questo è il programma veterotestamentario di vita. Ed è necessario che noi lo
attuiamo nella nostra esistenza se vogliamo avvicinarci alla qualità dell’amore
che Cristo ci ha portato: perché, come possiamo amare se rimaniamo chiusi nei
nostri possessi, nelle nostre avidità? Come possiamo amare se il nostro
comportamento è ancora un comportamento di prepotenza e di violenza verso gli
altri? Allora dobbiamo spogliarci dall’istinto della proprietà, per «fare
giustizia». Una proprietà equilibrata, che non ha niente a che fare con l’amore
cristiano, ma se noi non realizziamo, non viviamo questa qualità della
giustizia, non possiamo accedere all’amore. Come può un grosso proprietario di
case, di fabbriche, amare? Bisogna che prima «faccia il pane», e poi comincerà
ad amare.
Vediamo questo anche nella storia degli uomini. Noi viviamo in tempi in cui la
parola della giustizia torna a essere stimolante nella nostra coscienza e si
afferma attraverso numerosi movimenti; sta entrando anche in seno alla Chiesa
cattolica, dove noi eravamo purtroppo abituati a guardare troppo in alto, a non
guardare sulla terra; sta entrando anche nella nostra coscienza questo bisogno
di spogliarci, di «fare il pane», di non sentirci differenti dagli altri perché
possediamo una tunica in più o perché il nostro piatto è più ricolmo di altri
piatti che sono vuoti. Vediamo nella storia che, sicuramente, dopo che l’umanità
avrà acquisito in una maniera più forte, più estesa la qualità della giustizia,
il cristianesimo avrà un rinnovamento profondo se ha permesso a noi, se ha
concesso a noi di passare il battesimo dello spirito, di essere
immersi nello spirito, di bruciare nel fuoco dello spirito, di essere creature
capaci di amare.
Il Vangelo che leggiamo tutte le domeniche, ma specialmente nei periodi più
sacri dell’anno liturgico, ci descrive il divenire del cristianesimo nella
storia. Noi viviamo ora in un mondo, sia pure sconvolto, ma compenetrato da
ansie di giustizia. Quando questa giustizia avrà trovato il suo equilibrio, la
sua manifestazione, non totale, non completa, ma più vasta che non in altri
tempi, sicuramente noi potremo sperare di passare nella qualità dell’amore
cristiano. E allora saremo battezzati non dall’acqua, ma dallo spirito. Vivremo
non la contabilità della giustizia: «Hai due tuniche? Danne una a chi non ne
ha», ma vivremo quell’intensità di vita animata dal fuoco dello spirito, che
discenderà in noi quando saremo riusciti a compiere le opere della giustizia.
Rientriamo in noi e guardiamo attentamente alle cose che costituiscono i nostri
beni: se questi ci dividono, trasformiamoli in strumenti di comunione e di
rapporti di giustizia con gli altri. Perché, se non c’è questa totale
trasformazione della nostra esistenza, non potremo pretendere di entrare nel
regno dell’amore, di essere battezzati nello spirito, di essere animati dal
fuoco divino che Cristo ha portato. Sia così la nostra vita; siamo ancora alle
soglie del cristianesimo, ma prepariamoci a entrare nel «santo dei santi» del
cristianesimo, compiendo tutta la giustizia che ci viene richiesta.
LE DUE GENERAZIONI
L’episodio dell’incontro delle due generazioni, raffigurate in Elisabetta e in
Maria (Lc 1, 39-48), ci offre grande materia di riflessione. Ne indico alcuni
punti, perché anche questo episodio, come altri, è eterno; credo che gli antichi
artisti avessero il senso dell’eternità di questo fatto, dell’incontro della
generazione anziana, portatrice di un figlio del miracolo, con la nuova
generazione, portatrice di un altro figlio del miracolo. Se noi ci abituassimo a
leggere il testo del Vangelo non con i commenti, ma con le grandi icone, con le
grandi immagini, che sono state espresse dagli artisti in epoche più religiose,
più metaforiche, più spirituali della nostra, sicuramente riusciremmo a
comprendere molto meglio il Vangelo, che non frequentando le scuole difficili
dell’esegesi tedesca, germanica, che ora domina nelle nostre scuole. Ed è vero
che gli artisti italiani hanno scritto commenti al Vangelo di grande ricchezza,
di facile lettura, di lettura silenziosa.
Per capire l’incontro delle due generazioni dobbiamo spogliarci da una certa
categoria che è propria del nostro tempo: è una categoria di mente che ci porta
a storicizzare tutto. C’è Elisabetta, la donna anziana, che ha concepito, nella
sua sterilità, un figlio al quale pone nome Giovanni; e c’è Maria che, nella sua
giovinezza, ha concepito per opera dello Spirito un figlio che sarà il
Salvatore. Ecco, noi storicizziamo questi eventi. Invece sono dei segni di
quello che avviene continuamente.
In questo
momento, noi portiamo, dentro di noi, la
nostra vecchia generazione, tutti i giorni che abbiamo
vissuto fino a questo momento. E anche i nostri
vecchi anni passati, i giorni passati, sono tutti gestatori di un verbo,
di una parola, perché ogni istante della nostra esistenza è aperto verso
l’infinito. Se si capisce questo, si vive con più gioia. Attualmente, invece,
questo bisogno di rendere tutto storico ci rende più piatti. Vediamo la storia
come un susseguirsi di eventi in un’unica direzione, in una superficie piana.
Invece la nostra vita non è mai piana: ha sempre dei rigonfi, ha altre
dimensioni. La dimensione che dà un senso alla nostra esistenza è sempre la
dimensione divina, la dimensione del Mistero, dello Spirito, dell’Assoluto.
E così noi, in questo incontro che viene caratterizzato dalla riflessione sulla
visita della Vergine a Elisabetta, portiamo gli anni e i tempi passati. E
insieme viviamo
l’istante,
che si apre in un futuro che ignoriamo, ma che dovremmo vivere con piena
intensità; anche quest’istante, come tutti gli istanti della nostra vita
passata, è aperto verso il miracolo, verso lo spirito, verso l’infinito. Credo
che dobbiamo riconquistare questa coscienza, liberandoci da tutte le visioni che
ci vengono da un mondo legato alla quantità, al numero, alle date. In questo
momento, in noi, l’istante nuovo che viviamo incontra il vecchio istante, ma ciò
che importa — e nel nostro passato e nel nostro presente — è il Verbo, la
Parola, il miracolo che abbiamo portato avanti, alle volte anche
inconsapevolmente; questa fecondazione dall’alto avviene continuamente nella
nostra esistenza.
Dobbiamo prender coscienza di questo per un doppio motivo: prima, per scrollarci
di dosso tutto ciò che appartiene al passato, al vecchio, al consumato, e poi
per prendere coscienza di tutta la novità che avviene in noi in questo istante e
per poterla accostare con quella purezza totale di spirito che è raffigurata
nell’episodio evangelico da Maria Santissima. Se noi vivessimo in questa
apertura verso l’eternità, la nostra vita avrebbe un altro ritmo, le nostre
azioni un altro senso, le nostre parole sarebbero feconde di una intensità che
non ci viene, non ci può venire dalle infinite parole che noi uomini, del nostro
tempo soprattutto, andiamo ripetendo.
Prepariamoci così al Natale, all’avvento del Fanciullo in noi, del nuovo nato,
dell’atteso il cui volto non sappiamo raffigurare; prepariamoci così,
abituandoci a vivere tutti gli istanti della nostra vita, della nostra
esistenza, in questa apertura verso l’infinito. Allora la nostra vita avrà un
altro senso, avremo più compostezza, saremo meno presi dalle infinite cose della
terra, saremo meno distratti, e tutto in noi sarà pervaso da una luce che non
nasce da noi, ma che scende in noi; quando il nostro spirito sarà aperto verso
l’infinito, tutte le nostre opere saranno compenetrate di pace, profumate di
eternità, perché vivremo l’istante della nostra esistenza in tutta la sua piena
intensità.
Non dobbiamo misurare l’istante della nostra esistenza con l’orologio, col
calendario, ma dobbiamo viverlo, con tutte le forze che ci sono concesse, in
tutte le sue dimensioni: della terra e del cielo, del visibile e
dell’invisibile, dell’uomo e di Dio, della parola dell’uomo e della parola di
Dio. Allora tutto il nostro essere sarà fecondato e anche noi nella vita saremo
come queste due grandi figure, la donna anziana e la donna giovane, che si
incontrano, che si salutano perché la loro terra, nelle diverse esperienze, è
stata fecondata dal miracolo. E così sarà anche la nostra vita, una vita
perennemente cullata dal miracolo.
Se questo non avviene in noi è perché non ne prendiamo coscienza. Io penso
sempre che il più grave peccato di noi uomini è l’ignoranza: l’ignoranza della
nostra realtà. Sappiamo tutto sul nostro corpo, ora sappiamo anche abbastanza
della nostra psiche, sappiamo qualcosa della nostra mente, di come funziona il
nostro cervello, ma — per distrazione, per ignoranza — non sappiamo quasi niente
di quel mistero che ci avvolge e accompagna, ci illumina e feconda, che ci rende
veramente uomini e portatori della verità umana in mezzo a tutti gli altri
uomini.
Prepariamoci così al Natale: aperti, con tutte le forze del nostro essere, verso
il mistero che è sopra di noi e dentro di noi, che ci avvolge, ci profuma e ci
rende creature nuove e luminose.
Riscoprire
l'Avvento - Colui che ci
attende, ci precede - Ballata della
speranza - Il dono
dell'Avvento -Il dono della
gioia - La nascita di Dio -
Il Natale della pace -
| Ora, lege et labora | San Benedetto | Santa Regola | Attualità di San Benedetto |
| Storia del Monachesimo | A Diogneto | Imitazione di Cristo | Sacra Bibbia |
1 dicembre 2019 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net