Festa del Corpus Domini
Eterna incarnazione
(estratto da "Un'altra sete", di Camillo de Piaz, ed.
Servitium 2001)
momento penitenziale
Oggi è la festa del
Corpus
Domini, cioè di Cristo in quanto presente nell’eucaristia, nella
materialità, nella fisicità dell’eucaristia. E sulla nostra responsabilità nei
confronti dell’eucaristia, dello spezzare il pane e il vino insieme rendendo
così presente il Signore, che conviene esaminarci, comprendendo in questa
responsabilità tanto le cose più semplici, come per esempio la puntualità della
nostra risposta a questa periodica convocazione, che ci fa essere, da massa
amorfa che siamo, popolo di Dio, quanto le più alte, come la nostra resistenza o
la nostra disponibilità al coinvolgimento eucaristico, momento forte e genetico
del nostro coinvolgimento comunitario,
senza
del quale si può credere di essere, ma non si è veri cristiani.
omelia
Giovedì
dopo la Trinità (o la domenica successiva): festa del
Corpus Domini. Fin dalla prima fanciullezza (e forse da prima,
attraverso il filtro della memoria collettiva) questo giorno è legato per noi
alle immagini, ch’esso suscita, di
folle pacatamente in festa, di strade pavesate e infiorate, di canti, di
musiche, di incensi che sfumano nell’aria dei nostri paesi e delle nostre
contrade, di paramenti, di stendardi, di ostensori rutilanti al sole
dell’incipiente estate. Può darsi che in un avvenire non lontano queste immagini
finiscano col sembrare legate a un’epoca ormai conchiusa, al passato: sua
maestà, anzi sua divinità il traffico (che sta fornendo tante soddisfazioni, e
tante illusioni, a una moltitudine di ometti rimasti fermi e legati alla stanga
per secoli, ma che sta anche contribuendo assieme al malgoverno urbanistico, a
rendere così brutte le nostre città e i nostri borghi già così umani) domanda
questi e altri sacrifici. Però è sempre fonte di meraviglia osservare come una
festa così astratta, e astrattamente decisa, abbia potuto entrare così
profondamente nel cuore e nelle abitudini della gente, e rimanervi per tanto
tempo. Forse per la fascinosità delle verità che stanno dietro a questa festa,
del mondo ch’essa fa intravedere.
È a
questa verità, a questo mondo che noi vogliamo ora dedicare un po’ della nostra
attenzione, sia pure ripetendo cose già dette negli anni precedenti: ma è
proprio bussando e ribussando alla porta di certe realtà che esse finiscono un
bel giorno coll’aprirsi e coll’apparirci in una luce nuova: soltanto allora la
strada è aperta verso ulteriori sviluppi.
Domenica scorsa, la liturgia della festa della Trinità, e la sua collocazione
nell’anno liturgico invitava a considerare il nesso profondo che lega il mistero
della Trinità e quello dell’incarnazione: nesso perché l’incarnazione non è che
l’estensione al mondo di quella comunione infinita di Dio con se stesso che noi
chiamiamo la trinità, destinato a ricevere il suo compimento nella Pentecoste,
appunto come l’eterno e infinito rapporto tra il Padre e il Figlio si compie
nello Spirito santo. E come dire che il Padre, con l’incarnazione, associava a
sé l’umanità nella generazione del Figlio. Questa associazione, poi, è vera nel
senso letterale della parola in Maria, per cui il punto di partenza - e di
ritorno - di qualsiasi devozione mariana degna di questo nome, che non voglia
cioè cadere nel sentimentalismo e nell’idolatria,
non può essere che questo; e d’altra parte non si vede
come possa aversi una fede cristiana autentica e piena che faccia a meno di
questo punto, cioè della presenza della Vergine al punto d’incrocio della strada
di Dio e di quella degli uomini, senza portare in sé il germe della sua
dissoluzione in quanto tale, cioè in quanto cristiana, tanto esso è centrale.
Oggi,
festa del
Corpus
Domini, festa dell’eucaristia, diremo che la stessa specie di
rapporto necessario che scopriamo tra la Trinità e l’incarnazione, esiste tra
l’incarnazione e l’eucaristia. Come l’incarnazione, cioè la venuta del Figlio di
Dio nel mondo, il suo farsi figlio dell’uomo, il suo farsi uomo, trova il suo
presupposto nella eterna generazione del Verbo di Dio dal Padre, cioè nella
Trinità, così l’eucaristia trova la sua scaturigine e la sua spiegazione
nell’incarnazione. Come l’incarnazione continua la generazione del Verbo di Dio
dal Padre, così l’eucaristia continua e moltiplica l’incarnazione, cioè la
presenza fisica di Dio (di Cristo) nel mondo. Tutta l’incarnazione, dal
principio alla fine, dal natale al calvario, alla risurrezione. Si è potuto
dire, per esempio, che l’eucaristia è come un ulteriore natale di Gesù, per cui
egli diviene maggiormente «Dio con noi»: come se non gli bastasse di essere nato
uomo tra gli uomini e voglia tornare a nascere, per così dire, non più soltanto
quell’uomo ch’egli è stato, ma quell’uomo che è ciascuno di noi. Cioè
l’incarnazione che continua, come fatto e come legge, nell’eucaristia. Tutta
l’incarnazione in tutta l’eucaristia. Eucaristia presenza, eucaristia
sacrificio, eucaristia comunione. Se volessimo usare una parola oggi di moda,
potremmo dire che qui non è l’uomo che viene alienato, ma Dio, se l’eucaristia è
questo incessante appropriarsi che l’uomo fa di Dio a se stesso, prima nelle
mani e con la parola del sacerdote nella messa, e poi in ciascuno di noi con la
comunione. Certo è tragico, anche se del tutto conforme al rispetto che Dio ha
della nostra libertà, che questa comunione, questa offerta di sé, possa venir
rifiutata.
Ma
questo può essere alle volte il frutto di un malinteso circa il vero significato
della religione. Dobbiamo guardarci dal pensare che la religione (tutte le
religioni, ma soprattutto il cristianesimo) si esaurisca nell’atto in cui
dichiariamo di credere nell’esistenza di una astratta entità superiore che si
chiamerebbe Dio. La religione non vuole dire soltanto credere in Dio: essa è
innanzitutto e soprattutto un fatto di vita, attraverso il quale l’uomo realizza
quel bisogno del rapporto vitale, della comunione, del «Dio con noi», del
superamento degli angusti limiti individuali, ch’egli si porta dietro
insopprimibilmente, perché inscritto nelle strutture stesse, direi perfino
fisiche, della sua natura.
Attraverso la concezione di un Dio e di un mondo incomunicabili ed estranei, i
confini tra la religione e irreligione si fanno labili e imprecisi. Mentre
l’umanità ha sempre portato in sé dalle profondità dei millenni e attraverso
tutte le religioni quell’esigenza e quel bisogno, questa fame e questa sete di
una comunicazione più alta, che assomma e sostiene tutte le altre comunicazioni:
fame e sete che esigono di essere soddisfatte alla pari della fame e della sete
materiali. Altrimenti si vendicano. Una comunicazione però non astratta ma
vitale. Esigenza, bisogno, fame e sete che trovano il loro compimento e la loro
celebrazione nell’eucaristia, dovunque ci sia un uomo capace di consacrare,
dovunque ci sia una comunità capace di produrlo e di esprimerlo dal suo seno, e
dovunque c’è un’anima, anzi una persona, in corpo ed anima, capace di accogliere
in sé ciò che la consacrazione arcanamente ha prodotto, assidendosi a quella
mensa che è la forma e la manifestazione più alta dello stare assieme,
dell’unione, della fraternità, in una parola sola, di quell’amore contro il
quale potremo bensì peccare infinite volte, per diffidenza o per eccesso, ma del
quale non finiremo mai di aver bisogno e di portare nel nostro cuore il
desiderio o la nostalgia.
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6 giugno 2021 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net