«Discese agli inferi;
il terzo giorno risuscitò da morte»
di Dionigi Tettamanzi, Cardinale
Arcivescovo di Milano
Estratto da “Questa è la nostra fede”, Centro Ambrosiano 2004
Siamo al
momento di passaggio:
dall'abbassamento più totale della "discesa" agli inferi, espressione massima
della condivisione della morte, all'innalzamento della glorificazione nella
risurrezione, ascensione e intronizzazione di Gesù come Signore. Qui, in un solo
articolo di fede, il Simbolo degli Apostoli professa «la discesa di Cristo agli
inferi e la sua Risurrezione dai morti il terzo giorno, perché» nel passaggio
della «sua Pasqua egli dall'abisso della morte ha fatto scaturire la vita»
[1].
Il nostro è un testo che fa da collegamento tra quanto
professato nell'articolo precedente - «patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso,
morì e fu sepolto» - e quanto professeremo con i due articoli seguenti: «salì al
cielo, siede alla destra di Dio Padre onnipotente: di là verrà a giudicare i
vivi e i morti».
Con questo articolo del "Credo" siamo messi di fronte a un
movimento di "discesa-risalita"
dall'evidente sapore e significato teologici, ben più importanti e decisivi che
non la semplice descrizione dei fatti. E l'uno e l'altro - la discesa agli
inferi e la risurrezione da morte - sono sì fatti reali, ma - diversamente da
quanto avviene per la nascita e per la morte in croce - non possono essere
"fotografati" e descritti con le categorie proprie del racconto o della cronaca.
Chiedono, piuttosto, di essere creduti e interpretati.
La discesa agli inferi
Le prime parole di questo quinto articolo del "Credo" -
«discese agli inferi» - si ricollegano, in un certo modo, alle ultime
dell'articolo precedente. Sono parole, dal chiaro sapore neotestamentario
[2],
che evocano temi teologici da chiarire e approfondire.
Gli "inferi"
non si identificano con l'inferno, ossia con lo stato di dannazione, ma
semplicemente con il
"soggiorno dei morti",
lo
"shéol" in ebraico, l'ade
della lingua e cultura greca.
Affermare che
Cristo
«discese agli inferi» vuol dire, anzitutto, affermare che, prima della
risurrezione, egli ha dimorato tra i morti, ossia
ha conosciuto la morte in tutto il suo orrore.
Sì, quella di Cristo «fu una morte reale, e non solo apparente. La sua anima,
separata dal corpo, era glorificata in Dio, ma il corpo giaceva nel sepolcro
allo stato di
cadavere.
Durante i tre giorni (non completi) passati tra il momento in cui "spirò" (cf.
Mc
15, 37) e la risurrezione, Gesù ha sperimentato lo "stato di morte", cioè la
separazione dell'anima dal
corpo, nello stato e condizione di tutti gli uomini»
[3].
Questo è vero, ma non può essere l'unico significato
dell'affermazione: sarebbe troppo simile, quasi una ripetizione, a quanto è
stato già detto nell'articolo precedente con la formula «e fu sepolto».
Dobbiamo vedere nelle parole «discese agli inferi» una
sfumatura e un accento ulteriori, capaci di infondere fiducia, consolazione,
speranza nel cuore di ogni uomo e donna. È lo stesso verbo "discese" a
suggerirli. L'uso di questo verbo, infatti, impone di rileggere tutti i verbi
precedenti alla luce di un
"abbassamento",
di una "umiliazione"
che condivide la sorte dell'uomo fino alle regioni più lontane dalla luce e
dalla vita di Dio.
Perfino l'uomo chiuso nel regno dei morti e distante da Dio è visitato da Gesù.
Non c'è situazione o condizione umana - anche la più contraddittoria, la
più drammatica, la più disperata, la più apparentemente priva di senso - che
non sia raggiunta da Dio, dal suo amore misericordioso, dalla presenza del
suo Figlio che si fa vicino e solidale fino a diventare partecipe di ogni
vicenda umana, tranne il peccato.
Ripetendo le parole «discese agli inferi», noi diciamo di credere che la
morte di Gesù è la conseguenza estrema di uno stile coerente di solidarietà
con gli "ultimi", gli oppressi, i poveri, i peccatori e le vittime di
ogni male. Con la morte e la discesa agli inferi, la sua condivisione della
nostra fragilità giunge fino in fondo.
Dio, prima di trasfigurare il nostro mondo con la sua potenza, ha voluto farci
sapere che ci è misteriosamente accanto anche nelle situazioni più disperate,
che ci allontanano da lui. Dio non è presente solo nei nostri successi,
nello splendore di una vita che ci sorride. Dio è anche là dove l'uomo è
sconfitto, perso, incapace di rivolgersi a lui. Anche noi, allora, come il
salmista, possiamo ripetere con speranza incrollabile: «Di questo gioisce il mio
cuore... perché non abbandonerai la mia vita nel sepolcro, né lascerai che il
tuo santo veda la corruzione» [4].
C'è ancora di più! «Gesù ha conosciuto la morte come tutti gli
uomini e li ha raggiunti con la sua anima nella dimora dei morti. Ma egli vi è
disceso come Salvatore, proclamando la Buona Novella agli spiriti che vi si
trovavano prigionieri (cf
1 Pt
3,18-19)» [5].
Credere che Gesù «discese agli inferi» è riconoscere e credere che la sua
discesa nella dimora dei morti ha un valore salvifico, di redenzione: qui si
compie, nella sua pienezza, il messaggio evangelico della salvezza
[6].
Con la discesa di Gesù agli inferi, la morte di Cristo si presenta come
generatrice di redenzione per tutti gli uomini, anche per i giusti che l'avevano
preceduto, anche per coloro che erano morti prima della sua venuta e della sua
discesa agli inferi: anch'essi vengono raggiunti dalla sua grazia che giustifica
e salva.
L'opera redentrice di Cristo è per tutti, nessuno escluso, è anche per
quelli che nei giorni della morte e sepoltura di Gesù erano già morti e
giacevano negli "inferi", in attesa di essere presi per mano dal Signore e
fatti risalire dagli inferi, per partecipare della sua risurrezione e della sua
gloria. Gesù è davvero l'unico e universale Salvatore di tutto il genere umano.
Credere che
Gesù «discese agli inferi»
è, ancora, affermare che la sua è una discesa che conosce una contropartita.
Gesù non è disceso agli inferi per rimanervi, ma
per "risalire dagli inferi"
e per risalirvi
non da solo, ma in compagnia
degli uomini da lui salvati e redenti.
La discesa di Gesù nel regno dei morti non ha senso se non in relazione con la
sua risalita. La morte non ha avuto il potere di trattenerlo.
Credere nella discesa-risalita di Gesù è credere che Gesù ha distrutto il
regno della morte nella sua stessa sede. È credere che non c'è angolo
dell'universo sottratto al suo governo e che non c'è uomo di qualunque epoca
della storia che non sia raggiunto dalla sua offerta di salvezza. È credere che
la morte di Cristo non è disgiungibile dalla sua risurrezione e che il
Crocifisso-risorto è davvero colui che ha vinto definitivamente la morte.
In questa luce, anche la morte
dell'uomo assume un aspetto nuovo. In quanto viene inserita nel movimento
dell'abbassamento di Gesù, essa assume la figura di una condizione di
passaggio, di una condizione segnata da provvisorietà. È solo una
fase di un movimento più vasto di "discesa-ascesa": da Dio e verso
Dio. In quanto visitata da questa condivisione del Figlio, la morte perde il suo
carattere spaventoso e sconvolgente di esperienza di estrema solitudine. Anche
la passività impotente della morte può diventare in Cristo uno spazio vivo di
incontro e di redenzione.
Possiamo concludere - come ci ricorda Giovanni Paolo II - che
«la verità espressa dal Simbolo degli Apostoli con le parole "discese agli
inferi", mentre contiene una
riconferma della realtà della
morte di Cristo,
nello stesso tempo proclama
l'inizio della sua
glorificazione. E
non solo di Lui, ma di tutti coloro che per mezzo del suo sacrificio redentore
sono maturati alla partecipazione della sua gloria nella felicità del regno di
Dio» [7].
La
risurrezione da morte
Siamo così al secondo contenuto di questo articolo del
"Credo", espresso con le parole «il terzo giorno risuscitò da morte».
Dopo quelli della nascita e dello scandalo della croce, inizia
ora il
terzo momento del passaggio centrale del "Credo", nel quale ci si
sofferma sul mistero di Gesù Cristo. È
il momento della glorificazione.
Dal tempo della narrazione dell'evento entriamo ora nel
tempo della testimonianza
meravigliata dei discepoli.
Coloro che avevano conosciuto e seguito Gesù e che avevano assistito, sconvolti,
alla sua tragica fine, lo hanno incontrato di nuovo. Lo hanno trovato ripieno di
una vitalità nuova, col desiderio di riprendere i gesti di condivisione,
guarigione e insegnamento di prima.
La morte aveva interrotto
il rapporto con Gesù.
Ma lo aveva interrotto per un attimo, solo per un attimo. Gesù, infatti,
risuscitò da morte
«il terzo giorno».
Sì, questo attimo di interruzione del rapporto è stato di "tre giorni".
Si tratta di un'indicazione
teologica prima che cronologica. I "tre giorni" esprimono il
tempo breve della prova,
quell'attimo in cui il giusto
che ha confidato in Dio si sente abbandonato da lui, prima di sperimentarne di
nuovo l'intervento salvatore. È questa una certezza di fede annunciata dal
profeta: «Dopo due giorni ci ridarà la vita e il terzo ci farà rialzare e noi
vivremo alla sua presenza» [8]. Ed
è una certezza di fede che risuona ancora nel
rabbinismo: «Il Santo, benedetto
egli sia, non lascia mai il giusto nella sventura più di tre giorni»
[9].
Dire che Gesù risuscitò da morte «il terzo giorno» significa anche
credere che la risurrezione di Gesù è un avvenimento storico: la
risurrezione di Gesù, cioè, - pur essendo in se stessa un evento soprannaturale,
escatologico e metastorico - è legata alla nostra storia, ha lasciato in essa
tracce che, in certa misura, la rendono constatabile e criticamente accertabile.
Ancora più profondamente, letta alla luce dell'Antico Testamento e della
letteratura rabbinica, la formula «il terzo giorno risuscitò da morte» sta a
indicare che la risurrezione di Gesù è opera di Dio
[10].
Il «terzo giorno», in realtà, è il giorno dell'azione salvifica di Dio, nel
quale egli interviene con potenza nella storia. È per questo che il rapporto
tra Gesù e i suoi discepoli ora riprende, più splendido e forte di prima
[11].
Esso, infatti, è basato sulla potenza di vita di Dio e non più sulle possibilità
dell'uomo.
Nella risurrezione di Gesù si rivela l'azione del Padre e si ha la massima
manifestazione dell'onnipotenza divina. E quella del Padre è un'azione che offre
la risposta vera alla domanda rimasta in sospeso di fronte alla croce: "Dio
abbandona davvero chi si affida a lui? Può un padre abbandonare il figlio?".
La risurrezione, operata da Dio, non è il lieto fine per l'eroe che è
riuscito a scampare alla prova più radicale. È, piuttosto, «la conferma di
tutto ciò che Cristo stesso ha fatto e insegnato»
[12]
e della verità della divinità di Gesù
[13].
È la rivelazione della stessa verità della morte in croce e del suo
senso: della morte in croce è la conclusione perfetta, perché precisamente
nella risurrezione la morte di Gesù appare come offerta sacrificale, ispirata da
amore, che il Padre accoglie e ratifica proprio facendo risuscitare Gesù. La
risurrezione, ancora, è la conferma che la relazione filiale, il dialogo
col Padre che Gesù ha voluto estendere anche a noi qui sulla nostra terra, è
un legame più forte della morte. Anzi: è un legame così vero e radicale da
trasformare la morte nell'attesa della piena manifestazione della potenza di Dio
a nostro favore.
Quella di Gesù - proclamiamo sempre nel "Credo" - è una risurrezione «da
morte». L'espressione va letta come gesto di separazione. In Gesù, Dio
riprende il gesto originario della creazione
[14].
Come allora aveva separato la luce dalle tenebre, il cielo dalla terra e la
terra dalle acque, così ora Dio separa la vita nuova di suo Figlio dalla
morte, dal male, dal peccato.
Credere che Gesù «risuscitò da morte» significa credere che, con la
risurrezione di Gesù, il nostro Dio vuole comunicare - a Gesù e, tramite lui,
anche a noi - una vita separata da tutto ciò che costituisce una minaccia o una
diminuzione della vita vera. In positivo, significa credere che la risurrezione
non è la "rivivificazione di un cadavere", un ritorno alla vita precedente
[15],
ma è, piuttosto, l'ingresso in un'esistenza nuova, che partecipa della
pienezza di vita di Dio. È entrare in una vita che non conosce il veleno della
morte.
Nella risurrezione di Cristo si
fonda la fede e
hanno
origine gioia e speranza
Con le parole semplici e concise «il terzo giorno risuscitò da
morte», noi affermiamo e ripetiamo l'annuncio potente e beato che rende vero il
cristianesimo e che sta al centro di tutta la storia dell'umanità,
trasformandola in storia di gioia e di speranza.
Sì,
Cristo è risorto!
«Quel Gesù, che nacque a Betlemme da Maria Vergine, che fu vaticinato dai
Profeti e fu Maestro in mezzo al popolo d'Israele, che fu da alcuni riconosciuto
e amato, da molti respinto, e poi esecrato, condannato, crocifisso, e morì e fu
sepolto, è risorto, è veramente risorto, al mattino del terzo giorno; ha ripreso
vita vera, nuova, soprannaturale, vincendo per sempre la grande nemica, la
morte. È risorto»
[16].
Questo
è
il
fatto che fonda tutta la nostra
fede: un fatto "storico", reale, documentato e documentabile e,
insieme, un "mistero" che trascende la nostra umana comprensione ed esperienza
[17].
La risurrezione di Cristo è il
contenuto
della nostra fede e, nello stesso tempo, è il
motivo per cui crediamo. Se non fosse vero, la nostra fede sarebbe
vana, campata nel vuoto; vana sarebbe anche la nostra speranza; il male e la
morte ci terrebbero tutti in ostaggio; la nostra vita non avrebbe più senso
[18]. Ma
non è così: Gesù Cristo «il terzo giorno risuscitò da morte», egli è veramente
risorto! Stanno qui la grandezza, la bellezza e tutta la potenza salvifica della
nostra fede.
Quello della risurrezione è
un fatto che riguarda anzitutto
Gesù, la sua storia, la sua vita, il suo Vangelo. Essa «significa
il riconoscimento e la proclamazione di Gesù di Nazareth come "Signore e Dio"...
La risurrezione fu il "segno" dato da Dio per "approvare" Gesù Cristo (Mt
12,40), per
esaltarlo al di sopra di tutti e di tutto
(Fil
2,9- 11), per costituirlo Signore dell'universo, maestro e giudice di tutti gli
uomini (At
10,42;
Rom
14,9;
2Tim
4, l)» [19].
Ma è un
fatto che riguarda anche noi.
La risurrezione di Gesù ci fa entrare in una vita nuova, perché è
«la giustificazione
che ci mette nuovamente nella grazia di Dio» e realizza
«l'adozione filiale»
degli uomini, procurando loro «una reale partecipazione alla vita del Figlio
unico» di Dio [20].
Essa è «principio e sorgente della
nostra risurrezione futura»
[21].
Proclamando la nostra fede nella risurrezione di Gesù, affermiamo che in
lui, il Crocifisso risorto, si è realizzata la redenzione dell'umanità: «in
Cristo noi siamo salvati. In Cristo si concentrano i nostri destini, in Cristo
si risolvono i nostri drammi, in Cristo si spiegano i nostri dolori, in Cristo
si profilano le nostre speranze» [22].
La risurrezione, quindi, riguarda tutta l'umanità, tutta la raggiunge, la
rinnova, la trasforma. Non c'è persona che non ne venga investita in modo
salutare e benefico [23].
Credere che Gesù «risuscitò da morte» significa riconoscere che il
cristianesimo è gioia e che la Pasqua del Signore è il fondamento più solido
e la causa più vera della speranza dell'uomo e del mondo.
Con la risurrezione di Cristo viene data risposta piena e
definitiva a quell'anelito verso la gioia e la felicità autentiche che abita
il cuore di ogni uomo e al quale ogni religione cerca di dare risposta. Nella
Pasqua di Cristo ha finalmente inizio quella vita per la quale l'uomo è stato
creato e si inaugura la rigenerazione dell'umanità. Ed è per questo che - lungi
dal presentarsi e dall'essere catena al progresso, umiliazione dell'uomo,
tristezza per la vita - la fede cristiana è la fonte della gioia.
«Il cristianesimo è gioia. La fede è gioia. La grazia è gioia», perché
«Cristo è la gioia, la vera gioia del mondo»
[24].
Ed è, quella cristiana, una gioia che sa esprimersi e affermarsi anche in mezzo
alle fatiche, alle prove, alle sofferenze, alla morte
[25].
La risurrezione di Cristo è anche la causa della nostra speranza.
Sì, quello pasquale non è solo un messaggio di gioia; è anche un messaggio, un
annuncio di speranza. Lo è perché la speranza, quella vera, si fonda sulla fede,
la quale, «nel linguaggio biblico, "è fondamento delle cose sperate" (Eb
11,1); e nella realtà storica è... Gesù risorto!»
[26].
[1]
Catechismo della Chiesa Cattolica,
n. 631.
[2]
Così si esprime, al riguardo,
Giovanni Paolo II in una delle sue catechesi sul Credo durante le
udienze generali del mercoledì: «I testi del Nuovo Testamento,
dai quali è derivata quella formula, sono numerosi. Il primo si trova
nel Discorso di Pentecoste dell'Apostolo Pietro, il quale, richiamandosi
al Salmo 16 per confermare l'annunzio della risurrezione di Cristo, ivi
contenuto, afferma che il profeta Davide "previde la risurrezione di
Cristo e ne parlò: questi non fu abbandonato negli inferi né la
sua carne vide corruzione" (At 2, 31). Un significato simile ha
la domanda che pone l'apostolo Paolo nella Lettera ai Romani: "Chi
discenderà nell'abisso? Questo significa far risalire Cristo
dai morti" (10, 7). Anche nella Lettera agli Efesini, vi è un
testo che, sempre in relazione a un versetto del Salmo 69: "Ascendendo
in cielo ha portato con sé prigionieri, ha distribuito doni agli uomini"
(Sal 69,19), pone una domanda significativa: "Ma che significa
la parola 'ascese', se non che prima era disceso nelle parti inferiori
della terra? Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di
sopra di tutti i cieli per riempire tutte le cose" (Ef 4, 8-10).
In questo modo l'Autore sembra collegare la "discesa" di Cristo
nell'abisso (in mezzo ai morti), di cui parla la Lettera ai
Romani, con la sua ascensione al Padre, che dà inizio al
"compimento" escatologico di ogni cosa in Dio» (Giovanni Paolo II,
All'udienza generale dell'11 gennaio 1989, n. 3, in Insegnamenti
di Giovanni Paolo II XII/1[1989] 75-76).
[3]
Ivi, p. 76.
[4]
Salmo 16, 9-10.
[5]
Catechismo della Chiesa Cattolica,
n. 632.
[6]
«La discesa agli inferi è il
pieno compimento dell'annunzio evangelico della salvezza. È la fase
ultima della missione messianica di Gesù, fase condensata nel tempo ma
immensamente ampia nel suo reale significato di estensione dell'opera
redentrice a tutti gli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi,
perché tutti coloro i quali sono salvati sono stati resi partecipi della
Redenzione»
(Catechismo della
Chiesa Cattolica, n. 634).
[7]
Giovanni Paolo II,
All'udienza generale dell'11 gennaio 1989,
n. 8, cit., p. 79.
[8]
Osea
6, 2.
[9]
Genesi
Rabbah
91, 7. (Ndr. - Esegesi
sistematica del libro della Genesi prodotta dai saggi giudaici intorno
al 450 D.C.)
[10]
Cfr.
Catechismo della Chiesa Cattolica,
nn. 648-650.
[11]
Riprendendo un testo liturgico che
mette in bocca al Signore risorto il saluto pieno di amore che egli
rivolge al Padre: «Sono risorto, ed eccomi di nuovo con te», il
cardinale Giovanni Colombo così descriveva questo rapporto tra Gesù e i
suoi discepoli: «Lo stesso saluto possiamo pensare che egli rivolga a
ciascuno di noi con accento di tenerezza, di gioia e di speranza: "Sono
risorto, ed eccomi ancora con te".
Sono risorto: entrato nella gloria del Padre, non sono
andato lontano, ma vivo vicino a te. Basta un atto di fede, e colui che
tu cerchi, è con te.
Sono risorto: libero oramai
dalle condizioni dello spazio, io sono con te dovunque tu sia, in patria
o all'estero, in casa o in viaggio, nella solitudine o tra la folla, al
lavoro o in vacanza.
Sono risorto: libero dalle condizioni del tempo, sono tuo contemporaneo
e tuo coetaneo, qualunque sia la tua generazione o la tua età, e perciò
posso comprendere e condividere le difficoltà e i problemi e le attese
del tuo tempo e della tua età.
Sono risorto: ed eccomi di nuovo con te. Se credi davvero, non sei più
solo nella vita, nella morte, e oltre. Hai sempre un Amico che ti ama
dell'amore più grande. C'è sempre Qualcuno che ti segue non visto e
aspetta, tacendo e perdonando, di essere riconosciuto e amato, per
renderti pienamente felice» (G. Colombo,
Sono risorto! Ed eccomi di nuovo
con te. Esposizione della fede pasquale [27 marzo 197], in
1963-1976. Voce e storia della
Chiesa ambrosiana. Il magistero pastorale del card. Giovanni Colombo,
Centro Ambrosiano, Milano, 1976, vol. I, pp. 164-165).
[12]
Catechismo della Chiesa Cattolica,
n. 651.
[13]
Ivi, n. 653.
[14]
Cfr.
Genesi 1.
[15]
«La Risurrezione di Cristo
non fu un ritorno alla vita terrena... Nel suo Corpo risuscitato egli
passa dallo stato di morte ad un'altra vita al di là del tempo e dello
spazio. Il Corpo di Gesù è, nella Risurrezione, colmato della potenza
dello Spirito Santo; partecipa alla vita divina nello stato della sua
gloria...»
(Catechismo della
Chiesa Cattolica, n. 646).
[16]
Paolo vi,
Messaggio pasquale per la Benedizione Urbi et Orbi
(29 marzo 1964), in
Insegnamenti di Paolo VI
II (1964) 214.
[17]
Cfr.
Catechismo della Chiesa Cattolica,
nn. 639-647.
[18]
Cfr.
1 Corinzi 15,14-19: «Se Cristo non è
risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la
vostra fede. Noi,
poi, risultiamo falsi testimoni di Dio, perché contro Dio abbiamo
testimoniato che egli ha risuscitato Cristo, mentre non lo ha
risuscitato, se è vero che i morti non risorgono. Se infatti i morti non
risorgono, neanche Cristo è risorto; ma se Cristo non è risorto, è vana
la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. E anche quelli che
sono morti in Cristo sono perduti. Se poi noi abbiamo avuto speranza in
Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli
uomini».
[19]
G.
Colombo,
Sono risorto! Ed eccomi di nuovo con te. Esposizione della fede
pasquale,
cit., p. 162. Cfr.
Catechismo della Chiesa Cattolica,
nn. 651-653.
[20]
Cfr.
Catechismo della Chiesa
Cattolica, n. 654.
[21]
Cfr.
ivi, n. 655.
[22]
Paolo vi,
Messaggio pasquale per la Benedizione Urbi et Orbi (29 marzo 1964), cit. p. 215.
[23]
Cfr.
ivi: «Non è un fatto isolato la
risurrezione del Signore, è un fatto che riguarda tutta l'umanità; da
Cristo si estende al mondo; ha un'importanza cosmica. Ed è meraviglioso:
quel prodigioso avvenimento si riverbera sopra ogni uomo venuto a questo
mondo con effetti diversi e drammatici; investe tutto l'albero
genealogico dell'umanità; Cristo è il nuovo Adamo, che infonde nella
fragile, nella mortale circolazione della vita umana naturale un
principio vitale nuovo; ineffabile ma reale, un principio di purificante
rigenerazione, un germe di immortalità, un rapporto di comunione
esistenziale con lui, Cristo, fino a partecipare con lui, nel flusso del
suo Spirito Santo, alla vita stessa dell'infinito Iddio, che in virtù
sempre di Cristo possiamo chiamare beatamente Padre nostro».
[24]
Ivi, p. 218.
[25]
Cfr.
ivi: «La vita cristiana, sì, è
austera; essa conosce il dolore e la rinuncia, esige la penitenza, fa
proprio il sacrificio, accetta la croce e, quando occorre, affronta la
sofferenza e la morte. Ma nella sua espressione risolutiva la vita
cristiana è beatitudine. [...] Così che essa è sostanzialmente positiva;
essa è liberatrice, purificatrice, trasformatrice: tutto in essa si
riduce a bene, tutto perciò a felicità nella vita cristiana. [...] È
sovranamente ottimista. È creativa. È felice oggi, in attesa d'una
felicità piena domani».
[26]
Paolo vi,
Messaggio pasquale per la Benedizione Urbi et Orbi (11 aprile 1971), in
Insegnamenti di Paolo VI IX(1971) 280.
Quaresima:
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31 marzo 2021 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net