Cyprianus Carthaginensis
LIBER DE ORATIONE DOMINICA
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Cipriano vescovo di Cartagine
TRATTATO SUL PADRE NOSTRO
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Testo latino estratto da "Patrologia
Latina" Vol. IV, col. 519-544, J. P. Migne 1844
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Testo italiano estratto da: "L'ora dell'ascolto" a cura dell'Unione Monastica Italiana per la Liturgia, UMIL, Edizioni Piemme 1997; "Preghiere dei primi Cristiani" di Adalberto Hamman, Ed. Vita e Pensiero, 1962; "Cipriano Trattati" di Antonella Cerretini, Ed. Città Nuova, 2004 |
I. EVANGELICA praecepta, fratres
dilectissimi, nihil aliud sunt quam magisteria divina, fundamenta
aedificandae spei, firmamenta corroborandae fidei, nutrimenta fovendi
cordis, gubernacula dirigendi itineris, praesidia obtinendae salutis;
quae, dum dociles credentium mentes in terris instruunt, ad coelestia
regna perducunt.
Multa et per Prophetas servos suos
dici Deus voluit et audiri; sed quanto majora quae Filius loquitur, quae
Dei sermo qui in Prophetis fuit propria voce testatur, non jam mandans
ut paretur venienti via, sed ipse veniens, et viam nobis aperiens et
ostendens; ut qui, in tenebris mortis errantes, improvidi et caeci prius
fuimus, luce gratiae luminati, iter vitae duce et rectore Domino
teneremus.
II. Qui inter caetera salutaria
sua monita et praecepta divina quibus populo suo consulit ad salutem,
etiam orandi ipse formam dedit, ipse quid precaremur monuit et
instruxit.
Qui fecit vivere, docuit et orare, benignitate ea scilicet qua et caetera
dare et conferre dignatus est; ut, dum prece et oratione quam Filius
docuit apud Patrem loquimur, facilius audiamur.
Jam
praedixerat horam venire quando veri adoratores adorarent Patrem in
spiritu et veritate (Joan.
IV, 23), et implevit quod ante promisit; ut qui spiritum et
veritatem de ejus sanctificatione percepimus, de traditione quoque ejus
vere et spiritaliter adoremus. Quae enim potest esse magis spiritalis
oratio quam quae a Christo nobis data est, a quo nobis et Spiritus
sanctus missus est?
Quae vera
magis apud Patrem precatio quam quae a Filio, qui est Veritas, de ejus
ore prolata est? ut aliter orare quam docuit non ignorantia sola sit,
sed et culpa, quando ipse posuerit et dixerit: Rejicitis mandatum
Dei, ut traditionem vestram statuatis (Marc. VII, 8).
III. Oremus
itaque, fratres dilectissimi, sicut magister Deus docuit. Amica et
familiaris oratio est Deum de suo rogare, ad aures ejus ascendere
Christi oratione.
Agnoscat Pater Filii sui verba cum
precem facimus.
Qui habitat intus in pectore, ipse sit et in voce.
Et cum ipsum habeamus apud Patrem advocatum pro peccatis nostris (I
Joan.
II, 1),
quando peccatores pro delictis nostris petimus, advocati nostri verba
promamus. Nam, cum dicat quia quodcumque petierimus a Patre in nomine
ejus dabit nobis, (Joan. XVI, 23), quanto efficacius impetramus
quod petimus in Christi nomine, si petamus ipsius oratione?
IV. Sit autem
orantibus sermo et precatio cum disciplina, quietem continens et
pudorem.
Cogitemus nos sub conspectu Dei stare. Placendum est divinis oculis et
habitu corporis et modo vocis. Nam, ut impudentis est clamoribus
strepere, ita contra congruit verecundo modestis precibus orare. Denique
magisterio suo Dominus secreto orare nos praecepit, in abditis et
semotis locis, in cubiculis ipsis, quod magis convenit fidei; ut sciamus
Deum ubique esse praesentem, audire omnes et videre, et majestatis suae
plenitudine in 205 abdita quoque et occulta penetrare, sicut scriptum
est: Ego Deus approximans, et non Deus de longinquo.
Si absconditus fuerit homo in absconditis, ego ergo non videbo eum?
Nonne coelum et terram ego impleo (Hierem. XXIII, 23, 24)? Et iterum: In omni loco oculi Dei
speculantur bonos et malos (Prov. XV, 3).
Et quando in unum cum fratribus
convenimus, et sacrificia divina cum Dei sacerdote celebramus,
verecundiae et disciplinae memores esse debemus, non passim ventilare
preces nostras inconditis vocibus, nec petitionem commendandam modeste
Deo tumultuosa loquacitate jactare, quia Deus non vocis sed cordis
auditor est.
Nec
admonendus est clamoribus qui cogitationes hominum videt, probante
Domino et dicente: Quid cogitatis nequam in cordibus vestris (Luc. V,
22)? Et alio loco: Et scient omnes ecclesiae quia ego sum
scrutator renis et cordis (Apoc.
II, 23).
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1. I precetti del Vangelo, fratelli carissimi, sono certo insegnamenti
divini, fondamenti su cui si edifica la speranza, sostegni che
rafforzano la fede, alimenti che ristorano il cuore, timoni che dirigono
il cammino, aiuti per ottenere la salvezza. Istruiscono le menti docili
dei credenti qui in terra e li conducono al regno dei cieli.
Dio volle che molte cose fossero
dette e ascoltate per mezzo dei profeti, suoi servi. Ma immensamente più
sublimi sono le realtà che comunica attraverso il suo Figlio. Più
incomparabili le cose, che la parola di Dio, pur già presente nei
profeti, proclama ora con la propria voce, e cioè non più comandando che
gli si prepari la via, ma venendo egli stesso, aprendoci e mostrandoci
il cammino da seguire. Così mentre prima eravamo erranti, sconsiderati e
ciechi nelle tenebre della morte, ora, illuminati dalla luce della
grazia, possiamo battere la via della vita con la guida e l'aiuto del
Signore.
2. Egli fra gli altri salutari suoi ammonimenti e divini precetti, con i
quali venne in aiuto al suo popolo per la salvezza, diede anche la norma
della preghiera, ci suggerì e insegnò quel che dovevamo domandare. Colui
che ha dato la vita, ha insegnato anche a pregare, con la stessa
benevolenza con la quale s'è degnato di dare e fornire tutto il resto; e
ciò perché parlando noi al Padre con la supplica e l'orazione che il
Figlio insegnò, fossimo più facilmente ascoltati. Aveva già predetto che sarebbe venuta l'ora in cui i veri adoratori avrebbero adorato il Padre in spirito e verità (Cfr. Gv 4,23), ed egli adempì la promessa perché noi, ricevendo dalla sua santificazione lo spirito e la verità, adorassimo veramente e spiritualmente in grazia del suo dono. Quale orazione infatti può essere più spirituale di quella che ci è stata data da Cristo, dal quale ci è stato mandato anche lo Spirito Santo?
Quale preghiera al Padre può essere più vera di quella che è stata
proferita dalla bocca del Figlio, che è verità? Pregare diversamente da
quello che egli ci ha insegnato non sarebbe soltanto ignoranza ma anche
colpa, avendo egli stesso affermato: Respingete il comandamento di Dio,
per osservare la vostra tradizione! (Cfr. Mc 7, 8).
3. Preghiamo, dunque, fratelli,
come Dio, nostro Maestro, ci ha insegnato. È preghiera amica e familiare
pregare Dio con le sue parole, far salire ai suoi orecchi la preghiera
di Cristo.
Riconosca il Padre le parole del Figlio suo quando preghiamo; egli che
abita dentro il nostro cuore, sia anche nella nostra voce. E poiché è
nostro avvocato presso il Padre (1 Gv 2,1), usiamo le parole del nostro
avvocato, quando, come peccatori, supplichiamo per i nostri peccati. Se
egli ha detto che qualunque cosa chiederemo al Padre nel suo nome ci
sarà data (Gv 16,23), impetreremo più efficacemente quel che domandiamo
in nome di Cristo, se lo domanderemo con la sua preghiera.
4. Da coloro che pregano, le
parole e la preghiera siano fatte in modo da racchiudere in sé silenzio
e timore. Pensiamo di trovarci al cospetto di Dio. Occorre essere
graditi agli occhi divini sia con la posizione del corpo, sia con il
tono della voce. Infatti come è da monelli fare fracasso con schiamazzi,
così al contrario è confacente a chi è ben educato pregare con riserbo e
raccoglimento. Del resto, il Signore ci ha comandato e insegnato a
pregare in segreto, in luoghi appartati e lontani, nelle stesse
abitazioni. È infatti proprio della fede sapere che Dio è presente
ovunque, che ascolta e vede tutti, e che con la pienezza della sua
maestà penetra anche nei luoghi nascosti e segreti, come sta scritto: Io
sono il Dio che sta vicino, e non il Dio che è lontano. Se l’uomo si
sarà nascosto in luoghi segreti, forse per questo io non lo vedrò? Forse
che io non riempio il cielo e la terra? (Cfr. Ger 23, 23-24). E ancora:
In ogni luogo gli occhi del Signore osservano attentamente i buoni e i
cattivi (Cfr. Pr 15, 3).
E allorché ci raduniamo con i
fratelli e celebriamo con il sacerdote di Dio i divini misteri dobbiamo
rammentarci del rispetto e della buona educazione: non sventolare da
ogni parte le nostre preghiere con voci disordinate, né pronunziare con
rumorosa loquacità una supplica che deve essere affidata a Dio in umile
e devoto contegno. Dio non è uno che ascolta la voce, ma il cuore. Non è
necessario gridare per richiamare l’attenzione di Dio, perché egli vede
i nostri pensieri. Lo dimostra molto bene quando dice: «Perché mai
pensate cose malvage nel vostro cuore?» (Mt 9, 4). E in altro luogo
dice: «E tutte le chiese sapranno che io sono colui che scruta gli
affetti e i pensieri» (Ap 2, 23).
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V. Quod Anna, in primo Regnorum
libro, Ecclesiae typum portans, custodit et servat; quae Dominum non
clamosa petitione, sed tacite et modeste intra ipsas pectoris latebras
precabatur. Loquebatur prece occulta, sed manifesta fide; loquebatur,
non voce, sed corde, quia sic Deum sciebat audire: et impetravit
efficaciter quod petiit, quia fideliter postulavit. Declarat Scriptura
divina quae dicit: Loquebatur in corde suo, et labia ejus movebantur,
et vox ejus non audiebatur; et exaudivit eam Deus (I Reg. I, 13).
Item legimus in Psalmis: Dicite in cordibus et in stratis vestris, et
transpungimini (Psal. IV, 5). Per Hieremiam quoque haec eadem
Spiritus sanctus suggerit et docet dicens: In sensu autem tibi debet
adorari Deus (Baruch, VI, 5).
VI. Adorans autem, fratres
dilectissimi, nec illud ignoret quemadmodum in templo cum Pharisaeo
Publicanus oraverit, non allevatis in coelum impudenter oculis, nec
manibus insolenter erectis, sed pectus suum pulsans, et peccata intus
inclusa contestans, divinae misericordiae implorabat auxilium. Et cum
sibi Pharisaeus placeret, sanctificari hic magis meruit qui sic rogavit,
qui spem salutis non in fiducia innocentiae suae posuit, cum innocens
nemo sit, sed peccata confessus humiliter oravit, et exaudivit orantem
qui humilibus ignoscit. Quae Dominus in Evangelio suo ponit et dicit:
Homines duo ascenderunt in templum orare, unus pharisaeus et unus
publicanus. Pharisaeus cum stetisset, talia apud se precabatur:
Deus, gratias tibi ago quia non sum sicut caeteri homines, injusti,
raptores, adulteri, quomodo et publicanus iste. Jejuno bis in sabbato,
decimas do omnium quaecumque possideo. Publicanus autem de longinquo
stabat, et neque oculos volebat ad coelum levare, sed percutiebat pectus
suum dicens: Deus, propitius esto mihi peccatori.
Dico
vobis, descendit hic justificatus in domum suam magis quam ille
pharisaeus. Quia omnis qui se extollit humiliabitur, et qui se humiliat
exaltabitur (Luc. XVIII, 10-14).
VII. Quae
nos, fratres dilectissimi, de divina lectione discentes, postquam
cognovimus qualiter ad orationem accedere debeamus, cognoscamus, docente
Domino, et quid oremus. Sic, inquit, orate: PATER NOSTER
QUI ES IN COELIS, SANCTIFICETUR NOMEN TUUM, ADVENIAT REGNUM TUUM, FIAT
VOLUNTAS TUA SICUT IN COELO ET IN TERRA: PANEM NOSTRUM QUOTIDIANUM DA
NOBIS HODIE, ET REMITTE NOBIS DEBITA NOSTRA SICUT ET NOS REMITTIMUS
DEBITORIBUS NOSTRIS; ET NE NOS PATIARIS INDUCI IN TENTATIONEM, SED
LIBERA NOS A MALO. AMEN (Matth. VI, 9-13).
VIII. Ante
omnia, pacis doctor atque unitatis magister singillatim noluit et
privatim precem fieri, ut quis cum precatur, non pro se tantum precetur.
Non enim dicimus, Pater meus qui es in coelis, nec Panem meum
da mihi hodie; nec dimitti sibi tantum unusquisque debitum postulat,
aut ut in tentationem non inducatur, atque a malo liberetur, pro se 206
solo rogat. Publica est nobis et communis oratio; et quando oramus, non
pro uno sed pro toto populo oramus, quia totus populus unum sumus.
Deus pacis et
concordiae magister, qui docuit unitatem, sic orare unum pro omnibus
voluit quomodo in uno omnes ipse portavit.
Hanc
orationis legem servaverunt tres pueri in camino ignis inclusi,
consonantes in prece, et spiritus consensione concordes. Quod declarat
Scripturae divinae fides: et dum docet quomodo oraverint tales, dat
exemplum quod imitari in precibus debeamus, ut tales esse possimus:
Tunc ille tres, inquit, quasi ex uno ore hymnum canebant et
benedicebant Dominum (Dan. III, 51). Loquebantur quasi ex uno ore,
et nondum illos Christus docuerat orare.
Et idcirco
orantibus fuit impetrabilis et efficax sermo, quia promerebatur Dominum
pacifica et simplex et spiritalis oratio. Sic et Apostolos cum
discipulis post ascensum Domini invenimus orasse: Erant, inquit,
perseverantes omnes unanimes in oratione cum mulieribus et Maria quae
fuerat mater Jesu, et fratribus ejus (Act. I, 14). Perseverabant in
oratione unanimes, orationis suae et instantiam simul et concordiam
declarantes: quia Deus, qui inhabitare facit unanimes in domo (Psal.
LXVII, 7),
non admittit in divinam et aeternam domum nisi eos apud quos est
unanimis oratio.
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5. Per questo nel primo libro dei Re, Anna, che conteneva in sé la figura della Chiesa, custodiva e conservava quelle cose che chiedeva a Dio, non domandandole a gran voce, ma sommessamente e con discrezione, anzi, nel segreto stesso del cuore. Parlava con preghiera nascosta, ma con fede manifesta. Parlava non con la voce ma con il cuore, poiché sapeva che così Dio ascolta. Ottenne efficacemente ciò che chiese, perché domandò con fiducia. Lo afferma chiaramente la divina Scrittura: Pregava in cuor suo e muoveva soltanto le sue labbra, ma la voce non si udiva, e l’ascoltò il Signore (Cfr. 1 Sam 1, 13). Allo stesso modo leggiamo nei salmi: Parlate nei vostri cuori, e pentitevi sul vostro giaciglio (Cfr. Sal 4, 5). Per mezzo dello stesso Geremia lo Spirito Santo consiglia e insegna dicendo: Tu, o Signore, devi essere adorato nella coscienza (Cfr. Bar 6, 5).
6. Pertanto, fratelli
dilettissimi, chi prega non ignori in quale modo il pubblicano abbia
pregato assieme al fariseo nel tempio. Non teneva gli occhi alzati al
cielo con impudenza, non sollevava smodatamente le mani, ma picchiandosi
il petto e condannando i peccati racchiusi nel suo intimo, implorava
l’aiuto della divina misericordia. E mentre il fariseo si compiaceva di
se stesso, fu piuttosto il pubblicano che meritò di essere giustificato,
perché pregava nel modo giusto, perché non aveva riposto la speranza di
salvezza nella fiducia della sua innocenza, dal momento che nessuno è
innocente. Pregava dopo aver confessato umilmente i suoi peccati. E così
colui che perdona agli umili ascoltò la sua preghiera. Nel suo Vangelo
il Signore osserva e dice: «Due uomini scesero al Tempio per pregare,
uno era un fariseo, l’altro un pubblicano. Dopo che il fariseo si mise
in piedi davanti a Dio, pregava con tali parole, fra sé e sé: Dio, ti
ringrazio, perché non sono come gli altri uomini ingiusti, rapinatori,
adulteri, come anche questo pubblicano. Io digiuno due volte al sabato,
do la decima di tutti i beni che possiedo. Ma il pubblicano stava in
piedi lontano e non osava sollevare gli occhi al cielo ma si batteva il
petto, dicendo: Dio, sii propizio a me peccatore. In verità io vi dico:
costui tornò a casa sua giustificato più che quel fariseo, perché chi si
innalza sarà umiliato e chi si umilia sarà innalzato» (Lc 18, 10-14).
7. Fratelli carissimi, apprendendo
questo dalla lettura del Vangelo, dopo che abbiamo imparato in che modo
dobbiamo avvicinarci alla preghiera, apprendiamo anche con quali parole
dobbiamo pregare, poiché l’insegna il Signore. Dice: «Pregate così:
Padre nostro, che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il
tuo regno, sia fatta la tua volontà, in cielo e sulla terra, dà a noi
oggi il pane quotidiano, e rimetti a noi i nostri debiti, così come
anche noi li rimettiamo ai nostri debitori e non permettere che noi
siamo indotti in tentazione, ma liberaci dal male» (Mt 6, 9-13).
8. Innanzitutto il dottore della
pace e maestro dell’unità non volle che la preghiera fosse
esclusivamente individuale e privata, cioè egoistica, come quando uno
prega soltanto per sé. Non diciamo «Padre mio, che sei nei cieli», né:
«Dammi oggi il mio pane», né ciascuno chiede che sia rimesso soltanto il
suo debito, o implora per sé solo di non essere indotto in tentazione o
di essere liberato dal male. Per noi la preghiera è pubblica e
universale, e quando preghiamo, non imploriamo per uno solo, ma per
tutto il popolo, poiché tutto il popolo forma una cosa sola.
Il Dio della pace e maestro della
concordia, che ha insegnato l’unità, volle che ciascuno pregasse per
tutti, così come egli portò tutti nella persona di uno solo.
Osservarono questa legge della
preghiera i tre fanciulli rinchiusi nella fornace di fuoco, quando si
accordarono all’unisono nella preghiera e furono unanimi nell’accordo
dello spirito. Lo afferma la divina Scrittura. Dicendoci che hanno
pregato uniti, ci dà un modello da seguire, perché facciamo così anche
noi. Allora, dice, quei tre a una sola voce cantavano un inno e
benedicevano Dio (Cfr. Dn 3, 51). Parlavano come a una sola voce, e
Cristo non aveva ancora insegnato loro a pregare.
Proprio perché pregavano così, le
loro parole furono efficaci ed esaudite: la preghiera ispirata alla
pace, semplice e interiore si guadagna la benevolenza di Dio. Troviamo
scritto che gli apostoli pregavano così assieme ai discepoli dopo
l’ascensione del Signore. «Erano», si dice, «tutti assidui e concordi
nella preghiera insieme con alcune donne e con Maria, la Madre di Gesù,
e con i fratelli di lui» (At 1, 14). Erano assidui e concordi nella
preghiera, manifestando, sia con l’assiduità della loro preghiera sia
con la concordia, che Dio, il quale fa abitare unanimi (Cfr. Sal 67, 7)
nella casa, non ammette nella divina ed eterna dimora se non coloro che
pregano in fusione di cuori.
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IX.
Qualia autem sunt, fratres dilectissimi, orationis Dominicae sacramenta,
quam multa, quam magna, breviter in sermone collecta, sed in virtute
spiritaliter copiosa, ut nihil omnino praetermissum sit quod non in
precibus atque orationibus nostris coelestis doctrinae compendio
comprehendatur. Sic, ait, orate: PATER NOSTER QUI ES IN
COELIS.
Homo, novus, renatus, et Deo suo
per gratiam ejus restitutus, Pater primo in loco dicit, quia
filius esse jam coepit. In sua, inquit, propria venit, et sui
eum non receperunt.
Quotquot autem eum receperunt, dedit illis potestatem
ut filii Dei fierent, his qui credunt in nomine ejus (Joan. I, 11, 12). Qui ergo credidit in nomine ejus, et factus est Dei
filius, hinc debet incipere ut et gratias agat et profiteatur se Dei
filium, dum nominat patrem sibi esse in coelis Deum; contestetur quoque
inter prima statim nativitatis suae verba renuntiasse se terreno et
carnali patri, et patrem solum nosse se et habere coepisse qui sit in
coelis, sicut scriptum est: Qui dicunt patri et matri: Non novi te,
et filios suos non agnoverunt, hi custodierunt praecepta tua et
testamentum tuum servaverunt (Deut. XXXIII, 9).
Item Dominus in Evangelio suo praecepit ne vocemus nobis patrem in
terra, quod sit scilicet nobis unus pater qui est in coelis (Matth.
XXIII, 9). Et discipulo qui
mentionem defuncti patris fecerat respondit: Sine mortui mortuos suos
sepeliant (Matth.
VIII, 22). Dixerat enim patrem
suum mortuum, cum sit credentium Pater vivus.
X. Nec hoc
solum, fratres dilectissimi, animadvertere et intelligere debemus, quod
appellemus Patrem qui sit in coelis, sed conjungimus et dicimus, PATER
NOSTER, id est eorum qui credunt, eorum qui, per eum sanctificati et
gratiae spiritalis nativitate reparati, filii Dei esse coeperunt.
Quae vox
etiam Judaeos perstringit et percutit, qui Christum, sibi per Prophetas
annuntiatum et ad se prius missum, non tantum infideliter spreverunt,
sed et crudeliter necaverunt: qui jam non possunt patrem Deum vocare,
cum Dominus eos confundat et redarguat dicens: Vos de diabolo patre
nati estis, et concupiscentias patris vestri facere vultis.
Ille enim homicida fuit ab initio, et in veritate non
stetit, quia veritas non est in illo (Joan. VIII, 44).
Et per Esaiam
prophetam Deus clamat indignans:
Filios
generavi et exaltavi,
In quorum
exprobrationem Christiani quando oramus, PATER NOSTER dicimus, quia
noster esse coepit et Judaeorum, qui eum relinquerunt, esse desiit. Nec
peccator populus potest esse filius, sed quibus remissa peccatorum
datur, eis filiorum nomen adscribitur, et eis aeternitas repromittur,
Domino ipso dicente: Omnis qui facit peccatum servus est peccati.
Servus autem non manet in domo in aeternum, filius autem
manet in aeternum (Joan. VIII, 34, 35).
XI. Quanta
autem Domini indulgentia, quanta circa nos dignationis ejus et bonitatis
ubertas, qui sic nos voluerit orationem celebrare in conspectu Dei ut
Deum patrem vocemus, et, ut est Christus Dei filius, sic et nos Dei
filios nuncupemus! Quod nomen nemo nostrum in oratione auderet
attingere, nisi ipse nobis sic permisisset orare.
Meminisse
itaque, fratres dilectissimi, et scire debemus quia, quando patrem Deum
dicimus, quasi filii Dei agere debemus, ut, quomodo nos nobis placemus
de Deo patre, sit sibi placeat et ille de nobis. Conversemur quasi Dei
templa, ut Deum in nobis constet habitare: nec sit degener actus noster
a spiritu, ut qui coelestes et spiritales esse coepimus, non nisi
spiritalia et coelestia cogitemus et agamus,
quia et ipse
Dominus Deus dixit: Eos qui clarificant me clarificabo, et qui me
spernit spernetur (I Reg.
II, 30).
Beatus quoque Apostolus in Epistola sua posuit: Non estis vestri.
Empti enim estis pretio magno. Clarificate et portate Deum in
corpore vestro (I Cor. VI, 19, 20).
XII. Post hoc dicimus: SANCTICETUR
NOMEN TUUM. Non quod optemus Deo ut sanctificetur orationibus nostris,
sed quod petamus ab eo ut nomen ejus sanctificetur in nobis. Caeterum a
quo Deus sanctificatur, qui ipse sanctificat? Sed quia ipse dixit:
Sancti estote, quoniam et ego sanctus sum (Lev. II, 44), id petimus
et rogamus, ut, qui in Baptismo sanctificati sumus, in eo quod esse
coepimus perseveremus. Et hoc quotidie deprecamur. Opus est enim nobis
quotidiana sanctificatione, ut, qui quotidie delinquimus, delicta nostra
sanctificatione assidua repurgemus. Quae autem sit sanctificatio quae
nobis de Dei dignatione confertur Apostolus praedicat dicens: Neque
fornicarii, neque idolis servientes, neque adulteri, neque molles, neque
masculorum appetitores, neque fures, neque fraudulenti, neque ebriosi,
neque maledici, neque raptores regnum Dei consequentur. Et haec
quidem fuistis; sed abluti estis, sed justificati estis, sed
sanctificati estis in nomine Domini nostri Jesu Christi et in Spiritu
Dei nostri (I Cor. VI, 9-11).
Sanctificatos nos dicit in nomine
Domini Jesu Christi et in Spiritu Dei nostri. Haec sanctificatio ut in
nobis permaneat oramus. Et quia Dominus et judex noster sanato a se et
vivificato comminatur jam non delinquere, ne quid ei deterius fiat, hanc
continuis orationibus precem facimus, hoc diebus ac noctibus postulamus,
ut sanctificatio et vivificatio quae de Dei gratia sumitur ipsius
protectione servetur. |
9. Come sono numerose e grandi le ricchezze
della preghiera del Signore! Sono riunite in poche parole ma di una
densità spirituale inesauribile, al punto che niente di tutto ciò che
deve costituire la nostra preghiera manca in questo riassunto della
dottrina celeste. È detto: Pregate così: Padre nostro che sei nei cieli.
L’uomo nuovo, che è rinato e reso a Dio per la grazia, dica
anzitutto:
Padre, perché è diventato figlio. È venuto in casa sua e i suoi non
l’hanno ricevuto. Ma a tutti coloro che l’hanno ricevuto, egli ha dato
il potere di diventare figli di Dio, a quelli che credono nel suo nome
(Gv 1, 12). Colui che ha creduto nel suo nome ed è diventato figlio di
Dio deve cominciare col rendere grazie e professare che è figlio di Dio.
E quando chiama Padre il Dio dei cieli, con questo attesta che rinunzia
al padre terreno e carnale della sua prima nascita per riconoscere un
solo Padre che è nei cieli. È scritto infatti:
Quelli che dicono al padre e alla madre « non ti conosco », e non
riconoscono i loro figli, questi hanno osservato la tua parola e
custodito la tua alleanza
(Dt 33, 9).
Anche il Signore ci ordina nel Vangelo di non chiamare nessuno
sulla terra « padre », poiché abbiamo un solo Padre che è nei cieli
(Cfr. Mt 23,9). Al discepolo che ricorda il padre morto, risponde:
Lascia che i morti seppelliscano i morti {Mt 8, 22). Il discepolo
parlava di un padre morto, mentre il Padre dei credenti è vivo.
10. Fratelli amatissimi, non basta prendere coscienza che noi
invochiamo il Padre che è nei cieli. Aggiungiamo: Padre nostro, cioè
padre di quelli che credono, di quelli che sono stati da lui santificati
e sono rinati per la grazia spirituale: quelli hanno cominciato ad
essere figli di Dio.
Questa parola è una bestemmia e una critica per gli Ebrei.
Costoro nella loro infedeltà hanno disprezzato il Cristo che fu loro
annunziato dai profeti e inviato anzitutto per loro; e per giunta lo
hanno crudelmente condannato a morte. Non possono chiamare più Dio loro
Padre perché il Signore ribatté per loro confusione:
Voi avete il diavolo per padre e i desideri di vostro padre volete
compiere. Egli era omicida fin dal principio e non ha perseverato nella
verità perché non ha verità in sé (Gv 8, 44).
E per mezzo del profeta Isaia, Dio grida indignato:
Ho
nutrito dei figli e li ho allevati,
Per biasimarli, i
cristiani dicono pregando: Padre nostro; infatti egli ha cominciato a
diventare nostro e ha cessato di essere quello degli Ebrei, che l’hanno
abbandonato. Il popolo prevaricatore non può essere figlio; ma quelli ai
quali furono rimessi i peccati, meritano questo titolo e ricevono la
promessa dell’eternità, secondo la parola del Signore: Colui che
commette il peccato è schiavo del peccato. Lo schiavo non resta sempre
nella casa, ma il figlio vi resta in eterno (Cfr. Gv 8,34-35).
11.
Quanto è grande la misericordia del Signore, quanto è grande il suo
favore e la sua bontà, per farci pregare così in presenza di Dio fino a
chiamarlo Padre! E come il Cristo è Figlio di Dio, così anche noi siamo
chiamati figli. Nessuno di noi avrebbe mai osato adoperare questa parola
nella preghiera: bisognava che il Signore stesso ci incoraggiasse.
Ma bisogna che ci ricordiamo, o fratelli carissimi, quando
chiamiamo Dio nostro Padre, che dobbiamo comportarci da figli di Dio. Se
ci compiacciamo in Dio, nostro Padre, anche lui deve potersi compiacere
di noi. Dobbiamo essere come i templi di Dio in cui gli uomini possano
incontrare la sua presenza. La nostra condotta non deve tradire lo
Spirito; abbiamo cominciato a diventare celesti e spirituali, dobbiamo
pensare ad operare tutto ciò che è celeste e spirituale.
Lo stesso Signore
Iddio ha detto:
Onorerò quelli che mi onorano, ma quelli che mi disprezzano saranno
disprezzati (1 Sam 2, 30). L’Apostolo dice nella sua lettera:
Non
appartenete più a voi. Siete stati comprati a gran prezzo. Glorificate e
portate Dio nel vostro corpo (1 Cor 6, 19).
12.
E dopo diciamo: Sia santificato il tuo Nome. Non che auguriamo a Dio che
sia santificato dalle nostre preghiere, ma gli chiediamo che il suo nome
sia santificato in noi. Chi potrebbe santificare Dio, dato che è lui che
santifica? Ma ispirandoci a quelle parole:
Siate santi perché io sono santo (Lv 20, 26),
chiediamo che santificati dal battesimo noi perseveriamo in quello che
abbiamo cominciato ad essere. E questo, lo chiediamo ogni giorno. È
necessario santificarci ogni giorno, perché ogni giorno cadiamo;
dobbiamo purificare i nostri peccati con una santificazione
continuamente rinnovellata. Gli aspetti di questa santità, che dobbiamo
alla condiscendenza divina, sono espressi da quel testo dell’Apostolo:
Né
impudichi, né idolatri, né adulteri, né effeminati, né infami, né ladri,
né avari, nemmeno ebbri, calunniatori o scrocconi entreranno nel regno
di Dio. E questo voi siete; ma siete stati purificati, ma siete stati
giustificati, ma siete stati santificati per il Nome del Signore Gesù
Cristo e per lo Spirito del nostro Dio
(1 Cor 6, 9-11).
Egli ci dichiara
dunque santificati per il nome di nostro Signore Gesù Cristo e per lo
Spirito del nostro Dio. Ricorriamo dunque alla preghiera affinché resti
in noi tale santità. Ricordiamoci che il nostro Signore e Giudice ha
ordinato all’uomo che aveva appena guarito e reso alla vita, di
non peccare più, perché non gli capitasse
peggio ancora (Giovanni V, 14); per
questo domandiamo continuamente, preghiamo giorno e notte, onde poter
conservare col soccorso di Dio, la santità e la vita che dobbiamo alla
sua grazia divina. |
XIII. Sequitur in oratione:
ADVENIAT REGNUM TUUM. Regnum etiam Dei repraesentari nobis petimus,
sicuti et nomen ejus, ut in nobis sanctificetur postulamus.
Nam Deus
quando non regnat? aut apud eum quando incipit quod et semper fuit et
esse non desinit? Nostrum regnum petimus advenire a Deo nobis
repromissum, Christi sanguine et passione quaesitum; ut, qui in saeculo
ante servivimus, postmodum Christo dominante regnemus, sicut ipse
pollicetur et dicit: Venite, benedicti Patris mei, percipite regnum
quod vobis paratum est ab 208 origine mundi (Matth. XXV, 34).
Potest vero,
fratres dilectissimi, et ipse Christus esse regnum Dei, quem venire
quotidie cupimus, cujus adventus ut cito nobis repraesentetur optamus.
Nam, cum resurrectio ipse nostra
sit, quia in ipso resurgimus, sic et regnum Dei potest ipse intelligi,
quia in illo regnaturi sumus.
Bene autem regnum Dei petimus, id
est regnum coeleste, quia est et terrestre regnum. Sed qui renuntiavit
jam saeculo, major est et honoribus ejus et regno. Et ideo, qui se Deo
et Christo dedicat, non terrena sed coelestia regna desiderat.
Continua autem oratione et prece
opus est ne excidamus a regno coelesti, sicut Judaei, quibus hoc prius
promissum fuerat, exciderunt, Domino manifestante et probante: Multi,
inquit, venient ab Oriente et Occidente, et recumbent cum Abraham et
Isaac et Jacob in regno coelorum; filii autem regni expellentur in
tenebras exteriores. Illic erit ploratio et stridor dentium (Matth.
VIII, 11, 12).
Ostendit quia ante filii regni
Judaei erant, quando et filii Dei esse perseverabant. Postquam cessavit
circa illos nomen paternum, cessavit et regnum. Et ideo Christiani, qui
in oratione appellare patrem Deum coepimus, nos et ut regnum Dei nobis
veniat oramus.
XIV. Addimus quoque et dicimus:
FIAT VOLUNTAS TUA SICUT IN COELO ET IN TERRA; non ut Deus faciat quod
vult, sed ut nos facere possimus quod Deus vult. Nam Deo quis obsistit
quominus quod velit faciat? Sed quia nobis a diabolo obsistitur quominus
per omnia noster animus atque actus Deo obsequatur, oramus et petimus ut
fiat in nobis voluntas Dei, quae ut fiat, in nobis opus est Dei
voluntate, id est ope ejus et protectione; quia nemo suis viribus fortis
est, sed Dei indulgentia et misericordia tutus est.
Denique et
Dominus, infirmitatem hominis quem portabat ostendens, ait: Pater, si
fieri potest, transeat a me calix iste (Matth. XXVI, 39). Et
exemplum discipulis suis tribuens ut non voluntatem suam sed Dei
faciant, addidit dicens: Verumtamen non quod ego volo, sed quod tu
(Matth. XXVI, 39). Et alio loco dicit: Non descendi de coelo ut
faciam voluntatem meam, sed voluntatem ejus qui misit me (Joan. VI, 32).
Quod si
filius obaudivit ut faceret patris voluntatem, quanto magis servus
obaudire debet ut faciat domini voluntatem? sicut in Epistola sua
Joannes quoque ad faciendam Dei voluntatem hortatur et instruit dicens:
Nolite diligere mundum neque ea quae in mundo sunt. Si quis dilexerit
mundum, non est charitas Patris in illo, quia omne quod in mundo est,
concupiscentia carnis est, et concupiscentia oculorum, et ambitio
saeculi, quae non est a Patre, sed ex concupiscentia mundi: et
mundus transibit et concupiscentia ejus; qui autem fecerit voluntatem
Dei manet in aeternum, quomodo et Deus manet in aeternum (I Joan.
II, 15-17).
Qui in aeternum manere volumus,
Dei, qui aeternus est, voluntatem facere debemus.
XV. Voluntas
autem Dei est quam Christus et fecit et docuit. Humilitas in
conversatione, stabilita sin fide, verecundia in verbis, in factis
justitia, in operibus misericordia, in moribus disciplina, injuriam
facere non nosse, et factam posse tolerare, cum fratribus pacem tenere;
Deum toto corde diligere, amare in illo quod pater est, timere quod Deus
est; Christo nihil omnino praeponere, quia nec nobis quicquam ille
praeposuit; charitati ejus inseparabiliter adhaerere, cruci ejus
fortiter ac fidenter assistere; quando de ejus nomine et honore certamen
est, exhibere in sermone constantiam, qua confitemur, in quaestione
fiduciam, qua congredimur, in morte patientiam, qua coronamur. Hoc est
cohaeredem Christi esse velle, hoc est praeceptum Dei facere, hoc est
voluntatem 209 Patris adimplere.
XVI. Fieri autem petimus
voluntatem Dei in coelo et in terra; quod utrumque ad consummationem
nostrae incolumitatis pertinet et salutis. Nam, cum corpus e terra et
spiritum possideamus e coelo, ipsi terra et coelum sumus; et in utroque,
id est et corpore et spiritu, ut Dei voluntas fiat oramus.
Est enim inter carnem et spiritum
colluctatio, et discordantibus advers us se invicem quotidiana
congressio, ut non quae volumus ipsa faciamus, dum spiritus coelestia et
divina quaerit, caro terrena et saecularia concupiscit. Et ideo petimus
impense inter duo ista ope et auxilio Dei concordiam fieri, ut dum et in
spiritu et in carne voluntas Dei geritur, quae per eum renata est anima
servetur.
Quod aperte atque manifeste
apostolus Paulus sua voce declarat: Caro, inquit, concupiscit
adversus spiritum, et spiritus adversus carnem. Haec enim invicem
adversantur sibi, ut non quae vultis ipsa faciatis. Manifesta autem sunt
opera carnis, quae sunt adulteria, fornicationes, immunditiae,
spurcitiae, idololatria, veneficia, homicidia, inimicitiae,
contentiones, aemulationes, animositates, provocationes, simultates,
dissensiones, haereses, invidiae, ebrietates, comessationes, et his
similia, quae praedico vobis sicut praedixi, quoniam qui talia agunt
regnum Dei non possidebunt.
Fructus autem spiritus est charitas, gaudium, pax, magnanimitas, bonitas, fides, mansuetudo, continentia,
castitas (Gal. V, 17-22).
Et idcirco
quotidianis, immo continuis orationibus hoc precamur, et in coelo et in
terra voluntatem circa nos Dei fieri, quia haec est voluntas Dei, ut
terrena coelestibus cedant, spiritalia et divina praevaleant. |
13. La preghiera prosegue: Venga il regno tuo. Chiediamo che per
noi sia reso presente il regno, come desideravamo che fosse santificato
in noi il suo nome. Può Dio non regnare? Quando potrebbe incominciare
quel che è sempre esistito e che non può finire? Preghiamo per l’avvento
del regno promesso, acquisito a noi col sangue e la passione del Cristo.
Prima eravamo schiavi; chiediamo di regnare, sotto la sovranità del
Cristo. Egli stesso ce l’ha promesso, quando diceva:
Venite, o benedetti di mio Padre, prendete possesso del regno
preparato per voi fin dalla creazione del mondo (Mt 25, 34).
Può darsi anche, fratelli diletti, che il regno di Dio significhi
il Cristo in persona, lui che invochiamo ogni giorno con le nostre
preghiere e di cui vorremmo affrettare l’avvento con la nostra attesa.
Siccome è la nostra resurrezione — perché in lui risuscitiamo — egli può
anche essere il regno di Dio, perché in lui regneremo.
A buon diritto domandiamo il regno di Dio, cioè il regno del
cielo, che comprende anche il regno della terra. Ma colui che ha
disprezzato il secolo è al disopra dei suoi onori e dei suoi regni. Per
questo colui che si è dato a Dio e al Cristo non aspira ai regni della
terra, ma a quelli del cielo.
Abbiamo continuamente bisogno di pregare, per non perdere il
regno del cielo, come capitò agli Ebrei, ai quali fu dapprima promesso e
invece essi lo perdettero, secondo quanto dice il Signore:
Molti verranno dall'oriente e dall’occidente a prendere posto nel
banchetto con Abramo, Isacco e Giacobbe, mentre i figli del regno
saranno gettati nelle tenebre di fuori. Là ci sarà pianto e stridore di
denti (Mt 8, 11).
Egli mostra con ciò
che gli Ebrei erano i figli del regno fino a quando restarono figli di
Dio. Quando cessò la paternità di Dio, cessò pure il regno. Per questo,
noi cristiani, che nella nostra preghiera abbiamo chiamato Dio, nostro
Padre, preghiamo anche perché il suo regno venga in noi.
14. Aggiungiamo: Sia fatta la tua volontà come in cielo così in
terra. Non che Dio faccia quello che vuole, ma che noi possiamo fare
quello che egli vuole. Chi può impedire a Dio di fare ciò che vuole? Ma
siamo contrariati dal demonio, che ci impedisce di obbedire in ogni
cosa, interiormente ed esteriormente, alla volontà di Dio. Per questo
chiediamo che la sua volontà si compia in noi; ma perché essa si compia,
è necessario il suo aiuto. Nessuno è forte per le proprie risorse, ma la
sua forza è nella bontà e nella misericordia di Dio.
Il Signore stesso manifesta la debolezza che aveva assunta,
quando dice:
Padre, se è possibile, si allontani da me questo calice
(Mt 26, 39). E per provare ai suoi discepoli che non faceva la propria
volontà, ma quella di Dio, aggiunge:
Però non si compia la mia, ma la tua volontà
(Lc 22, 24). In un altro passo precisa:
Sono disceso dal cielo per fare
non la mia volontà, ma la volontà di Colui che mi ha mandato
(Gv VI, 38).
Se il Figlio si è preoccupato di fare la volontà del Padre, con
quanta maggior ragione deve il servo affrettarsi a fare la volontà del
Signore, come ci esorta Giovanni nella sua epistola, quando dice:
Non
amate né il mondo né quel che è nel mondo. Se qualcuno ama il mondo,
l’amore del Padre non è in lui. Nulla di quanto esiste nel mondo,
infatti — concupiscenza della carne, concupiscenza degli occhi, orgoglio
del secolo — nulla di ciò viene dal Padre, ma viene dal mondo. Ora il
mondo passerà con la sua concupiscenza, ma colui che fa la volontà di
Dio vive in eterno, perché Dio vive in eterno.
(1 Gv 2, 15-17).
Quelli che vogliono
vivere in eterno debbono dunque fare la volontà di Dio che è eterno.
15. La volontà di Dio
è quella che il Cristo ha fatto e insegnato. L’umiltà nel portamento, la
solidità della fede, la modestia nelle parole, la giustizia negli atti,
la misericordia nelle opere, la disciplina nei costumi; non fare il
male, sopportare il male che ci fanno, conservare la pace con i
fratelli, amare Dio con tutto il cuore, amarlo perché Padre, e temerlo
perché Dio; non preferire nulla al Cristo, perché egli ci ha preferiti a
tutto, aderire immancabilmente alla sua carità, tenerci sotto la croce
con coraggio e fiducia; quando si tratta di dare battaglia per il suo
nome o per il suo amore, essere costanti nelle parole, per dar prova di
fede nelle difficoltà, onde sostenere la lotta; e di pazienza nella
morte, onde ottenere la corona. Ecco quel che significa volere essere
coerede del Cristo, adempire il precetto di Dio, fare la volontà di Dio.
16.
Domandiamo che la volontà di Dio si faccia in cielo come sulla terra,
perché l’uno e l’altra contribuiscono al compimento della nostra
salvezza. Il corpo è della terra, lo spirito del cielo; noi siamo dunque
cielo e terra. E preghiamo che nell’uno e nell’altra, cioè nel nostro
corpo come nella nostra anima, si compia la volontà di Dio.
Ora c’è conflitto tra la carne e lo spirito e collisione
quotidiana tra i due che cozzano tra di loro. Non facciamo quel che
vogliamo: lo spirito cerca quel che è del cielo e di Dio, la carne quel
che è della terra e del secolo. Per questo domandiamo con insistenza che
l’aiuto di Dio li metta d’accordo, che la volontà di Dio si compia nello
spirito e nella carne e che sia salva l’anima che Dio ha fatto
rinascere.
È quel che san Paolo ci afferma chiaramente:
I
desideri della carne sono contrari a quelli dello spirito, e quelli
dello spirito contrari a quelli della carne; tra di loro c’è
opposizione, sicché voi non fate quel che volete. Si sa quel che produce
la carne: adulteri, fornicazioni, impurità, libertinaggio, idolatria,
sortilegi, omicidi, inimicizie, discordia, gelosia, collera, intrighi,
dissensi, fazioni, invidia, ubriachezze, orge, e altre cose simili. Vi
avverto, come ho già fatto: coloro che vi si abbandonano non
parteciperanno al regno di Dio. Quel che riguarda lo spirito, invece, è
carità, gioia, pace, longanimità, bontà, fede, mansuetudine, temperanza,
castità
(Gal 5, 17-23).
Per questo tutti i
giorni, anzi in ogni istante, chiediamo nelle nostre preghiere che la
volontà di Dio si faccia in cielo come in terra, perché la volontà di
Dio è che le cose della terra cedano il passo alle cose del cielo, che
vinca la parte dello spirito e di Dio. |
XVII. Potest et sic intelligi,
fratres dilectissimi, ut, quoniam mandat et monet Dominus etiam inimicos
diligere et pro iis quoque qui nos persequuntur orare, petamus et pro
illis qui adhuc terra sunt et necdum coelestes esse coeperunt, ut et
circa illos voluntas Dei fiat, quam Christus hominem conservando et
redintegrando perfecit.
Nam, cum discipuli ab eo non jam
terra appellentur, sed sal terrae (Matth. V, 13), et
Apostolus primum hominem vocet de terrae limo, secundum vero de coelo,
merito et nos, qui esse debemus patri Deo similes, qui solem suum
oriri facit super bonos et malos et pluit super justos et injustos.
(Matth. V, 45), sic, Christo monente, oramus et petimus ut precem
pro omnium salute faciamus;
ut, quomodo in coelo id est, in
nobis, per fidem nostram voluntas Dei facta est ut essemus e caelo, ita
et in terra, hoc est in illis non credentibus, fiat voluntas Dei, ut qui
adhuc sunt prima nativitate terreni, incipiant esse coelestes ex aqua et
spiritu nati.
XVIII.
Procedente oratione postulamus et dicimus: PANEM NOSTRUM QUOTIDIANUM DA
NOBIS HODIE.
Quod potest et spiraliter et simpliciter intelligi, quia et uterque
intellectus utilitate divina proficit ad salutem.
Nam panis
vitae Christus est; et panis hic omnium non est, sed noster est. Et
quomodo dicimus Pater noster, quia intelligentium et credentium
pater est, sic et panem nostrum vocamus, quia Christus eorum qui
corpus ejus contingunt panis est. Hunc autem panem dari nobis quotidie
postulamus, ne qui in Christo sumus et Eucharistiam quotidie ad cibum
salutis accipimus, intercedente aliquo graviore delicto, dum abstenti et
non communicantes a coelesti pane prohibemur, a Christi corpore
separemur, ipso praedicante et monente: Ego sum panis vitae qui de
coelo descendi. Si quis ederit de meo pane, vivet in aeternum. Panis
autem quem ergo dedero caro mea est pro saeculi vita (Joan. VI, 51).
Quando ergo
dicit in aeternum vivere si quis ederit de ejus pane, ut manifestum est
eos vivere qui corpus 210 ejus attingunt et Eucharistiam jure
communicationis accipiunt, ita contra timendum est et orandum ne, dum
quis abstentus separatur a Christi corpore, procul remaneat a salute,
comminante ipso et dicente: Nisi ederitis carnem Filii hominis et
biberitis sanguinem ejus, non habebitis vitam in vobis (Joan. VI, 53).
Et ideo panem
nostrum, id est Christum, dari nobis quotidie petimus, ut, qui in
Christo manemus et vivimus, a sanctificatione ejus et corpore non
recedamus.
XIX. Potest
vero et sic intelligi, ut qui saeculo renuntiavimus, et divitias ejus et
pompas fide gratiae spiritalis abjecimus, cibum nobis tantum petamus et
victum, quando instruat Dominus et dicat: Qui non renuntiat omnibus
quae sunt ejus, non potest meus discipulus esse (Luc. XIV, 33). Qui
autem Christi coepit esse discipulus, secundum magistri sui vocem
renuntians omnibus, diurnum debet cibum petere nec in longum desideria
petitionis extendere, ipso iterum Domino praescribente et dicente:
Nolite in crastinum cogitare; crastinus enim ipse cogitabit sibi:
sufficit diei malitia sua (Matth. VI, 54).
Merito ergo
Christi discipulus victum sibi in diem postulat, qui de crastino
cogitare prohibetur; quia et contrarium sibi fit et repugnans ut
quaeramus in saeculo diu vivere, qui petimus regnum Dei velociter
advenire. Sic et beatus Apostolus monet, formans et corroborans spei
nostrae ac fidei firmitatem: Nihil, inquit, intulimus in hunc
mundum, verum nec auferre possumus. Habentes itaque exhibitionem et
tegumentum, his contenti simus. Qui autem volunt divites fieri, incidunt
in tentationem et muscipulam et desideria multa et nocentia, quae
mergunt hominem in perditionem et in interitum. Radix enim omnium
malorum est cupiditas; quam quidam appetentes, naufragaverunt a fide et
inseruerunt se doloribus multis. (I Tim. VI, 7-10).
XX. Docet non
tantum contemnendas, sed et periculosas esse divitias, illic esse
radicem malorum blandientium, caecitatem mentis humanae occulta
deceptione fallentium. Unde et divitem stultum saeculares copias
cogitantem et se exuberantium fructuum largitate jactantem redarguit
Deus dicens: Stulte, hac nocte expostulatur anima tua. Quae ergo
parasti cujus erunt (Luc. XII, 20)?
Laetabatur
stultus in fructibus ipsa nocte moriturus; et cui vita jam deerat,
victus abundantiam cogitabat. Contra autem Dominus perfectum et
consummatum docet fieri qui, omnibus suis venditis atque in usum
pauperum distributis, thesaurum sibi condat in coelo.
Eum dicit
posse se sequi et gloriam Dominicae passionis imitari qui, expeditus et
succinctus, nullis laqueis rei familiaris involvitur, sed solutus ac
liber facultates suas ad Deum ante praemissas ipse quoque comitatur
(Matth. XIX, 21). Ad quod ut possit unusquisque nostrum parare se,
sic discat orare et de orationis lege qualis esse debeat noscere. |
17. Fratelli diletti,
queste parole possono ancora significare altro: voi sapete che il
Signore ci esorta ad amare i nostri nemici e a pregare per quelli che ci
perseguitano. Dobbiamo dunque pregare perché quelli che sono ancora
della terra e non del cielo compiano anch’essi questa volontà di Dio
alla quale il Cristo si è sottomesso perfettamente per la salvezza
dell’umanità.
Il Cristo chiama i suoi discepoli non più terra, ma sale della
terra (Cfr. Mt 5,13); e l’Apostolo dice che il primo uomo è tratto dal
fango della terra, il secondo dal cielo; dobbiamo somigliare al nostro
Padre del cielo che fa levare il sole sui buoni e sui cattivi, che
concede la pioggia ai giusti e agli ingiusti (Cfr. Mt 5,45); per questo
motivo il Cristo ci fa pregare per la salvezza di tutti gli uomini.
In cielo, cioè in noi,
con la fede, si fa la volontà di Dio e noi diventiamo celesti; così pure
sulla terra, cioè nei non credenti, chiediamo che si compia la volontà
di Dio; che coloro i quali per la loro prima nascita sono ancora
terrestri, diventino celesti nascendo dall’acqua e dallo Spirito.
18.
In seguito chiediamo: Dacci il nostro pane quotidiano. Queste parole
possono intendersi in senso spirituale e in senso letterale: le due
interpretazioni, nel disegno provvidenziale, debbono contribuire alla
nostra salvezza.
Il nostro pane di vita è il Cristo, e questo pane non è di tutti,
ma è nostro. Come diciamo Padre nostro, perché egli è il Padre di coloro
che hanno la fede, così chiamiamo il Cristo pane nostro, perché è il
pane di quelli che costituiscono il suo corpo. Per ottenere questo pane,
preghiamo tutti i giorni: non vorremmo essere costretti ad astenerci
dalla comunione a causa di una colpa più grave, dato che siamo nel
Cristo e riceviamo tutti i giorni l’eucarestia, come il nutrimento della
nostra salvezza. Sarebbe come privarci del pane del cielo, separarci dal
Corpo del Cristo, secondo il suo avvertimento:
Io
sono il pane vivente sceso dal cielo; se qualcuno mangia di questo pane,
vivrà in eterno; e il pane che darò è la mia carne per la vita del mondo
(Gv 6, 51).
Egli dice: Colui che mangia di questo pane vivrà in eterno, per
affermare che vivono coloro che tendono la mano verso il suo corpo e
ricevono l’eucarestia nella comunione; bisogna chiedere con timore che
coloro che si separano volontariamente dal Corpo del Cristo, non si
allontanino dalla salvezza. Il Signore ci ha messi in guardia:
Se non mangiate la carne del Figlio dell’Uomo, e non bevete il suo
Sangue, non avrete la vita in voi (Gv 6, 53).
Chiediamo dunque tutti
i giorni di ricevere il nostro pane, cioè il Cristo, per restare e
vivere nel Cristo, e non allontanarci dalla sua grazia e dal suo corpo.
19.
Possiamo anche intendere questa domanda nel modo seguente: abbiamo
rinunziato al secolo; per grazia della fede abbiamo respinto le sue
ricchezze e le sue seduzioni; chiediamo semplicemente il cibo, poiché il
Signore ci ha detto: Chiunque non rinunzia a tutto quanto possiede, non
può essere mio discepolo (Lc 14, 33). Colui che incomincia ad essere il
discepolo del Cristo, e rinunzia a tutto, secondo la parola del Maestro,
deve chiedere il cibo del giorno, e non preoccuparsi a lunga scadenza.
Il Signore ha detto ancora:
Non inquietatevi dunque per il domani; il domani porta con sé il suo
affanno. Ad ogni giorno basta la sua pena (Mt 6, 34).
Il discepolo chiede
dunque con ragione il cibo del giorno, poiché gli si proibisce di
occuparsi del domani. Non è giusto che coloro che chiedono che venga
presto il regno di Dio, cerchino di prolungare il loro soggiorno in
questo secolo. L’Apostolo ce ne avverte per formare, fortificare e
rafforzare la nostra fede e la nostra speranza.
Non
abbiamo portato nulla — egli dice — in questo mondo, così come non
possiamo portar via nulla. Perciò quando abbiamo il cibo e il vestito,
dobbiamo essere soddisfatti. Quanto a coloro che vogliono arricchirsi,
cadono nella tentazione, nella trappola, in molte concupiscenze funeste
che sommergono gli uomini nella rovina e nella perdizione. L’amore del
denaro è la radice di tutti i mali; quelli che vi si sono abbandonati
hanno fatto naufragio nella loro fede e hanno inflitto a se stessi
numerosi tormenti
(1 Tm 6, 7-10).
20. Il Cristo
c’insegna che le ricchezze sono più che disprezzabili: sono pericolose,
racchiudono la radice di tutti i mali perché le loro apparenze seducenti
e ingannatrici inducono in errore la mente umana. Alla stoltezza del
ricco che si compiaceva delle ricchezze di questo secolo e si
inorgogliva per i raccolti sovrabbondanti, Dio replicava:
Insensato, questa notte ti si chiederà l’anima. E chi avrà quel che tu
hai ammassato? (Luca XII, 20).
L’insensato si
gloriava dei raccolti, mentre doveva morire quella notte stessa. Pensava
all’abbondanza dei viveri ed era stato abbandonato dalla vita. Il
Signore afferma, invece, che è perfetto chi vende tutto quanto possiede,
lo distribuisce ai poveri e si costituisce un tesoro in cielo.
Aggiunge inoltre, che
possiamo seguire le sue orme e imitare la sua Passione gloriosa se ci
renderemo liberi e se ci disimpegneremo da tutte le preoccupazioni degli
affari domestici; se, rinunziando ai nostri beni, li offriamo a Dio come
segno della nostra oblazione
(Cfr. Mt 19,21). Per disporci a ciò, il
Signore c’insegna le leggi della preghiera. |
XXI. Neque enim deesse quotidianus
cibus potest justo, cum scriptum sit: Non occidet Dominus fame animam
justam (Prov. X, 93). Et iterum: Junior fui, et senui; et non
vidi justum derelictum, neque semen ejus quaerens panem (Psal.
XXXVI, 25).
Item Dominus
promittat et dicat: Nolite cogitare dicentes: Quid edemus, aut quid
bibemus, aut quid vestiemur? Haec enim nationes quaerunt. Scit autem
pater vester quia horum omnium indigetis. Quaerite primum regnum Dei et
justitiam ejus, et haec omnia apponentur vobis (Matth. VI, 31).
Quaerentibus
regnum et justitiam Dei omnia promittit apponi. Nam cum Dei sint omnia,
habenti Deum nihil deerit, si Deo ipse non desit. Sic Danieli, in leonum
lacu jussu regis incluso, prandium divinitus procuratur, et inter feras
esurientes et parcentes homo Dei pascitur (Dan. XIV, 30). Sic
alitur Helias in fuga; et in solitudine corvis ministrantibus, et 211
volucribus cibum sibi apportantibus, in persecutione nutritur (III
Reg. XVII, 6). Atque, o humanae malitiae detestanda crudelitas!
ferae parcunt, aves pascunt, et homines insidiantur et saeviunt.
XXII. Post
haec, et pro peccatis nostris deprecamur dicentes: ET REMITTE NOBIS
DEBITA NOSTRA SICUT ET NOS REMITTIMUS DEBITORIBUS NOSTRIS. Post
subsidium cibi petitur et venia delicti, ut qui a Deo pascitur in Deo
vivat, nec tantum praesenti et temporali vitae sed et aeternae
consulatur; ad quam veniri potest, si peccata donentur: quae debita
Dominus appellat, sicut in Evangelio suo dicit: Dimisi tibi omne
debitum, quia me rogasti (Matth. XVIII, 32).
Quam
necessarie autem, quam providenter et salutariter admonemur quod
peccatores sumus, qui pro peccatis rogare compellimur! ut, dum
indulgentia de Deo petitur, conscientiae suae animus recordetur. Ne quis
sibi quasi innocens placeat et se extollendo plus pereat, instruitur et
docetur peccare se quotidie, dum quotidie pro peccatis jubetur orare.
Sic denique
et Joannes in Epistola sua monet dicens: Si dixerimus quia peccatum
non habemus, nos ipsos decipimus, et veritas in nobis non est. Si
autem confessi fuerimus peccata nostra, fidelis et justus est Dominus
qui nobis peccata dimittat (I Joan. I, 8). In Epistola sua utrumque
complexus est, quod et rogare pro peccatis debeamus, et impetremus
indulgentiam cum rogamus. Ideo et fidelem dixit Dominum ad dimittenda
peccata, fidem pollicitationis suae reservantem; quia qui orare nos pro
debitis et peccatis docuit, paternam misericordiam promisit et veniam
secuturam.
XXIII.
Adjunxit plane et addidit legem, certa nos conditione et sponsione
constringens, ut sic nobis dimitti debita postulemus secundum quod et
ipsi debitoribus nostris dimittimus, scientes impetrari non posse quod
pro peccatis petimus, nisi et ipsi circa debitores nostros paria
fecerimus.
Idcirco et alio in loco dicit: In qua mensura mensi fueritis, in ea
remetietur vobis (Matth. VII, 2).
Et qui servus post dimissum sibi a
domino omne debitum conservo suo noluit ipse dimittere (Matth. XVIII,
34), in carcerem religatur: quia indulgere conservo suo noluit, quod
sibi a Domino indultum fuerat amisit. Quae adhuc fortius Christus in
praeceptis suis majore censurae suae vigore proponit: Cum steteritis,
inquit, ad orationem, remittite si quid habetis adversus aliquem, ut
et Pater vester qui in coelis est remittat peccata vestra vobis. Si
autem vos non remiseritis, neque Pater vester qui in coelis est remittet
vobis peccata vestra (Marc. XI, 25).
Excusatio tibi nulla in die
judicii superest, cum secundum tuam sententiam judiceris, et quod
feceris hoc et ipse patiaris. Pacificos enim et concordes atque unanimes
esse in domo sua Deus praecipit, et quales nos fecit secunda nativitate,
tales vult renatos perseverare; ut qui filii Dei esse coepimus, in Dei
pace maneamus, et quibus spiritus unus est, unus sit et animus et
sensus. Sic nec sacrificium Deus recipit dissidentis, et ab altari
revertentem prius fratri reconciliari jubet (Matth. V, 24), ut
pacificis precibus et Deus possit esse pacatus.
Sacrificium Deo majus est pax nostra et fraterna concordia, et de
unitate Patris et Filii et Spiritus sancti plebs adunata.
XXIV. Neque
enim in sacrificiis quae Abel et Cain primi obtulerunt munera eorum Deus
sed corda intuebatur, ut ille placeret in munere qui placebat in corde
(Gen. IX, 5). Abel pacificus et justus, dum Deo sacrificat
innocenter, docuit et caeteros, quando ad altare munus offerunt, sic
venire cum Dei timore, cum simplici corde, cum lege justitiae, cum
concordiae pace. Merito ille dum in sacrificio Dei talis est, ipse
postmodum sacrificium Deo factus est, ut martyrium primus ostendens
initiaret 212 sanguinis sui gloria Dominicam passionem qui et justitiam
Domini habuerat et pacem.
Tales denique a Domino coronantur, tales in die judicii cum Domino
judicabunt.
Caeterum
discordans et dissidens et pacem cum fratribus non habens, secundum quod
beatus Apostolus et Scriptura sancta testatur, nec si pro nomine Christi
occisus fuerit, crimen dissensionis fraternae poterit evadere, quia,
sicut scriptum est, Qui fratrem suum odit, homicida est, nec ad
regnum coelorum pervenit aut cum Deo vivit homicida (I Joan. III, 15),
non potest esse cum Christo qui imitator Judae maluit esse quam Christi.
Quale delictum est quod nec Baptismo sanguinis potest ablui? quale
crimen est quod martyrio non potest expiari?
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21. Il pane quotidiano non può mancare al giusto, poiché è
scritto:
Il Signore non permette che il giusto soffra di fame
(Pr 10, 3). E altrove:
Ero giovane e ora sono vecchio: non ho visto il giusto abbandonato né
la sua discendenza cercare il pane (Sal 36, 25).
Per questo il Signore promette:
Non
state a preoccuparvi e a dire: Che mangeremo, che berremo, o con che
cosa ci vestiremo? Di tutto ciò si preoccupano i pagani. Il Padre vostro
sa che ne avete bisogno. Cercate anzitutto il regno di Dio e la sua
giustizia, e avrete tutto ciò in più
(Mt 6, 31-33).
A coloro che cercano
il regno e la giustizia di Dio, egli promette di dare tutto in aggiunta.
Tutto, infatti, appartiene a Dio; a colui che possiede Dio non manca
nulla, se egli stesso non viene meno a Dio. Così Daniele, rinchiuso per
ordine del re nella fossa dei leoni, ricevette il pasto da Dio, e l’uomo
di Dio si nutrì in mezzo alle bestie feroci affamate che lo
risparmiavano. Nello stesso modo Elia è sostentato durante il viaggio e
durante la persecuzione, quando, nella solitudine, corvi e uccelli lo
servono e gli portano il cibo. O crudeltà detestabile della malizia
umana: gli animali feroci hanno riguardo, gli uccelli portano il cibo,
ma gli uomini preparano insidie ed esercitano la loro crudeltà !
22. Dopo ciò preghiamo per i nostri peccati: E rimetti a noi i
nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori. Dopo il
sostentamento chiediamo il perdono del peccato. Colui che è nutrito da
Dio deve vivere in Dio e preoccuparsi non solo della vita presente e
temporale, ma anche di quella eterna. Egli può accedervi se i peccati
gli sono rimessi. Il Signore li chiama debiti, secondo la parola del
Vangelo:
Io ti ho rimesso tutto il tuo debito,
perché tu mi hai supplicato (Mt 17, 32).
Quanto è necessario, saggio e salutare, che il Signore ci ricordi
che siamo peccatori, invitandoci a pregare per i nostri peccati! Così
ricorrendo all’indulgenza di Dio, ci rendiamo conto dello stato della
nostra coscienza. Affinché nessuno si compiaccia in sé come se fosse
innocente e si perda per questa iattanza, gli si ricorda che egli pecca
ogni giorno, chiedendogli di pregare ogni giorno per i suoi peccati.
Anche Giovanni ci
avverte nella sua epistola:
Se pretendiamo di essere senza peccato,
inganniamo noi stessi, e la verità non è in noi. Ma se riconosciamo i
nostri peccati, è fedele e giusto il Signore che ci perdonerà i nostri
peccati
(1 Gv 1, 8-9). Nella sua epistola egli unisce le due cose:
dobbiamo pregare per i nostri peccati e in questa preghiera implorare il
perdono. Afferma che il Signore è fedele nel perdonare i peccati,
secondo la sua promessa. Perché colui che c’insegna a pregare per i
nostri debiti e per i nostri peccati, promette in pari tempo una
misericordia paterna e il perdono.
23.
Il Signore precisa le condizioni del suo perdono: vuole che rimettiamo i
debiti ai nostri debitori, come noi chiediamo che ci siano rimessi i
nostri. Non possiamo chiedere la remissione dei nostri peccati, se non
agiamo nello stesso modo nei riguardi dei nostri debitori. Egli dice
altrove:
La misura con cui misurate
servirà per misurarvi (Mt 7, 2).
Il servo al quale il padrone aveva rimesso tutti i debiti, ma che
non volle agire nello stesso modo riguardo a un suo compagno, è gettato
in prigione. Non ha voluto perdonare al suo compagno, e perde il perdono
già avuto dal padrone. Nei suoi precetti, il Cristo inculca questa
verità con vigore severo.
Quando siete in piedi per pregare, perdonate se avete qualcosa contro
qualcuno, affinché il Padre vostro che è in cielo vi rimetta pure i
vostri peccati. Se non perdonate, il Padre vostro che è in cielo, non vi
perdonerà neanche le vostre offese
(Mc 11, 25-26).
Non avrai dunque
nessuna scusa nel giorno del giudizio, quando sarai giudicato secondo il
tuo comportamento: subirai quel che hai fatto subire. Dio ci prescrive
di conservare la pace e la concordia nella sua casa, e di vivere secondo
le leggi della nuova nascita; divenuti figli di Dio dobbiamo
salvaguardare la pace di Dio. All’unità dello Spirito deve corrispondere
l’unità delle anime e dei cuori. Dio non accetta il sacrificio dei
fautori di discordia, li respinge dall’altare affinché si riconcilino
prima con i loro fratelli
(Cfr. Mt 5,24): Dio vuole essere
propiziato con preghiere di pace. La più bella oblazione per Dio è la
nostra pace, la nostra concordia, l’unità, nel Padre, nel Figlio e nello
Spirito Santo, di tutto il popolo fedele.
24.
Nei primi sacrifici, offerti da Abele e da Caino, Dio non considerava le
offerte, ma i cuori: i doni erano graditi se lo erano i cuori. Il
pacifico e giusto Abele, che offre il suo sacrificio con animo puro
insegna agli altri che bisogna presentarsi, quando si offre il proprio
dono, col timore di Dio, col cuore semplice, col senso della giustizia,
con la concordia e la pace. Offrendo con tali disposizioni il sacrificio
a Dio, ha meritato di divenire egli stesso un’offerta preziosa e di dare
la prima testimonianza del martirio. Ha annunziato con la gloria del suo
sangue la passione del Signore, perché possedeva in sé la giustizia e la
pace del Signore. Tali esseri ottengono la corona, tali esseri
giudicheranno col Cristo, nel giorno del giudizio.
I dissidenti, invece, che non vivono in pace con i loro fratelli,
sono condannati dall’Apostolo e dal Vangelo; anche se si facessero
uccidere per il nome di Cristo resterebbero lo stesso colpevoli della
discordia seminata tra i fratelli; perché è scritto:
Chi odia il proprio fratello è
omicida; ora l’omicida non ha accesso nel regno dei cieli e non vive con
Dio
(1 Gv 3, 1). Chi preferisce imitare Giuda
piuttosto che il Cristo, non può essere col Cristo. Quanto è grande
questo misfatto, che neanche il battesimo del sangue può cancellare!
Quanto grave dev’essere questo capo di accusa che il martirio non può
espiare! |
XXV. Illud quoque necessarie
admonet Dominus ut in oratione dicamus: ET NE NOS PATIARIS INDUCI IN
TENTATIONEM. Qua in parte ostenditur nihil contra nos adversarium posse,
nisi Deus ante permiserit;
ut omnis timor noster, et devotio
atque observatio ad Deum convertatur, quando in tentationibus nostris
nihil malo liceat, nisi potestas inde tribuatur. Probat Scriptura divina
quae dicit: Venit Nabuchodonosor rex Babyloniae in Hierusalem, et
expugnabat eam, et dedit eam Dominus in manu ejus (IV Reg.
XXIV). Datur autem potestas adversus nos malo secundum nostra peccata, sicut
scriptum est:
Quis dedit in direptionem
Jacob
Et iterum,
Salomone peccante et a praeceptis atque a viis Domini recedente, positum
est: Et excitavit Dominus Satanam ipsi Salomoni (III Reg. XII).
XXVI.
Potestas vero dupliciter adversus nos datur, vel ad poenam cum
delinquimus, vel ad gloriam cum probamur; sicuti de Job factum videmus,
manifestante Deo et dicente: Ecce omnia quaecumque habet in manus
tuas do; sed ipsum cave ne tangas (Job, I, 12)?
Et Dominus in
Evangelio suo loquitur tempore passionis: Nullam haberes adversum me
potestatem, nisi datum esset tibi desuper (Joan. XIX, 11). Quando
autem rogamus ne in tentationem veniamus, admonemur infirmitatis et
imbellicitatis nostrae dum sic rogamus, ne quis se insolenter extollat,
ne quis sibi superbe atque arroganter aliquid assumat, ne quis sibi aut
confessionis aut passionis gloriam suam ducat, cum Dominus ipse
humilitatem docens dixerit: Vigilate et orate, ne veniatis in
tentationem. Spiritus quidem promptus est, caro autem infirma (Marc.
XIV, 38); ut, dum praecedit humilis et summissa confessio et datur
totum Deo, quicquid suppliciter cum timore et honore Dei petitur ipsius
pietate praestetur.
XXVII. Post
ista omnia in consummatione orationis venit clausula universas
petitiones et preces nostras collecta brevitate concludens. In novissimo
enim ponimus, SED LIBERA NOS A MALO,
comprehendentes
adversa cuncta quae contra nos in hoc mundo molitur inimicus; a quibus
potest esse fida et firma tutela, si nos Deus liberet, si deprecantibus
atque implorantibus opem suam praestet. Quando autem dicimus, LIBERA NOS
A MALO, nihil remanet quod ultra adhuc debeat postulari, quando semel
protectionem Dei adversus malum petamus; qua impetrata, contra omnia
quae diabolus et mundus operantur securi stamus et tuti. Quis enim ei de
saeculo metus est cui in saeculo Deus tutor est?
XXVIII. Quid
mirum, fratres dilectissimi, si oratio talis est quam Deus docuit, qui
magisterio suo omnem precem nostram salutari sermone breviavit?
Hoc jam per
Esaiam prophetam fuerat ante praedictum, cum, plenus Spiritu sancto de
Dei majestate ac pietate, loqueretur 213: Verbum consummana,
inquit, et brevians in justitia, quoniam sermonem breviatum faciet
Deus in toto orbe terrae (Isa. X, 22).
Nam, cum Dei
Sermo, Dominus noster Jesus Christus, omnibus venerit, et, colligens
doctos pariter et indoctos, omni sexui atque aetati praecepta salutis
ediderit, praeceptorum suorum fecit grande compendium, ut in disciplina
coelesti discentium memoria non laboraret, sed quod esset simplici fidei
necessarium velociter disceret.
Sic, cum
doceret quid sit vita aeterna, sacramentum vitae magna et divina
brevitate complexus est dicens: Haec est autem vita aeterna, ut
cognoscant te solum et verum Deum, et quem misisti Jesum Christum (Joan.
XVII, 8).
Item, cum de
Lege et Prophetis praecepta prima et majora decerperet, Audi,
inquit, Israel, Dominus Deus tuus Deus unus est. Et diliges Dominum
Deum tuum de toto corde tuo, et de tota anima tua, et de tota virtute
tua (Deut. VI, 4, 5).
Hoc
est primum mandatum. Et secundum simile est huic: Diliges proximum tibi
tamquam te ipsum (Marc. XII, 29-31). In his duobus praeceptis tota Lex pendet et
Prophetae (Matth.
XXII, 40). Et
iterum: Quaecumque volueritis ut faciant vobis homines bona, ita et
vos facite illis.
Haec est enim Lex et Prophetae (Ibid. VII, 12).
|
25.
Il Signore insiste su un’altra intenzione: Non sopportare che noi siamo
indotti in tentazione. Da queste parole risulta che l’avversario non può
nulla contro di noi senza il permesso preventivo di Dio.
Per questo dobbiamo volgere a Dio tutto il timore, la pietà e
l’attenzione, perché nelle tentazioni il potere del maligno dipende dal
potere di Dio. Il che prova la Scrittura, quando dice: Nabucodonosor, re di Babilonia,
venne a Gerusalemme e l’assediò, e il Signore la consegnò nelle sue mani
(2 Re 24, 11). Al Maligno è concesso il potere contro di noi, in ragione
dei nostri peccati, secondo la Scrittura:
Chi
ha abbandonato Giobbe al saccheggio
E a proposito di
Salomone che peccava e si allontanava dalle vie del Signore è detto:
E
il Signore suscitò Satana contro di lui(Cfr. 2 Re 12).
26.
Dio può dare il potere al demonio in due modi: per nostro castigo, se
abbiamo peccato; per nostra glorificazione, se accettiamo la prova.
Vediamo che questo fu il caso di Giobbe.
Ecco, tutto quanto gli appartiene io te lo consegno; solo non portare
la mano su di lui (Gb 12, 1).
Nel Vangelo il Signore dice, al momento della Passione: Non
avresti su di me nessun potere se non ti fosse stato dato dall’alto
(Cfr. Gv 19,11). Quando dunque preghiamo per non entrare in tentazione,
ci ricordiamo della nostra debolezza, affinché nessuno si consideri con
compiacenza, nessuno si inorgoglisca con insolenza, nessuno si
attribuisca la gloria della sua fedeltà o della sua passione, allorché
il Signore stesso ci insegna l’umiltà quando dice:
Vegliate e pregate per non entrare in tentazione. Lo spirito è ardente,
ma la carne è debole
(Marco XIV, 38). Se anzitutto facciamo professione d’umiltà, se
attribuiamo a Dio tutto quello che chiediamo con timore e riverenza,
possiamo essere sicuri che la sua bontà ce lo concederà.
27. Dopo tutto ciò, la preghiera finisce con una conclusione che
raccoglie brevemente tutte le domande. Alla fine diciamo: ma liberaci
dal male.
Comprendiamo in ciò quel che il nemico può macchinare in questo
mondo contro di noi, ma siamo sicuri di avere un potente appoggio, se
Dio ci libera, se concede il suo aiuto a coloro che l'implorano. Quando
dunque diciamo: Liberaci dal male, non ci resta più nulla da chiedere:
abbiamo domandato la protezione di Dio contro il male. Fatta questa
preghiera, siamo fortificati contro tutte le macchinazioni del demonio e
del mondo. Chi può temere il mondo, se Dio è, in questo mondo, il suo
protettore?
28. Quale meraviglia, fratelli
dilettissimi, se il «Padre nostro» è la preghiera che ci ha insegnato
Dio? Egli col suo insegnamento ha compendiato ogni nostra preghiera in
queste parole di salvezza.
Questo era già stato predetto
tramite il profeta Isaia, quando pieno di Spirito Santo aveva parlato
della maestà e della misericordia di Dio e della parola che tutto
contiene e tutto riassume in chiave di salvezza. Il profeta aveva anche
affermato che Dio si sarebbe rivolto a tutta la terra con piccole frasi
pregnanti (Cfr. Is 10,22).
E, in effetti, quando la Parola di
Dio, cioè nostro Signore Gesù Cristo, venne a tutti gli uomini, e
quando, radunati insieme i dotti e gli ignoranti, ebbe divulgato a ogni
sesso e a ogni età i precetti di salvezza, fece un grande compendio dei
suoi precetti, perché la memoria dei discepoli non si affaticasse nella
dottrina celeste, ma imparasse subito ciò che era necessario alla
semplice fede.
Così, insegnando che cosa sia la
vita eterna, racchiuse con grande e divina brevità il mistero della
vita, dicendo: «Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico e
vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo» (Gv 17, 3).
Similmente, volendo stralciare
dall’insieme della legge e dei profeti i precetti principali e
fondamentali, disse: Ascolta, Israele: il Signore tuo Dio è l’unico Dio;
e ancora: Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta la tua
anima e con tutta la tua forza.
Questo è il primo precetto, e il
secondo è simile a questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso(Mc 12,
29-31). In questi due precetti è racchiusa tutta la legge e i profeti
(Mt 22, 40). E di nuovo: Tutti quei beni che volete che gli uomini
facciano a voi, fateli anche voi a loro. Questa è infatti la legge e i
profeti (cfr. Mt 7, 12). |
XXIX. Nec verbis tantum, sed et
factis Dominus orare nos docuit, ipse orans frequenter et deprecans, et
quid facere nos oporteret exempli sui contestatione demonstrans, sicut
scriptum est: Ipse autem fuit secedens in solitudinem et adorans
(Luc. V, 16). Et iterum: Exivit in monte orare, et fuit
pernoctans in oratione Dei (Luc. VI, 12). Quod si ille orabat qui
sine peccato erat, quanto magis peccatores oportet orare? Et si ille per
totam noctem jugiter vigilans continuis precibus orabat, quanto nos
magis in frequentanda oratione debemus nocte vigilare?
XXX. Orabat autem Dominus et
rogabat, non pro se, quid enim pro se innocens precaretur? sed pro
delictis nostris, sicut et ipse declarat, cum dicit ad Petrum: Ecce
Satanas postulavit ut vos vexaret quomodo triticum. Ego autem
rogavi pro te, ne deficiat fides tua (Luc. XXII, 31, 32).
Et postmodum pro omnibus Patrem
deprecatur dicens: Non pro his autem rogo solis, sed et pro illis qui
credituri sunt per verbum ipsorum in me, ut omnes unum sint, sicut tu
Pater, in me et ego in te, ut et ipsi in nobis unum sint (Joan. XVII,
20).
Magna Domini propter salutem
nostram benignitas pariter et pietas, ut non contentus quod nos sanguine
suo redimeret, adhuc pro nobis amplius et rogaret. Rogantis autem
desiderium videte quod fuerit, ut, quomodo unum sunt pater et filius,
sic et nos in ipsa unitate maneamus.
Ut hinc quoque possit intelligi
quantum delinquat qui unitatem scindit et pacem, cum pro hoc et
rogaverit Dominus, volens scilicet sic plebem suam salvam fieri et in
pace vivere, cum sciret ad regnum Dei discordiam non venire.
XXXI. Quando autem stamus ad
orationem, fratres dilectissimi, vigilare et incumbere ad preces toto
corde debemus. Cogitatio omnis carnalis et saecularis abscedat, nec
quicquam tunc animus quam id solum cogitet quod precatur. Ideo et
sacerdos, ante orationem praefatione praemissa, parat fratrum mentes
dicendo: Sursum corda; ut, dum respondet plebs, Habemus ad
Dominum, admoneatur nihil aliud se quam Dominum cogitare debere.
Claudatur contra adversarium
pectus, et soli Deo pateat, nec ad se hostem Dei tempore orationis adire
patiatur. Obrepit enim frequenter et penetrat, et subtiliter fallens
preces nostras a Deo avocat, ut aliud habeamus in corde, aliud in voce,
quando intentione sincera Dominum debeat, non vocis sonus, sed animus et
sensus, orare.
Quae autem segnitia est alienari
et rapi ineptis cogitationibus et profanis cum Dominum deprecaris, 214
quasi sit aliud quod magis debeas cogitare quam quod cum Deo loqueris?
Quomodo te audiri a Deo postulas, cum te ipse non audias? Vis esse Deum
memorem tui cum rogas, quando tu ipse memor tui non sis?
Hoc est ab
hoste in totum non cavere: hoc est, quando oras Deum, majestatem Dei
negligentia orationis offendere: hoc est vigilare oculis et corde
dormire, cum debeat Christianus et cum dormit oculis corde vigilare,
sicut scriptum est ex persona Ecclesiae loquentis in Cantico Canticorum:
Ego dormio, et cor meum vigilat (Cant. V, 2). Quapropter
sollicite et caute Apostolus admonet dicens: Instate orationi,
vigilantes in ea (Coloss. IV, 2), docens scilicet et ostendens eos
impetrare quod postulant de Deo posse, quos Deus videat in oratione
vigilare.
XXXII.
Orantes autem non infructuosis nec nudis precibus ad Deum veniant.
Inefficax petitio est cum precatur Deum sterilis oratio. Nam, cum
omnis arbor non faciens fructum excidatur et in ignem mittatur (Matth.
VII, 19), utique et sermo non habens fructum promereri Deum non
potest, quia nulla est operatione foecundus. Et ideo Scripturae divina
instruit dicens: Bona est oratio cum jejunio et eleemosyna (Tob. XII,
9). Nam qui in die judicii praemium pro operibus et eleemosynis
redditurus est, hodie quoque ad orationem cum operatione venienti
benignus auditor est. Sic denique Cornelius centurio cum oraret, meruit
audiri. Fuit enim faciens multas eleemosynas in plebem et semper orans
Deum. Huic circa horam nonam oranti adstitit Angelus testimonium reddens
sui operis et dicens: Corneli, orationes tuae et eleemosynae tuae
ascenderunt ad memoriam coram Deo (Act.
X, 4).
|
29.Dio ci ha insegnato a pregare
non soltanto a parole, ma anche con i fatti, pregando e supplicando egli
stesso frequentemente e dimostrando con la testimonianza del suo esempio
che cosa dobbiamo fare anche noi, come sta scritto: Egli poi si ritirò
in luoghi deserti e pregò (cfr. Lc 5, 16); e ancora: Salì sul monte a
pregare, e passò la notte nella preghiera a Dio (cfr. Lc 6, 12). Se
pregava Lui, che era senza peccato, quanto è più necessario che noi
peccatori preghiamo, e se Lui vegliando ininterrottamente per tutta la
notte pregava con orazioni continue, quanto più frequentemente noi
dobbiamo vegliare e pregare tutta la notte!
30.
Certo il Signore pregava e intercedeva non per sé – che cosa infatti
deve domandare per sé un innocente? – ma per i nostri peccati. Lo
dichiara egli stesso quando dice rivolto a Pietro: «Ecco, satana vi ha
cercato per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, che non
venga meno la tua fede» (Lc 22, 31-32).
E dopo questo supplica il Padre
per tutti, dicendo: «Non prego solo per questi, ma anche per quelli che
per la loro parola crederanno in me; perché tutti siano una sola cosa.
Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa
sola» (Gv 17, 20-21).
Grande fu la bontà di Dio per la
nostra salvezza, grande la sua misericordia! Egli non si accontentò di
redimerci col suo sangue, ma in più volle ancora pregare per noi. E
guardate quale fu il suo desiderio mentre pregava: che come il Padre e
il Figlio sono una cosa sola; così anche noi rimaniamo nella stessa
unità.
Anche da ciò si può comprendere
quanto sbagli che spezza l'unità e la pace, mentre il Signore ha pregato
appunto per questo, volendo che il suo popolo avesse la vita, ben
sapendo che la discordia non può pervenire al regno di Dio.
31. Quando dunque siamo in
orazione, fratelli dilettissimi, dobbiamo vigilare ed immergerci con
tutto il cuore nella preghiera. Si allontani ogni pensiero carnale e
mondano, e null’altro pensi il nostro animo se non ciò che è oggetto
della sua preghiera. Per questo, prima del Padre nostro il sacerdote
prepara con un’introduzione le menti dei fratelli dicendo: “In alto i
cuori”, in modo che rispondendo l’assemblea “Sono rivolti al Signore”,
sia chiaro che a null’altro si deve pensare se non al Signore.
Si
chiuda il cuore all’avversario e si apra soltanto a Dio, né si sopporti
che il nemico di Dio vi entri durante il tempo della preghiera. Egli
infatti frequentemente coglie di sorpresa, penetra e con astuzia sottile
distoglie da Dio le nostre preghiere, affinché una cosa abbiamo nel
cuore e un’altra nella voce, mentre con pura intenzione non il suono
della voce deve pregare il Signore, ma l’animo e l’affetto.
Quale leggerezza lasciarti
distrarre e prendere da pensieri futili e profani mentre preghi il
Signore, quasi vi sia altra cosa più importante a cui porre attenzione,
del fatto che stai parlando con Dio! Come puoi chiedere di essere
ascoltato da Dio, se tu stesso non ti ascolti? Vuoi che il Signore si
ricordi di te quando preghi, mentre tu stesso non sei memore di te?
Questo
non significa davvero guardarsi dal maligno; questo è, mentre preghi,
offendere la maestà divina con la negligenza nella preghiera; questo è
vegliare con gli occhi e dormire col cuore, mentre il cristiano, anche
quando dorme, deve tenere il cuore vigilante. Così come è scritto da
colei che rappresenta la Chiesa, che parla nel Cantico dei Cantici: "Io
dormo, ma il mio cuore veglia" (Ct 5,2). Perciò con preoccupazione e
sollecitudine l'Apostolo ci esorta, dicendo: "Perseverate nella
preghiera e vegliate" (Col 4,2), insegnando chiaramente e mostrando che
possono ottenere da Dio quello che chiedono coloro che Dio vede essere
vigilanti durante la preghiera.
32. Coloro
che pregano non vadano a Dio senza frutti e con sole preghiere. La
richiesta è inefficace quando si prega Dio con sterile orazione.
Infatti, come ogni albero che non produce frutto è reciso e gettato nel
fuoco
(Cfr. Mt 7, 19), così anche un discorso senza frutto non può essere degno di Dio, poiché
non è fecondo di opere. Per questo la divina Scrittura ci istruisce
dicendo: «Buona cosa è la preghiera con il digiuno e l’elemosina»
(Tb 12,8). Colui infatti che nel
giorno del giudizio darà il premio per le opere e per le elemosine,
anche oggi ascolta benignamente chi va all'orazione accompagnato dalle
opere buone. Appunto perché pregava in tal modo il centurione Cornelio
meritò di essere ascoltato: egli «faceva molte elemosine al popolo e
pregava sempre Dio»
(At 10,2). |
XXXIII. Cito orationes ad Deum
ascendunt quas ad Deum merita nostri operis imponunt. Sic et Raphael
angelus Tobiae oranti semper et semper operanti testis fuit dicens:
Opera Dei revelare et confiteri honorificum est.
Nam, quando orabas tu et Sarra, ego obtuli memoriam
orationis vestrae in conspectu claritatis Dei. Et cum sepelires tu
mortuos simpliciter, et quia non es cunctatus exsurgere et derelinquere
prandium tuum, sed abisti et condidisti mortuum, missus sum tentare te;
et iterum me misit Deus curare te et Sarram nurum tuam. Ego enim sum
Raphael, unus ex septem Angelis justis qui assistimus et conversamur
ante claritatem Dei (Tob. XII, 11-15.). Per Esaiam quoque Dominus
admonet et docet similia contestans: Solve, inquit, omnem
nodum injustitiae, resolve suffocationes impotentium commerciorum.
Dimitte quassatos in requiem et omnem consignationem injustam dissipa.
Frange esurienti panem tuum, et egenos sine tecto induc in domum tuam.
Si
videris nudum, vesti; et domesticos seminis tui non despicies. Tunc
erumpet temporaraneum lumen tuum et vestimenta tua cito orientur, et
praeibit ante te justitia, et claritas Dei circumdabit te. Tunc
exclamabis, et Deus exaudiet te, et dum adhuc loqueris dicet: Ecce adsum
(Isa. LVIII, 6-9).
Adesse se repromittit et audire ac protegere se eos dicit qui,
injustitiae nodos de corde solventes et eleemosynas circa domesticos
Dei, secundum ejus praecepta, facientes, dum audiunt quod Deus praecipit
fieri, ipsi quoque a Deo merentur audiri. Beatus apostolus Paulus, in
necessitate pressurae adjutus a fratribus, opera bona quae fiunt
sacrificia Dei dixit esse: Saturatus sum, inquit, recipiens ab
Epaphrodito ea quae a vobis missa sunt, odorem suavitatis, sacrificium
acceptum et placitum Deo (Phil. IV, 18). Nam, quando quis miseretur
pauperis, Deum foenerat; et qui dat minimis, Deo donat, spiritaliter Deo
suavitatis odorem sacrificat.
XXXIV. In
orationibus vero celebrandis invenimus observasse cum Daniele tres
pueros in fide fortes et in captivitate victores, horam tertiam, sextam,
215 nonam, sacramento scilicet Trinitatis, quae in novissimis temporibus
manifestari habebat.
Nam et prima
hora in tertiam veniens consummatum numerum trinitatis ostendit: itemque
ad sextam quarta procedens declarat alteram trinitatem; et quando a
septima nona completur, per ternas horas trinitas perfecta numeratur.
Quae horarum
spatia jampridem spiritaliter determinantes adoratores Dei statutis et
legitimis ad precem temporibus servabant. Et manifestata postmodum res
est sacramenta olim fuisse quod ante sic justi precabantur. Nam super
discipulos hora tertia descendit Spiritus sanctus, qui gratiam Dominicae
repromissionis implevit. Item Petrus, hora sexta in tectum superius
ascendens, signo pariter et voce Dei monentis instructus est ut omnes ad
gratiam salutis admitteret, cum de emundandis gentilibus ante dubitaret.
Et Dominus hora sexta crucifixus, ad nonam peccata nostra sanguine suo
abluit, et ut redimere et vivificare nos posset, tunc victoriam suam
passione perfecit.
XXXV. Sed
nobis, fratres dilectissimi, praeter horas antiquitus observatas, orandi
nunc et spatia et sacramenta creverunt. Nam et mane orandum est, ut
resurrectio Domini matutina oratione celebretur. Quod olim Spiritus
sanctus designabat in Psalmis dicens: Rex meus et Deus meus, quoniam
ad te orabo, Domine, mane exaudies vocem meam, mane assistam
tibi, et contemplabor te (Psal. V, 2). Et iterum per Prophetam
loquitur Dominus: Diluculo vigilabunt ad me dicentes: Eamus et
revertamur ad Dominum Deum nostrum (Ose. VI, 1).
Recedente
item sole ac die cessante necessario rursus orandum est: nam, quia
Christus sol verus et dies est verus, sole ac die saeculi recedente,
quando oramus et petimus ut super nos Iux denuo veniat, Christi precamur
adventum lucis aeternae gratiam praebiturum. Christum autem diem dictum
declarat in Psalmis Spiritus sanctus: Lapis, inquit, quem
reprobaverunt aedificantes, hic factus est in caput anguli.
A Domino factus est iste et est admirabilis in oculis nostris. Iste est
dies quem fecit Dominus, ambulemus et jucundemur in eo (Psal. CXVII, 22,
23). Item, quod sol appellatus sit Malachias propheta testatur dicens:
Vobis autem qui timetis nomen Domini, orietur sol justitiae, et in alis
ejus curatio est (Malach. IV, 2).
Quod si in
Scripturis sanctis sol verus et dies verus est Christus, hora nulla a
Christianis excipitur quominus frequenter ac semper Deus debeat adorari;
ut qui in Christo, hoc est in sole et in die vero, sumus, insistamus per
totum diem precibus et oremus, et quando mundi lege decurrens vicibus
alternis nox revoluta succedit, nullum de nocturnis tenebris esse
orantibus damnum potest, quia filiis lucis et in noctibus dies est.
Quando enim sine lumine est cui lumen in corde est? aut quando sol ei et
dies non est cui sol et dies Christus est?
XXXVI. Qui
autem in Christo, hoc est in lumine, semper sumus, nec noctibus ab
oratione cessemus. Sic Anna vidua sine intermissione rogans semper et
vigilans perseverabat in promerendo Deo, sicut in Evangelio scriptum
est: Non recedebat, inquit, de templo, jejuniis et orationibus
serviens nocte ac die (Luc. II, 37). Viderint vel gentiles, qui
necdum illuminati sunt, vel Judaei, qui, deserto lumine, in tenebris
remanserunt. Nos, fratres dilectissimi, qui in Domini luce semper sumus,
qui meminimus et tenemus quid esse accepta gratia coeperimus, computemus
noctem pro die.
Ambulare nos
credamus semper in lumine, non impediamur a tenebris quas evasimus.
Nulla sint horis nocturnis precum damna, nulla orationum pigra et ignava
dispendia.
Per Dei indulgentiam recreati 216 spiritaliter et renati, imitemur quod
futuri sumus. Habituri in regno sine interventu noctis solum diem, sic
nocte quasi in lumine vigilemus. Oraturi semper et acturi gratias Deo,
hic quoque orare et gratias agere non desinamus. |
33.
Velocemente salgono a Dio le preghiere che pongono di fronte al Signore
i meriti delle nostre azioni. Allo stesso modo l’angelo Raffaele si
manifestò a Tobia, che pregava sempre e che sempre faceva elemosine:
«Sicuramente è cosa gloriosa rivelare e manifestare le opere di Dio.
Infatti quando tu e Sara pregavate, io ho portato la testimonianza della
vostra preghiera davanti alla gloria del Signore. Così come quando tu
seppellivi con semplicità i morti; quando poi tu non hai esitato ad
alzarti e a lasciare il tuo pranzo, ma sei uscito e hai sepolto quel
morto, io sono stato mandato a tentarti; di nuovo però Dio mi ha mandato
a curare te, Sara e tua nuora. Infatti io sono Raffaele, uno dei sette
angeli giusti che stiamo davanti e conversiamo con la maestà di Dio» (Tb
12,11-15). Anche per mezzo di Isaia il Signore ci ammonisce e ci insegna
un comportamento simile, dicendo: «Sciogli ogni nodo dell’ingiustizia,
togli di mezzo l’oppressione che soffoca i deboli: lascia andare in pace
quelli che hai maltrattato e spezza ogni documento ingiusto: spezza il
tuo pane con l’affamato e conduci nella tua casa i bisognosi senza un
tetto: se vedrai uno nudo, vestilo, ma non disprezzare i bisognosi
appartenenti al tuo sangue. Allora la tua luce sorgerà come l’aurora e
velocemente splenderanno i tuoi abiti e di fronte a te camminerà la
giustizia e la gloria di Dio ti circonderà. Allora griderai e Dio ti
esaudirà: mentre ancora tu parli, Egli dirà: ecco, sono qui» (Is
58,6-9). Il Signore promette di assistere, dice di ascoltare e di
proteggere coloro che sciolgono dal loro cuore i nodi dell’ingiustizia,
fanno elemosine secondo i suoi insegnamenti nei confronti dei loro
fratelli; mentre ascoltano ciò che Dio comanda di fare, con questo
comportamento meritano di essere ascoltati da Dio. Il beato apostolo
Paolo, aiutato dai fratelli nell’urgenza della necessità, affermò che
sono sacrifici graditi a Dio le opere buone che si compiono. Dice: «Sono
stato saziato ricevendo da Epafrodito tutto ciò che è stato mandato da
voi, profumo di soavi odori, sacrificio gradito e accetto a Dio» (Fil
4,18). Infatti chi ha compassione del
povero fa un prestito a Dio e chi offre cibo ai più bisognosi fa un dono
al Signore e compie un sacrificio a Dio in spirito, accompagnato da
soavi profumi.
34. Abbiamo
visto che i tre fanciulli, forti nella fede e vincitori nella prigionia,
pregavano celebrando con Daniele l’ora terza, sesta e nona, e ciò per il
mistero della Trinità che si sarebbe manifestato negli ultimi tempi.
Infatti dall'ora prima fino alla terza noi troviamo tre ore; troviamo lo
stesso numero da terza a sesta e da sesta a nona: la Trinità si
manifesta così attraverso tre spazi regolari, composto ciascuno da tre
ore.
Gli
adoratori di Dio, avendo già prima determinato tali spazi spirituali di
preghiera, si dedicavano ad essa secondo precise modalità e in tempi
fissati. In seguito, la realtà manifestò chiaramente essere stato un
segno che già prima i giusti pregassero così. Infatti nell’ora terza
discese sui discepoli lo Spirito Santo, portando così a compimento la
grazia promessa dal Signore. Così a Pietro, salito nella parte superiore
della casa all’ora sesta, venne indicato da un segno e dalla voce
ammonitrice di Dio di ammettere tutti alla grazia della salvezza, mentre
prima egli dubitava se dovesse battezzare i pagani. Il Signore stesso
all’ora sesta fu crocifisso e a nona lavò col suo sangue i nostri
peccati, riportando vittoria con la sua passione, per poterci redimere e
dare la vita.
35. Ma per
noi, fratelli dilettissimi, oltre alle ore osservate anticamente, sono
ora aumentati i tempi e i significati della preghiera. Infatti, dobbiamo
pregare all’alba per celebrare con la preghiera mattutina la
risurrezione del Signore. Ciò corrisponde a quello che una volta lo
Spirito Santo indicava nei Salmi con queste parole: «Tu sei il mio re,
il mio Signore, ed io innalzerò a te, o Signore, di mattino la
preghiera: ascolterai la mia supplica; di mattino mi presenterò a te e
ti contemplerò» (Sal 5,3-4). E di nuovo il Signore ci dice tramite il
Profeta: all'alba si risvegliavano e mi dicevano: andiamo e torniamo al
Signore nostro Dio" (Os 6,1).
È necessario
pregare ancora al tramonto del sole, quando muore il giorno: infatti,
poiché Cristo è il vero sole e il vero giorno, quando preghiamo al
tramonto del sole chiedendo che sorga di nuovo su di noi la luce, in
realtà imploriamo l’avvento di Cristo che ci porterà la grazia
dell’eterna luce. Nei salmi Cristo è chiamato giorno dallo Spirito
Santo. D’altra parte lo Spirito Santo nei Salmi afferma che Cristo è il
giorno, dicendo; «La pietra che i costruttori hanno scartato, è
diventata testata d’angolo. Questo è stato fatto dal Signore ed è
mirabile ai nostri occhi. Questo è il giorno che ha fatto il Signore:
rallegriamoci ed esultiamo in esso» (Sal 118, 22-24). Ugualmente, che lo
si debba chiamare «sole», lo testimonia il profeta Malachia dicendo: «Ma
per voi, che temete il nome del Signore, sorgerà il sole della
giustizia; sotto le sue ali vi è la salvezza» (Ml 3, 20).
Ora, se
nelle sacre Scritture Cristo è il vero sole e il vero giorno, non c’è
nessuna ora in cui i cristiani non debbano adorare Dio. Di conseguenza
noi che siamo in Cristo, vale a dire nel vero sole e nel vero giorno,
dobbiamo perseverare tutta la giornata in preghiera. Quando poi subentra
di nuovo la notte, nessun danno può venire agli oranti dalle tenebre
notturne, dal momento che per i figli della luce anche la notte
risplende come il giorno. Quando mai è senza luce chi ha la luce nel
cuore? 0 quando mai non c’è sole e non c’è giorno, per colui il cui
giorno e il cui sole è Cristo?
36. Noi
che siamo in Cristo, vale a dire sempre nella luce, non cessiamo di
pregare neppure di notte. Così la vedova Anna, pregando e vigilando
senza interruzione, perseverava nel rendersi gradita a Dio, come sta
scritto nel vangelo: «Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio
notte e giorno con digiuni e preghiere»
(Lc 2,37). Considerino questo, sia i pagani che ancora non sono stati illuminati,
sia i giudei che privati della luce rimasero nelle tenebre: noi fratelli
dilettissimi, che siamo sempre nella luce del Signore, che ricordiamo e
custodiamo ciò che abbiamo cominciato a essere per la grazia ricevuta,
noi consideriamo la notte come giorno.
Dobbiamo
credere di camminare sempre nella luce, senza lasciarci ostacolare dalle
tenebre da cui uscimmo: nessun danno venga alla preghiera dalle ore
notturne, non pigra e ignava perdita di tempo. Spiritualmente ricreati e
rigenerati dalla misericordia di Dio, imitiamo ciò che saremo:
destinati ad abitare in quel regno che non conosce il sopraggiungere
della notte ma solo il giorno, vegliamo durante la notte come se fossimo
in pieno giorno; destinati a pregare e rendere grazie a Dio, anche qui
non cessiamo di pregare e ringraziare. |
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18 marzo 2020 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net