Regola per i monaci di San Isidoro
VESCOVO di Siviglia
Iniziano i capitoli della regola
1. Il monastero
2. L’elezione dell’abate
3. I monaci
4. I conversi
5. Il desiderio della vita e delle sostanze familiari
6. Il lavoro dei monaci
7. L’ufficio e la recita dei salmi
8. La conferenza
9. I codici
10. La mensa
11. Le feste
12. I digiuni
13. L’abito dei monaci
14. Il giaciglio, o le illusioni notturne
15. I monaci trasgressori
16. I tipi di colpe
17. Gli scomunicati
18. Le sostanze del monastero
19. Ciò che spetta ad ognuno
20. I monaci infermi
21. Gli ospiti
22. Le uscite
23. I defunti
Esposizione dei capitoli
[1]
Inizia la Regola
PREAMBOLO
Isidoro, ai santi fratelli residenti nel cenobio onorianense
[2].
Ci
sono molti precetti od istituzioni degli anziani che si trovano presentati qua e
là dai Padri, e alcuni scrittori li hanno trasmessi ai posteri in una forma
troppo ricca oppure oscura. Da parte nostra, seguendo l'esempio di questi
ultimi, abbiamo osato scegliere per voi alcuni di questi precetti in uno stile
popolare o rustico, affinché possiate capire con facilità in che modo dovreste
mantenere la consacrazione del vostro stato.
In aggiunta a questo, chiunque di voi aspiri valorosamente ad attuare la
disciplina totale degli antenati continui quanto vuole a percorrere quel
percorso ripido e stretto, per la via più spedita. Ma colui che non ne è in
grado, nonostante i tanti esempi degli antenati, si fermi nella limitata
disciplina del percorso da me indicato e non decida di allontanarsene, per
evitare di perdere sia la vita che il nome di monaco, dirigendosi verso una
disciplina meno degna. Pertanto, come quelle norme degli antenati possono
rendere perfetto ed eccellente un monaco, così le norme da me indicate
trasformano in monaco anche il meno buono.
I perfetti osservino quelle norme, mentre coloro che provengono da una
via di peccato osservino queste ultime.
Capitolo I. Il monastero
E’ di grande importanza, cari fratelli,
che il monastero abbia una straordinaria diligenza nella clausura, in modo che
le protezioni del chiostro rivelino la robustezza della custodia, perché “il
nostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro cercando chi divorare”
(1 Pt 5,8). L’edificio del monastero
abbia una sola porta verso l’esterno ed una porta posteriore per andare
nell’orto. E’ necessario che la
città sia ben lontana dal monastero, affinché non costituisca un pericolo di
disonore ed affinché non ne guasti il prestigio e la dignità, se si trova troppo
vicina. Le celle dei fratelli devono
essere situate vicino alla chiesa, in modo che possano venire rapidamente
all’Ufficio. L’infermeria, tuttavia, sarà separata dalla chiesa e dalle celle
dei fratelli in modo che i malati non siano disturbati da inquietudini o da
voci. La dispensa dei monaci deve essere accanto al refettorio del monastero in
modo che, data la sua vicinanza, i suoi servizi siano forniti senza indugio.
Pure l’orto sia inserito all'interno del monastero affinché, lavorando i
monaci all’interno, non abbiano alcuna scusa per vagare al di fuori.
Capitolo II. L’elezione dell’abate
Naturalmente deve essere scelto un abate
che sia esperto nella osservanza della vita religiosa, notevole per le prove
date di pazienza e umiltà, e che abbia anche esercitato una vita laboriosa;
abbia superato l'età dell'adolescenza e sia arrivato alla maturità attraverso la
fase giovanile (dai 20 ai 40 anni. Ndt.); In questo modo, gli anziani non
disdegneranno di dipendere da lui, obbedendogli sia per l'età, sia per la
probità dei suoi costumi.
In
effetti, l'abate deve mostrarsi come un esempio degno di imitazione in tutta la
sua condotta, poiché a nessuno sarà lecito comandare qualcosa che lui stesso non
avrà praticato. Inciterà i singoli e la comunità intera affinché si incoraggino
a vicenda, e si rivolgerà a ciascuno, esortandoli o istruendoli se dovesse
scorgere qualcosa che può essere di giovamento alla loro vita in base alle
possibilità di ciascuno. Osserverà anche la giustizia per tutti, senza
infiammarsi d'odio contro nessuno, abbracciando tutti di cuore, senza
disprezzare nessuno di coloro che sono entrati in monastero, pronto anche a
compatire con misericordia la loro debolezza, seguendo l'Apostolo che dice:
"Siamo stati amorevoli (Letteralm. "Cia siamo fatti piccoli") in mezzo a voi,
come una madre che ha cura dei propri figli" (1 Ts 2,7).
Capitolo III. I monaci
Occorre assolutamente fare in modo che i monaci, avendo una forma di vita
apostolica e costituendo, come sappiamo, una comunità, abbiano allo stesso modo
un unico cuore in Dio, senza rivendicare nulla come proprio e senza avere nessun
attaccamento alle cose private, non importa quanto piccole siano; ma, secondo
l'esempio apostolico, avendo "fra loro tutto in comune" (At 4,32) procedano
perseverando fedelmente nei precetti di Cristo. Onorando il Padre, rispetteranno
l'obbedienza agli anziani, l'incitamento alle virtù verso i loro uguali ed
insegneranno ai giovani col buon esempio. Nessuno si consideri migliore degli
altri ma, considerandosi inferiore a tutti, si distingua per un'umiltà tanto più
grande quanto più brillerà tra gli altri per le sue sublimi virtù. Il monaco si
astenga anche dall'ira ed eviti di dire calunnie. Inoltre, non cammini in modo
indecoroso per attirare l'attenzione. Aborrisca il contagio della lussuria come
una peste mortale, allontani la lingua dalle parole oscene od oziose e manifesti
incessantemente il cuore e le labbra pure. Elimini anche i sentimenti negativi
della sua volontà e della sua mente e si eserciti attraverso la compunzione del
cuore nello studio della sacra meditazione.
Fugga
dal torpore del sonno e dalla pigrizia e si applichi alle veglie ed alle
preghiere ininterrottamente. Deprima il desiderio della gola e si mortifichi con
la virtù dell'astinenza, come impegno nel dominare le passioni; con il suo
digiuno domi la sua carne per quanto lo permette la salute del suo corpo. Non si
lasci logorare dall'invidia per il progresso dei suoi fratelli ma, calmo e
pacifico, per amore della carità fraterna, goda dei meriti di tutti. Respingendo
da sé il turbamento dell'ira e sopportando tutto con pazienza, non si lasci
sopraffare da nessuna tristezza od afflizione temporale ma, sostenuto da una
gioia interiore contro tutte le avversità, alla fine respinga lontano da sé
l'onore della vana gloria, e cerchi di piacere a Dio solo per l'umiltà interiore
del suo cuore: e così, risplendendo di queste virtù, manterrà meritatamente il
nome della sua professione (monastica).
Capitolo IV. I conversi.
Colui
che, avendo rinunciato al secolo, si presenta al monastero, non sia
immediatamente ascritto alla comunità dei monaci. È infatti necessario prima
esaminare il comportamento di ogni persona nel servizio dell'ospitalità per un
periodo di tre mesi, trascorso il quale, potrà partecipare all'assemblea della
santa congregazione; in effetti, non è opportuno accettare all'interno qualcuno
se prima, mentre veniva tenuto all'esterno, non ne siano state confermate la sua
umiltà e pazienza.
Coloro
che, avendo lasciato il secolo, si sono convertiti con fervente e sana umiltà
alla milizia di Cristo, innanzitutto dividano ciò che possiedono tra gli
indigenti, o lo offrano al monastero. Infatti, i servi di Cristo offrono un
animo libero alla divina milizia, quando recidono da sé ogni legame di speranza
secolare. Chi non si converte con retta intenzione, presto sarà soggetto al
morbo della superbia od al vizio della lussuria. Pertanto, chi rinuncia al mondo
non deve mai iniziare con tiepidezza perché, a causa di questa stessa
tiepidezza, non ricada nell'amore del mondo. Nessun convertito sia ammesso in
monastero se prima non avrà promesso solennemente per iscritto di restare fedele
alla sua professione. Infatti, così come coloro che sono promossi nella milizia
laica non passano nella legione se non sono stati prima registrati, allo stesso
modo coloro che sono designati all'accampamento spirituale della milizia celeste
non possono far parte del numero e della società dei servi di Cristo se non si
impegnano prima in una professione orale o scritta.
[3]
Chiunque è stato offerto al monastero dai propri
genitori, sappia che vi dovrà rimanere per sempre. Infatti, Anna, dopo aver dato
alla luce e svezzato Samuele, lo offrì a Dio con la pietà con cui lo aveva
promesso con voto; costui esercitò le mansioni del tempio alle quali era stato
votato dalla madre, prestando il suo servizio lì dove era stato collocato (Cfr.
1 Sam (1 Re) 1,20-28).
Colui
che entra per primo nel monastero sarà primo in ogni grado ed ordine. Non ci si
deve chiedere se sia ricco o povero, servo o libero, giovane o vecchio, rustico
o erudito: nei monaci, infatti, non si cerca l'età o il grado sociale perché
presso Dio non c'è differenza tra l'anima di un servo e l'anima di un libero.
Chi è legato al giogo di un'altra servitù, se il padrone non lo libera dai suoi
obblighi, non deve essere ricevuto; infatti, sta scritto: "Chi lascia libero
l’asino selvatico e chi ne scioglie i legami?" (Gb 39,5). Questo è il motivo per
cui l'asino selvatico lasciato libero è il monaco che serve Dio non soggetto a
schiavitù, senza ostacoli mondani e lontano dalle folle. Si serve Dio con libera
servitù quando non si è oppressi dal peso di nessuna condizione carnale.
Infatti, mentre "il giogo di Cristo è dolce e il suo peso leggero" (Mt 11,30),
sopportare la servitù del mondo è un peso duro e grave.
Abbiamo questo esempio anche nella legge del secolo, in cui i servi non militano
a meno che non abbiano abbandonato la servitù. Se un uomo sposato si presenta in
un monastero per farvi professione non lo si deve ricevere, a meno che
innanzitutto sua moglie non l'abbia sciolto (dal dovere coniugale) e che essa
stessa abbia fatto voto di continenza: poiché se, soccombendo alla debolezza
della carne, sposerà un altro uomo mentre suo marito è ancora in vita, senza
dubbio essa farà adulterio. Ora, Dio non può ammettere la pretesa conversione
del marito se questa darà occasione alla profanazione dell'alleanza coniugale.
E' dunque permesso alle persone sposate di consacrarsi a Gesù Cristo,
abbandonando il mondo per vivere in continenza, solo nel caso in cui vi sia il
libero consenso da parte di entrambi (i coniugi).
Coloro
che si convertono e possiedono dei beni nel mondo non si insuperbiscano se
portano al monastero una parte dei loro beni, ma temano invece che a causa di
questi si possano gonfiare d'orgoglio e perire. Sarebbe stato meglio godere
delle loro ricchezza con umiltà nel mondo, piuttosto che, diventati poveri
distribuendo i loro beni, si innalzassero al massimo dell'orgoglio. Coloro che
diventano monaci dopo aver abbandonato le ricchezze del mondo non disprezzino
coloro che provengono dalla povertà, perché tutti coloro che si convertono a
Cristo fanno parte di un unico ordine presso Dio. Perché non c'è differenza tra
chi viene al servizio di Dio da una condizione povera o servile, o da una vita
ricca ed agiata. Infatti, molti che provenivano da famiglie plebee brillarono
con notevoli esempi di virtù, furono anteposti ai nobili ed ebbero il
sopravvento per l'eccellenza delle loro virtù: così, per il merito delle virtù,
coloro che per condizione erano i più umili, divennero i primi. Per questo:
"Quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti;
quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha
scelto per ridurre al nulla le cose che sono, perché nessuno possa vantarsi di
fronte a Dio" (1 Cor 1,27-29). Coloro che giungono al monastero da una famiglia
povera non si inorgogliscano poiché si vedono considerati uguale a coloro che
nel mondo contavano qualcosa. Infatti, non è giusto che laddove i ricchi,
deposta la loro grandezza mondana, discendono con umiltà, i poveri, con spirito
orgoglioso, diventino superbi; a loro è necessario che, deposta l'arroganza,
abbiano sentimenti di umiltà e siano sempre consapevoli della loro (precedente)
condizione di povertà e di bisogno.
Capitolo V (XIX). Il desiderio della vita e delle sostanze familiari.
I
monaci che vivono in comunità non osino fare nulla di personale per se stessi e
non pretendano di avere o possedere nelle loro celle qualcosa riguardante il
cibo o qualsiasi altro oggetto che non sia stato loro attribuito secondo la
regola. Inoltre, a Pentecoste, che è giorno di perdono, tutti i fratelli si
impegnino davanti a Dio dichiarando che non hanno nulla di proprio
consapevolmente. Se un monaco ricevesse un regalo da parenti o estranei, non
potrà possederlo come proprietà privata, ma lo porti nell'assemblea dei fratelli
affinché l'abate lo assegni a chi ne ha bisogno. Infatti, tutto ciò che riceve
il monaco, non lo riceve per sé, ma per il monastero. Nessuno cerchi di ottenere
per sé una cellula particolare dove vivere a titolo personale, lontano dalla
comunità; tranne colui che, forse a causa di malattia o vecchiaia, ha ottenuto
il permesso dal padre del monastero. Tutti gli altri, che non sono né malati né
vecchi, nella santa comunità mantengano saldamente la vita e l'osservanza
comune. Nessuno cerchi di ottenere una cellula separata lontana dalla comunità,
nella quale, sotto il pretesto della reclusione, diventerà schiavo di un
pressante ozio o di un vizio nascosto e, soprattutto, della vanagloria o del
desiderio di fama mondana. Infatti, molti reclusi vogliono nascondersi proprio
per distinguersi, in modo che, mentre stando all'esterno erano ritenuti di
scarso valore e sconosciuti, una volta rinchiusi diventino famosi e onorati.
Perché, in verità, chiunque si allontana dalla folla al fine di vivere
tranquillo, quanto più si separa dagli altri tanto meno conduce una vita
ritirata. È quindi necessario che costoro vivano in una comunità santa e
trascorrano la propria vita in presenza di testimoni, così che, se ci fosse in
loro qualcosa di vizioso, non rimanga nascosto ma sia guarito; se invece ci
fossero in essi delle virtù, ciò servirà come modello per gli altri, che saranno
istruiti vedendo i loro esempi di umiltà.
Nessuno dei monaci si assoggetti a preoccupazioni terrene a causa di parentela.
E' infatti da seguire chi dice al proprio padre ed alla propria madre non vi
conosco, ed ignora i suoi fratelli e figli. Costui custodisce la parola (di
Gesù) e rispetta i (suoi) precetti. Infatti, molti dei monaci, secondo la citata
sentenza dei Padri, desiderando di mostrarsi alla parentela, persero le proprie
anime sotto l'impulso secolare dell'amore per i parenti e travolti da attività
pubbliche. "Nessuno, quando presta servizio militare (a Dio), si lascia prendere
dalle faccende della vita comune, se vuol piacere a colui che lo ha arruolato"
(2 Tm 2,4). Perciò, dobbiamo essere liberi dalle occupazioni secolari per
piacere a Cristo: infatti, coloro che militano nel mondo, abbandonano tutte le
altre attività del secolo per piacere al proprio capo.
Non si può presumere, senza il permesso
dell'abate, di dare ai poveri od agli altri qualcosa di ciò che il monaco sa di
possedere secondo le prescrizioni della regola; a nessuno sarà permesso di
scambiare le cose con un altro monaco senza l'ordine dell'abate o del preposito,
e a nessuno sarà permesso di possedere qualcosa di diverso da ciò che è permesso
dalla legge comune del monastero.
Capitolo VI (V). Il lavoro dei monaci
Il
monaco lavori sempre con le sue mani, in modo che si applichi ad ogni mestiere
artigianale e ad ogni lavoro, seguendo l'Apostolo che dice: "Né abbiamo mangiato
gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato duramente, notte e giorno".
Ed ancora: "Chi non vuole lavorare, neppure mangi" (Cfr. 2 Ts 3, 8.10). Infatti,
con l'ozio, passioni e pensieri cattivi trovano il loro cibo e crescono, mentre
i vizi scompaiono completamente con l'esercizio del lavoro. In nessun modo il
monaco deve disdegnare di eseguire un qualunque lavoro necessario alle esigenze
del monastero. In effetti, i patriarchi pascolarono le greggi, i filosofi pagani
furono calzolai e sarti ed il giusto Giuseppe, la cui sposa era la vergine
Maria, fu un fabbro ferraio
[4]. E così anche Pietro, principe degli apostoli, fece il mestiere di
pescatore e tutti gli apostoli facevano un lavoro materiale con il quale
sostenevano il corpo.
Se,
dunque, uomini così autorevoli prestavano servizio in lavori ed attività anche
rustiche, quanto più (devono farlo) i monaci, che devono non solo procurarsi le
cose necessarie per vivere con le proprie mani, ma devono anche ristorare con la
loro fatica l'indigenza degli altri. Coloro che eccellono per la forza fisica e
per la buona salute, se sono oziosi durante il lavoro, sappiano di essere
doppiamente peccatori, perché non solo non lavorano, ma corrompono anche gli
altri, invitandoli ad imitarli. Per questo motivo, chiunque si converte a Dio si
prenda cura del proprio lavoro per servirlo e non si diletti nell'inerzia e
nella pigrizia, dandosi all'ozio. Così, se alcuni vogliono dedicarsi alla
lettura per non lavorare, costoro sono anche trasgressori della stessa lettura,
perché non fanno ciò che leggono. Sta scritto, infatti, di loro: "Si guadagnino
il pane lavorando" (2 Ts 3,12); ed ancora: "Sapete in che modo dovete prenderci
a modello: noi infatti non siamo rimasti oziosi in mezzo a voi, né abbiamo
mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato duramente, notte e
giorno, per non essere di peso ad alcuno di voi" (2 Ts 3,7-8). Coloro che, a
causa di una malattia fisica, non possono lavorare, devono essere trattati con
più umanità ed indulgenza; coloro che hanno le forze per lavorare non devono
neppure mormorare contro di loro, ma piuttosto occorre prendersi cura di coloro
che si conoscono infermi di corpo. Coloro che non possono lavorare, riconoscano
come migliori e più felici coloro che invece hanno la capacità di lavorare.
Colui che è debole e non può sostenere la fatica di lavori corporali, deve
essere curato e la sua infermità deve essere rispettata.
Tuttavia, coloro che sono in buona salute e fingono di essere ammalati senza
dubbio devono essere commiserati e deplorati, poiché non sono infermi nel corpo
ma, ciò che è peggio, nello spirito; sebbene non possano essere dimostrati
colpevoli agli occhi degli uomini, tuttavia, non possono nascondersi a Dio.
Questi devono essere tollerati se hanno una malattia nascosta, mentre vanno
castigati se il loro buono stato di salute è evidente.
I
monaci che lavorano devono meditare o cantare salmi, perché nel loro lavoro
siano confortati dal piacere del canto e dalla parola di Dio. Infatti, se gli
artigiani del mondo, mentre fanno il loro lavoro continuano a cantare volgari
canzoni d'amore e tengono occupata la loro bocca in canti e favole senza
staccare le mani dal lavoro, tanto più i servi di Cristo devono lavorare con le
loro mani per avere sempre la lode di Dio sulla bocca e con la lingua offrire
salmi ed inni. È quindi necessario lavorare con il corpo, ma con l'intenzione
dell'animo fissata in Dio, ed impegnare le mani nel lavoro in modo che lo
spirito non si allontani da Dio. Il monaco è bene che lavori in tempi
prestabiliti ed in altri tempi si dedichi alla preghiera ed alla lettura.
Infatti, il monaco deve avere ore specifiche e determinate per ogni singolo
compito. Le parti dell'anno per ciascuna stagione e per ogni lavoro vengono
assegnate come segue:
[5] in estate, dalla mattina all'ora terza, è bene che si lavori; da terza a
sesta si dedichino alla lettura; dopo di ciò, fino a nona, si riposino; dopo
nona, fino ai vespri, è bene che si lavori di nuovo; nelle altre stagioni, cioè
in autunno, inverno e primavera, leggano la mattina fino a terza. Dopo la
celebrazione di terza lavorino fino a nona e, dopo il pasto di nona, è opportuno
che lavorino, leggano o studino qualcosa a voce alta. Tutto ciò che i monaci
producono con le loro stesse mani lo consegnino al preposito, ed il preposito al
superiore dei monaci. Nulla del lavoro fatto rimanga presso i fratelli, perché
non succeda che la troppa preoccupazione per esso non distolga la sua mente
dalla contemplazione. I fratelli pratichino la coltivazione degli ortaggi e
preparino il cibo con le proprie mani; la costruzione degli edifici ed il lavoro
dei campi saranno affidati all'opera di servi. Nessun monaco sia coinvolto con
amore ad un lavoro personale ma, lavorando insieme, obbediscano al Padre senza
mormorare. I monaci devono obbedire ai prepositi senza nessuna mormorazione, in
modo che non muoiano mormorando, proprio come morirono coloro che mormorarono
nel deserto. Infatti se non fu perdonato a costoro che erano ancora inesperti e
grezzi nella legge, quanto più, se faranno queste cose, non saranno perdonati
coloro che hanno ricevuto la legge della perfezione.
Capitolo VII (VI). L'ufficio e la recita dei salmi.
Questa
sarà la norma nel recitare i salmi durante l'ufficio: dato il segno a tempo
debito, i fratelli si affrettino con premura alle ore canoniche ed accorrano
tutti al coro: a nessuno sia permesso di uscire prima della fine dell'ufficio,
tranne a chi sia costretto da una necessità di natura. Durante la recita, i
monaci si prostrino a terra dopo ogni salmo eseguendo insieme un atto di
adorazione, dopo di che, alzatisi in fretta, inizino i salmi successivi e
facciano allo stesso modo ad ogni ufficio. Mentre si celebrano i misteri
spirituali dei salmi, il monaco eviti le risate o le chiacchiere, ma mediti nel
cuore ciò che canta con la bocca. A terza, sesta e nona devono essere recitati
tre salmi, un responsorio, due letture dell'Antico e del Nuovo Testamento,
quindi le lodi, l'inno e l'orazione. Nell'ufficio dei vespri, per prima cosa si
dica il lucernario
[6], poi due salmi, un solo responsorio, le lodi, l'inno e l'orazione. Dopo i
vespri, riuniti i fratelli, è bene meditare su qualcosa o commentare qualche
lettura divina, discutendo con devozione ed in modo utile, e si trattengano a
meditare ed a riflettere finché non arriva il tempo dell'ufficio di compieta.
Terminata compieta e prima di andare a letto, come al solito, i fratelli si
salutino a vicenda e riposino con ogni cura e silenzio, finché non si alzino per
le vigilie. Negli uffici quotidiani delle vigilie, prima devono essere recitati
i tre salmi canonici, poi tre serie
[7] di salmi, una quarta serie di cantici, ed una quinta degli uffici del
mattino. Nelle domeniche e nelle festività dei martiri, per ragioni di
solennità, si devono aggiungere le singole serie di salmi. Tuttavia, nelle
vigilie verrà mantenuta l'usanza di recitare, mentre nei mattutini si dovrà
salmodiare e cantare, in modo che, in questa duplice maniera, lo spirito dei
servi di Dio, per il gusto della diversità, si eserciti e sia stimolato con più
ardore per la lode di Dio senza annoiarsi. Dopo le vigilie, fino al mattutino,
si riposino. Dopo il mattutino, lavorino o leggano. Nei giorni feriali, durante
gli uffici, devono essere recitate le lezioni dell'Antico e del Nuovo
Testamento: il sabato e la domenica, tuttavia, devono essere lette solo quelle
del Nuovo. Se un monaco, di evidente buona salute corporale, non è presente alle
vigile od agli uffici quotidiani, venga privato della comunione.
Capitolo VIII (VII). La conferenza.
Tre
volte alla settimana, a giorni alterni, dopo aver celebrato terza e dato il
segnale, i fratelli si radunino in assemblea per ascoltare la conferenza del
padre (abate). Ascoltino l'anziano che insegna e che istruisce tutti con
precetti salutari. Ascoltino il padre (abate) con la più grande attenzione e
silenzio, dimostrando l'intenzione dei loro animi con sospiri e gemiti. La
stessa conferenza contribuirà sia a correggere i vizi ed a migliorare i costumi,
sia per altri motivi riguardanti l'utilità del monastero. E se tali argomenti
non ci sono, tuttavia, per la consuetudine di questa disciplina la conferenza
non sia mai tralasciata; ma nei giorni stabiliti, tutti insieme riuniti si
passino in rassegna le norme regolari dei Padri, in modo che coloro che non le
avessero imparate, capiscano ciò che osservano. E coloro che le hanno imparate,
ammoniti dai loro frequenti ricordi, custodiscano con impegno ciò che sanno.
Durante la conferenza, stando tutti seduti, rimangano in silenzio, ad eccezione
di colui al quale l'autorità del padre (abate) abbia ordinato di parlare.
Capitolo IX (VIII). I codici.
Al
sacrestano vengano assegnati tutti i codici e da lui tutti i singoli fratelli ne
ricevano uno alla volta. Dopo averli letti ed utilizzati con prudenza, siano
sempre restituiti dopo i vespri. I codici siano richiesti ogni giorno all'ora
prima. Chi lo chiederà prima o più tardi non lo riceverà. Riguardo alle
questioni che si leggono e che forse non si capiscono, ogni fratello alla
conferenza o dopo i vespri interroghi l'abate; recitata la lezione sul posto,
riceva da lui la spiegazione in modo che mentre si spiega ad uno, gli altri
ascoltano. Il monaco eviti di leggere libri di pagani o volumi di eretici: è
meglio, infatti, ignorare i loro principi perniciosi piuttosto che cadere in
qualche laccio di errore per averli intesi.
Capitolo X (IX). La mensa
Nel
momento in cui si soddisfa la necessità della refezione, è necessario chiudere
le porte del monastero in modo che nessuno estraneo pretenda di assistervi e la
sua presenza impedisca la fraterna quiete dei monaci. Una volta arrivato il
momento della refezione, dato il segnale, accorrano tutti insieme. Chi arriverà
tardi alla mensa, faccia penitenza oppure ritorni digiuno al suo lavoro o al suo
letto. Nessuno andrà a mangiare finché non verrà dato il segnale per chiamare
tutti. Anche il refettorio sarà unico per tutti i fratelli ed a ogni tavolo si
siederanno e mangeranno in dieci, mentre la moltitudine dei bambini starà
vicino. Mentre i fratelli mangiano, tutti osservino con disciplina il silenzio,
obbedendo all'Apostolo che dice: "Lavorando in silenzio, mangeranno il loro
pane" (2 Ts 3,12; Vulg.)
[8]. Uno di loro, tuttavia, stando seduto nel mezzo e dopo aver ricevuto la
benedizione, legga qualcosa dalle Scritture; gli altri tacciano mentre mangiano
e ascoltino la lettura con la massima attenzione. E poiché il cibo materiale
fornisce loro la salute del corpo, la parola spirituale ristori il loro spirito.
Nessuno al tavolo alzi la voce; solo il preposito si preoccuperà di fornire il
necessario a chi mangia. L'abate, a meno che non sia malato, prenda i suoi pasti
stando insieme ai fratelli e non si aspetti che gli sia preparato qualcosa di
diverso dagli altri o di più ricercato di ciò che è preparato per la comunità. E
così, mentre l'abate è presente, tutti i cibi siano serviti coscienziosamente ed
essendo beni comuni, siano consumati in modo sano e nella carità. Le vivande
saranno uguali su tutti i tavoli e tutti i fratelli si ristoreranno con gli
stessi cibi. Qualsiasi cosa offra il pranzo del giorno, tutti l'accettino senza
mormorare. E non desiderino ciò che vuole il piacere di mangiare, ma ciò che la
necessità della natura richiede. Infatti, sta scritto: "Non lasciatevi prendere
dai desideri della carne" (Rm 13,14). Durante tutta la settimana, i fratelli si
nutrano di alimenti poveri, cioè verdure e legumi secchi. Invece nelle festività
consumino a volte anche un po' di carne assieme alle verdure. Il corpo non deve
saziarsi fino alla sazietà, affinché lo spirito non perisca; infatti, la
concupiscenza della carne è eccitata dalla pienezza del ventre. Colui che
reprime l'appetito della gola, senza dubbio limita i moti della sensualità. Il
corpo deve essere ristorato con tale discrezione in modo che non si indebolisca
per l'eccessiva astinenza, e neppure sia mosso alla concupiscenza per
un'esagerata voracità. In entrambi i casi, quindi, dobbiamo praticare la
temperanza in modo che i vizi della carne non prevalgano e che la forza sia
sufficiente per il compimento delle opere buone. Se qualcuno seduto a mensa
vuole astenersi dalla carne e dal vino, non bisogna proibirglielo; infatti,
l'astinenza non deve essere proibita, ma piuttosto elogiata, a condizione che si
rifiuti il cibo non per disprezzo delle creature di Dio, creature concesse per
l'utilità degli uomini. Nessuno si contamini mangiando in segreto, oppure abbia
un appetito impudente o privato, al di fuori della mensa comune. Chiunque
assaggerà qualcosa di nascosto o fuori dalla mensa ordinaria sarà soggetto alla
sentenza di scomunica. Nessuno osi mangiare prima dei pasti, tranne chi è
malato; infatti, colui che anticiperà l'ora del pasto, soccomberà alle
conseguenti pene del digiuno. A chi ha sete o a chi soffre per debolezza prima
dell'ora del pasto, si provveda secondo l'ordine dell'abate o del preposito, ma
non di fronte a tutti, perché ciò non invogli altri ad avere sete o fame. Solo
il monaco di servizio settimanale assaggi il cibo e nessuno altro osi farlo,
perché con il pretesto dell'assaggio non soddisfi la gola e la voracità. I
servitori laici non interverranno affatto nella mensa dei monaci, poiché non ci
può essere posto alla mensa comune per coloro che hanno un progetto di vita
diverso. Quando i monaci si alzano da tavola, vadano tutti a pregare. Ciò che
avanzerà alla mensa sarà conservato con la massima cura e sarà distribuito ai
poveri. Da Pentecoste fino all'inizio dell'autunno, per tutta l'estate, durante
il giorno vi sia anche il pranzo, nel restante tempo ci sarà solo la cena. In
entrambi i tempi il cibo della mensa consisterà in tre vivande, cioè verdure e
legumi e, se ce ne sarà una terza, sarà frutta. Anche la sete dei fratelli sarà
soddisfatta con tre bicchieri. Per quanto riguarda l'osservanza della Quaresima,
dopo aver compiuto il digiuno, come si usa fare, tutti si accontenteranno solo
di pane ed acqua e si asterranno anche dal vino e dall'olio.
Capitolo XI (X). Le feste.
Questi
sono i giorni di festa dei monaci in cui si interrompono i digiuni. Per primo il
venerabile giorno della domenica dedicato al nome di Cristo. Questo giorno è
solenne per il mistero della sua risurrezione e per questo motivo tutti i suoi
servi osserveranno la solennità del pasto con piacevole gioia. Allo stesso modo,
dal primo giorno di Pasqua fino a Pentecoste, cioè per cinquanta giorni
consecutivi, i santi Padri scioglievano il digiuno, a motivo della risurrezione
di Cristo e della venuta dello Spirito Santo, così che questi giorni vengano
celebrati non sotto il segno della fatica, che rappresenta il tempo della
Quaresima, ma nella pace della festosità, libera dal digiuno. Parve anche
opportuno ai Padri di rendere solenne il tempo che va dal Natale del Signore
alla Circoncisione e di permettere di mangiare (regolarmente). Non diversamente,
anche il giorno dell'Epifania ha ottenuto la dispensa dal digiuno, secondo una
vecchia regola. Anche quando un fratello si converte ed entra nel monastero,
oppure se giungono dei fratelli provenienti da altri monasteri, i digiuni
vengono interrotti per adempiere alla carità. Eccetto questi giorni, vi sono
altri tempi disponibili per compiere liberamente e con piacere il digiuno e se
alcuni monaci desiderano digiunare durante questi tempi non devono essere
affatto contrastati: infatti, leggiamo che molti dei padri antichi hanno
digiunato in questi giorni nell'eremo, senza mai interrompere i digiuni, tranne
nei giorni di domenica per la gioia della risurrezione di Cristo.
Capitolo XII (XI). I digiuni.
Gli
antichi scelsero di preferenza questi giorni per i digiuni: in primo luogo il
digiuno quotidiano della Quaresima, durante il quale tra i monaci ci sarà una
maggiore osservanza per l'astinenza, poiché si asterranno non solo dal pranzo,
ma anche dal vino e dal olio. In secondo luogo il digiuno durante alcuni giorni,
che inizia il giorno dopo Pentecoste e che si estende sino all'equinozio
d'autunno (il 23 di settembre): si faccia digiuno per tre giorni ogni settimana,
a causa dell'arsura estiva del sole. In terzo luogo segue il digiuno quotidiano,
dal 24 di settembre fino al Natale del Signore, durante il quale non sarà mai
interrotto alcun digiuno giornaliero. In quarto luogo ancora il digiuno
quotidiano che inizia il giorno dopo la Circoncisione e si spinge fino alla
solennità di Pasqua. Ma coloro che sono logorati dalla vecchiaia del loro corpo
o che sono ostacolati dalla fragilità della loro giovane età non devono
praticare il digiuno quotidiano, in modo che colui che è in età avanzata non
deperisca prima di morire, oppure che colui che è in crescita non cada prima di
ottenere risultati e vada in rovina prima di imparare a fare del bene.
Capitolo XIII (XII). L'abito dei monaci.
Il
monaco deve abbandonare l'eleganza delle vesti e l'ornamento degli indumenti. Il
monaco ha bisogno di protezione, non di delicatezza. Inoltre, come è opportuno
che i monaci non indossino abiti appariscenti, così non devono avere vestiti
troppo dimessi. Infatti, un abito di pregio incoraggia l'anima alla lascivia ma,
se è troppo spregevole, o causa dolore nel cuore, o provoca il morbo della
vanagloria. L'abbigliamento non deve essere distribuito a tutti nello stesso
modo, ma con discrezione, come richiesto da ogni età e grado. Così, infatti,
leggiamo ciò che fecero gli apostoli, come sta scritto: "Fra loro tutto era
comune .... veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno" (At 4,32.35).
Ed inoltre si osservi se ogni fratello ne ha abbastanza o se ne ha bisogno, in
modo che coloro che ne hanno siano contenti e coloro che non ne hanno le
ricevano. Infatti a chi ne ha non ne siano dati, in modo che si possano dare a
chi ne ha bisogno. Il monaco poi non deve vestirsi di puro lino: non è permesso
utilizzare fazzoletti, cappucci, mantelli, né vestiti o scarpe che generalmente
non utilizzano gli altri monasteri. I servi di Cristo, invece, saranno contenti
di tre tuniche, due mantelli ed una cocolla a testa, a cui si aggiungerà una
pelliccia, una piccola cappa con maniche, scarpe e calze. Si accontenteranno
solo di queste cose, senza pretendere altro per l'abbigliamento. Le scarpe
devono essere utilizzate nel monastero fino a quando lo esige la violenza
dell'inverno, oppure se i fratelli vanno in viaggio o si recano in città. I
monaci nel monastero operino sempre con indosso il mantello, così da essere
coperti in modo dignitoso e da poter accorrere velocemente per compiere i
servizi del loro ministero. Se per caso qualcuno non avesse un mantello, si
metta la cappa sulle spalle. Nessuno tra i monaci si prenda troppa cura del suo
volto per evitare di cadere nel peccato della lussuria e dell'impudenza. In
realtà non è casto di spirito colui che si preoccupa eccessivamente del suo
corpo ed ha un modo di camminare impudente. Nessuno dei monaci deve lasciar
crescere i capelli; infatti, coloro che imitano tale comportamento, sebbene non
lo facciano per raggirare gli uomini sotto il pretesto della simulazione,
tuttavia scandalizzano gli altri, costituendo un ostacolo per i deboli ed
inducendoli a maledire il santo proposito. Pertanto, devono tagliarsi i capelli
quando tutti lo fanno, o meglio, insieme a tutti ed allo stesso modo. È
riprovevole, infatti, avere un aspetto diverso quando il proposito (di vita) non
è diverso.
Capitolo XIV (XIII).
Il giaciglio, o le illusioni notturne.
È bene
che l'abate viva nella comunità con i suoi fratelli, in modo che la vita comune
offra la testimonianza di una vita buona ed il rispetto della disciplina. Anche
tutti i fratelli devono, se possibile, stare insieme nello stesso posto. Se ciò
fosse difficile, stiano almeno in dieci, a cui sia preposto un decano come
rettore e guardiano. Il monaco non può avere suppellettili molto belle e varie;
il suo letto sia formato da una stuoia, una coperta, due pelli lanose, una
sopraccoperta, un asciugatoio e due piccoli guanciali per la testa. Una volta al
mese, l'abate od il preposito ispezionino tutti i letti per assicurarsi che i
fratelli non abbiano bisogno di nulla o che abbiano qualcosa di superfluo. Di
notte, quando vanno nel dormitorio o quando stanno già riposando, nessuno parli
con un altro. Nel buio della notte
nessuno parli col fratello che dovesse incontrare. Non è permesso stare in due
in un letto singolo. Quando arriva la notte, una lampada illumini il luogo dove
dormono i fratelli, così che, rimossa la totale oscurità, sia chiaro il fatto
che tutti dormono. Il monaco non si dedichi a pensieri malvagi mentre è a letto
ma, giacendo nella sola contemplazione di Dio, mantenga il riposo del corpo e la
pace dell'anima e respinga da sé i pensieri impuri, accetti i buoni e rimuova
quelli turpi. Infatti, i movimenti dell'anima sono stimolati dai sogni e, quale
sarà stato il pensiero durante il giorno, tale sarà il sogno durante il sonno.
Chiunque si macchi di un'illusione notturna, non esiti a confidarlo al padre del
monastero, giustamente lo attribuisca a propria colpa e faccia una penitenza
segreta, sapendo che se prima non ci fosse stato in lui un pensiero impuro, non
ne sarebbe seguito il flusso di una lurida ed impura polluzione. Infatti, chi
viene prima ispirato da un pensiero illecito, presto sarà contaminato da una
tentazione immonda. Chi fosse stato ingannato da un fantasma notturno, rimarrà
in sacrestia durante l'ufficio e non oserà entrare nella chiesa lo stesso
giorno, se prima non si sarà purificato con acqua e lacrime. Nella legge mosaica
(Cfr. Dt 23,11-12), a chi nel sonno notturno si contaminava con una polluzione,
veniva ordinato di lasciare l'accampamento e di non ritornarvi prima di essersi
lavato la sera. E se si comportavano in questo modo coloro che vivevano in mezzo
ad un popolo carnale, cosa deve fare il servitore spirituale di Cristo? Costui
deve pensare ancor di più alla sua contaminazione e, stando lontano dall'altare
con la mente e con il corpo, deve provare un grande timore e versare lacrime di
penitenza come acqua, in modo che desideri lavare, non solo con l'acqua ma con
il pianto, tutto ciò che per un singola colpa nascosta fosse diventato impuro a
causa di una impura contaminazione. Colui che ardesse a causa dalle tentazioni
della fornicazione, preghi continuamente e pratichi il digiuno; non arrossisca
nel confessare il fuoco della concupiscenza che lo brucia, perché il vizio
confessato è presto sanato. Se invece rimane nascosto, quanto più verrà
occultato tanto più si insinuerà profondamente: in realtà, quelli che non si
preoccupano di manifestarlo non hanno il minimo desiderio di curarlo.
Capitolo XV (XIV, XV e XVI).
I monaci trasgressori.
Se
qualcuno cade in una lieve colpa per debolezza, sia ammonito una prima ed una
seconda volta: se dopo il secondo avvertimento non si correggerà dal vizio, sia
corretto con una punizione adeguata. Nessuno cerchi di nascondere colui che
pecca; infatti, significa acconsentire alla colpa il nascondere il colpevole
dopo il secondo avvertimento.
Se
qualcuno vede un altro peccare troppo spesso, innanzitutto lo indichi ad uno o
due fratelli dalla cui testimonianza potrà essere convinto, se (l'interessato)
dovesse negare di aver peccato. Il peccato commesso apertamente è da
rimproverare davanti a tutti, così che, mentre il peccatore viene chiaramente
rimproverato anche quelli che lo hanno imitato nel male si correggano. D'altra
parte, come spesso per il crimine di uno muoiono in tanti, così molti vengono
salvati per la correzione di uno solo.
Chiunque pecca contro un fratello, se ci ripensa subito e si prostra per
chiedere perdono, riceva il perdono da colui al quale ha ammesso di aver
arrecato un'ingiuria. Ma chiunque non chiede perdono o non lo domanda di cuore
sia condotto alla riunione (dei fratelli) e sia sottomesso alla congrua
disciplina in base alla gravità dell'ingiuria. Coloro che si offendono
reciprocamente, se anche si perdonano in fretta a vicenda rappacificandosi, non
devono essere accusati da altri, poiché si sono affrettati a concedersi il
perdono; purché, tuttavia, non osino indulgere troppo spesso in queste stesse
colpe. Chiunque confessi spontaneamente il peccato commesso deve ottenere il
perdono che chiede. Si preghi, quindi, per lui e, se la mancanza è leggera, il
perdono richiesto sia prontamente concesso. Colui che, spesso scomunicato per un
grave vizio, trascura di correggersi, sia soggetto alla punizione fino a che non
si libererà dei vizi radicati in lui, in modo che colui che non è stato persuaso
dalla punizione data una sola volta, capisca che dovrà correggersi con una
ripetuta severità. Per quanto un fratello possa essere immerso nell'abisso di
vizi ripetuti e molto gravi, tuttavia, non deve essere allontanato dal
monastero, ma deve essere corretto secondo la specie della colpa: perché colui
che potrebbe forse correggersi con una penitenza di lunga durata, non venga
divorato dalle fauci del diavolo se venisse cacciato fuori.
Capitolo XVI (XVII).
I tipi di colpe.
Le
colpe possono essere leggere o gravi. È colpevole di colpa leggera chi ama
vivere nell'ozio, chi arrivi in ritardo all'ufficio, alla conferenza od alla
mensa; chi nel coro ride durante le ore e si dedica alle chiacchiere; chi
abbandona l'ufficio od il lavoro e se ne va senza necessità; chi ama il torpore
ed il sonno; chi giura spesso; chi è molto loquace; chi intraprende un lavoro
ordinatogli senza (ricevere) la benedizione o, dopo aver completato il lavoro,
non richiede la benedizione; chi svolge il compito affidatogli con negligenza o
in ritardo; chi rompe qualcosa accidentalmente; chi produce un danno di poco
conto; chi usa i libri con negligenza; chi si apparta per un momento in qualche
luogo; chi riceve segretamente scritti o regali da qualcuno; chi nasconde una
lettera ricevuta o risponde senza il consenso dell'abate; chi incontra o parla
con qualche parente o qualche secolare senza l'ordine del superiore; chi
disobbedisce al superiore, chi arrogantemente risponde ad un superiore; chi non
reprime la lingua nei confronti di un superiore; chi parla in modo licenzioso;
chi si comporta in modo vergognoso; chi scherza (volgarmente); chi ride
eccessivamente; chi parla, prega o mangia con una persona scomunicata; chi non
rende nota al padre l'illusione notturna. Queste (colpe), così come altre
simili, devono essere corrette con la scomunica di tre giorni.
È colpevole di più grave colpa chi si
ubriaca, chi si pone in dissenso, chi usa un linguaggio osceno, chi ha
familiarità con le donne, chi semina discordia, chi si adira, chi è altero e
superbo, chi è di spirito presuntuoso od eccessivamente vanitoso nel cammino;
chi è calunniatore, mormoratore o invidioso; chi prende possesso di una cosa
per uso personale, chi è coinvolto in questioni di denaro; chi possiede qualcosa di
superfluo oltre a ciò che è stato distribuito secondo le prescrizioni della
regola; chi trattiene (per sé) qualcosa che ha ricevuto, affidatagli o meno. Tra
questi rei c'è anche chi è orgoglioso dei beni che ha portato o chi ha mormorato
a causa di questi per disobbedienza; chi ha causato un danno significativo; chi
ruba; chi spergiura; chi dice il falso; chi ama le contese o le liti; chi
disonora un innocente con la falsa accusa di crimine; chi infligge un'offesa
manifesta ad un fratello; chi disprezza un anziano con animo ribelle; chi nutre
rancore verso un fratello; chi non concede il perdono a chi ha peccato contro di
lui, nonostante lo implori di perdonarlo; chi scherza con un bambino; chi dorme con un
altro nello stesso letto; chi, al di fuori della mensa comune, prende qualcosa
in privato o in segreto; chi si allontana senza il permesso dell'abate o del
preposito e si ferma da qualche parte mezza giornata o più; chi finge di essere
malato per rimanere ozioso. Queste e simili colpe sono da correggere, secondo
l'arbitrarietà del padre (abate), con una scomunica di lunga durata; affinché
coloro che peccano gravemente siano puniti con grande severità.
Capitolo XVII (XVIII). Gli scomunicati.
La
soddisfazione che devono dare i colpevoli è questa: quando i fratelli si
riuniscono in chiesa, trascorso il tempo della penitenza si chiami lo
scomunicato che, fuori dal coro, subito si tolga la cintura prostrandosi a terra
e rimanendo così fino alla fine della celebrazione. Quando l'abate gli ordinerà
di alzarsi da terra entrerà nel coro pregando. Dopo che l'abate avrà pregato per
lui e che tutti avranno risposto "Amen", si alzi e chieda perdono a tutti per
la sua negligenza al fine di ottenere il perdono dopo questa rigorosa soddisfazione
correttiva. Coloro che sono più giovani non devono essere corretti con la pena
della scomunica ma, a seconda della qualità della colpa, sono da punire con
adeguate vergate, in modo che coloro che non si distolgono dalla colpa per la
debolezza dell'età siano trattenuti dalla disciplina della frusta. È vietato
agli scomunicati di uscire dai luoghi in cui sono stati confinati, finché non
termina il tempo della loro penitenza. A nessuno, senza l'ordine del superiore,
sarà permesso di recarsi dove si trova chi è stato scomunicato. Nessuno osi,
assolutamente, né pregare, né mangiare con chi è stato scomunicato, nemmeno
colui che gli serve il cibo all'ora del pasto. Se la pena della scomunica è
stata inflitta per due o tre giorni, riceva solo alla sera una refezione di pane
e acqua. Tranne che durante la rigidità dell'inverno, il giaciglio sia solo la
terra o una stuoia, l'abito sia un indumento raso o eventualmente un cilicio; in
particolare le calzature siano (scarpe) di sparto
[9]
o qualsiasi tipo di sandali. Il potere di scomunicare
appartiene al padre del monastero od al preposito; tutte le altre colpe dei
monaci saranno riferite all'abate o al preposito durante la conferenza, in modo
che colui che viene riconosciuto come colpevole sia corretto con la necessaria
severità.
Capitolo XVIII (XX). Le sostanze del monastero.
L'abate od un monaco non è autorizzato a dare la libertà ad un servo del
monastero. Infatti, chi non possiede nulla di suo non deve concedere la libertà
a ciò che appartiene ad altri. Pertanto, come stabilito dalle leggi secolari,
una proprietà può essere alienata solo dal suo padrone. Così come tutto il
denaro che entra nel monastero deve essere accettato sotto la testimonianza
degli anziani. Lo stesso denaro deve essere diviso in tre parti: una parte sarà
per i malati, gli anziani e per acquistare qualcosa di meglio da consumare come
cibo nei giorni festivi dei fratelli; un'altra parte per i poveri; una terza
parte per gli abiti dei fratelli e dei ragazzi e per tutte le necessità del
monastero. Il custode della sacrestia prenda in consegna queste tre parti ed,
obbedendo all'abate e con la testimonianza del preposito o degli anziani, spenda
di ciascuna delle parti in base alla necessità per cui è stata assegnata.
Capitolo XIX (XXI).
Ciò che spetta ad ognuno.
Al
preposito spetta la tutela dei monaci, la gestione delle liti, la cura delle
proprietà, la semina dei campi, la piantagione e la coltivazione della vite, la
sorveglianza delle greggi, la costruzione degli edifici, il lavoro dei
carpentieri e dei fabbri.
Al
sacrestano toccherà la cura o la custodia della chiesa, dare il segnale per gli
uffici del vespro e della notte, curare le vesti sacre ed i vasi sacri, così
come i libri e tutti gli utensili, l'olio in uso alla sacrestia, i ceri e le
lampade. Avrà in carico il vestiario del monastero ed avrà a disposizione del
filo di diverso tipo per cucire i vestiti dei fratelli, e distribuirà a ciascuno
secondo i suoi bisogni. Si dovrà occupare anche degli oggetti d'oro e d'argento
e di tutti altri oggetti metallici, grezzi o finiti, di bronzo e ferro: (si
occuperà) anche dell'organizzazione dei tessitori di lino, dei lavandai, dei
ceraioli e dei sarti.
Al
portinaio spetterà la cura degli ospiti, avviserà del loro arrivo, e custodirà i
locali esterni.
Chi
sarà responsabile della dispensa dovrà occuparsi di ciò che c'è nel magazzino.
Il medesimo (responsabile) darà all'incaricato settimanale tutto ciò che è
necessario per il cibo dei monaci, degli ospiti e degli ammalati. In sua
presenza si distribuisca ciò che sarà portato ai tavoli. Sarà ancora lui che
riserverà ad uso dei poveri ciò che si avanzerà. L'incaricato settimanale,
finita la sua settimana, restituirà al responsabile della dispensa gli strumenti
che gli erano stati affidati, soprattutto per verificare se siano stati
utilizzati con negligenza: e di nuovo, in sua presenza, verranno affidati
all'incaricato settimanale che entrerà in servizio. Ancora al responsabile della
dispensa sono affidati i granai, le greggi di pecore e maiali, la lana ed il
lino, la cura delle uccelliere, il cibo da distribuire ai mugnai, alle bestie da
soma, ai buoi ed al pollame; deve curarsi anche del calzolai, dei pastori e dei
pescatori.
All'incaricato settimanale spetta anche la responsabilità del cibo,
l'organizzazione delle mense, il segnale per gli uffici del giorno, per
l'assemblea o per il raduno dopo il tramonto del sole.
L'ortolano sarà responsabile della realizzazione e della custodia degli orti,
degli alveari, della cura dei diversi semi e dovrà avvertire quando è necessario
seminare o piantare qualcosa negli orti.
Il
mestiere del mugnaio sarà compito dei laici; questi stessi inoltre monderanno il
frumento e lo macineranno secondo l'usanza. Solo i monaci prepareranno l'impasto
e faranno il pane con le loro stesse mani. Ma per gli ospiti e per gli ammalati,
il pane sia fatto dai laici.
La
custodia degli attrezzi e degli utensili di ferro sarà affidata ad uno solo che
sarà stato scelto dal padre dei monaci e (questo incaricato) li distribuirà a
quelli che lavorano e che li custodirà quando glieli renderanno. E sebbene tutti
questi oggetti vengano assegnati in modo particolare ai singoli, tuttavia
saranno comunque affidati, secondo gli ordini del padre del monastero, alla cura
del preposito.
Per
custodire il magazzino in città sia scelto un singolo monaco anziano, dalla
massima rettitudine, coadiuvato da due giovani monaci; ed è bene che rimanga lì
per sempre se è esente da colpe.
Inoltre, la cura dei bambini da assistere sarà compito di un uomo scelto dal
padre (abate), santo, saggio e serio per l'età, che educhi i bambini non solo
nello studio delle lettere, ma anche nell'esempio e con l'insegnamento delle
virtù.
Prendersi cura dei pellegrini e delle elemosine ai poveri ricadrà su colui al
quale è affidato il potere dell'amministrazione. Costui distribuisca ciò che ha
e condivida quanto può (come sta scritto): "Non con tristezza né per forza,
perché Dio ama chi dona con gioia" (2 Cor 9,7).
Capitolo XX (XXII). I monaci infermi.
La
cura dei malati deve essere affidata ad un uomo sano e di vita santa, che possa
avere sollecitudine per tutti loro e sia disponibile a fare tutto ciò che
richiede la loro debolezza con grande impegno. Inoltre serva i malati e non osi
mangiare il loro cibo. Ai malati devono essere offerti cibi più delicati finché
non sono di nuovo in buona salute; quando, tuttavia, staranno bene, torneranno
alle consuetudini precedenti. I più forti non si devono scandalizzare a causa
del delicato trattamento applicato ai malati; coloro che, infatti, godono di
buona salute devono tollerare i malati e coloro che sono infermi non esitino a
preporre a sé stessi i sani e coloro che lavorano. Nessuno deve nascondere una
vera malattia dello spirito o del corpo o simularne una falsa; ma quelli che
possono (lavorare) ringrazino Dio e lavorino; quelli che non possono farlo,
manifestino la loro infermità e siano trattati più teneramente ed umanamente.
Non si tenga nulla di personale sotto il pretesto dell'infermità affinché non si
nasconda la passione dell'avidità con la scusa della debolezza. Nessun monaco
usi i bagni per il desiderio di lavare il corpo, ma solo per le necessità dovute
alle malattie. Se (il bagno) è utile come medicina non sia ostacolato e nessuno
mormori se ciò non gli viene concesso per soddisfare un desiderio di piacere, ma
solo a beneficio della salute.
Capitolo XXI (XXIII). Gli ospiti.
Gli
ospiti che arrivano devono essere ricevuti prontamente e con gioia, sapendo che,
da ciò, nell'ultimo giorno si otterrà una retribuzione, come dice il Signore:
"Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha
mandato. Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del
profeta, e chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del
giusto. Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di
questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua
ricompensa" (Mt 10,40-42). Ed anche se il bene dell'ospitalità deve essere dato
a tutti con carità, tuttavia ai chierici ed ai monaci deve essere accordata una
maggiore testimonianza di onore dell'ospitalità. Si offrano loro dei locali e si
lavino loro i piedi per osservare il precetto del Signore (Cfr. Gv 13,13-15).
Inoltre, con spese opportune si offra loro un'amabile attenzione.
Capitolo XXII (XXIV). Le uscite.
Nessun
monaco pretenda di andare da nessuna parte senza aver ricevuto l'ordine
dell'abate, o di prendere qualcosa senza l'autorizzazione dell'abate o del
preposito. Se l'abate ed il preposito vanno da qualche parte, si prenderà carico
dei fratelli colui che per grado è secondo dopo il preposito. Nessuno osi andare
a visitare un ospite parente od estraneo, od un monaco amico o di famiglia senza
l'ordine del superiore; e non pretenda di ricevere o di inviare a chiunque una
lettera senza l'ordine dell'abate. Quando i fratelli vanno fuori o tornano (nel
monastero), si radunino tutti insieme in chiesa e ricevano la benedizione; allo
stesso modo facciano i servitori settimanali e tutti gli amministratori dei
beni, sia quando ricevono che quando terminano l'incarico. Per eventuali
necessità del monastero siano scelti due fratelli spirituali e molto affidabili
che siano inviati in città o in campagna. Gli adolescenti e coloro che si sono
convertiti di recente non devono essere incaricati di questo compito, poiché la
loro tenera età non venga contaminata dal desiderio di carne, o la loro scarsa
vita di conversione non li spinga a ritornare al desiderio del mondo. Se un
monaco viene mandato a visitare un altro monastero, finché starà coi monaci a
cui è stato inviato è opportuno
che lì viva allo stesso modo in cui vede vivere quest'altra comunità di santi, ovviamente perché i deboli non si scandalizzino e non ne restino
turbati.
Capitolo XXIII (XXV). I defunti.
Per i
fratelli che escono da questa vita, prima che siano sepolti, si offra al Signore
un sacrificio per il perdono dei loro peccati. I corpi dei fratelli siano
sepolti nello stesso luogo, così che coloro che in vita furono uniti in carità,
quando muoiono sia un unico luogo a riunirli.
Il
secondo giorno dopo la Pentecoste, un sacrificio sia offerto a Dio per le anime
dei defunti in modo che, resi partecipi della vita beata, ricevano i loro corpi
purificati il giorno della risurrezione. Pertanto, servi di Dio, soldati di
Cristo disprezzati nel mondo, noi vogliamo che voi custodiate queste cose in
modo che i precetti degli antichi Padri siano pienamente rispettati. Accettate
quindi tra questi precetti anche questa nostra raccomandazione, custodendo con
cuore umile ciò che abbiamo detto ed accettando di buon grado ciò che abbiamo
regolato, in modo che il frutto delle vostre opere sia la vostra gloria e noi,
per la stessa raccomandazione, otteniamo il perdono desiderato. Dio Onnipotente
vi custodisca in ogni bene e, come ha iniziato, così confermi la sua grazia in
voi. Amen.
Termina la regola di sant'Isidoro.
[1]
La numerazione dei capitoli è quella della
Patrologia Latina vol. 103, mentre tra parentesi sono indicati i numeri
di capitolo secondo il codice E=El Escorial, a.I.13.
[2]
Il cenobio a cui è indirizzata la regola viene denominato "Honoriacensis",
ma non ci è consentito sapere chi sia questo Honorio o Onorio a cui è
intitolato il monastero poiché si tratta di un nome che si trova
frequentemente tra i monaci ed i vescovi del tempo.
[3]
Questo paragrafo manca in diversi manoscritti e si suppone sia stato
aggiunto in ottemperanza alla direttiva del canone 49 del IV Concilio di
Toledo del 633 che dice: "monachum
aut paterna devotio, aut propria professio facit", ovvero "sia la
devozione paterna, che la propria professione designa il monaco". In
realtà anche san Benedetto nella sua regola rifiuta al fanciullo donato
dai genitori qualsiasi possibilità di uscire dal monastero, mentre per
esempio san Basilio prevedeva che il fanciullo decidesse ad una certa
età se rimanere o meno nel monastero.
[4]
In latino "faber
ferrarius": solitamente (per esempio in 1 Sam 13,19) significa il
fabbro, cioè colui che lavora i metalli. Nei vangeli si parla di
Giuseppe come "faber", il
falegname, cioè colui che lavora il legno (per esempio Mc 6,3).
[5]
Fino al XVIII secolo era consuetudine considerare l'ora come la
dodicesima parte del periodo compreso tra il sorgere e il tramontare del
sole, o fra il tramonto e l'alba, cosicché la sua durata, ora
convenzionalmente fissata, variava con le stagioni. E quindi
prima coincideva col levare
del sole, terza tre ore dopo e
sesta e
nona di tre ore in tre ore. Queste ore erano più lunghe o più brevi,
a seconda di quanto tempo il sole stava sopra l'orizzonte, ma in modo
tale che mezzogiorno coincidesse sempre con l'ora
sesta.
[6]
Il lucernario precede i vespri ed è una specie di responsorio composto
da vari versetti ricavati dai Salmi. In esso si fa sempre allusione alla
luce, dato che quando si recitano i vespri, al tramonto del sole, è
anche l'ora di accendere le lampade, le
lucernae, in chiesa.
[7]
Il termine latino "missae" è
qui tradotto con "serie".
Si veda Jorge
Pinell, "Liturgia hispánica", Centre de Pastoral Liturgica, 1998:
"Nell'ufficio monastico la missa consiste in un gruppo di tre salmi,
senza antifone né orazioni, ed un responsorio".
[8]
Bibbia C.E.I. traduce :"Guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità".
[9]
Lo sparto è una pianta erbacea perenne provvista
di lunghe e rigide foglie da cui si estrae una fibra resistente
utilizzata per produrre cordami, cesti, stuoie, coperte, scarpe,
calzari, ecc...
Ritorno alle "Regole ispaniche"
Ritorno alle "Regole monastiche e conventuali"
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30 ottobre 2018 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net