Regola di san Benedetto

Capitolo XLIX - La quaresima dei monaci: 1. Anche se è vero che la vita del monaco deve avere sempre un carattere quaresimale, 2. visto che questa virtù è soltanto di pochi, insistiamo particolarmente perché almeno durante la Quaresima ognuno vigili con gran fervore sulla purezza della propria vita, 3. profittando di quei santi giorni per cancellare tutte le negligenze degli altri periodi dell'anno... 5. Perciò durante la Quaresima aggiungiamo un supplemento al dovere ordinario del nostro servizio, come, per es., preghiere particolari, astinenza nel mangiare o nel bere, 6. in modo che ognuno di noi possa di propria iniziativa offrire a Dio "con la gioia dello Spirito Santo" qualche cosa di più di quanto deve già per la sua professione di fede; 7. si privi cioè di un po' di cibo, di vino o di sonno, mortifichi la propria inclinazione alle chiacchiere e allo scherzo e attenda la santa Pasqua con l'animo fremente di gioioso desiderio.


 

LA QUARESIMA

di san Leone Magno [*]

Alcune Omelie tratte dal libro “Leone Magno – Omelie e lettere”, a cura di Tommaso Mariucci – De Agostini Libri - UTET 2013

 


Ndr: Diversi commentatori della Regola di san Benedetto (cfr. P. Delatte, A. de Vogüé, G. Holzherr, A. Lentini, A. M. Quartiroli, L. Sena e altri), riferiscono che nel capitolo 49 della Regola, dedicato all'osservanza della Quaresima, Benedetto si è molto ispirato alle Omelie (o Sermoni o Discorsi) quaresimali di Leone Magno. Io ho riportato solo le prime quattro delle dodici Omelie quaresimali [1].


 

OMILIA XXXIX

La Quaresima.

 

1. Si legge nella storia sacra che un tempo il popolo ebraico e tutte le tribù di Israele, oppressi a causa dei loro scandali e peccati dal giogo della tirannide filistea, fecero appello al digiuno per ristorare le loro energie fisiche e spirituali e superare così i loro nemici [2]. Evidentemente avevano capito che quella oppressione pesante e miserevole era conseguenza del disprezzo dei comandamenti divini e dell’immoralità, e che quindi si battevano invano con le armi, se prima non avessero lottato contro i vizi. Perciò facendo astinenza nel mangiare e nel bere, si imposero una mortificazione rigorosa e severa: per vincere i nemici, vollero prima vincere in se stessi gli allettamenti della gola. Fu così che quegli avversari crudeli, quegli oppressori fuggirono davanti agli Ebrei affamati, che pure quando erano ben nutriti, essi avevano sottomesso.

Anche noi dunque, o miei cari, trovandoci in mezzo a tante difficoltà e a tante battaglie, se vogliamo servirci di analoghi rimedi, saremo guariti con un analogo metodo. La nostra condizione non differisce gran che dalla loro: come essi subivano l’attacco da parte di avversari carnali, così noi lo subiamo, e in maniera fortissima, da parte dei nemici spirituali [3]. Ora, se vinceremo questi attraverso la riforma morale, frutto della grazia di Dio, riusciremo anche ad aver ragione della forza dei nemici visibili [4], i quali appunto, come furono duri e violenti con noi non per la loro capacità, ma per le nostre colpe, così saranno fiaccati dalla nostra ripresa spirituale.

2. Pertanto, o miei cari, per riuscire a vincere tutti i nostri nemici, dobbiamo ricorrere all’aiuto di Dio osservando i comandamenti celesti e pensando che non c’è altro mezzo per poter vincere i nostri avversari se non quello di aver vinto su noi stessi. È infatti nel nostro intimo che avvengono molte battaglie: la carne ha desideri opposti a quelli dello spirito, e lo spirito ha desideri opposti a quelli della carne [5]. Ora, se in questo dissidio avranno la meglio le inclinazioni carnali, l’anima perderà vergognosamente la propria dignità e sarà davvero un gran danno che sia schiava proprio colei che avrebbe dovuto comandare. Se invece lo spirito, sottomesso al suo sovrano e attratto piacevolmente dai doni celesti, saprà disprezzare gli allettamenti dei piaceri terreni e non permetterà che regni il peccato nel suo corpo mortale [6], allora sarà la ragione a mantenere nel pieno rispetto dell’ordine il suo primato, senza che alcuna illusione degli spiriti del male [7] faccia crollare le sue difese. L’uomo infatti raggiunge la sua vera pace e la sua vera libertà quando la carne è sottomessa all’anima come suo giudice, e l’anima a sua volta si lascia governare da Dio, suo signore.

Certo questa interna disposizione, o miei cari, riesce sempre di vantaggio al fine di vincere, grazie al nostro sforzo incessante, i nemici costantemente in agguato; pure essa deve essere con maggiore sollecitudine ricercata e con maggiore premura realizzata in questo momento, in cui anche gli avversari nel loro acume raddoppiano le insidie e le astuzie. Ben sapendo che sono ormai imminenti i giorni della santa Quaresima, in cui è preciso dovere emendare tutti i passati atti di accidia e cancellare tutte le manchevolezze, essi indirizzano tutta la loro forza e malvagità proprio a questo fine: a far sì che quanti si accingono a celebrare la santa Pasqua del Signore contraggano una qualche impurità, e trovino un’occasione di colpa proprio là donde avrebbero dovuto attingere il perdono.

3. Nell’imminenza dunque, o miei cari, della Quaresima, che significa maggior diligenza nel servizio del Signore, appunto perché iniziamo, per così dire, una gara di opere sante, dobbiamo preparare le nostre anime alla lotta contro le tentazioni e comprendere che quanto più attivi saremo per la nostra salvezza, tanto più violenti saranno gli attacchi dei nostri avversari. Ma colui che è in noi è più forte di colui che è contro di noi; il nostro vigore è in lui, nel confidare nella sua forza [8]. Per questo infatti il Signore ha voluto subire l’attacco del tentatore [9]: per istruirci con il suo esempio ed insieme difenderci con il suo aiuto. Come avete ascoltato [10], egli vinse l’avversario con le testimonianze della legge, senza far uso della sua potenza; così facendo intese onorare di più l’uomo e punire di più l’avversario, nel senso che il nemico del genere umano fu vinto da lui, si direbbe, non già in quanto Dio, ma in quanto uomo. Egli dunque combatté in quella circostanza, perché poi anche noi combattessimo, e vinse anzi, perché anche noi come lui potessimo vincere. Perché, o miei cari, non esiste azione virtuosa senza il vaglio delle tentazioni, non c’è fede senza le sue prove, né combattimento senza nemico, né vittoria senza scontro.

Appunto la nostra vita si svolge in mezzo ad agguati e battaglie ed allora, se non vogliamo esser sorpresi, dobbiamo stare all’erta, e se vogliamo vincere, dobbiamo combattere. È per questo che Salomone, l’uomo più sapiente, dichiara: «O figlio, se intraprendi il servizio del Signore, prepara l’anima tua alla prova» [11]. Quell’uomo infatti, ricco della sapienza di Dio, conosceva bene che la religiosità autentica comporta il travaglio della lotta e quindi, in previsione dei pericoli della battaglia, volle preavvertirne il combattente, onde evitare che il tentatore, assalendo qualcuno all’oscuro del pericolo, lo ferisse rapidamente perché appunto impreparato.

4. Noi dunque, o miei cari, che, istruiti dall’insegnamento divino, scendiamo in campo con cognizione di causa per questa lotta, ascoltiamo l’Apostolo che ci dice: «Noi non abbiamo da combattere contro la carne e il sangue, ma contro i principati e le potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebre, contro gli spiriti del male sparsi nell’aria» [12]. E teniamo presente che questi nostri nemici comprendono bene che è rivolto contro di loro quanto noi cerchiamo di fare per la nostra salvezza: perciò il fatto stesso che desideriamo qualcosa di buono è tale da provocare i nostri avversari. Tra noi ed essi infatti, stante lo stimolo della gelosia del demonio, esiste un’opposizione di vecchia data, tale che, essendo essi decaduti da quei beni, a cui noi per grazia di Dio siamo elevati, trovano il loro tormento nella nostra giustificazione. Quando dunque noi ci rialziamo, essi crollano; quando noi riprendiamo vigore, essi lo perdono. Insomma quelli che sono rimedi per noi sono colpi per loro, perché il trattamento stesso delle nostre ferite li ferisce.

«In piedi dunque», o miei cari, — come continua l’Apostolo — «cinti i fianchi della vostra anima con la verità [...] e calzati i piedi, pronti per annunziare il Vangelo di pace, impugnando sempre lo scudo della fede, con il quale possiate estinguere tutte le frecce infuocate del maligno; e prendete l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, che è la parola di Dio» [13].

Vedete, o miei cari, di quali armi potenti, di quali difese insuperabili ci ha fornito il nostro capo così glorioso e ricco di trionfi, l’invitto comandante supremo della milizia cristiana! Egli ha cinto i nostri fianchi con la cintura della castità [14], ha calzato i nostri piedi con i vincoli della pace, perché un soldato il cui fianco è scoperto è rapidamente sopraffatto dal provocatore dell’impurità, come il soldato privo di calzatura subisce facilmente i morsi del serpente. Egli ci ha dato lo scudo della fede per la protezione del corpo tutto, ha posto sulla nostra testa l’elmo della salvezza, ci ha messo in mano la spada, cioè la parola della verità. In tal modo colui che combatte in campo spirituale non solo è ben protetto contro le ferite, ma è in grado altresì di ferire l’avversario.

5. Facendo dunque affidamento, o miei cari, su queste armi, iniziamo con animo pronto e intrepido la battaglia che a noi viene proposta ed in questo stadio, quale è appunto il periodo del digiuno, non dobbiamo né pensare né accontentarci di praticare soltanto l’astinenza dai cibi. Sarebbe troppo poco ridurre gli alimenti del corpo, senza alimentare e rinvigorire l’anima. Bisogna invece, mentre si mortifica un po’ l’uomo esteriore, rimettere in forze l’uomo interiore, e mentre si elimina dalla carne la sazietà materiale, irrobustire la mente con un nutrimento spirituale e squisito [15]. Ogni anima cristiana dunque deve guardarsi attorno e scrutare con diligenza e severità in fondo al suo cuore, badando bene che non ci sia né attaccata traccia alcuna di discordia, né impressa traccia alcuna di passione. La castità allontani l’incontinenza, la luce della verità fughi le tenebre della menzogna. Si sgonfi l’orgoglio, si plachi la collera, si spezzino le reti delle colpe, si ponga freno alla maldicenza della lingua. Cessino le vendette e siano dimenticate le offese. Insomma «ogni pianta che non ha piantato il Padre celeste sia sradicata» [16].

In noi difatti i semi della virtù sviluppano bene solo quando ogni germe estraneo sia strappato dal campo del nostro cuore. Perciò, se uno per spirito di vendetta ha inveito contro il prossimo al punto di farlo incarcerare o incatenare, deve affrettarne la liberazione non solo se si tratta di un innocente, ma anche se sembra meritevole di pena. Solo così potrà valersi in piena fiducia di quella regola propria della preghiera del Signore: «Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori» [17]. E si noti che questo elemento della nostra richiesta il Signore lo sottolinea con una indicazione particolare, come se tutta l’efficacia della preghiera dipendesse da questa condizione: «Perché se perdonate agli uomini i loro peccati, anche il Padre vostro, che è nei cieli, vi perdonerà; ma se voi non perdonate agli uomini, nemmeno il Padre vostro vi perdonerà i vostri peccati» [18].

6. Perciò, o miei cari, ricordandoci della nostra debolezza che ci porta facilmente a peccare in ogni modo, non dobbiamo assolutamente trascurare questo rimedio fondamentale e questa cura così efficace per le nostre ferite. Perdoniamo perché sia a noi perdonato, accordiamo quella remissione che chiediamo per noi, e non cerchiamo la vendetta, mentre per noi domandiamo indulgenza. Non restiamo sordi ed insensibili al pianto dei poveri, con animo buono e premuroso usiamo misericordia verso i bisognosi, per trovare noi stessi misericordia al momento del giudizio. Solo colui che, aiutato dalla grazia di Dio, indirizzerà i suoi sforzi al raggiungimento di questa perfezione, compirà esattamente il sacro digiuno e, libero dal fermento della vecchia malizia, giungerà alla santa Pasqua negli azimi della purità e della verità [19] e, vivendo una vita nuova, meriterà di godere il mistero dell’umana rigenerazione: per il Cristo nostro Signore, che con il Padre e con lo Spirito Santo vive e regna nei secoli dei secoli. Amen.

 

OMILIA XL

La Quaresima.

 

1. Benché nell’imminenza della festa pasquale, o miei cari, sia il ciclo stesso del tempo prescritto a ricordarci di per sé il digiuno quaresimale, è tuttavia necessaria da parte nostra una parola di esortazione, che con l’aiuto di Dio non sarà né inutile ai tiepidi, né fastidiosa ai ferventi. E se è vero che il carattere stesso di questi giorni postula un arricchimento della nostra vita religiosa, nessuno tra voi — voglio sperare — proverà rammarico se viene incitato al bene. La nostra natura infatti, necessariamente mutevole finché dura la sua condizione mortale, anche se si eleva ai più alti gradi nell’amore per la virtù, può sempre trovare tuttavia l’occasione di cadere, come anche l’occasione di progredire. L’autentica rettitudine dei perfetti è appunto quella di mai presumere di esser perfetti, perché non si verifichi il caso che, desistendo dallo sforzo di seguire un cammino non ancora terminato, corrano il rischio di cadere proprio nel punto in cui hanno abbandonato il desiderio di avanzare. Poiché dunque nessuno di noi, o miei cari, è tanto perfetto e tanto santo, da non poter diventare più perfetto e più santo, dobbiamo tutti insieme, prescindendo da ogni differenza di grado e da ogni distinzione di merito, piamente desiderare di affrettarci, dalle posizioni raggiunte, verso quelle a cui non siamo ancora arrivati, aggiungendo a quella la dimensione che è il nostro comportamento abituale qualcosa che ne rappresenti l’indispensabile aumento. Indubbiamente si dimostrerebbe poco religioso in altro tempo, chi non fosse di fatto più religioso in questi giorni.

2. Molto a proposito dunque è risuonato al nostro orecchio il testo della predicazione dell’Apostolo, laddove dice: «Ecco ora il tempo propizio, ecco ora il giorno della salvezza» [20]. C’è infatti un tempo più propizio di questo, ci sono giorni più utili spiritualmente di questi, nei quali si dichiara guerra ai vizi e si favorisce al massimo lo sviluppo di tutte le virtù? Certo tu, o anima cristiana, hai dovuto essere costantemente in guardia contro il tuo spirituale avversario, perché in te non ci fosse spiraglio alcuno all’agguato del tentatore; ma di ben maggiore cautela e di più prudente preoccupazione devi dar prova ora, in cui il medesimo tuo nemico infierisce e ribolle di invidia [21]. Ora infatti nel mondo intero gli vien tolto il potere che gli garantiva ormai una dominazione secolare, ora gli vengono sottratti i numerosi strumenti con cui incatenava [22]. A lui, che è il più crudele dei pirati, rinunciano i popoli di tutte le nazioni e di tutte le lingue; non c’è più ormai stirpe umana che non si ribelli alle sue leggi tiranniche, mentre in tutte le regioni del mondo migliaia e migliaia di persone si preparano ad essere rigenerate nel Cristo, e nell’imminenza della nascita della nuova creatura, viene espulso lo spirito di malizia da coloro che egli possedeva. Perciò il nemico spodestato freme d’un empio furore e cerca, privo ormai del suo antico diritto [23], di ottenere nuovi guadagni. Sempre instancabile e vigilante egli cerca di afferrare, se ne trova, le pecorelle che per la loro trascuranza si sono sbandate dal santo gregge, per poi condurle attraverso il piano paurosamente inclinato del piacere e della lussuria all’estremo rifugio della morte. Ecco perché accende l’ira, alimenta l’odio, stimola la cupidigia, deride la continenza, eccita la gola.

3. E chi egli non oserebbe tentare, se neppure nei riguardi di nostro Signore Gesù Cristo ha rinunciato ai suoi tentativi di inganno? Come infatti ci ha rivelato il racconto evangelico [24], il nostro Salvatore, che era vero Dio, per dimostrare di essere anche vero uomo ed escludere così ogni empia ed erronea opinione circa la sua persona, dopo un digiuno di quaranta giorni e di quaranta notti, provò quella fame che è propria della nostra debolezza. Il demonio allora, tutto soddisfatto di aver trovato in lui l’indizio di una natura passibile e mortale, per rendersi esatto conto di quella potenza che temeva, gli disse: «Se sei il Figlio di Dio, comanda che queste pietre diventino pani» [25]. Questo certo l’Onnipotente avrebbe potuto farlo ed era senz’altro facile che una creatura, di qualsiasi genere essa fosse, si mutasse su ordine del Creatore nella specie prescritta, come ad esempio nel banchetto nuziale egli cambiò, perché lo volle, l’acqua in vino. Ma era più rispondente all’economia della nostra salvezza che il Signore trionfasse dell’astuzia del nostro orgoglioso nemico non con la potenza della sua divinità, ma con il mistero della sua umiltà. Ed infine messo in fuga il demonio e neutralizzate le sue trame di tentatore, si accostarono gli Angeli al Signore e lo servivano: in tal modo, di colui che era vero uomo e vero Dio, rimaneva intatta l’umanità di fronte alle domande che gli venivano dolosamente proposte e si rendeva evidente la divinità di fronte all’omaggio che riceveva dai santi.

Siano dunque confusi i figli ed i discepoli del demonio che, suggestionati dal suo influsso viperino, ingannano i semplici, negando in Cristo la realtà delle due nature col privare o la divinità dell’uomo o l’uomo della divinità. C’è infatti una prova doppia e simultanea che distrugge l’uno e l’altro errore: come la fame del corpo sta a dimostrare la perfezione dell’umanità, così gli Angeli che servono dimostrano la perfezione della divinità.

4. Poiché dunque, o miei cari, secondo l’alto insegnamento del nostro Redentore, «l’uomo non vive di solo pane, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» [26] ed è giusto che il popolo cristiano, quale che sia il grado di  astinenza in cui si trova, desideri nutrirsi più con la parola di Dio che con il cibo materiale, iniziamo con prontezza di devozione e con vivacità di fede questo solenne digiuno, e celebriamolo non con la semplice privazione di cibo, che sarebbe sterile se dettata, come spesso avviene, dalla debolezza del corpo e dalla malattia dell’avarizia, ma con benevolenza veramente generosa. Dobbiamo cioè essere di quelli di cui colui che è la stessa Verità dice: «Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati» [27].

Siano dunque le opere di pietà le nostre squisite pietanze e riempiamoci di quei cibi, che ci nutrono per la vita eterna. La nostra gioia sia tutta nel ristoro dei poveri, saziati a nostre spese. La nostra soddisfazione più piena sia nel vestire coloro, la cui nudità avremo coperto con i necessari indumenti. Facciamo sentire il nostro spirito umanitario ai malati costretti a letto, agli infermi nella loro debolezza, agli esuli nel loro travaglio, agli orfani nel loro stato di abbandono, alle vedove desolate e meste. Non c’è nessuno che non possa, nell’aiutare questa gente, dimostrare almeno in parte la sua benevolenza, perché nessuno ha un patrimonio piccolo se ha il cuore grande [28] e d’altra parte non dipende dalla quantità delle sostanze familiari la misura della compassione e della pietà. Non è mai senza merito, sia pure nell’ambito di una condizione molto modesta, la ricchezza della buona volontà. Certo le elargizioni della gente ricca sono più grandi, e più piccole quelle della gente media, ma non differisce il frutto delle rispettive azioni, se è uguale l’amore di chi agisce.

5. Ci sono poi, o miei cari, in un periodo così favorevole all’esercizio delle virtù, altre insegne ed altre corone che possiamo conquistare senza perdite per i nostri granai e senza sacrifici pecuniari. Esse si ottengono respingendo il libertinaggio, rinunciando all’ubriachezza, domando le voglie della carne con la disciplina della castità; si ottengono cambiando l’odio in amore, trasformando l’inimicizia in pace, spegnendo la collera con la serenità, rimettendo l’offesa con la mansuetudine; si ottengono infine regolando la condotta dei padroni e degli schiavi, in modo tale che l’autorità dei primi sia più umana e l’obbedienza dei secondi più fedele. Con questa disciplina morale dunque, o miei cari, si otterrà la misericordia di Dio e, cancellata ogni responsabilità per i peccati, si celebrerà religiosamente la santa Pasqua.

Ad un simile criterio si attengono, secondo un’ottima prassi già da tempo introdotta, i piissimi imperatori del mondo romano. Piegano essi in onore della passione e della resurrezione del Signore la maestà della loro potenza e, mitigando il rigore delle loro leggi, concedono l’amnistia ai detenuti responsabili di numerose colpe [29]: nei giorni cioè in cui il mondo vien salvato dalla misericordia di Dio, anche la loro clemenza, imitatrice della bontà celeste, costituisce un modello per noi. Le popolazioni cristiane devono dunque imitare i loro prìncipi e, sull’esempio degli imperatori, sentirsi esortate al perdono nell’ambito familiare. Non è infatti possibile che le leggi private siano più severe di quelle pubbliche. Bisogna dunque perdonare le colpe, spezzare le catene, cancellare le offese, abolire definitivamente le vendette. Solo così la santa festività, nel perdono di Dio e nel perdono degli uomini, troverà tutti nella gioia e nell’innocenza. Per il nostro Signore Gesù Cristo, che con il Padre e con lo Spirito Santo vive e regna come Dio nellinfinità dei secoli. Amen.

 

OMILIA XLI

La Quaresima.

 

1. Certo, o miei cari, dobbiamo sempre vivere saggiamente e santamente, indirizzando le nostre intenzioni ed azioni verso quello che sappiamo esser gradito alla divina giustizia. Ma quando si avvicinano i giorni resi luminosamente splendidi dai sacramenti della nostra salvezza, dobbiamo con maggiore diligenza e premura purificare il nostro cuore e con zelo maggiore coltivare e praticare le virtù. In definitiva, come questi stessi misteri sono più grandi di una qualche loro parte [30], così la nostra religiosità deve in qualche maniera superare il suo ritmo abituale e quanto più alta è la festa da celebrare, tanto migliore deve esser la disposizione di colui che la celebra. Se infatti sembra logico ed è anzi, in un certo senso, segno di devozione presentarsi nei giorni di festa con un vestito più bello, quasi a dimostrare nell’abbigliamento del corpo la gioia dello spirito; se in questo periodo la casa stessa della preghiera noi adorniamo, per quanto ci è possibile, con più cura e con arredamento magnifico, non è forse giusto che l’anima cristiana — che è realmente tempio vivo di Dio — sapientemente si adorni e, nell’atto di celebrare il mistero della sua redenzione, stia bene attenta perché nessuna macchia di peccato l’offuschi e nessuna ruga di doppiezza la sfiguri [31]? A che varrebbe l’abbigliamento esterno con un’apparenza di onorabilità, se l’interno dell’uomo fosse insozzato e contaminato da qualche vizio?

Tutto ciò dunque che oscura la purezza dell’anima, lo specchio tersissimo dello spirito, deve essere diligentemente pulito e in qualche modo purificato perché riacquisti la sua lucentezza. Ciascuno deve indagare nella sua coscienza, e mettersi davanti a se stesso per un rigoroso esame personale. E controlli se nell’intimo del suo cuore trova quella pace che è dono di Cristo, se non c’è nessun appetito carnale in contrasto con i desideri spirituali, se non disprezza le piccole cose, se non aspira a quelle grandi, se non si rallegra per ingiusti profitti, se non gode della crescita smisurata del suo capitale, se infine non brucia d’invidia per la felicità altrui o peggio si compiace della disgrazia del nemico. Se poi non trova in se stesso traccia alcuna di queste passioni, si domandi attraverso un esame sincero quale è la natura dei suoi pensieri abituali, in particolare se non si ferma con compiacenza su rappresentazioni vane o se è pronto a distogliere il suo animo da quelle che uniscono la lusinga al danno. Certo l’essere insensibili alle attrattive o refrattari allo stimolo dei desideri non è cosa di questa vita, la quale è tutta una tentazione, da cui naturalmente è vinto colui che non ha il timore di esser vinto. È orgoglio infatti presumere di poter evitare facilmente il peccato; questo stesso atto di presunzione è peccato, secondo la parola dell’apostolo san Giovanni: «Se dicessimo che noi non abbiamo alcun peccato, inganneremmo noi stessi e la verità non sarebbe in noi» [32].

2. Nessuno dunque si inganni, o miei cari, nessuno si illuda: nessuno deve confidare tanto nella purezza del suo cuore, da considerarsi immune dai pericoli delle tentazioni, perché anzi il tentatore sempre attentissimo si fa più insidioso soprattutto con quelli che sa lontani dal peccato. Del resto a chi risparmierebbe i suoi inganni, se ha osato tentare con le sue trame e le sue astuzie il Signore stesso della maestà? Egli aveva visto che la sua superbia era stata calpestata dal Signore Gesù nell’umiltà del battesimo; aveva compreso che ogni desiderio carnale era stato spento dal digiuno continuato per quaranta giorni. Pur tuttavia lo spirito del male non perdette la fiducia nelle risorse della sua malvagità; si ripromise anzi, data l’instabilità della nostra natura, e si immaginò di poter fare un peccatore di colui che conosceva per esperienza diretta come un vero uomo. Se dunque neppure dal nostro Signore e Salvatore il diavolo ha distolto insidie ed inganni, quanto più oserà portare i suoi attacchi alla nostra debolezza, a noi che siamo per lui oggetto di odio particolarmente acceso e di invidia feroce fin dal tempo in cui nel battesimo abbiamo a lui rinunciato, passando, grazie alla rigenerazione divina, dalla primitiva condizione di assoggettamento a lui allo stato di nuova creatura!

Appunto perché, finché siamo rivestiti di carne mortale, l’antico nemico non cessa di crearci dappertutto occasioni insidiose di peccato e si accanisce contro le membra di Cristo, specialmente quando devono celebrare i più augusti misteri, giustamente lo Spirito Santo con il suo insegnamento educa ed avvia il popolo cristiano a prepararsi alla festa pasquale con una pratica penitenziale di quaranta giorni. È già la ragione stessa di quest’opera purificatrice a spronarci ad un’osservanza così spiritualmente feconda ed a suggerirci tutta la cura necessaria all’ascesi proposta. Proprio nella misura in cui uno avrà di fatto santamente passato questi giorni, potrà dimostrare di aver religiosamente celebrato la Pasqua del Signore.

3. Nei giorni dunque consacrati al santo digiuno, attendiamo con più ampiezza a quelle opere di pietà che debbono starci costantemente a cuore. «Mostriamoci misericordiosi con tutti, ma specialmente con i nostri fratelli di fede» [33], imitando, anche nella distribuzione delle elemosine, la bontà del Padre celeste, «che fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» [34]. Benché dunque il nostro aiuto debba andare per primo alla povertà dei fedeli, tuttavia anche coloro che non hanno ancora ricevuto il Vangelo meritano pietà nelle loro miserie. È infatti la comunanza di natura che dobbiamo amare in tutti gli uomini; essa deve renderci benevoli anche con coloro che da noi a qualunque titolo dipendono, soprattutto se sono già rinati per la stessa grazia e con lo stesso prezzo, cioè con il sangue di Cristo, sono stati redenti. Con essi abbiamo in comune il fatto di essere stati creati tutti ad immagine di Dio, né esiste tra noi e loro divisione dal punto di vista dell’origine carnale o da quello della rinascita soprannaturale. È lo stesso Spirito che ci santifica, è la stessa fede che ci vivifica, gli stessi sono i sacramenti a cui ci accostiamo. Non disprezziamo questa unità, non sottovalutiamo questa comunione: dobbiamo anzi trarre motivo per esser in tutto più miti dal fatto che il rapporto di dipendenza da noi riguarda persone con le quali condividiamo lo stesso vincolo che ci assoggetta all’unico Signore. Perciò se alcuni di loro hanno offeso piuttosto gravemente i propri signori, è adesso, cioè nei giorni della riconciliazione, che devono essere perdonati. La compassione deve eliminare la severità e l’indulgenza deve cancellare la vendetta. Nessuno rimanga agli arresti, nessuno resti chiuso in prigione, perché il nostro Dio ci ha promesso la sua misericordia a questa precisa condizione: si può esser sicuri di veder perdonati i peccati propri, solo se si perdonano i peccati degli altri [35].

Distruggiamo quindi, o miei cari, tutte le ragioni di discordia e le spine dell’inimicizia. Cessi l’odio, sparisca ogni rivalità, si incontrino tutte le membra di Cristo nell’unità dell’amore. Infatti «beati sono coloro che amano la pace, perché saranno chiamati figli di Dio» [36], anzi non solo figli, ma anche eredi, cioè «coeredi di Cristo» [37], il quale vive e regna nei secoli dei secoli. Amen.

 

OMILIA XLII

La Quaresima.

 

1. Accingendomi a parlarvi, o miei cari, del digiuno più sacro e più grande, quale migliore esordio se non quello di cominciare con le parole dell’Apostolo, in cui parlava lo stesso Cristo, e di ripetere quel che è stato letto: «Ecco ora il tempo propizio, ecco ora il giorno della salvezza» (2 Cor., 6, 2.)? È vero infatti che non esistono periodi che sian privi dei doni divini e che ci è costantemente offerta la possibilità di accedere, con l’aiuto della sua grazia, alla misericordia di Dio; ma ora con ben maggiore sollecitudine tutti i cuori debbono impegnarsi a promuovere il loro progresso spirituale, una confidenza più piena deve tutti animarli, perché ora è il ritorno stesso del giorno della nostra redenzione a spingerci al compimento integrale delle opere della pietà, onde possiamo celebrare, puri nel corpo e nello spirito, il più alto dei misteri del Signore: la sua passione. Certo di fronte a misteri così grandi sarebbe necessaria la più riverente devozione senza tentennamenti ed interruzioni, in modo da esser sempre agli occhi di Dio come è giusto che ci trovi la stessa festa di Pasqua. Ma una tale virtù si ritrova in pochi: data la debolezza della carne, le pratiche più austere subiscono un rilassamento ed in mezzo alle varie attività di questa vita lo zelo si affievolisce, sicché inevitabilmente anche gli spiriti religiosi si ricoprono della polvere del mondo. Per questo un’istituzione divina veramente provvidenziale ha previsto che, per ridare alle nostre anime la purezza, ci fosse il rimedio della pratica quaresimale, in cui appunto le colpe degli altri tempi venissero riscattate con le opere buone e distrutte con i santi digiuni.

2. Entrando dunque, o miei cari, in questo mistico periodo che è consacrato all’esercizio salutare dei digiuni, dobbiamo preoccuparci di obbedire al comando dell’Apostolo, cioè «purificarci da ogni bruttura della carne e dello spirito» (2 Cor., 7, 1). Bisogna quindi contenere i combattimenti che avvengono tra questi due elementi, perché l’anima — che, posta sotto la direzione di Dio, deve a sua volta far da guida al suo corpo — raggiunga la dignità ed il primato che le competono: senza dare a nessuno motivo di scandalo, non ci esporremo allora ai rimproveri dei contraddittori [38]. Perché sarebbero più che giuste le critiche dei miscredenti, anzi sarebbero le nostre pecche a mobilitare le lingue degli empi contro la religione, se la condotta morale di noi che facciamo il digiuno contrastasse con la purezza di un’astinenza perfetta. Difatti il digiuno, nella sua sostanza e nel suo valore, non consiste nella semplice astensione dal cibo: non ci sarebbe nessun vantaggio nel sottrarre il nutrimento al corpo, se non si staccasse il cuore dall’ingiustizia e non si frenasse la lingua dalle denigrazioni. In altre parole, dobbiamo, sì, mortificare la libertà nel mangiare, ma in modo da contenere anche, in base alla stessa legge, le altre passioni.

È questo il tempo della mansuetudine e della pazienza, è il tempo della pace e della serenità, in cui, escludendo ogni contaminazione peccaminosa, dobbiamo tendere al possesso stabile delle virtù. Ora gli spiriti veramente religiosi e forti debbono abituarsi a perdonare le colpe, a non far conto delle offese, a dimenticare le ingiurie. Ora l’anima fedele deve esercitarsi con le armi offensive e difensive della giustizia, sicché in mezzo alla gloria e all’umiliazione, alla cattiva ed alla buona reputazione [39] non si esalti per le lodi e non si stanchi per gli oltraggi nella tranquillità della sua coscienza e nella sua perseverante onestà. E santo, non atteggiato a mestizia, deve essere il contegno modesto delle anime religiose: nessun mormorio e lamento deve esistere in persone, a cui non mancano mai le consolazioni delle gioie sante. Nessun timore inoltre se, nell’esercizio delle opere di misericordia, si assottigliano le ricchezze terrene: è sempre ricca la povertà del cristiano, perché quel che possiede è ben più di quel che non possiede, e non teme di soffrire l’indigenza in questo mondo perché ha il dono di possedere ogni cosa nel Signore di tutte le cose. Coloro dunque che operano il bene non devono affatto temere che possa loro mancare la possibilità di operarlo, dal momento che per due piccole monete viene esaltata la religiosità della vedova del Vangelo (Cfr. Luc., 21, 2-4) e per un solo bicchiere d’acqua fresca viene premiata una spontanea donazione (Cfr. Matt., 10, 42). Tutto questo perché la intima bontà delle persone pie si misura e si calcola secondo i loro sentimenti: non perde mai il potere di esercitare la misericordia colui nel quale non vien meno il sentimento della misericordia. Di questo fece esperienza la santa vedova di Sarepta, che nel tempo della carestia portò al beato Elia — ed era tutto quel che possedeva — il cibo di un sol giorno: essa, badando più alla fame del Profeta che al suo bisogno, gli offrì senza esitare quel poco di farina e di olio che aveva (Cfr. 1 Re, 17,10-16). Pure non le venne a mancare quel che con fede aveva donato: nei recipienti, che generosamente e piamente aveva vuotato, sgorgò come la fonte di una nuova abbondanza, sicché per il buon uso fattone non diminuì la ricchezza di quella sostanza, di cui non si era temuta la privazione.

3. Ora state pur certi, o miei cari, che queste opere, a cui voglio sperare che siate di buon grado preparati, sono oggetto di invidia da parte del demonio, il quale è nemico di ogni virtù: egli fa appello a tutte le risorse della sua malizia, per tendere insidie alla pietà servendosi proprio della pietà e per tentare di vincere con la gloria coloro che non è riuscito ad abbattere con la sfiducia. Difatti il vizio della superbia si trova sempre vicino alle buone azioni, il sentimento dell’orgoglio è sempre lì a tramare contro le virtù, ed è realmente difficile che chi vive in maniera degna di lode non si lasci prendere dalla lode umana, a meno che — come sta scritto — «chi si gloria non si glori che nel Signore» (2 Cor, 10, 17). Ora un nemico tanto malvagio chi non oserebbe attaccare nelle sue risoluzioni? e di chi non desidererebbe rompere il digiuno, se non ha risparmiato i suoi raggiri — come ci ha chiarito la lettura evangelica [40] — neppure al Salvatore del mondo? Vivamente stupefatto per un digiuno di ben quaranta giorni e quaranta notti, volle astutamente appurare se questa astinenza era una virtù ricevuta in dono o personalmente conquistata; non avrebbe così temuto la distruzione delle sue opere fraudolente, se Cristo fosse stato di condizione pari al corpo che aveva. Con il primo tranello [41] dunque cercò di sapere se egli era il creatore delle cose, capace cioè di cambiare a suo piacere la natura degli gli elementi materiali; con il secondo [42] cercò di sapere se sotto l’aspetto umano fosse nascosta e coperta la divinità, cui riuscisse agevole volare nello spazio e mantenere in equilibrio nel vuoto delle membra corporee. Ma il Signore, anziché dimostrargli la sua potenza di Dio, preferì opporgli secondo giustizia la sua realtà di uomo. Egli allora volse ingegnosamente il suo terzo inganno [43] al fine di tentare con la sete del dominio colui in cui era cessato ogni segno di potere divino, e di indurlo con la promessa dei regni terreni a venerare lui stesso. Senonché la sapienza di Dio rese stolta la prudenza del demonio, per cui questo superbo nemico venne incatenato per mezzo dell’uomo, che pure una volta egli aveva incatenato, e nel contempo non temette di perseguitare colui che doveva essere ucciso per il bene del mondo.

4. Attenzione dunque ai tranelli di questo nostro avversario per quanto riguarda non solo gli allettamenti della golosità, ma anche l’impegno stesso dell’astinenza, perché egli come ha saputo dare la morte al genere umano servendosi del cibo, così riesce a nuocergli servendosi del digiuno. Per realizzare questo inganno esattamente opposto, si vale della collaborazione fedele dei Manichei, per cui come già spinse a prendere il cibo proibito, così persuade a fare a meno di quello permesso.

Ora è senz’altro utile la pratica di moderarsi nel cibo perché si frena con essa la tendenza ai piaceri, ma va decisamente respinta la teoria di coloro secondo i quali si pecca anche digiunando! Essi condannano — ed in questo fanno oltraggio al Creatore — la natura delle cose create, sostenendo che chi ne mangia resta contaminato da certe sostanze di cui non Dio, ma il diavolo sarebbe l’autore. Al contrario, non esiste assolutamente sostanza alcuna che sia cattiva ed il male stesso non è un’entità positiva. Tutte le cose son buone perché buono è l’autore che le ha stabilite ed è uno solo il creatore dell’universo, «il quale ha fatto il cielo e la terra, il mare e tutto quanto in essi si trova» [44]. Quel che dunque nell’ambito di esso è stato concesso agli uomini come loro nutrimento o bevanda, è santo e puro nelle sue specifiche qualità. E nel caso che se ne faccia per avidità un uso smodato, è l’eccesso che disonora mangioni ed ubriaconi, e non la natura del cibo e della bevanda che li contamina, «perché — come dice l’Apostolo — tutto è puro per i puri. Ma niente è puro per i corrotti e gli increduli, perché hanno corrotta l’intelligenza e la coscienza» (Tito, 1, 15).

5. Voi invece, o miei cari, come figli santi della madre cattolica, formati dallo Spirito di Dio alla scuola della verità, sappiate regolare come si conviene la vostra libertà, nella convinzione che è bene astenersi anche dalle cose lecite e, quando ci si impone di vivere asceticamente, fare delle distinzioni nei cibi escludendone l’uso, senza condannarne la natura. Non lasciatevi dunque contaminare dall’errore di coloro che si corrompono proprio con le loro pratiche «in quanto servono alla creatura, anziché al Creatore» (Rom., 1, 25) ed offrono stupidamente la loro astinenza agli astri del cielo. Essi infatti per onorare il sole e la luna hanno scelto come giorni di digiuno la domenica e il lunedì, rivelandosi con questo loro atto malvagio doppiamente empi e sacrileghi perché fine di tale decisione è il culto degli astri ed il disprezzo della resurrezione del Signore. Essi si staccano così dal mistero dell’umana salvezza e non credono che il Cristo nostro Signore veramente sia nato ed abbia patito e sia stato sepolto e sia risuscitato con una vera carne della nostra natura. È questa la ragione per cui essi condannano con il loro uggioso digiuno quello che è il giorno della nostra letizia. Naturalmente, per dissimulare la loro mancanza di fede, osano farsi vivi alle nostre riunioni e nel partecipare ai sacramenti si regolano a questa maniera: di tanto in tanto, per il timore di non poter rimanere del tutto nascosti, ricevono indegnamente il corpo di Cristo, ma rifiutano nettamente di bere il sangue della nostra redenzione. Di tutto questo teniamo informata la vostra santità perché in base a questi segni siano da voi riconosciuti chiaramente tali uomini ed una volta scoperta la loro sacrilega simulazione, siano esclusi con decreto gerarchico dalla comunione dei santi. Nei loro riguardi appunto l’apostolo san Paolo mette saggiamente sull’avviso la Chiesa di Dio, quando dice: «Vi raccomandiamo, o fratelli, di tener d’occhio coloro che suscitano dissensi e scandali in danno della dottrina che voi avete ricevuto: state lontani da costoro. Son persone queste che non servono al Cristo Signore, ma al loro ventre, mentre con parole dolci e suadenti seducono il cuore dei semplici» (Rom., 16, 17-18).

6. Istruiti dunque abbastanza, o miei cari, da questi avvertimenti, che vi abbiamo dato di frequente per premunirvi da un detestabile errore, iniziate con devota pietà i santi giorni di Quaresima e preparatevi a meritare la misericordia di Dio con opere personali di misericordia. Sappiate spegnere l’ira, cancellare gli odi, amare l’unione, prevenendovi a vicenda con atti di sincera umiltà. Siate equi nel comandare ai vostri schiavi ed ai vostri dipendenti: nessuno di loro soffra il tormento del carcere o delle catene. Mettete fine alle vendette e perdonate le offese; cambiate la severità con la dolcezza, l’indignazione con la benevolenza, la discordia con la pace. Tutti devono riconoscerci come uomini modesti, calmi e buoni: solo così il nostro digiuno sarà gradito a Dio. Gli offriremo in sostanza il sacrificio di un’autentica astinenza e di un’autentica pietà, solo se eviteremo ogni forma di malvagità. E ci aiuti in tutto Dio onnipotente, che possiede in unione con il Figlio e con lo Spirito Santo un’unica divinità e maestà nei secoli dei secoli. Amen.

 


[*] Ndr. Leone detto Magno, santo Papa (m. 461). Originario della Tuscia, e già influente nella struttura della Chiesa romana negli anni Trenta del 5° sec., successe a Sisto III nel 440, eletto in assenza, trovandosi in Gallia per svolgere una missione diplomatica per conto di Galla Placidia, allora reggente per conto di Valentiniano III. Si fece difensore della cattolicità; i suoi 96 sermoni e il ricco epistolario furono fonti decisive per la successiva codificazione del diritto canonico. Affermò la supremazia del vescovo di Roma su ogni altro prelato, ottenendo (445) il riconoscimento dell’imperatore Valentiniano III. Durante il suo pontificato l’imperatore Marciano convocò il Concilio di Calcedonia (451) e L. rifiutò di accettare il canone che sanciva la preminenza del patriarcato di Costantinopoli sugli altri d’Oriente, insidiando il primato della sede romana. Nel 452 fece parte della delegazione che, nei pressi di Mantova, sul fiume Mincio, distolse Attila dal suo proposito di discendere la penisola italiana. Nel 455 tentò di bloccare il condottiero dei vandali, Genserico, ormai giunto alle porte di Roma. Non riuscì a impedire il saccheggio, ma almeno ottenne che la città non fosse incendiata, che non si infierisse sui suoi abitanti e che le basiliche di S. Pietro, S. Paolo e S. Giovanni in Laterano restassero immuni dall’assalto. (Fonte: Dizionario di storia Treccani - 2010)

[1] Ndr: Uomo pratico secondo Gesù Cristo, san Benedetto pensa che anche per i monaci - uomini che aspirano alla santità, ma sempre uomini dalla testa ai piedi! - capita molto a proposito questo periodo di rinnovamento e di intensificazione della vita cristiana che ogni anno prepara i catecumeni al battesimo e tutti i fedeli a una degna celebrazione della Pasqua. E` stato notato che, ad eccezione dei vv.8-10 che sono come una appendice e di carattere chiaramente cenobitico, il capitolo dipende, tanto nelle idee quanto nelle espressioni, dai "Discorsi sulla quaresima" di S. Leone Magno, soprattutto i primi quattro (sono dodici).Cosi` il contrasto iniziale tra la vita da tenersi in quaresima e quella più leggera da tenersi nel resto dell'anno; così il "tale virtù è di pochi" (v.2) a proposito di una vita sempre a un livello spirituale molto alto; soprattutto l'idea della "purezza di vita", di purificazione, di espiazione in quaresima delle colpe di tutto l'anno sono il 'leit-motiv' della predicazione di S. Leone. Appare chiaro che san Benedetto ha assimilato la dottrina quaresimale del vescovo di Roma, è impregnato del suo vocabolario e ripete spontaneamente le sue espressioni senza che si preoccupi di citarle letteralmente. Quello che S. Leone predicava a tutti i cristiani, san Benedetto lo scrive per i monaci; è una ulteriore prova che la vita monastica è un modo di realizzare la vita cristiana e che la dottrina della perfezione evangelica predicata dai Padri della Chiesa è ugualmente valida per il cristiano che vive nel mondo e per quello che, seguendo la sua vocazione, vive in monastero.

San Benedetto quindi in questo capitolo è più preoccupato di sottolineare l'importanza della quaresima e lo spirito che deve animare la vita in tale periodo, che di fare precise pratiche penitenziali alla comunità o determinare in che cosa deve consistere l'intensificarsi della vita di preghiera, come invece fa la Regula Magistri (cfr. RM.51 e 53). Dobbiamo perciò classificare il capitolo 49 della Regula Benedicti più tra la parte ascetica e spirituale che tra la parte propriamente legislativa e disciplinare. (Fonte “Appunti sulla Regola di S. Benedetto” di D. Lorenzo Sena, O.S.B. Silv. - Fabriano, Monastero S. Silvestro, Ottobre 1980).

[2] Cfr. 1 Sam., 7, 6.

[3] Si avverta il contrasto tra carnales adversarii e spiritales inimici: i primi sono i nemici «in carne ed ossa» che attaccavano gli Ebrei, i secondi sono gli eterni avversari dei Cristiani, cioè il demonio, il mondo e le passioni. Cfr. Efes., 6, 12 (spiritualia nequitiae).

[4] I cristiani, oltre agli spiritales inimici, di cui alla nota precedente, subiscono anch’essi l’attacco di nemici esterni e visibili (corporei hostes). È da ritenere che così dicendo san Leone alluda alle incursioni barbariche degli Unni e dei Vandali, che negli anni 451 e 455 d. C. minacciarono l’Italia e Roma. Si noti anche il parallelismo tra morum corruptio (che fu causa di dura oppressione per gli Ebrei) e morum correctio (che è per tutti, Ebrei e cristiani, segreto di vittoria).

[5] Cfr. Gal, 5, 17: «La carne infatti ha desideri opposti a quelli dello spirito, e lo spirito desideri opposti a quelli della carne: essi sono in contrasto tra di loro».

[6] Cfr. Rom., 6,12.

[7] Spiritales nequitiae richiama ancora spiritualia nequitiae di Efes., 6, 12.

[8] Cfr. Filipp., 4,13: «Tutto io posso in colui che mi dà forza».

[9] La ripetizione in tentari a tentatore è intenzionale e significativa: esprime la pericolosità e l’insistenza degli attacchi di colui che, nella tradizione biblica, è il tentatore per eccellenza.

[10] Il Pontefice si riferisce al brano evangelico di Matt., 4, 1-11, che ai suoi tempi, come oggi, veniva letto nella prima domenica di Quaresima: esso contiene il racconto della triplice tentazione di Gesù.

[11] Sir., 2, 1.

[12] Efes., 6, 12, in cui le parole caro et sanguis designano le forze puramente umane. Cfr. nota 2.

[13] Efes., 6, 14-17. In questa citazione è omesso l’inciso: et induti loricam iustitiae.

[14] Il balteus castitatis è — come afferma il Dolle (R. Dolle, Un docteur de l’aumône, St. Léon le Grand, in «Vie Spirituelle», 1957) — un lieu commun de la littérature patristique. Ne parlano san Girolamo, sant’Agostino e san Pietro Crisologo. Il Pontefice in tutto il passo, commentando san Paolo, configura la vita cristiana come milizia, in cui il singolo cristiano (spiritalis praeliator) è agli ordini del comandante supremo che è Cristo (dux multis insignis triumphis; invictus Christianae militiae magister).

[15] Le parole exterior homo, interior homo; caro, mens stanno ad indicare i due princìpi costitutivi dell’uomo, cioè il corpo e l’anima. Se ciascuno di essi è soggetto alla lotta, deve avere un trattamento diverso nel periodo quaresimale.

[16] Matt., 15, 13.

[17] Matt., 6, 12.

[18] Matt., 6,14. Questa affermazione segue immediatamente alla preghiera del Pater noster.

[19] Cfr. 1 Cor., 5, 8.

[20] 2 Cor., 6, 2.

[21] Possiamo fissare, leggendo questo passo, alcuni elementi costanti della predicazione quaresimale di san Leone, che sa fondere opportunamente tradizione e originalità. Li accenniamo brevemente: la Quaresima è nelle intenzioni della Chiesa un periodo di grande attività spirituale per l’anima cristiana; durante la Quaresima, proprio per tale attività dell’anima, il demonio, di professione tentatore, raddoppia i suoi assalti e quindi la lotta tra lui e il cristiano si fa particolarmente aspra; a questa prospettiva di lotta, aperta dalla stessa liturgia della Chiesa con il racconto della tentazione di Gesù (cfr. Om. XXXIX, nota 9), san Leone dà un forte rilievo presentandola come una vera e propria battaglia.

[22] La battaglia tra il cristiano e il demonio suppone delle armi in mano ai due contendenti. Cfr. Om. XXXIX, 4: le armi spirituali del cristiano sono lo scudo della fede, l’elmo della salvezza ecc.; ma quali sono le armi del demonio? Qui si parla genericamente di innumera captivitatis vasa, come mezzi o strumenti, con cui il demonio rende le anime sue schiave. Quanto al termine vasa (cfr. Om. XXX, nota 3), esso dipende da Matt., 12, 29 (vasa eius diripere) e da Marc., 3, 27 (vasa fortis... diripere), in cui secondo i biblisti si designano i beni o le masserizie e le suppellettili dell’uomo forte. Nel passo parallelo di Luc., 11, 22 troviamo invece arma (universa arma eius auferet). Per questo nel passo di san Leone intendiamo: mezzi o strumenti di cattura.

[23] Si accenna al diritto acquisito dal demonio sugli uomini in conseguenza del peccato originale, e da lui perduto dopo la redenzione (ius perdidit antiquum). Cfr. Om. XXII, nota 4.

[24] Il racconto della triplice tentazione di Gesù in Matt., 4, 1-11, assegnato alla prima domenica di Quaresima.

[25] Matt., 4, 3.

[26] Matt., 4, 4.

[27] Matt., 5, 6. Cfr. Om. XCV, 6.

[28] La felicità di questa espressione è ribadita dal parallelismo, che le conferisce la forza di un proverbio: nulli... parvus est census, cui magnus est animus.

[29] Esistevano disposizioni imperiali in proposito; ad esempio una Costituzione dell’imperatore Valentiniano II (375-392 d. C.), in cui si legge: Ubi primum dies paschalis exstiterit, nullum teneat carcer inclusum. L’amnistia prevedeva però eccezioni e limitazioni per i delitti più gravi.

[30] Il mistero pasquale (Paschale sacramentum), a cui è ordinato il periodo di Quaresima, comprende nel suo complesso i misteri della passione, morte e resurrezione del Signore. Per questo qui si parla di salutis nostrae sacramenta e di mysteria superiori e maggiori degli altri misteri dell’anno liturgico, che ne sono parte. Cfr. Om. LXXI, nota 1.

(Aggiunta del redattore del sito) Omilia LXXI, La Resurrezione, nota 1. È subito nominato in questa Omilia dedicata alla Pasqua il Paschale Sacramentum, che è come il «leit-motiv» della predicazione leoniana (cfr. Om. LXVI, nota 2). Che cos’è questo mistero santificante della Pasqua? Nella vita di Cristo è il ciclo integrale della redenzione, comprendente i due momenti della morte e della resurrezione nei modi, finalità e frutti, di cui parlano i testi sacri. Nella vita del cristiano, stante l’intima sua associazione con Cristo, il mistero pasquale consiste nella comunicazione soprannaturale della redenzione all’anima, che, accettando e rimeditando e rivivendo in se stessa la vicenda del Cristo che muore e risorge per gli uomini, se ne applica i frutti e celebra la sua Pasqua più vera. Tale mistero esprime dunque simultaneamente il carattere misterioso e il potere santificante dell’opera del Cristo-capo, cioè della redenzione oggettiva e universale, che deve estendersi in forma personale e particolare alle singole anime, membra vive del corpo di Cristo. Per queste ragioni san Leone afferma la necessità che la vita dei credenti contenga dentro di sé questo mistero.

[31] Le parole macula e ruga, riferite all’anima cristiana, che è tempio di Dio, dipendono da Efes., 5, 27, in cui si parla della Chiesa sposa di Cristo, «non avente né macchia né ruga».

[32] 1 Joh., 1, 8.

[33] Gal, 6, 10.

[34] Matt., 5, 45.

[35] Cfr. Matt., 18, 33-35.

[36] Matt., 5, 9.

[37] Rom., 8, 17.

[38] Cfr. 2 Cor., 6, 3. Dopo aver utilizzato il tema del tempo propizio all’inizio dell’Om. (cfr. nota 1), san Leone riprende anche il séguito del passo paolino.

[39] Cfr. 2 Cor, 6, 7-8. Continua il riferimento implicito al passo (per arma iustitiae; per gloriam et ignobilitatem).

[40] Matt., 4, 1-11. La tentazione di Gesù spiega perché anche l’uomo sia soggetto a tentazione. Questa idea è svolta in questa e nelle Omilie precedenti: Om. XL, 3: Quem... tentare non audeat, qui nec ab ipso D. N. ]esu Christo conatus suae fraudis abstinuit?, Om. XLI, 2: ...a quo dolos suos contineat, qui ipsum quoque Dominum maiestatis ausus est calliditatis suae fraudo tentare?; Om. XLII, 3: Cuius... ille hostis nequissimus non audeat impugnare propositum,... quando versutias suas... nec ab ipso mundi Salvatore continuit?

[41] Cfr. Matt., 4, 3: «Se tu sei il Figlio di Dio, dì che queste pietre diventino pani».

[42] Cfr. Matt., 4, 6: «Se tu sei il Figlio di Dio, gettati di sotto...».

[43] Cfr. Matt., 4, 9: «Tutto questo io ti darò, se ti prostri e mi adori».

[44] Sal, 145, 6. Viene respinto il dualismo cosmologico dei Manichei (unus est universarum rerum creator); escluso il principio cattivo, tutte le creature sono buone (prorsus nulla sit substantia mala; omnia... bona bonus auctor instituit). Cfr. Om. IX, nota 12.


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18 marzo 2023        a cura di Alberto "da Cormano"     Grazie dei suggerimenti      alberto@ora-et-labora.net