Riscoprire l'Avvento
di Goffredo Boselli, Monaco di Bose
Fonte: Monastero di Bose (www.monasterodibose.it)
- 2014
Per John Henry Newman il nome del cristiano è “colui che attende il Signore”.
Invece dobbiamo riconoscerlo: da secoli, in occidente, l’attesa della venuta del
Signore è una dimensione per lo più assente nella vita di fede dei cristiani. Era
il rammarico di Ignazio Silone che scriveva: “Mi sono stancato di cristiani che
aspettano la venuta del loro Signore con la stessa indifferenza con cui si
aspetta l’arrivo dell’autobus”.
Rivelatore di questa realtà è il modo abituale di comprendere e vivere
l’Avvento. Io sono persuaso che l’Avvento è il tempo liturgico oggi meno
compreso nel suo valore e nel suo significato. Lo si è ridotto a tempo di
preparazione alla festa del Natale. Che tristezza! Non si comprende che
l’Avvento è la chiave di tutto l’anno liturgico: l’escatologia è la verità
dimenticata dell’intero anno liturgico.
L’Avvento è la chiave per comprendere la celebrazione delle feste della
manifestazione del Signore nella carne: i fatti che hanno immediatamente
preceduto la nascita di Gesù Cristo, la sua nascita a Betlemme, la
manifestazione ai Magi, il battesimo nel Giordano fino alle nozze di Cana.
Capiti nella loro intelligenza spirituale, i testi liturgici dell’Avvento
esprimono non l’attesa di una nascita già avvenuta nella storia una volta per
tutte, quanto piuttosto l’attesa della definitiva venuta di Cristo nella gloria.
Domandiamoci: ma com’è possibile che la liturgia cristiana, che è sempre
memoriale della morte e risurrezione di Cristo finché egli venga, faccia di noi
cristiani gente per la quale il Signore non è ancora nato e dobbiamo attendere
la sua nascita? Se la liturgia dell’Avvento ci costringesse a immedesimarci in
coloro che duemila anni fa attesero la nascita di Gesù, la liturgia sarebbe
nient’altro che l’artefice di un complesso sociodramma, ossia di una
rievocazione ritualizzata degli eventi fondatori del cristianesimo. La nascita
non la si attende ma la si commemora (commemoratio
nativitatis Domini nostri Jesu Christi ), ciò che si attende è
invece la parusia che è il compimento del mistero Pasquale.
Il modo di vivere l’Avvento è il simbolo della diffusa perdita della dimensione
escatologica che è uno dei tratti distintivi del cristianesimo moderno e
contemporaneo occidentale. La progressiva spiritualizzazione dell’escatologia ha
portato l’esistenza cristiana a soffrire di un male grave: l’amnesia della
parusia. Osservando come la malattia del nostro tempo sia la volontà di
dimenticare l’avvento di Dio, J.B. Metz in una preziosa meditazione sull’Avvento
pone una domanda:
“Domandiamoci una volta in questi giorni di Avvento e di Natale: non agiamo
forse, segretamente, come se Dio fosse restato tutto alle nostre spalle, come se
noi – frutti tardivi di questo ventesimo secolo post
Christum natum – potessimo trovare Dio solamente in un facile e
malinconico sguardo del nostro cuore, una debole luce riflessa alla grotta di
Betlemme, al bambino che ci è stato dato?
Abbiamo noi qualche cosa di più della
visione di questo bambino negli occhi, quando nelle nostre preghiere e nei
nostri canti proclamiamo: è l’Avvento di Dio? Prendiamo qualche cosa di più del
Dio dei nostri ricordi e dei nostri sogni? Cerchiamo realmente Dio anche nel
nostro futuro? Siamo uomini dell’Avvento, che hanno nel cuore l’urgenza della
venuta di Cristo, e con gli occhi che spiano, cercando negli orizzonti della
propria vita il suo volto albeggiante?”.
(J.
B. Metz, Avvento di Dio, Queriniana, Brescia 1966, p. 22.)
Oggi, dobbiamo riconoscerlo, vi è una patologia nel modo di vivere l’Avvento. In
realtà l’Avvento è il solo specifico cristiano, perché un tempo di digiuno e
penitenza come la Quaresima la condividiamo con l’islam, il tempo della Pasqua
con l’ebraismo, ma l’attesa della venuta del Kyrios è solo cristiana. Solo noi
cristiani attendiamo il ritorno di Cristo da lui stesso promesso: “Sì vengo
presto! Amen.” (Ap 22,20) Per questo, privare l’anno liturgico della sua
costitutiva dimensione escatologica significa sottrarre alla fede cristiana la
dimensione della speranza.
Così compreso e vissuto, l’Avvento sarebbe il tempo dell’anno liturgico più
eloquente per i credenti di oggi. Uomini e donne che faticano a sperare perché
privati di ogni speranza, a volte perfino incapaci di sperare. Per questo,
occorre fare attenzione a liturgie troppo festanti al limite del superficiale,
eccessive nei toni e negli accenti, quasi che si debba sempre ed a ogni costo far
festa.
Domandiamoci: si è altrettanto capaci di offrire ai credenti liturgie capaci di
suscitare la speranza, di nutrirla. Liturgie capaci di dare ragioni per sperare
a cuori stanchi ed affaticati, capaci di risollevare quanti, come i discepoli di
Emmaus, si fermano “con il volto triste”. Lo sappiamo,
la fatica a credere, ad
avere fiducia negli altri, nella vita, nel futuro, è uno dei tratti che
caratterizzano l’uomo e la donna occidentali dei nostri giorni e questo non può
non segnare anche la fede del credente contemporaneo.
Comprendere l’anno liturgico non come un ciclo, un anello chiuso su di sé, ma come un
movimento elicoidale che mette la fede in cammino significa, nel preciso
contesto antropologico, culturale e sociale nel quale viviamo, comprendere che
le nostre liturgie, e più in generale le celebrazioni dei sacramenti, sono oggi
chiamate ad ospitare un modo di vivere la fede, anche tra i credenti più
assidui, che non è più, come un tempo, la somma di certezze incrollabili, ma è
l’espressione di un desiderio di qualcosa e di qualcuno in cui poter sperare,
così che credere significa aggrapparsi ad una speranza.
Oggi la fede è, infatti, per lo più sperimentata come l’apertura ad una speranza.
Nutrire la speranza, questo oggi è il compito primo dell’anno liturgico, dare
ragioni per alimentarla, per esercitarsi a credere che ci sono realtà non
visibili, e queste realtà sono la nostra salvezza. Uscire dalla precarietà in
cui ci si trova per entrare un giorno nella condizione di beatitudine in Dio.
“Solo la speranza nella vita eterna ci fa propriamente cristiani”, ha scritto
Agostino
(La
città di Dio,
VI,9,5.).
Oggi è molto difficile parlare di speranza, dare ragioni di speranza, eppure
questo è il compito oggi dell’anno liturgico, perché la mancanza di speranza
rende l’uomo estraneo al tempo, irrimediabilmente assente a questo tempo
presente. La speranza è esattamente questo: volere infinitamente il finito, è
vivere eternamente il tempo. Come ha scritto Emmanuel Mounier in un saggio
dedicato a Péguy, la speranza “Rifà ciò che l’abitudine disfa. E’ la sorgente di
tutte le nascite spirituali, di ogni libertà, di ogni novità. Semina
cominciamenti là dove l’abitudine immette morte”
(E.
Mounier, La vision des hommes et du monde, in E. Mounier, M. Péguy, G.
Izard, La pensée de Charles Péguy, Librairie Plon, Paris 1931, pp. 1-208,
p. 192.).
Avvento:
"L'avvicinarsi di Dio" -
Ballata della speranza -
Colui che ci attende, ci precede -
Il dono dell'Avvento -Il dono della gioia - La nascita di
Dio -
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24 novembre 2020 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net