ISIDORO DI SIVIGLIA

La vita e le opere

Estratto da "Isidoro, La natura delle cose" a cura di Francesco Trisoglio, Città Nuova 2001.

Il testo originale è completo di molte note chiarificatrici qui omesse.

 

Risulta molto strano che di un personaggio che per un millennio fu celebratissimo, che fu insignito delle qualifiche più risonanti, che con i suoi manoscritti invase l’Europa, noi non conosciamo quasi nulla, con precisione, della sua biografia. Non sappiamo quando e dove sia nato, come si chiamasse la madre e a che stirpe appartenesse [1], che tipo di scuole egli abbia frequentate (monastiche? episcopali? private, condotte da qualche retore?) e che criteri didattici e livelli culturali vi abbia incontrati: egli emerge in piena luce, verso i quarant'anni, nel 601 quando successe al fratello primogenito, Leandro, nella sede metropolitana di Siviglia. Per noi non ha avuto né infanzia né giovinezza.

Del periodo antecedente all’episcopato conosciamo solo gli sfondi: la famiglia, di nobile estrazione ispano-romana, fu cacciata da Cartagena, dove dimorava, ad opera dei comandanti goti, innervositi dall’attesa e poi dall’effettuazione dello sbarco dei Bizantini, avvenuto nel 552: l’espulsione prese di mira i latifondisti, sospettati di connivenze con gl’invasori, per comunanza di cultura e di fede. Il padre Severiano, cattolico, con la moglie e i tre figli Leandro, Fulgenzio (poi vescovo di Astigì) e Fiorentina (poi monaca), riparò nella Betica, allora in rivolta contro il re goto Agila, ariano; scelse Siviglia, perché è probabile che vi possedesse una tenuta ed è qui che, verso il 560, sarebbe nato Isidoro, ultimo di quattro fratelli, tutti proclamati santi.

Leandro, esiliato dall’ariano re Leovigildo per aver contribuito alla conversione al cattolicismo del principe Ermenegildo, fu, intorno al 580-582, a Costantinopoli, dove conobbe il futuro Gregorio Magno, che vi si trovava (579-585) con un incarico diplomatico a nome del papa Pelagio II. Leandro vi stimolò Gregorio a scrivere quei Moralia in Job, che, con i loro 35 libri, costituirono una direttiva morale ed ascetica ricca di spiritualità e di umanità, conobbero un’amplissima diffusione nel Medioevo e divennero una delle fonti primarie di Isidoro.

Leandro, tornato a Siviglia dopo la morte di Leovigildo (586), operò per la conversione al cattolicismo del figlio e successore Recaredo, che avvenne nel 587, fu ratificata ufficialmente nel III Concilio di Toledo (589) e coinvolse tutto il popolo visigotico, che seguì il re nella fede. Alla morte di Leandro (600-601), subentrò Isidoro, che resse la Chiesa fino alla sua morte, avvenuta il 4 aprile 636, in una disposizione di commovente umiltà e penitenza, come ce ne fa fede Redento, chierico del suo presbiterio, che fu testimone oculare e ce ne ha lasciato una relazione, Patr. Lat. 82, 70. Sull’azione pastorale di Isidoro non possediamo una documentazione esauriente ed esplicita, sebbene la possiamo supporre sollecita, anche perché in Sententiae III, 33-46 traccia un programma dell’impegno e delle disposizioni spirituali a cui il vescovo è tenuto ad ispirarsi.

Nella sua qualità di metropolita della Betica Isidoro presiedette il secondo concilio provinciale di Siviglia (tenuto nel 619, in cui si trattò delle circoscrizioni ecclesiastiche e della disciplina sacramentaria) ed il quarto concilio nazionale di Toledo (radunato nel 633, in cui fu redatto un simbolo di fede che espone la teologia trinitaria e cristologica di Isidoro e che fu ripreso per molti secoli anche da altri concili).

I tratti specifici che caratterizzano universalmente la fisionomia di Isidoro non concernono però il suo zelo episcopale e neppure l'eccellenza delle sue virtù, ma la sua incontenibile fertilità di scrittore, che, se non raggiunse mai le vette dell'arte letteraria o della speculazione filosofica, dominò tuttavia come nessun altro il panorama culturale arrivato scialbo ed anemico al finire dell'epoca classica e all'incerto avvio della nuova fase medioevale.

Isidoro si assunse l'incarico di raccogliere quanto gli era giunto della cultura antica e di trasmetterlo alla posterità: non arricchì, salvò; non fece vela per nuovi lidi avventurosi, ricuperò piuttosto i relitti di un naufragio, su buona parte dei quali il Medioevo elaborò una nuova civiltà. Fu il grande traghettatore.

A costituire l'elenco della sua produzione libraria abbiamo due fonti affidabili: la Praenotatio librorum divi Isidori, di san Braulione, vescovo di Saragozza e suo affezionato discepolo ed il De viris inlustribus, § 9 di sant'Ildefonso di Toledo. Dalle loro indicazioni si deduce il seguente prospetto:

1) Teologia dogmatica: Sententiarum libri tres, norme di morale pratica, detratte da Agostino e soprattutto da Gregorio Magno, che formano una sorta di inaugurazione delle Somme Teologiche, ed il De fide catholica contra Iudaeos, in cui dimostra che le profezie dell'Antico Testamento concernevano Cristo;

2) Teologia biblica: Quaestiones in Vetus Testamentum, allestite sulla base della tipologia; Prooemiorum liber unus, sul contenuto dei singoli libri biblici; De ortu et obitu Patrum, presentazione di personaggi biblici; De numeris qui in Sacra Scriptura occurrunt, loro interpretazioni mistiche; Allegoriae quaedam Sacrae Scripturae, su numeri e personaggi dei due Testamenti;

3) Liturgia e disciplina ecclesiastica: De ecclesiasticis officiis, sul culto, il dogma ed i sacramenti, e la Regula monachorum;

4) Ascetica: Synonymorum libri duo, sulla penitenza;

5) Scienze profane: Differentiarun libri duo; De natura rerum; De ordine creaturarum;

6) Storia: Chronica maior, dove, seguendo narrazioni precedenti, getta uno sguardo sullo sviluppo storico dall'inizio del mondo fino al 615; Historia Gothorum, con appendice sui Vandali e sugli Svevi, che inizia con il sorprendente De laude Spaniae; De viris inlustribus, che continua i noti modelli di Girolamo e di Gennadio; De haeresibus;

7) Enciclopedia: Etymologiae, in 20 libri, vasta raccolta di nozioni sui temi più svariati, unificate dalla tecnica di fondare la conoscenza sull'etimologia delle parole, ovviamente concepita secondo le opinioni del tempo e quindi basata su elementari accostamenti fonici;

8) Lettere: 11, delle quali 7 scambiate con Braulione;

9) Epigrammi: 21 in distici, apposti agli scaffali della sua biblioteca, a busti di scrittori, ad oggetti vari.

 

2. L'ambiente storico e culturale

Isidoro visse in un'epoca di essenziale trapasso ed ebbe il merito di interpretarla, almeno parzialmente. La luminosa arcata della civiltà classica si era ormai posata sul pilone di arrivo; se ne apriva una nuova, che dai tesori del passato poteva attingere appoggi e stimoli, ma in sé era anche scossa dalle incertezze proprie di ogni futuro. Quel VI-VII secolo non era più il periodo del crollo immediato con il connesso smarrimento, segnava piuttosto la prima traccia di una sistemazione che la storia avrebbe mostrata precaria, ma che l’orizzonte del momento poteva far intravedere come definitiva.

I Visigoti si erano ormai stabilmente assestati nel sud-est della Spagna; il contrasto delle due civiltà tendeva a livellarsi, in quanto la primitività barbarica, a contatto con la perizia organizzativa e la brillante cultura romana, non poteva non subirne progressivamente il fascino e quindi l’attrazione ad assimilarsi; l’ostacolo della religione, dopo il fallimento del tentativo messo in atto da Leovigildo di attrarre all’arianesimo gli Ispano-romani, era stato rimosso con la conversione al cattolicismo di Recaredo (587), seguito dal suo popolo; la minaccia di una riconquista bizantina si era arenata sulla striscia litoranea meridionale. Sembrava raggiunta una base di solidità, dopo le oscillazioni antecedenti tra fedeltà ed ostilità all’Impero e le ricorrenti antipatie di carattere religioso che avevano indebolito il regno tolosano (418-507). Leovigildo (567-583), estendendo il suo dominio in Galizia e battendo i Franchi, aveva assicurato territorialmente il regno, ed il figlio Recaredo (586-606) lo aveva pacificato sul versante religioso, avviando quella romanizzazione che sarebbe poi stata ufficializzata da Recesvindo (649-672) con il Liber iudiciorum o Lex Wisigothorum. Nulla lasciava presagire il successivo sgretolamento, che nel 711 avrebbe portato alla caduta del regno di Toledo ad opera degli Arabi, i quali avrebbero conquistato quasi tutta la Spagna, sospingendo i Visigoti a ritirarsi nelle montagne delle Asturie.

A questa sistemazione politico-militare si trattava d’infondere un'anima che la rendesse vitale: traslocare la recente società dall’antico al nuovo, fornendo al presente quanto era possibile ricuperare dell’immenso patrimonio di elaborazione culturale e di acquisizioni scientifiche che era stato accumulato.

Isidoro ebbe il supremo merito di comprendere con lucidità tanto le capacità recettive e le esigenze immediate della società quanto le proprie attitudini personali: i Visigoti non erano in grado di assimilare sublimità speculative né egli era attrezzato per fornirle. L'incontro avveniva in una trasmissione: il compito dell’ora era salvare, al massimo adattare, più che innovare.

Naturalmente occorreva un trasferimento che non fosse deposito statico, ma fermento di vita e d’una vita autentica, quale egli la concepiva nella sua missione episcopale: le nozioni per lui erano anche direzione, erano orientamento nella vita individuale e sociale, guida nella valutazione della storia nella sua attualità e nella sua evoluzione.

Isidoro, nato da un padre di antica ascendenza ispano-romana e cresciuto in un ambiente politico di predominio gotico, percepì se stesso come confluenza delle due correnti; non le giudicò e non le volle in contrasto: sentì di essere chiamato a fonderle nel flusso rigoglioso di una vitalità che avrebbe percorso i secoli. Egli da quella qualifica di “barbaro", che designava e deprezzava le popolazioni esterne all’Impero, esimeva i Visigoti, applicandola invece con convinzione agli Svevi, agli Alani, ai Vandali, loro nemici. E certo a questa sua concezione dovette somministrare un grande alimento la figura di Sisebuto, re e letterato, non solo tanto illuminato da sospingerlo a scrivere un trattato di cosmologia, ma egli stesso dignitoso poeta, tecnicamente agguerrito e letterariamente ben informato, anche se di modesta ispirazione: un monarca abile guerriero, convinto nella fede, difensore del cristianesimo dalle insidie giudaiche, sensibile alla sventura , amante dell’arte fino ad esserne propositore e cultore, lo doveva certamente attrarre, visto che la storia non gliene presentava molti rivali.

Durante i due secoli precedenti molti vescovi si erano drizzati a difesa della loro gente contro la violenza degli invasori ed avevano supplito con le loro prestazioni personali all’insufficienza delle strutture statali fatiscenti. Isidoro trasferì nella sua epoca questi servizi adeguandoli alla nuova situazione: la tutela delle popolazioni dai sopravvenuti la Chiesa l’aveva già attuata con la loro conversione al cattolicismo, affratellando le due stirpi negli stessi sacramenti e nella preghiera corale dinanzi al medesimo altare e l'aveva rinforzata riconoscendo la legittimità del nuovo governo; aveva garantito il funzionamento della macchina organizzativa dello stato ispirando ai sovrani l'idea della legge; urgeva ora completare l’opera amalgamando le due tradizioni in una sola mentalità: strumento di questa simbiosi non poteva essere che la cultura. Isidoro pose a fine della propria azione, personale ed episcopale, la riapertura dei canali culturali minacciati da un rovinoso intasamento.

 

3. Isidoro quale tramite delle conoscenze antiche

Ver cogliere il significato ed il valore dell’opera culturale di Isidoro bisogna collocarsi ad un punto di vista molto elevato, per poterla abbracciare in uno sguardo sintetico che ne rilevi tutta l’estensione. È ormai luogo comune che Isidoro non abbia originalità, che ogni sua affermazione scaturisca da una fonte, nota o ignota, ma pur sussistente: ed è vero; però la sua originalità sta proprio nell'aver recinto un’immensa quantità di fonti e nell’averle coordinate: privo di profondità, è pressoché inarrivabile in estensione. Le sue Etymologiae sono un coacervo, ma il fatto che in Europa se ne riscontrino 10.000 codici e che fossero il manuale imprescindibile di tutti i centri culturali, sia monastici che cattedratici, testimonia che centrò con perfetta esattezza l’esigenza di un millennio: la sua genialità non risiede in quello che scrisse, ma nell'averlo scritto.

Tranne casi relativamente rari, Isidoro non specificò le sue fonti: al suo pubblico premevano più le nozioni che non i loro autori: era quel Medioevo nel quale omelie, inni liturgici, quadri e statue sacre, chiese e broletti restavano spesso in un anonimato che non umiliava gli artefici, i quali si sentivano sufficientemente ricompensati dal successo delle loro produzioni. In consonanza con la mentalità diffusa, Isidoro fu sospinto ad esibire in generale il prodotto senza etichetta di proprietà: ciò indusse naturalmente i ricercatori a solcare nelle più varie direzioni il suo amplissimo mare alla scoperta dei banchi sommersi: la pesca fu ovviamente copiosissima, ma non tutta immune da sospetti ed al coperto da insidie.

Ad avanzarsi a vele spiegate in questa spedizione di scoperta è stato soprattutto J. Fontaine, il quale in Isidore de Séville et la culture classique dans l'Espagne wisigothique, I-II, Paris 1983, con una tenacia instancabile, una finezza che non si è mai smussata, una metodologia che ha sempre cercato gli accorgimenti più fini e più efficaci, una solerzia di raffronti che ha tentato di stabilire trafile nel trapasso dei concetti da un testimone all’altro ha fruttuosamente esplorato vastissime aree. Alla sua decisione d’avanzata non sono però sfuggite le difficoltà del percorso. Fontaine ha subito posto in chiaro quanto siano insufficienti talune concomitanze, anche significative, per stabilire rapporti diretti tra Isidoro e determinati suoi “fornitori’’; ha persuasivamente sostenuto che Isidoro dovette attingere direttamente da tutto un intreccio di scolii [2], commenti, testi scolastici, appunti di lezione, prontuari, in massima parte perduti, i quali fecero da tramite, attraverso a passaggi indeterminabili, all'autentica fonte originaria. Alla luce di questa consapevolezza Fontaine ha spaziato lungo tutta l’area disponibile per reperire i punti di riferimento isidoriani nelle chiose d’argomento astronomico, ha cercato di ricostituire la “biblioteca profana” di Isidoro (pp. 733-762), arrivando alla conclusione che egli attinse le sue citazioni dei poeti classici in larga parte da scoliasti (pp. 742-743); ammette anche una lettura diretta come possibile per taluni versi di Ovidio, come probabile per Virgilio, come sicura per i poeti cristiani, come assai verosimile per Marziale, poeta nazionale ispano-latino, ed anche per Lucrezio, di cui la lingua dell’epistola di Sisebuto è fortemente impregnata (p. 743).

Per quanto concerne la prosa latina classica, Fontaine stabilisce ad assioma che una citazione con l'inserzione precisa del nome dell'autore, e talora dell'opera, è in Isidoro il segno di una provenienza di seconda mano, mentre, al contrario, è facile vedere nelle citazioni senza inserzione il segno dell’utilizzazione diretta di scrittori come Quintiliano e Cassiodoro, impiegati senza menzionarli (p. 743). Risulterebbe inoltre possibile, sebbene non probabile, la presenza nella biblioteca di Isidoro di opere di Cicerone; Sallustio arriva attraverso Servio, Gellio, Novio (p. 747); non c'è traccia di Tacito né di Plinio il Giovane; conosce Cesare solo come grammatico (p. 747); sicure sono le presenze di Quintiliano, di Marziano Capella e soprattutto di Cassiodoro (p. 748). La disponibilità di elementi dell’enciclopedia ellenistica più tardivi rende poco probabile il ricorso a Varrone o ai Prata di Svetonio (p. 749), sostituiti da Solino, Placido, Servio. Ad importante sussidio assurgeva, accanto alla letteratura scolastica, quella dossografica, il cui uso traspare attraverso l’eclettismo delle opinioni giustapposte (pp. 754-755); insomma, la grande maggioranza degli scrittori pagani “citati”, specie quelli più antichi, sono almeno di seconda mano; documentazione immediata di Isidoro è la letteratura scolastica che egli sfogliava o faceva sfogliare dai suoi scrivani (p. 739).

L'esplorazione di Fontaine ha raggiunto i limiti attingibili: sono amplissimi, eppure si ricava netta la sensazione, che, indubbiamente sufficienti per comprendere con sicurezza gl'intenti, i metodi, la mentalità d’Isidoro, non esauriscano i percorsi lungo i quali le nozioni sono arrivate a lui. Si tratta infatti di linee, talora precise, ma spesso anche evanescenti: non è detto che sia possibile stabilire uno stemma da un libro all’altro, che il successivo abbia attinto dal precedente con fedeltà, inibendosi integrazioni, soppressioni, mutazioni, che il compositore di un manuale abbia avuto dinanzi solo testi o non abbia piuttosto redatto il suo materiale in base alla sua scienza del momento, conglomerato di letture stratificate, non più da lui stesso individualmente discernibili. È indubbio che ogni uomo respira un’atmosfera culturale in cui le idee hanno smarrito i loro propositori, costituendo un indefinito patrimonio, anonimo ma vitale; la terminologia di scuola tende a vagare fuori dal suo recinto, neutralizzandosi e velando la propria origine. Inoltre non è possibile determinare le innumerevoli linee di raccordo che Isidoro poté avere con testi ormai perduti; molte soluzioni lessicali o stilistiche possono essere state condizionate dall’ultimo ripensamento in varia mutazione dalla fonte originaria. Tanti accostamenti sono indicazioni di fonte o soltanto richiami ad un tema? Si connettono ad un autore, ad una scuola o semplicemente alla tradizione? Quando si sono specificate consonanze, come assicurare che si tratti di un transito diretto e che non si collochino intermediari tra i due poli? Ed in alcuni casi, fonte comune o rapporto immediato? Fonte o semplice antecedente? La costituzione di un apparato completo delle fonti è pertanto impossibile, oltre che inutile. Bastano, al di fuori delle citazioni dell’autore stesso e delle trascrizioni in qualche modo letterali, le tracce orientatrici generali e Fontaine ha agito saggiamente ponendo tra parentesi molte concomitanze piuttosto fluttuanti, resistendo all’allettamento della somiglianza che, di simile in simile, attira sempre più lontano.



[1] Appare fragile l'ipotesi che fosse di stirpe visigotica.

[2] Generalmente con "scolii" vengono designate brevi osservazioni o spiegazioni scritte da un lettore in margine al manoscritto. In un certo senso lo scolio si può paragonare alla nota dedicata a un passo in una moderna edizione commentata. Per lo più esso è anonimo e frammentario. (Da "Enciclopedia Italiana Treccani". Ndr.)


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30 Ottobre 2018                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net