Redenzione.
Il suo significato nella nostra vita
Introduzione e parte del capitolo 6. Estratti da: "Redenzione.
Il suo significato nella nostra vita", di Anselm Grün, ed. Queriniana 2005
Introduzione
Nelle mie conferenze mi vedo sempre costretto, nel dibattito che segue, a
confrontarmi con certi modi inquietanti d’intendere la redenzione. Si pensa, per
esempio, a un Dio sanguinario che avrebbe bisogno della morte del Figlio per
poterci perdonare. In qualche mente frulla ancora l’idea che sarebbe Dio stesso
a volere la morte del Figlio per rimetterci i peccati. Ma che Dio è mai questo
se per accordarci il suo perdono ha bisogno che suo Figlio muoia? Non
incontriamo già nell’Antico Testamento un Dio ricco di misericordia e di
perdono, che rimette le colpe perché lui è Dio, non perché suo Figlio muore per
noi? Per molti non è proprio accettabile un Dio così crudele, per cui insieme
all’idea di Dio essi rifiutano anche l’idea di redenzione. Per loro la
redenzione cristiana mostra dei tratti aggressivi e pessimistici, proprio quando
non si sente alcun bisogno di essere redenti e quando, peraltro, la morte di
Gesù non pare aver determinato un qualche salto di qualità nel corso della
nostra storia.
Quando poi cerco di illustrare alcune figure bibliche di redenzione, devo fare i
conti con reazioni aggressive. Se sostengo che Dio non ha proprio alcun bisogno
che il Figlio muoia per poterci perdonare - se è vero che il suo perdono è
sempre incondizionato - c’è sempre quello che obietta che allora si perde di
vista il cuore stesso della fede cristiana. E lo fa con toni accesi, che a me
pongono tutta una serie di interrogativi. Per alcuni ciò che davvero conta è che
Cristo ha lavato le nostre colpe con il proprio sangue, per cui non dovremmo più
preoccuparci degli sbagli e peccati che commettiamo. Chi parla con tanta foga
del sangue di Cristo mostra, ovviamente, il suo nervo scoperto, la convinzione
cioè che la colpa di cui ci macchiamo non dev’essere scontata da noi, ma
addebitata sul conto di Cristo. Un’idea certamente liberatoria, che
tranquillizzerà parecchi cristiani, non più oppressi dal bisogno di prestazione.
Ma è poi quella che l’immagine del sangue di Cristo intende esprimere? È proprio
necessario che scorra del sangue? Bisogna per forza caricare la redenzione di
tanta crudeltà? Certuni mi attaccano per il solo fatto che io sollevo dei
quesiti. Ma non disponiamo di un intelletto che ha le sue ragioni? Secondo me
quel che importa è disporsi ad accogliere il messaggio della Bibbia, la quale
non va piegata ai nostri bisogni, ma non si pone nemmeno in contrasto con la
nostra mente. Il programma teologico di Anselmo, mio santo patrono, suonava:
«Fides quaerens intellectum - Fede alla ricerca d’intellezione». La fede è
il fondamento della nostra esistenza, in continua ricerca di comprensione piena.
Io devo poter capire ciò in cui credo. Ne era convinto già l’evangelista Luca.
Al funzionario di corte, un etiope, che stava leggendo un brano del profeta
Isaia, Filippo chiese: «Comprendi quello che stai leggendo?» (At 8,30). E
gli spiegò il senso del testo a partire dai profeti, perché lo potesse
intendere. Anch’io, in questo mio scritto, vorrei spiegare alcuni passaggi
biblici per capirli meglio io e aiutare le mie lettrici e i miei lettori a
intenderne il senso. Capire i testi della Bibbia significa sempre capire meglio
anche se stessi, entrare nel mistero che avvolge la nostra esistenza al cospetto
di Dio.
Matthew Fox contrappone la spiritualità della creazione alla spiritualità della
redenzione. Il primo tipo di approccio prende le mosse dal creato e mostra tutta
la riconoscenza a Dio per la benedizione di cui il Creatore ci ha beneficiati
con le opere, tutte buone, uscite dalle sue mani. La spiritualità che ruota
attorno all’idea di redenzione, invece, insisterebbe troppo sulla colpa
dell’uomo e tradirebbe nel suo stesso approccio sentimenti intrisi di
pessimismo. Giustamente Fox contesta alcune espressioni teologiche che derivano
da un’impostazione del genere. E ha ragione quando sostiene la necessità di
leggere più in profondità il mistero della creazione e lodare Iddio per quanto
egli ha fatto, e nelle nostre feste esprimere tutta la nostra gioia per i doni
della sua bontà. Proprio in tempi come quelli in cui oggi viviamo dovremmo
accostarci al creato con profondo rispetto e attenzione. E tuttavia non si
dovrebbero contrapporre tra loro le due impostazioni, che non sono in contrasto,
ma interagiscono come due poli. La creazione è il primo dono di Dio agli esseri
umani. Però l’uomo non fa unicamente esperienza della bellezza del creato. Per
lui la sua stessa vita è sempre esposta al rischio, minacciata continuamente da
oscurità e sofferenze, dal peccato e dalla colpa. Egli si avverte come
inviluppato in strutture inique, coinvolto nelle diatribe dei politici. E
avverte gli abissi della propria anima, le ombre che la pervadono da ogni dove e
la oscurano. Di fronte a questa esistenza minacciata, ha bisogno di risposte
teologiche, come di fronte alla bellezza del creato si lascia inondare da uno
stupore riconoscente.
La redenzione si colloca al centro del messaggio biblico. Essa risponde agli
interrogativi fondamentali dell’uomo che già nel II secolo, Clemente di
Alessandria, si poneva nella diatriba con la gnosi e che sempre e comunque
ognuno si pone per se stesso: «Chi eravamo? Chi siamo diventati? Dove eravamo?
Dove siamo proiettati? A che cosa tendiamo? Da che cosa siamo stati liberati?
Che cosa significa nascere e che cosa rinascere?» (Scholten,
Gnosis, 805). Durante i miei studi a Roma (1967-1971) mi ponevo spesso la
domanda: che cosa s’intende per ‘redenzione’, che cosa significa propriamente
‘essere redenti’, da che cosa io sarò redento, in che modo Gesù ci ha redenti,
quale la funzione attribuire alla sua croce? Già nel mio scritto per la licenza
- La redenzione mediante la croce in Paul Tillich - e poi nella tesi di
laurea - Redenzione mediante la croce. Il contributo di Karl Rahner per
un’attuale comprensione della redenzione, sviluppavo appunto quella
tematica. E non ho mai smesso di cercare risposte ai miei interrogativi,
convinto che il mistero della redenzione mi occuperà ormai per sempre. In ogni
stagione della vita, in ogni situazione della mia esistenza, si riproporranno
nuove domande e inevitabilmente anche nuove risposte.
Nei dibattiti capita di sentir dire che le religioni orientali, come il
buddhismo, predicano l’autoredenzione, il cristianesimo invece la redenzione per
mezzo di Gesù Cristo. Cristo avrebbe fatto ormai tutto ciò che c’era da fare per
noi, non abbiamo più bisogno di nient’altro. Spesso si contestano anche certi
itinerari spirituali, come la via della meditazione, dell’enneagramma,
dell’ascetica dei monaci, tutte rifiutate come forme di autoredenzione. Per me
questa alternativa tra autoredenzione e redenzione da parte di un altro suona
già fuorviarne. Si osservi che pure nel buddhismo è sempre Dio colui che ci
redime e libera dalle catene di questo mondo. E s’aggiunga che nei vangeli Gesù
è proposto come il Maestro della sapienza, che ci introduce nell’arte del
vivere. Gli evangelisti ci raccontano la sua vita, riferiscono i suoi detti e
insegnamenti, parlano delle sue opere, dei miracoli, del suo fascino. Essi non
riducono l’attività di Gesù alla redenzione e nemmeno alla sua morte e
risurrezione. Egli è importante nella sua stessa dimensione storica. Libera e
risana il modo stesso in cui egli parla di Dio, incontra l’uomo, guarisce i
malati e risuscita i morti. Il cristianesimo non è unicamente messaggio di
redenzione, ma il messaggio di Gesù Cristo che è vissuto all’interno della
nostra storia e che di Dio ha parlato in modo diverso di come hanno fatto tanti
profeti e teologi, e nella cui vita si è reso visibile, in qualche modo, il
mistero di Dio stesso. Nella sua predicazione Gesù ci ha indicato un modo di
vivere, perché la nostra esistenza possa essere vissuta in pienezza. E per gli
evangelisti ciò ha già a che fare anche con la redenzione.
Allo scriba che elencava i comandamenti di Dio Gesù disse: «Fa’ questo e vivrai»
(Lc 10,28). La redenzione non è
qualcosa di magico che ci dispenserebbe da ogni responsabilità nei confronti
della nostra vita. Se viviamo in pienezza di senso o no, ciò dipende anche dal
nostro comportamento. Il mistero che avvolge la figura di Gesù sta anche nel
fatto che egli non annuncia una dottrina slegata dalla propria persona, ma già
vive ciò che poi insegna. Per gli evangelisti seguire Gesù significa già essere
in cammino verso una vita in pienezza, aver imboccato la via dell’esistenza con
gioia, in libertà, con tanta voglia di amare. Anche questo, però, è solo un
aspetto della redenzione come gli evangelisti la intendono. In Gesù Dio si è
fatto uomo per risanare l’essere umano compromesso e riempire della propria vita
divina la nostra esistenza malferma e lacerata, e così ricomporla e risanarla.
Gesù non è semplicemente un personaggio illuminato, persona di grande talento
che avrebbe fondato una sua religione. Noi crediamo che egli è il Figlio di Dio
e che in lui Dio stesso ha assunto la nostra umanità, l’ha divinizzata e in tal
modo pure sanata e redenta. Nel risanamento di questa nostra esistenza
vulnerata, la sua morte assume un ruolo di primo piano, perché proprio con la
sua morte Gesù risana la nostra ferita più profonda. Lo psicologo americano
Yalom sostiene che chi non riesce a convivere con la paura di morire non potrà
mai vivere la propria esistenza appieno. Gli evangelisti non ci raccontano
soltanto la vita di Gesù, ma anche l’itinerario della sua passione, morte e
risurrezione, affinché ciascuno di noi possa confrontarsi con il tema centrale
della propria esistenza: come vivere di fronte alla morte, come considerare
realizzata un’esistenza che la morte spezza. La morte e risurrezione di Gesù non
sono una dottrina, ma una risposta esistenziale a quella paura di morire che si
radica nel più profondo della nostra anima. La vita di Gesù rappresenta dunque
una terapia esistenziale per tutti quelli che vorrebbero rifuggire dalla loro
morte.
Mi capita spesso di sentirmi obiettare che seguire un itinerario spirituale, per
esempio la contemplazione o il monachesimo o la mistica, vorrebbe dire ricadere
nella gnosi. A mio parere obiezioni del genere sono frutto di paure. Nella
storia della chiesa in ogni movimento di rilievo si è sempre celata una
scintilla di verità. Per la chiesa primitiva la gnosi rappresentò una grande
tentazione. Agli gnostici interessava contrastare l’esperienza di alienazione e
di smarrimento vissuta in un mondo avvertito come una minaccia, per riscoprire
la propria identità nel Redentore disceso dalla sfera celeste e cogliere un
bagliore di luce interiore che sfugge a ogni potere di questo mondo. La gnosi
esercitava un suo fascino su persone in ricerca, perché segnalava la via da
percorrere per soddisfare concretamente le brame spirituali. E grande influenza
ebbe anche su tanti cristiani, che poi entrarono nelle cerchie gnostiche. La
chiesa ha accettato il confronto con un’impostazione che esprimeva gli stessi
aneliti presenti tra i suoi fedeli cristiani. Al rigetto e alla contrapposizione
essa preferì l’integrazione nel corpo cristiano. Lo si registra già nei padri
della chiesa, come Clemente d’Alessandria e Origene. Ma è la scelta che anche
oggi s’impone nell’approccio con l’esoterismo, il quale evidenzia diversi
aspetti tipici della gnosi. Bisogna indicare con chiarezza il vicolo cieco in
cui un movimento può condurre e i pericoli che in esso si celano. Ma alla fin
fine ciò che importa è pur sempre la sua integrazione. Ogni movimento che
mobiliti persone dev’essere preso con serietà. A mio avviso far teologia
significa entrare in dialogo con i movimenti, individuare le legittime istanze
di cui si fanno portatori e contrastare gli errori cui potrebbero indurre.
Nei discorsi che si fanno con missionari impegnati in terre d’Africa avverto
subito che in quelle popolazioni le idee bibliche di sacrificio e di espiazione
trovano pronto ascolto. Evidentemente quei contesti religiosi e culturali
recepiscono con facilità certi modi di pensare. Ma immagini di redenzione
consone alla mentalità africana riescono di difficile comprensione agli europei
occidentali illuminati. La stessa Bibbia ha formulato la redenzione a opera di
Cristo tenendo conto dei differenti contesti culturali e religiosi in cui quella
dottrina veniva proposta. Negli scritti di Paolo troviamo brani biblici che
fanno uso delle rappresentazioni giudaiche di colpa ed espiazione, mentre a Luca
un’impostazione del genere suona poco appropriata, per cui egli traduce la
redenzione di Cristo nelle categorie mentali greche, influenzate
dall’illuminismo e dal sapere filosofico. Altri scritti, come le lettere
pastorali, cercano di annunciare l’avvenimento redentivo in Gesù Cristo
nell’ambiente ellenistico, bacino di confluenza delle correnti religiose tra le
più varie, di idee religiose greche e romane, ma anche di culti misterici di
derivazione orientale e di concezioni religiose con radici in Persia e in
Egitto. Sono proprio questi tentativi di riformulare il mistero di Gesù Cristo
dentro i linguaggi e le culture più diverse che mi incoraggiano a sillabare in
modo sempre nuovo il messaggio della redenzione, mi aiutano a capirlo meglio e a
farlo risuonare come un messaggio biblico che interpella le persone con cui io
dialogo o che vengono ad ascoltare le mie conferenze.
La Bibbia non ha compresso il messaggio di Gesù in un sistema di tipo dogmatico.
Il mistero di Dio che in Gesù si è fatto egli stesso uomo e ha santificato e
trasformato la vita umana dalla nascita alla morte, negli scritti sacri ci viene
descritto in tutta una serie di immagini. In questo Gesù Cristo si è verificato
qualcosa che ha un effetto sanante destinato a durare per sempre. Ma se vogliamo
poi capire in che cosa consistano risanamento e liberazione, non possiamo
ricorrere semplicemente a concetti astratti. A una realtà del genere è possibile
accostarsi unicamente mediante immagini, quelle che mettono in movimento,
interpellano, aprono una finestra perché lo sguardo spazi oltre, per capire chi
Dio è, chi Gesù è per noi e chi, grazie a lui, noi siamo diventati. Le immagini
non ammettono discussione. Esse interpellano oppure non dicono nulla. Le
immagini non sono concetti sui quali dover disputare. Esse dischiudono un
orizzonte entro cui contemplare il mistero di Dio e dell’uomo. Le immagini
vogliono aprirci gli occhi e dilatarci lo sguardo. In una teologia per immagini,
del tipo di quella sviluppata dai Padri della chiesa, non c’è spazio per la
prepotenza e la rissa. Anche i padri della chiesa si battevano per la verità, e
quindi facevano leva pure su concetti, ma sempre nella convinzione che in
definitiva i concetti sono immagini condensate, le quali indicano una direzione,
ma non tengono la verità in pugno.
Io penso che nessuna immagine biblica possa considerarsi superata. Ciascuna di
esse ha una sua giustificazione. Io devo unicamente chiedermi come capirla, che
cosa essa mi comunichi. Non spetta a me aggiustarla, ma soltanto farla parlare
al mio cuore, rispondere alle mie esperienze. Scrivendo di redenzione, terrò
conto di ogni immagine biblica e prenderò sempre sul serio le obiezioni che
tante persone, anche con veemenza, avanzano contro la mia idea di redenzione.
Quando uno difende la propria causa appassionatamente vuol dire che ciò in cui
egli crede ha, per lui, un’importanza esistenziale, e quindi merita tutto il
rispetto da chi la pensa diversamente. Al tempo stesso vorrei chiedermi perché
tali convinzioni sono così importanti, a quali bisogni rispondono, qual è la
struttura spirituale che da un’impostazione del genere si profila. Nel mio modo
di pensare e di riflettere teologico non c’è spazio per discussioni su chi ha
torto e chi ragione. Non di una ragione a tutti i costi si tratta, ma di
un’approssimazione al mistero di Dio e di Gesù Cristo. Quel che conta è
sforzarsi di capire ciò che la Bibbia racconta. E capire significa aprirsi, con
tutte le proprie esperienze, alle immagini che la Bibbia propone, per imparare
anche a capirsi meglio. Capire un’immagine significa sempre capire meglio se
stessi. In questo libro non farò dunque teologia astratta, ma mi sforzerò di
capire come accedere al mistero della redenzione, ma allora anche al mistero
della mia stessa esistenza. E vorrò pure capire come sperimentare, nella mia
stessa vita, la redenzione operata da Gesù Cristo, la mia esistenza che ne esce
trasformata, e tutto ciò che mi aiuta a vivere con pienezza di senso.
6.
La redenzione
attraverso la morte di Gesù in croce
In genere, quando parliamo di redenzione, noi intendiamo redenzione dalla colpa,
e il pensiero va dritto alla morte di Gesù. Abbiamo già visto che in tutti e
quattro i vangeli la morte di Gesù svolge indubbiamente un ruolo importante. Il
suo senso però, come si ricava dai vangeli e dalle teorie della redenzione che
su di essi si fondano, non è innanzitutto quello di redimerci dalla colpa. In
Giovanni la morte di croce è intesa come il compimento dell’incarnazione,
espressione massima dell’amore che Gesù ha mostrato per i suoi amici quand’era
in vita. Per Luca la croce è il segno delle tribolazioni che noi tutti dobbiamo
affrontare sulla via che porta alla gloria di Dio. In Matteo la croce dimostra
che Gesù ha vissuto in tutta consequenzialità la dottrina che ha insegnato a
noi. Per lui croce significa scelta della non violenza cui rimanere fedeli fino
alla fine. In Marco croce è vittoria sul potere dei demoni, ora colpiti nel loro
lato più sensibile, all’interno della loro area di potere, da Gesù che
mostrandosi impotente li ha vinti e ha reso la nostra vita luminosa e sana.
Durante la discussione, dopo le conferenze, mi capita spesso di registrare certe
affermazioni piuttosto approssimative sulla redenzione. L’idea ricorrente è che
Gesù doveva morire per espiare i nostri peccati. Egli doveva cioè sopportare la
morte perché Dio rimettesse la nostra colpa. Un simile modo di ragionare non
trova conferme nella Bibbia. L’idea che qui si profila è quella di un Dio
crudele, che ha bisogno della morte del Figlio per poterci accordare il suo
perdono: un Dio sadico! Vero rimane che la Bibbia, quando parla della morte di
Gesù, si riferisce anche a un’espiazione. Ma in che senso? Al termine di una mia
conferenza una signora sosteneva che ciò che davvero importa è la certezza di
essere stata purificata dal sangue versato da Gesù. Un’altra ascoltatrice
aggiungeva che il pensiero che Gesù si è caricato della sua colpa le infondeva
tanta serenità, convinta com’era che non è più necessario tormentarsi in sensi
di colpa.
Chi esprime concetti del genere si richiama evidentemente a sue esperienze
personali. Merita dunque tutto il mio rispetto, anche se intende la morte di
Gesù in un modo che non è il mio. Mi permetterei soltanto di chiedergli che cosa
intenda dire con quelle espressioni, in che modo io le debba davvero intendere.
Se prendo la Bibbia sul serio non posso di certo ignorare il legame che essa
stabilisce fra la morte di Gesù e il perdono dei peccati. Ma in realtà dove sta
il nesso tra morte di Gesù in croce e perdono della mia colpa?
Prima di analizzare le diverse immagini bibliche che si riferiscono alla morte
di Gesù e al perdono della colpa, vorrei associarmi a Klaus Berger, per il quale
va esclusa ogni connessione causale fra la morte di Gesù e il perdono nel senso
che «proprio perché Gesù è morto Dio ci perdona». Egli scrive: «Meno ancora si
tratta di una condizione assoluta (se Gesù non fosse morto, Dio non ci avrebbe
perdonato), e per niente di un rapporto di finalità (Dio avrebbe inviato Gesù
nel mondo perché morisse). Si tratta di schemi logici estranei al Nuovo
Testamento» (Berger, 120). Ancor
più energicamente egli contesta una necessità dogmatica della morte di Gesù per
la remissione dei peccati: «Dio non ha bisogno della malvagità dei romani, ma la
sfrutta. Non ha bisogno di violenze e spargimenti di sangue, che pur registra.
Non è costretto a seguire la via delle atrocità, che tramuta nel loro esatto
contrario. Non sceglie e decreta in tutta segretezza questo omicidio e vuole
invece la vita e il rifiuto della violenza a qualunque costo. Egli non lega il
perdono al potere, ma risponde al potere perdonando. Non asseconda gli assassini
del Figlio, ma perdona sempre e comunque per libera grazia»
(Berger, 36).
Come intendere dunque la redenzione dalla colpa mediante la croce di Gesù?
Cercherò di chiarire una serie di enunciazioni che troviamo presenti nelle
lettere paoline. Ma prima vorrei stabilire un approccio alla questione partendo
dal vangelo di Luca. Ebbene, secondo questa testimonianza, Gesù ha
promesso il perdono dei peccati quand’era ancora in vita, senza aspettare di
morire. Il suo messaggio è quello di un amore divino che perdona tutte le
creature. Sulla croce egli ci ha disvelato, in modo sorprendente, proprio questo
amore misericordioso di Dio. Egli avvertiva che il suo messaggio di amore
incondizionato doveva far fronte a diverse resistenze. Aveva capito che alcune
cerchie giudaiche tramavano perché fosse consegnato ai romani. E previde anche
l’eventualità di finire ammazzato. Poteva fuggire, ma non lo fece, rimanendo
fedele al proprio messaggio fino in fondo, impegnando la sua stessa vita e
mostrando di amarci fino a morire sulla croce. Luca mette sulla bocca del
Crocifisso le parole di perdono: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che
fanno» (Lc 23,34). Ma se egli ha
perdonato i suoi assassini, possiamo sperare che non ci sia nulla in noi che Dio
non voglia perdonare. La croce quindi non opera la nostra redenzione, ma la
comunica. La croce non è la condizione perché Dio accordi il suo perdono. Essa
non produce la nostra redenzione, ma ce la media. Non è una condizione perché
Dio perdoni e non è nemmeno solo il luogo in cui Gesù prospetterebbe alle sue
creature un modello di riconciliazione: è anche un’immagine dell’amore
perdonante di Dio. In Gesù Dio stesso accorda il suo perdono perfino agli
assassini. Lo sguardo rivolto alla croce ci fa credere all’amore misericordioso
di Dio. Anche se non ci sentissimo accettabili nemmeno a noi stessi e ci
giudicassimo meritevoli di condanna, dovremmo rimanere pur certi che Dio non ci
condanna ma ci perdona, come Gesù ha perdonato i suoi carnefici. Se mi sento in
colpa non basta a sollevarmi l’invito a non prenderla troppo sul tragico perché
Dio mi ha già perdonato. In una situazione del genere le sole parole non bastano
a dare fiducia. Qui bisogna guardare alla croce di Gesù e credere fin dal più
profondo del cuore che egli mi accetta e mi ama in tutte le pieghe della mia
anima. Il teologo evangelico Paul Tillich definisce il perdono come accettazione
dell’inaccettabile. Se nella colpa io sento di non poter essere accolto, lo
sguardo alla croce di Gesù mi consente di accettarmi in tutto ciò che io sono,
perché amato da Dio incondizionatamente.
L’idea della rappresentanza
Una figura importante cui la Bibbia ricorre per spiegare la redenzione dal
peccato e dalla colpa è quella di ‘rappresentanza’. Non si tratta di qualcosa di
magico, come in certi contesti culturali si suppone. La rappresentanza non è una
«pressione esercitata su Dio, ma una possibilità di incontrarlo che Dio stesso
dischiude all’uomo. Il fatto che uno possa intervenire a favore di altri non va
spiegato come automatismo o cieca magia, ma è una via che Dio apre all’uomo» (Berger,
28s.). È una legge fondamentale che vige tra gli esseri umani che uno intervenga
a favore dell’altro e si faccia carico di altrui competenze. Nella psicologia
sistematica c’imbattiamo di continuo in situazioni in cui, all’interno del
nucleo familiare, uno assume su di sé ciò che spetterebbe ad altri, ne diventi
in qualche modo il rappresentante, e risolva in tal modo un problema che
riguarda l’intera famiglia. Caricandosi di un peso che angustiava tutti i
familiari, questo loro rappresentante consente a tutti migliori condizioni di
vita.
Di rappresentanza si parla anche nell’Antico Testamento, per esempio dove Abramo
intercede presso Dio a favore delle città minacciate. Nell’Antico Testamento
rappresentanza significa: «Il giusto solidarizza con i peccatori e cerca in
qualche modo di colmarne le deficienze, quindi di rappresentarli al cospetto di
Dio» (Ratzinger, 566s.). Insieme
ad Abramo, anche e soprattutto Mosè fa esperienza sul proprio corpo del mistero
della rappresentanza. Proprio perché rappresenta il popolo, egli morirà fuori
della terra promessa: è l’esponente di un popolo che si ribella continuamente a
Dio e quindi assume su di sé la sorte che dovrebbe toccare alla sua gente,
accetta di rimanere fuori perché il popolo entri nella nuova terra. Proprio
questa solidarietà di Mosè con il suo popolo spiega perché Dio conceda al popolo
di raggiungere il paese della promessa nonostante le continue defezioni. Per
l’Antico Testamento nessuno vive isolato in se stesso, ma è sempre membro di una
collettività. E ciò che egli pensa e fa si ripercuote su tutti gli altri.
Oggi noi preferiamo spiegare il fenomeno della rappresentanza in termini
psicologici. Tutto ciò che io penso s’irradia nell’ambiente in cui vivo. Se
alimento in me l’odio, devo sapere che un atteggiamento del genere avrà effetti
distruttivi nel mondo che mi circonda. Se mi lascio invece permeare, fin nelle
pieghe più recondite della mia anima, dall’amore misericordioso di Dio, insieme
a me anche il mondo diventerà un po’ più chiaro. La psicologia spiega il
fenomeno con i profondi legami che si stabiliscono nel nostro inconscio, a un
livello in cui io sono sempre tutt’uno con gli altri. Nei sogni spesso
percepisco la condizione degli altri, mi sento immedesimato in loro, condivido
la loro stessa vita. Ma anche a livello conscio noi riusciamo a percepire le
differenti irradiazioni che promanano dalle persone. Tutto ciò che pensiamo e
facciamo si ripercuote sul mondo, essendo nel nostro più profondo tutti tra noi
legati. Gli studiosi della natura lo spiegano con l’unità del cosmo, altri
ricorrono all’immagine del campo morfogenetico. Karl Rahner osserva che basta
agitare un fazzoletto perché il paesaggio cambi volto. E parla di
‘intercomunione’, intendendo che nella nostra realtà più profonda noi tutti
siamo in comunione tra di noi e nessuno può ritrarsi in una sua regione propria,
dove vivere interamente per se stesso, isolato da tutti. Si stabilisce un
rapporto di rappresentanza ogniqualvolta un individuo si sente solidale con
altri e prende su di sé i loro pesi. A questo proposito ancora Rahner scrive:
«Ci si può fare liberamente carico delle proprie indigenze considerandole come
una partecipazione, un proprio contributo al destino di tutti, per alleggerire
misteriosamente il peso del vivere che grava sulle spalle degli altri» (Rahner,
191).
In questo senso potremmo interpretare anche il fenomeno della rappresentanza di
cui parla Paolo. Ciò che è avvenuto in Gesù ha ripercussioni sul mondo intero.
Libero dal peccato e sereno nella profondità della sua anima, Gesù mi ha reso
più chiara la realtà di questo mio mondo e aperto una breccia nel potere del
peccato. Dove l’odio è stato sconfitto, qui è stata spezzata anche la sua
diabolica spirale di odio che genera odio, e qualcosa è cambiato anche nel
mondo. La morte di Gesù in croce pone nella storia degli uomini un fatto che non
potrà più essere annullato. E' una pietra che, gettata nelle acque di questo
mondo, continua a produrre i suoi cerchi. Sul piano storico è del tutto evidente
l’enorme rilevanza che questa morte di croce, prodotta dalla violenza e al tempo
stesso vissuta con amore profondo, ha determinato per l’intero genere umano.
Essa ha cambiato il nostro modo di pensare, ha spezzato il circolo vizioso della
violenza che genera violenza, ha dischiuso una nuova possibilità oltre l’odio e
l’ostilità.
Ma rappresentanza significa anche qualcos’altro, che cioè in modo consapevole un
individuo prende su di sé un peso che altri dovrebbe portare sulle proprie
spalle. Per Paolo, nella lettera ai Galati, questa è la legge di Cristo:
«Portate i pesi gli uni degli altri, così adempirete la legge di Cristo» (Gal
6,2). Quel che Paolo pensa noi lo sperimentiamo ogni giorno. Quando in una ditta
le cose stanno andando male, i responsabili si defilano, come se la cosa non li
riguardasse. E tentano di addossare ad altri le proprie responsabilità. Altri
invece non vanno in cerca di colpevoli, ma si mostrano disposti a intervenire e
a farsi carico degli inconvenienti, in ultima analisi si assumono il peso che
toccherebbe ad altri. Non si ergono contro nessuno, ma al contrario si mostrano
solidali. Poiché sono disponibili a farsi carico della difficoltà, per
collaboratori le cose diventano più facili. Le cose si chiariscono e si
risolvono problemi che riguardano tutta la ditta. È la redenzione.
In termini analoghi potremmo raffigurarci la rappresentanza di Gesù Cristo. Egli
si volge ai peccatori non predicando dall’alto di un pulpito ma mangiando e
bevendo insieme a loro, partecipando ai loro banchetti. Per i farisei questo è
un comportamento inaudito, mentre per lui proprio sedendosi a mensa si
stabilisce un rapporto di comunione con i peccatori, fa esperienza delle loro
brame di salvezza e redenzione. Questa gente perduta vorrebbe uscire dal
peccato, tormentata com’è dalla colpa. Albert Görres diceva che nessuno pecca
perché gli piace, ma solo per disperazione. Ed è proprio ciò di cui Gesù fa
esperienza in questi incontri, riconoscendo l’incapacità di quegli individui a
liberarsi contando soltanto sulle proprie forze. Un mero appello alla
conversione non giova granché, perché qui si ha come la sensazione di trovarsi
in un vicolo cieco: si vorrebbe cambiare vita, ma non vi si riesce. Un po’ come
gli alcolisti, che vorrebbero smettere, ma non ce la fanno. In una situazione
del genere Gesù solidarizza con i peccatori, cui annuncia l’amore di Dio che usa
misericordia e concede il perdono. Li invita a convertirsi e li risana dalle
loro lacerazioni. È la solidarietà che culmina nella morte di croce.
Per diversi aspetti la morte di Gesù si lega al peccato. Innanzitutto essa ne è
una conseguenza. Gesù viene consegnato dalle cerchie giudaiche ai romani non per
nobili motivi, ma per gelosie, intrighi, rivalità, per odio verso il latore di
un messaggio che tanti individui accolgono con gioia. E viene inchiodato sulla
croce da persone che hanno calpestato il diritto e cui non importa nulla della
sorte di un loro simile. In definitiva, Gesù è stato crocifisso dal peccato.
Sulla croce, in Gesù si rende manifesto il peccato del mondo. Mentre muore,
però, Gesù non rinfaccia agli assassini la loro colpa, ma se ne fa carico,
perché chi ha peccato riacquisti la sua libertà. Ecco come Paolo esprime l’idea:
«Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui stesso
maledizione per noi, come sta scritto: Maledetto chi pende dal legno» (Gal
3,13). La croce ci mostra come la maledizione valga per noi, peccatori e
trasgressori della legge, e che Gesù se l’è presa su di sé perché fossimo
liberati. Volgendo lo sguardo al Crocifisso i peccatori potranno allora dire che
è stato lui a caricarsi della loro maledizione e a liberarli. Teniamo però
sempre presente che un simile modo di esprimersi è metaforico. Non si può dire
che Dio avrebbe posto attivamente questa maledizione sulle spalle del proprio
Figlio per scaricarla da quelle del mondo, a meno che non si voglia interpretare
l’avvenimento della croce in modo magico. Vero è piuttosto che non si può in
qualche modo capire l’effetto risanante della croce e il mistero della morte di
Gesù se non ricorrendo a delle immagini. Paolo si è servito di quella della
maledizione, nel tentativo di capire il lato incomprensibile della croce e gli
effetti salutari che quell’avvenimento ha prodotto nella sua persona.
Recentemente una giovane, appena approdata alla fede, mi dichiarava la profonda
emozione provata nel sapere che «lui ha sopportato tutto per me, mi ha liberata
da ogni mio peso». Altri mi dicono: «Gesù ci ha liberato da tutti i peccati e
quindi non c’è più alcun motivo di preoccuparsi». Si tratta, per queste persone,
di esperienze di liberazione, tutte da interpretare. Qui sapere che Gesù ha
vissuto e sperimentato sul proprio corpo il peccato, senza cadervi, per esempio
non lasciandosi travolgere dall’odio e dalla disperazione, può esprimersi anche
in espressioni poetiche: egli ha portato su di sé e scaricato da me ogni colpa,
è diventato per me peccato perché io riacquistassi la mia libertà. Non dovremo
però dimenticare che si tratta pur sempre di un modo poetico di esprimere
esperienze di natura spirituale, le esperienze di redenzione, profondamente
appaganti e liberatorie, tradotte in formule che rischiano di sconfinare nella
magia. È tipico, infatti, di un’interpretazione magica pensare che Dio avrebbe
caricato sulle spalle del Figlio l’intera colpa del mondo per annientarla sulla
croce. Ciò non toglie che l’immagine poetica muove il mio cuore e produce in me
sentimenti di riconoscenza e di libertà interiore. Altro rischio è che si
strumentalizzi un tale modo di esprimersi al punto da non prendere neanche in
considerazione la propria colpa. È vero che il redento non si libera dalle colpe
da solo, mediante le proprie prestazioni, facendosi piccolo e mendicando
riconoscimenti. Vero è però anche che bisogna sentirsi responsabili dei propri
comportamenti e provare dolore per le colpe commesse, smettendo di lasciarsi
dominare dal peccato. Anche qui s’impone quello che in terapia va sotto il nome
di percezione ed elaborazione della colpa, anche se la rielaborazione ora si
fonda sulla certezza che Gesù solidarizza con noi, non ci abbandona nella nostra
colpa, ma l’ha assunta e portata nel suo corpo.
Sulla croce Gesù riassume l’intera sua vita. È importante allora mettere in
relazione con la morte di croce anche il suo rapporto con i peccatori e il
messaggio che egli ha annunciato agli uomini. Gesù perdona il peccato, non
condanna, ma congeda l’adultera con le parole: «Va’ e d’ora in poi non peccare
più» (Gv 8,11). L’esperienza del
perdono deve tradursi nella conversione, nell’abbandono della via del peccato.
Se non sfocia in questi comportamenti, quell’esperienza non è nemmeno autentica.
La croce esige una rottura del genere, che spesso diventa talmente lacerante da
essere avvertita essa stessa come una croce. E così la croce non solo mi libera
dal peccato, ma esige che io abbandoni la via del peccato e mi ponga sulla via
della sequela. Per Paolo la croce di Gesù suona innanzitutto come invito a
morire al peccato. La morte di Gesù in croce è un’immagine per la conversione
interiore: noi siamo morti al peccato, che dovremo quindi considerare ormai
morto. Noi siamo risorti con Cristo e dunque dobbiamo vivere insieme a lui la
vita nuova; «Ciò che è morto, è ormai libero dal peccato. Ma se siamo morti con
Cristo, crediamo che anche vivremo con lui» (Rm 7,6s.). Qui Paolo non
dice che Cristo ha portato la nostra colpa ma che la sua morte è il segno che
ora noi siamo liberi dal peccato e che questi non esercita più alcun potere su
di noi. Dobbiamo aprirci con fiducia alla vita nuova che Gesù ci dona con la sua
risurrezione.
Nella lettera ai Romani Paolo descrive il fenomeno della rappresentanza
anche in altre immagini: «Come dunque per la colpa di un solo uomo si è
riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera di giustizia
di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione che dà vita.
Similmente, come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti
peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti
giusti» (Rm 5,18s.). Ci troviamo
dunque di fronte a una duplice rappresentanza. Già Adamo ha peccato quale
rappresentante di noi tutti. E attraverso la sua azione è venuto il peccato nel
mondo. Egli disobbedì a Dio, per cui noi tutti diventammo peccatori. Il peccato
di Adamo ha avuto ripercussioni sulla storia successiva: esperienza che ci
riesce facilmente comprensibile solo se guardiamo alla realtà dei Balcani, dove
per secoli si è alimentata la spirale dell’ostilità. Viceversa, come ragiona
Paolo, per la giustizia di un solo uomo molti vengono costituiti giusti,
configurati cioè secondo la vera immagine dell’essere umano, come delineata
nella persona di Gesù. Parlando di peccato e di redenzione dal peccato, Paolo
ricorre alla terminologia del diritto. Il peccatore meriterebbe di essere
condannato, ma proprio perché Gesù ha assunto su di sé questa condanna ora egli
viene dichiarato giusto. Oggi questa immagine, mutuata dal mondo giuridico, non
pare esprimere la realtà nel profondo. Per Paolo, però, essa era evidentemente
liberante. Per molti, a quel tempo, la possibilità di cadere sotto il giudizio
rigoroso di Dio era avvertita in modo lacerante. Gesù, che per noi accetta su di
sé il giudizio, diventa il nostro intercessore, il ‘paraclito’, come Giovanni lo
chiama, l’assistente legale, l’avvocato di difesa, e con la sua croce ci libera
da quelle angosce e c’infonde nuovo coraggio: «Chi accuserà gli eletti di Dio?
Dio giustifica. Chi condannerà? Cristo Gesù, che è morto, anzi, che è
risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per noi?» (Rm 8,3 3 s.).
Ma per Paolo questa rappresentanza non può essere considerata conclusa con
l’opera di Cristo. La legge della rappresentanza vale anche per noi cristiani.
Come Gesù, novello Adamo, rinnova l’uomo e lo costituisce giusto, anche noi,
insieme a Cristo, dobbiamo diventare il nuovo Adamo che contribuisce a rendere
più giusto il mondo in cui viviamo. I cristiani sono chiamati a svolgere un
compito di rappresentanza a favore del mondo. Ed è proprio l’idea di
rappresentanza a liberarli da quella della prestazione, quasi fossero costretti
a convertire il mondo intero (Ratzinger,
574). Come Israele lungo la sua storia si è mantenuto saldo nella fede in Dio,
allo stesso modo anche i cristiani dovranno diventare il lievito della
riconciliazione e della pace per tutta l’umanità. I cristiani, che vivono nello
Spirito di Gesù, si rendono solidali con tutti gli esseri umani. Soffrendo per
la colpa del mondo, essi intercedono presso Dio affinché, dietro loro preghiera,
egli conceda pure agli altri, di partecipare della salvezza che Cristo ci ha
procurato.
Negli scritti biblici l’idea di rappresentanza non viene riferita esclusivamente
al peccato e alla colpa, ma riguarda pure la sofferenza. La prima lettera di
Pietro esorta gli schiavi, provati dal duro trattamento loro riservato dai
padroni, a sopportare con lo sguardo rivolto a Gesù: «A questo infatti siete
stati chiamati, poiché anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché
ne seguiate le orme» (1 Pt
2,21). Io conosco malati che accettano la propria sofferenza e la sopportano per
altri, per esempio per i propri figli o per amici in difficoltà. Queste persone
attuano quello a cui alludeva Paolo nella sua lettera ai Colossesi:
«Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia
carne quello che manca ai patimenti di Cristo» (Col
1,24). Gesù non ci ha spiegato perché mai dobbiamo soffrire e nemmeno la ragione
del dolore presente nel mondo, o perché Dio consente che soffrano anche quelli
che lo amano. Al problema della sofferenza egli risponde accettando la sua
passione e sopportando nel proprio corpo ciò che opprime e angustia tanti
individui. Nella sofferenza egli solidarizza con tutte le persone che soffrono,
per cui possiamo dire che egli ha portato anche la nostra sofferenza. Ciò non
significa che non ci toccherà più di soffrire, ma soltanto che ora soffriremo in
modo diverso. Adesso io so che nei miei dolori non sono solo e - come si legge
nella lettera ai Colossesi e nella prima lettera di Pietro - che
la mia sofferenza gioverà al mondo se me la assumerò, al pari di Gesù, in
rappresentanza per altri.
L’idea di rappresentanza non serve soltanto a capire la redenzione dalla colpa,
ma stimola a imitare Gesù e ad assumersi la rappresentanza in favore di altri, a
condividere gli altrui pesi, ad alzare la testa quando gli altri l’abbassano, a
non abbandonare il peccatore al suo destino, ma a mostrarsi con lui solidali.
Questa solidarietà con i peccatori non è, in primo luogo, una buona azione. Essa
nasce dall’obiettivo riconoscimento che il peccato dei singoli è pur sempre
frutto di un complesso intreccio di responsabilità. E molto spesso condividiamo
il peccato dei nostri simili: con il nostro modo di pensare negativo, il nostro
disinteresse per gli altri, le violazioni di cui siamo responsabili. Non
possiamo limitarci a ‘tener d’occhio’ chi pecca, ma dobbiamo guardarlo con gli
occhi dei primi padri del deserto, che non appena s’imbattevano in un peccatore
riconoscevano: «Ho peccato!». E non si trattava di una pia esagerazione, ma si
sentivano davvero responsabili delle colpe dei loro simili.
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18 aprile 2020 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net