Regola dei Solitari di Grimlaico
Riassunto
	
	
	LA VASTITÀ DEL CIELO
	
	NELL’ANGUSTIA DELLA CELLA
	
	Estratto da "Regola delle recluse", 
	Aelredo di Rievaulx, Paoline 2003
	
	
	Attorno alla metà del XII secolo il grande abate di Cluny, Pietro il 
	Venerabile, scrivendo al monaco Gisleberto, che viveva da recluso nella 
	diocesi di Senlis, gli augurava di trovare «nell’angustia della cella la 
	vastità del cielo»
	
	
	
	
	[1]. Uno o due decenni dopo, 
	Aelredo, abate cistercense di Rievaulx, componeva per la sorella reclusa una 
	sorta di regola di vita che pure sfociava nella visione del cielo:
	
	
	per angusta ad augusta, per usare un altro detto celebre nella 
	storia della spiritualità cristiana. Questi due testi, praticamente 
	contemporanei, costituiscono due pietre miliari nella letteratura prodotta 
	per fornire indicazioni di vita riguardanti una forma di consacrazione che, 
	proprio per la scelta di totale solitudine, offriva enormi margini di 
	indipendenza. Lo spazio vitale era certo esiguo, talvolta al punto da non 
	permettere neanche di stare in piedi; e questo pure poteva suscitare qualche 
	problema. Ma il tempo era tutto a disposizione del recluso, e per gestirlo 
	in modo serio e proficuo, onde evitare la dissipazione e la dispersione, si 
	esigevano con ancora più urgenza suggerimenti e direttive.
	
	Pietro il Venerabile (1094-1156) e Aelredo di Rievaulx (1110-1167) non sono 
	comunque i primi a occuparsi, in Occidente, della vita reclusa: 
	esisteva già una 
	
	
	Regola dei solitari composta verso la 
	fine del secolo IX da Grimlaico, un prete vissuto da recluso in 
	Lotaringia, forse nella diocesi di Metz, del cui vescovo Arnolfo († 816) 
	l’autore mostra di avere, oltre alla conoscenza, una grande stima
	
	
	
	
	[2]. Si tratta di un testo fondante, 
	per di più molto esteso, da cui è giocoforza partire, insieme alla lettera 
	di Pietro il Venerabile, per poter fornire uno sfondo culturale e spirituale 
	alla 
	
	Regola delle recluse di Aelredo, e vedere così, nelle conferme 
	e nelle differenze, il formarsi di una tradizione che continuerà a fiorire 
	per tutto il medioevo, e che avrà nello stesso testo di Aelredo un elemento 
	di riferimento di sostanziale importanza.
	
	
	
	A. La 
	
	
	Regola dei solitari 
	di Grimlaico
	
	Se anche, come sembra appurato, quella di Grimlaico è la prima Regola per 
	reclusi prodotta in Occidente, il lettore non si sorprenderà di apprendere 
	dallo stesso autore che non si tratta di un’opera che oggi noi chiameremmo 
	originale: come era d’uso - e come del resto farà anche Aelredo - Grimlaico 
	si mostra riluttante davanti all’impresa che dice essergli stata « ingiunta 
	», e soprattutto non pretende affatto di fondare cose nuove, ma afferma di 
	aver composto la sua Regola ordinando «sentenze» ed esempi tratti dai Padri 
	di fede ortodossa
	
	
	
	[3]. La confessione di inadeguatezza, 
	congiunta con la dichiarazione di rifarsi al passato, è notoriamente uno dei 
	più caratteristici luoghi comuni della letteratura prodotta nel medioevo, 
	sia in campo religioso sia in quello secolare. Oltretutto Grimlaico è ben 
	consapevole che la reclusione non l’ha inventata lui, essendo l’eremitismo 
	alle origini stesse del monachesimo, fin dai tempi di Paolo di Tebe, detto 
	appunto l’eremita, e di Antonio suo discepolo
	
	
	
	[4]. Più importante è conoscere quali 
	siano le fonti cui Grimlaico attinge più volentieri. Va da sé che la 
	Scrittura occupa uno spazio rilevante, con oltre 250 citazioni, seguita 
	immediatamente dalla
	
	
	Regola di Benedetto: vengono dopo, in ordine di frequenza 
	decrescente, Isidoro di Siviglia, le
	
	
	Vite e i detti dei Padri, Basilio, Gregorio Magno, Girolamo, 
	Giuliano Pomerio (citato come Prospero) e infine Agostino. Al cap. 41 
	Grimlaico menziona inoltre la
	
	
	Regula canonicorum di Aquisgrana. Chartier aggiunge alla lista 
	anche i nomi di Alcuino, Paolino di Aquileia e Smaragdo di San Mihiel, tutti 
	autori del periodo carolingio, i quali, anche se non sono citati 
	espressamente, appaiono aver influenzato certe parti della Regola
	
	
	
	[5].
	
	La Regola di Grimlaico si distende su 69 capitoli (90 colonne nell’edizione 
	della Patrologia Latina) e risulterebbe difficile anche solo farne una 
	sintesi, non fosse altro perché non presenta un piano chiaramente 
	articolato, essendo una compilazione che raccoglie ciò che, secondo i 
	criteri moderni, chiameremmo materiali eterogenei. Vi si trovano infatti 
	accostate senza un’organizzazione apparente, se non forse dentro singole 
	sezioni, considerazioni sul senso della vita reclusa, esortazioni alla 
	pratica delle virtù, prescrizioni di carattere canonico-legislativo 
	riguardanti la clausura (regole di ammissione e probandato) o più in 
	generale l'organizzazione dell’ufficio liturgico o il modo di gestire il 
	tempo o regole riguardanti cibo e vestiario: in mezzo a tutto ciò, commenti 
	a brani della Scrittura riguardanti la vita morale, sostanziati da sentenze 
	dei classici cristiani e corroborati da aneddoti tratti dalle
	
	
	Vite dei Padri in funzione di
	
	
	exempla, e in negativo lamenti sui costumi corrotti del tempo, 
	soprattutto sulle molte infedeltà dei monaci nei confronti della loro 
	vocazione.
	
	Senza entrare nei dettagli, potremmo circoscrivere i punti salienti della 
	Regola di Grimlaico a partire dal piano che lui stesso presenta nel Prologo. 
	In testa colloca la rinuncia al mondo e la scelta della vita contemplativa; 
	segue una serie di indicazioni che riguardano lo stile di vita dei solitari 
	nel loro cammino di santità, tra cui inserisce una sezione sull’osservanza 
	dei comandamenti del Signore (tre soli capitoli, dice, perché si tratta di 
	cose che i solitari hanno davanti agli occhi giorno e notte); poi passa a 
	parlare di quella che lui chiama « vita attiva » (e che più tardi si 
	costumerà chiamare « regola esterna »), e che consiste in determinazioni 
	circa il cibo, la bevanda, le vesti e il letto, i digiuni e le astinenze; 
	segue una sezione sui vizi e le virtù e un capitolo conclusivo sulla 
	perseveranza. Il sommario è approssimativo, e assomiglia più a un progetto 
	iniziale che alla sua effettiva realizzazione, ma può comunque servire da 
	guida per organizzare il materiale.
	
	
	1. La vocazione alla vita reclusa
	
	Grimlaico distingue anzitutto due tipi di solitari o reclusi, che chiama 
	"monaci’', dando al termine il senso di uno che vive da solo; dopo aver 
	detto che essi sono presenti sia tra gli eremiti sia tra i cenobiti (Regola 
	dei Solitari, RS 1), stabilisce la distinzione fondamentale tra il 
	monaco, a cui è chiesto di rinunciare a tutti i suoi beni, e il cristiano 
	che vive nel mondo, il cui compito è di gestire bene ciò che possiede (RS 
	2). Il rifiuto del mondo e delle sue ricchezze, collocato all’inizio del 
	percorso (RS 4-7), non è altro che la premessa alla scelta di una vita di 
	contemplazione: l’invito a vendere ciò che si ha per seguire il Signore 
	risuona spesso all’origine di tante scelte religiose, a partire da quella 
	divenuta classica di Antonio, il padre dei monaci
	
	
	
	[6]. La scelta della fuga dal mondo 
	implica un giudizio di valore che è già stato illustrato ampiamente nel 
	primo capitolo di questa introduzione: la dimensione escatologica della vita 
	cristiana, infatti, relativizza fino all’azzeramento l’importanza del mondo 
	e/o della vita terrena e dei suoi beni. Così scrive Grimlaico già nel 
	Prologo: «Cosa c’è di più faticoso in questa vita che ribollire nei desideri 
	terreni? O cosa c’è di più sicuro che il non bramare niente della vanità di 
	questo mondo? Quelli infatti che amano il mondo sono disturbati da affanni e 
	sollecitudini turbolente. Quelli invece che se ne allontanano, e cercano la 
	vita solitaria, cominciano in certo modo a possedere già qui il riposo e la 
	pace che attendono per la vita futura ».
	
	Il contrasto presente/futuro, o mondo/cielo, generato dall’attesa 
	escatologica, produce tutta una serie di contrapposizioni che ricorrono in 
	continuazione, al punto da poter affermare che la retorica del paradosso è 
	il genere letterario più caratteristico della letteratura della reclusione. 
	Per dare solo un esempio tra i tantissimi che si potrebbero citare, si veda 
	quanto scrive Grimlaico: « È certo che chi su questa terra preferisce la 
	vita contemplativa agli onori incerti, alle ricchezze, fonte di ansietà, e a 
	piaceri caduchi, troverà onori veri, ricchezze sicure e piaceri eterni 
	quando giungerà al vertice della contemplazione nella vita beata che Dio in 
	futuro gli darà come premio » (RS 11). Tenere gli occhi fissi sul futuro è 
	dunque uno dei motivi cardine della scelta di solitudine, che porta « 
	lontanissimo dal frastuono degli affari mondani » e permette al solitario di 
	« portare senza posa la punta del suo spirito là dove desidera arrivare. 
	Tenga davanti agli occhi dell'animo e ami la beatitudine della vita futura. 
	Non tema né desideri alcunché di temporale: perché né la paura di perdere un 
	bene temporale né il desiderio di possederlo sfianchi lo slancio della 
	mente» (RS 12). In definitiva «la vita contemplativa altro non è che la 
	conoscenza delle cose nascoste nel futuro o l’abbandono di tutte le cose 
	mondane o lo studio delle scritture divine» (RS 8). E dunque, « tutto ciò 
	che è visibile va trasceso, e tutto ciò che è transitorio va disprezzato», 
	ed è perfettamente logica la preghiera che Grimlaico suggerisce di ripetere 
	ogni giorno: « Fa’ che da questo infelicissimo pellegrinaggio possiamo 
	passare presto alla tanto desiderata patria, dove regneremo per tutti i 
	secoli con i beatissimi angeli e con quegli uomini totalmente felici che 
	hanno rinunciato al mondo» (RS 3). Il lessico dell’esilio è perfettamente in 
	tema.
	
	Alla sezione sulla rinuncia alle ricchezze segue dunque, in piena 
	consequenzialità e naturalezza, quella sulla vita contemplativa, messa a 
	contrasto - e insieme a complemento - con quella attiva
	
	
	
	
	[7] (RS 8-13), sezione che si 
	conclude con la ragione storica su cui si fonda la scelta da parte dei padri 
	antichi della vita eremitica: fuggire lontano non solo dai comportamenti 
	delle persone viventi nel secolo, ma anche dalla loro compagnia, «convinti 
	che quanto più si separavano dai piaceri del mondo tanto più erano 
	frequentati dagli angeli, e quanto più si allontanavano dal mondo tanto più 
	si avvicinavano a Dio» (RS 14). Grimlaico infatti sa che «vivere in mezzo a 
	coloro che si comportano trascurando il timore di Dio e disprezzando i suoi 
	comandamenti è dannoso per i più », e che « molti trovano un ostacolo nella 
	compagnia e nella vicinanza di persone che conducono una vita dissimile 
	dalla loro» (RS 26).
	
	
	
	2. 
	
	La cella del recluso
	
	Precisato il senso della vita solitaria, Grimlaico descrive alcune regole 
	per l’ammissione degli aspiranti alla reclusione (RS 15 e 18): poiché tale 
	scelta suppone una persona matura sia psicologicamente sia spiritualmente, è 
	necessario passare un periodo di prova in una comunità monastica, almeno per 
	un anno, e avere l’approvazione del proprio vescovo o abate. È interessante 
	anche osservare come Grimlaico tenda a mitigare la solitudine, che non 
	dovrebbe essere assoluta: consiglia infatti ai solitari di stare almeno in 
	due o tre, così che « possano parlarsi attraverso la finestra, stimolarsi a 
	vicenda all’ufficio divino»; ma anche per mettere alla prova la loro umiltà, 
	la pazienza, la carità, evitando il rischio, trovandosi in una solitudine 
	totale, di inorgoglirsi per supposte virtù, che messe alla prova potrebbero 
	rivelarsi inconsistenti (RS 17). Fa parte di questa mitigazione della 
	solitudine la presenza di discepoli accanto al recluso (RS 52-53), oltre al 
	ministero del consiglio offerto a chiunque si rivolga a lui, e perfino la 
	possibilità di accogliere ospiti (RS 55).
	
	In questa sezione acquista particolare significato la descrizione della 
	cella del recluso (RS 16), nella quale si entra mediante un rito che 
	assomiglia a quello di una solenne professione monastica: dopo l’ingresso la 
	porta è murata e il vescovo vi pone il suo sigillo. La cella infatti non 
	deve essere accessibile a nessuno e deve contenere, pur nella esiguità 
	richiesta, tutto ciò di cui il recluso ha bisogno, compreso, se è prete, un 
	piccolo oratorio, perché non abbia alcuna necessità di uscire. Tale oratorio 
	sia «contiguo a una chiesa, perché lo stesso recluso possa, attraverso una 
	finestra, offrire al sacerdote le oblate durante la messa, udire in modo 
	conveniente i fratelli quando cantano e leggono, così da poter salmodiare 
	insieme a loro; e sia parimenti in grado anche di conversare con chi viene a 
	trovarlo. Ma ci siano appesi alla finestra dei veli, dentro e fuori, così 
	che egli non possa facilmente vedere o essere visto perché non accada che, 
	attraverso la porta degli occhi, venga estratto morto, come è scritto: “Bada 
	a che la morte non entri nella tua anima attraverso le tue finestre” (Ger 
	9,20 Vg)... Abbia anche nel recinto del reclusorio un piccolo orto, se è 
	possibile, dove possa ogni tanto uscire a piantare e raccogliere verdure, e 
	anche per essere toccato dall’aria, perché il tocco
	
	
	dell’aria gli sarà molto utile. Ci sia inoltre fuori dal 
	recinto del reclusorio un’altra cella in cui abitino i suoi discepoli, e sia 
	così vicina alla sua cella da permettere ai discepoli di servirgli 
	facilmente le cose che gli sono necessarie. Se due solitari vivono insieme, 
	come si sa che avviene in molti luoghi, ci sia tra loro un silenzio immenso, 
	una grande quiete, e una carità perfetta. Stiano da soli e separati, 
	ciascuno nella sua cella; ma nell’animo, nella fede e nella carità siano 
	inseparabilmente uniti » (RS 16). Come già detto, una finestra comune 
	permette a due solitari di aiutarsi reciprocamente nella vita spirituale e 
	di trovarsi anche a mangiare insieme. Dal reclusorio le donne sono 
	rigidamente escluse: non solo non si devono guardare, ma soprattutto non si 
	deve né parlare con loro né toccarle.
	
	
	3. La vocazione del recluso alla santità
	
	La santità rimane, naturalmente, l’obiettivo principale della vita reclusa, 
	e a questo tema vengono consacrati alcuni capitoli a partire da RS 19, che 
	poi altro non è che un commento alla Lettera a Tito 1,7, dove il soggetto è 
	il “vescovo”: come lui il monaco deve essere « non arrogante, non iracondo, 
	non dedito al vino, non violento, non avido di guadagno disonesto», e 
	inoltre, «non litigioso, non neofita e non doppio nel parlare» (cfr. 1 Tm 
	3,3.6.8). Siccome il contesto della Lettera a Tito è la messa alla prova dei 
	candidati a guidare la comunità, è possibile che il passo sia stato 
	suggerito in connessione con quella parte della Regola appena illustrata 
	dove il tema principale è costituito appunto dai criteri di ammissione alla 
	reclusione. È questo un caso, e non certo l’unico, in cui il testo sembra 
	organizzarsi per generazione interna, per cui un tema, ripescato dal centro 
	o dalla conclusione di un capitolo, diventa il motivo dominante del capitolo 
	successivo.
	
	È quanto accade anche in questa sezione sulla santità. Il capitolo 19, che 
	riguarda la santità personale, si conclude con l’immagine di un monaco che 
	con la sua vita impetra il perdono di Dio per i suoi peccati e per quelli di 
	tutti gli uomini, offrendo inoltre un esempio positivo a coloro che 
	denigrano la vita religiosa. Viene dunque in gioco il rapporto del recluso 
	con il mondo; ed ecco che nel capitolo successivo si richiede che il 
	solitario sia sapiente e istruito nella legge divina, « anzitutto per 
	debellare le insidie del demonio, che spesso si immerge nei cuori degli 
	stolti, e inoltre per irrigare con le onde fluenti della dottrina i cuori 
	inariditi di persone che capitano da lui, e istruire generosamente i suoi 
	discepoli, se ne ha » (RS 20).
	
	Si è già accennato all’esistenza di discepoli che rendono la reclusione più 
	mite. Questo ha però anche a che fare con l’irradiazione apostolica della 
	vita reclusa, che dunque non è limitata alla preghiera di intercessione: il 
	fatto di rinchiudersi in una cella non toglie al recluso la responsabilità 
	verso la città degli uomini; anzi, è storicamente dimostrato come i reclusi 
	- e anche, come si vedrà, le recluse - abbiano svolto nella comunità 
	cristiana un’apprezzata attività di insegnamento e di direzione spirituale. 
	La cosa non era senza rischi, come appare con evidenza nel testo di Aelredo, 
	ma importa segnalare che la vocazione alla vita reclusa è stata fin 
	dall’inizio segnata da questa preoccupazione apostolica, come mostrano 
	quelle vere e proprie scuole di spiritualità che furono gli eremi della 
	Tebaide e in genere dell’Oriente antico. Del resto, il bene del prossimo è 
	talmente cruciale che Grimlaico consacra un intero capitolo (RS 22) a dire 
	che, se un solitario ha qualità per essere pastore nella Chiesa, non può 
	rifiutare l’incarico per amore della quiete, perché in questo modo 
	dimostrerebbe di non amare davvero il pastore sommo che è Cristo.
	
	Normalmente però il recluso vive nella solitudine e nel silenzio; tuttavia, 
	anche così egli svolge nella comunità un ministero di predicazione: « 
	Predicheremo nel silenzio quando offriremo agli altri uomini un modello di 
	vita buona, e mostreremo loro esempi luminosi » (RS 20). Questo tema diventa 
	l’argomento del capitolo successivo, il quale trova la sua naturale 
	continuazione in RS 22 appena ricordato, dove l’esempio da dare agli altri 
	può tradursi anche nell’assunzione di una responsabilità pastorale. Scrive 
	saggiamente Grimlaico: «Ci sono alcuni che, dotati di grandi doni di 
	sapienza e scienza, poiché ardono solo del desiderio della contemplazione, 
	rifiutano di prestarsi ad aiutare il prossimo con la predicazione, amano la 
	solitudine e la quiete, bramano appartarsi nella speculazione. Costoro, se 
	chiamati, rifiutano il vertice del governo, ma facendo così perdono anche 
	per sé i doni che hanno ricevuto non solo per il loro vantaggio, ma anche 
	per il bene degli altri » (RS 22).
	
	
	4. La quiete e la lotta del recluso
	
	La quiete, sembra dire Grimlaico, non è tutto, e comunque non deve essere 
	intesa come assenza di fatica. È vero che la cella è da lui definita « porto 
	della quiete », ma proprio lì la nave del recluso può correre il rischio del 
	naufragio (RS 24). Continuando la sua riflessione sulla santità dei 
	solitari, egli scrive: « Non siamo venuti qui per il riposo e la sicurezza, 
	ma per una battaglia, ci siamo lanciati in una lotta, ci siamo affrettati a 
	fare la guerra ai vizi... Questa lotta che abbiamo ingaggiato è molto ardua, 
	molto dura, molto pericolosa, perché si combatte dentro l’uomo, e finirà 
	solo con la fine dell'uomo. Perciò siamo venuti a questa vita tranquilla, 
	appartata e spirituale, per combattere ogni giorno con assalti instancabili 
	contro le nostre passioni, per circoncidere la nequizia del cuore e smussare 
	la spada della lingua » (RS 23). Due capitoli, RS 23 e 24, sono consacrati 
	alla lotta spirituale, mentre RS 25, che elenca gli strumenti da usare in 
	questa lotta, altro non è, incluso il titolo, che l’intero capitolo 4 della
	
	
	Regola di Benedetto, al quale fa seguito un capitolo dedicato 
	all’osservanza dei comandamenti di Dio. Probabilmente questi temi di 
	carattere generale danno a Grimlaico l’opportunità di ricordare che la 
	sequenza di atteggiamenti virtuosi da lui esposti in modo sommario « 
	riguardano tutti i solitari, e per la verità non solo loro, ma tutti i servi 
	di Dio e i cattolici cristiani » (RS 24). Questo rimanda a quanto si è detto 
	circa il valore esemplare universale della vita eremitica, e spiega come nel 
	tardo medioevo siano state utilizzate, come si vedrà, regole monastiche per 
	fornire a un crescente pubblico di lettori laici dei manuali di vita 
	interiore
	
	
	
	[8]. Dopo l’esposizione delle virtù da 
	praticare nella lotta spirituale, Grimlaico si espande in quella che pare 
	una lunga digressione (RS 27-28) in cui registra ciò che in questa lotta 
	appare una serie di sconfitte: è un lungo lamento contro i tanti mali del 
	tempo, quando sembra che quasi nessuno si sforzi di osservare la legge di 
	Dio o riesca a praticarla. È l’altra faccia della medaglia, dove troviamo 
	uno spiraglio (l’unico, sembra) autobiografico: a indicare quanto radicato 
	sia in noi il vizio, l’autore dice che proprio mentre pensava a farsi 
	recluso si scoprì a preoccuparsi di come procurarsi vestiti, lumi, legna, 
	legumi e quant’altro, più attento al benessere del proprio corpo che a 
	quello dello spirito (RS 28). E in effetti, quella che sembrava una 
	digressione, trova una sua collocazione logica nella Regola, funzionando da 
	schema per un esame di coscienza: conduce infatti a due capitoli (RS 29-30) 
	che trattano della compunzione del cuore.
	
	
	5. La vita quotidiana
	
	La sezione successiva comprende temi disparati. Senza forzare e imporre 
	schemi al testo, si potrebbe ritrovare un elemento unitario vedendo nei 
	capitoli 31-40 le varie attività che caratterizzano la giornata del 
	solitario: orazione (RS 31-38),
	
	
	lectio (RS 38), lavoro manuale (RS 39-40). I temi non sono 
	sistemati con ordine, e vengono trattati a più riprese. L’orazione occupa, 
	naturalmente, uno spazio considerevole, e anche qui la Regola sembra 
	procedere per contrappunti: al capitolo sulla necessità di pregare sempre 
	(RS 32) segue quello sulle fantasie ingannevoli procurate dal demonio che 
	impediscono l’orazione (RS 33); a riflessioni generali sul canto dei salmi 
	alla presenza di Dio e dei suoi angeli (RS 34) segue un titolo che propone 
	la disposizione delle ore in cui salmodiare (RS 35), che però è curiosamente 
	contraddetto nello sviluppo del capitolo, dove Grimlaico si rifiuta di dare 
	indicazioni precise, preferendo esaltare le molteplici virtù dei salmi
	
	
	
	
	[9] e preoccupandosi di esortare 
	alla varietà delle occupazioni, alternando preghiera, lettura e lavoro 
	manuale onde evitare il rischio della « noia del cuore e della mente» (RS 
	35), la classica
	
	
	acedia.
	
	Questo è un tema centrale nella letteratura sulla reclusione, presente fin 
	dalle origini: non a caso Grimlaico accompagna la sua esortazione con un 
	celebre detto di Antonio
	
	
	
	
	[10] che era diventato una sorta di 
	legge. Appartengono alla sezione sulla preghiera due capitoli che riguardano 
	i sacerdoti e l’eucaristia: se sia il caso di celebrare la messa tutti i 
	giorni (RS 36), e se si possa celebrare dopo aver avuto una polluzione 
	notturna (RS 37). Nelle sue risposte Grimlaico si mostra equilibrato: sul 
	primo problema lascia la scelta alla fede del sacerdote, e quanto al secondo 
	ricorda che se la cosa avviene naturalmente, o anche per aver mangiato un 
	po’ troppo, non è il caso di astenersi dal celebrare, soprattutto se la 
	necessità lo richiede, mentre altra è la questione quando si può pensare che 
	la cosa sia dovuta all’aver troppo ingolfato la mente con sguardi e desideri 
	impudichi; è bene comunque tenere il corpo sotto controllo con digiuni e 
	astinenze.
	
	Il passaggio da esortazioni spirituali alla soluzione di eventuali problemi 
	è tipico del modo di procedere di questa Regola, anche se un filo conduttore 
	viene mantenuto. In effetti il discorso prosegue ritornando a parlare 
	dell’orazione e della
	
	
	lectio, che devono essere assidue, costituendo il mezzo 
	attraverso il quale parliamo con Dio (orazione), e Dio parla con noi
	
	
	(lectio): la Scrittura, naturalmente, è il luogo per 
	eccellenza di questa operazione, potendoci offrire ambedue questi doni (RS 
	38). Non c’è posto invece per le letture profane, perché non accada che « 
	gli allettamenti di favole vuote o le finzioni dei poeti eccitino la mente 
	incentivando la libidine» (RS 38). I due capitoli sul lavoro manuale (RS 
	39-40), che deve essere altrettanto assiduo, ci fanno intendere come il 
	lavoro abbia più di un significato: serve a combattere l’ozio, e quindi a 
	evitare la depressione; consente di procurarsi da vivere con le proprie mani 
	e anche di dare a chi è nella necessità; mantiene liberi da eventuali 
	dipendenze che si creerebbero con chi mantiene il recluso, e alla fine, come 
	suggerisce l’esempio di Paolo, primo eremita, è un mezzo per fare penitenza, 
	purifica il cuore mediante l’afflizione del corpo, e così dà consistenza ai 
	pensieri evitando le inutili fantasie e fa amare la stabilità nella cella. 
	Ma anche qui, nessun idealismo futile. La storia di abba Silvano, che lascia 
	senza cibo e senza acqua uno che diceva di volersi nutrire solo di cibo 
	celeste
	
	
	
	
	[11], serve a ricordare che Maria ha 
	assolutamente bisogno di Marta. Perciò, scrive Grimlaico, « i solitari 
	devono lavorare con le proprie mani per procurarsi da vivere, perché colui 
	che gode di una quiete del tutto inoperosa, se non attende assiduamente al 
	lavoro delle mani, e non vive spiritualmente, si comporta al modo delle 
	bestie» (RS 39). Rimanendo in tema di uso dei beni, Grimlaico ritiene che si 
	possa combinare il non possedere niente e il ricevere offerte « per 
	sostentare la propria indigenza e quella dei poveri » (RS 41). Aelredo si 
	mostrerà invece molto più rigoroso su questo punto, non consentendo alla sua 
	reclusa di ricevere offerte, neanche per fare la carità (Regola 
	delle Recluse, RR 4).
	
	
	6. Il cibo, il vestito, le relazioni con il mondo esterno
	
	1 capitoli dal 42 al 51 formano una sezione di carattere prevalentemente 
	pratico, anche se non mancano riflessioni e consigli di vita spirituale. Il 
	riferimento è spesso 
	
	alla 
	
	
	Regola 
	di Benedetto, più volte citata alla lettera. Vi si parla anzitutto dei pasti 
	(orari, quando e cosa mangiare o bere), con severe messe in guardia contro 
	le gozzoviglie e le ubriachezze, e con l’invito a usare misura e 
	discrezione, regolando il cibo e il vestiario secondo le esigenze di 
	ciascuno, facendo particolare attenzione a chi è vecchio o infermo (RS 
	42-48). Interessanti e curiose le indicazioni riguardanti i vestiti e le 
	calzature, così come quelle che si riferiscono al letto (con coperte né 
	troppo pulite né troppo sporche!) e al modo di gestire le ore della notte 
	(RS 49-50). Non mancano alcune regole di igiene personale, come quella che 
	invita a radersi barba e capelli ogni quaranta giorni, e a tenere nel 
	reclusorio una botte dove i sacerdoti possano fare il bagno ogni volta che 
	lo ritengano conveniente (RS 51). Grimlaico sa di andare contro certe 
	tradizioni che facevano consistere la santità nell’avere barba e capelli 
	incolti o addirittura nella sporcizia. Quanto alla prima cita un proverbio 
	attribuito a Gregorio Magno: «Se la santità consistesse nella barba, allora 
	nessuno è più santo di un caprone »; e a coloro che affermano come 
	sant’Antonio non si sia mai lavato, risponde che il santo non ha mai neppure 
	cantato messa, e dunque «viene lasciato alla decisione dei sacerdoti l’uso 
	del bagno, perché possano essere puliti e degni di celebrare i sacri misteri 
	» (RS 51).
	
	Alla sezione sulle regole di vita pratica possiamo aggiungere i capitoli 
	riguardanti i discepoli (RS 52-53), il digiuno (RS 54), e il trattamento 
	degli ospiti (RS 55). Si è già osservato che queste presenze, fisse o di 
	passaggio, implicano che la solitudine del recluso non è assoluta, anche se 
	in questi rapporti con l’esterno deve sempre attenersi a un grande senso di 
	discrezione e di misura. Così, i discepoli non devono essere più di due, o 
	al massimo tre: in nessun caso si deve fare una scuola (RS 52)! Troveremo 
	analoga preoccupazione in Aelredo (RR 4). Più importanti sono le indicazioni 
	che riguardano le relazioni del recluso con le persone che gli vivono vicino 
	o che vengono a trovarlo: con i discepoli deve essere pieno di moderazione e 
	di pazienza; riguardo a tutti gli altri, egli deve trasformare il suo 
	digiuno in elemosina, senza la quale esso non vale niente, intendendo con 
	elemosina non solo il sovvenire alle necessità materiali di chi è indigente, 
	ma anche il perdono da regalare a chi ci ha offeso, e la correzione che 
	riconduce l’errante nella via della verità (RS 54). Il digiuno, comunque, 
	deve essere moderato, secondo il suggerimento di abba Poemen, per cui, 
	invece di digiunare per intero tre o quattro giorni la settimana, «è bene 
	mangiare ogni giorno, ma poco» (RS 54)
	
	
	
	
	[12]. Il rispetto degli ospiti, 
	inoltre, esige che si sciolga il digiuno, perché adempiere il dovere della 
	carità è più importante (RS 55).
	
	
	7. Le virtù con cui vivere l’amore di Dio e del prossimo
	
	Come si è detto, la Regola di Grimlaico procede per spunti che vengono 
	raccolti nel testo stesso e sviluppati in nuove sezioni. In effetti, 
	l’accenno alla carità verso gli ospiti genera un capitolo proprio sull’amore 
	di Dio e del prossimo, che sta in testa a un’intera sezione (RS 56-61) 
	dedicata ad alcune virtù, che sono, in ordine: la carità (56), l’umiltà 
	(57), l’obbedienza (58), la pazienza (59), la discrezione (60), il silenzio 
	(61). L’invito a guardarsi dal calunniare (RS 62) trascina con sé un 
	capitolo che ha come tema la consolazione del recluso ingiustamente 
	calunniato (RS 63). Come si devono astenere da comportamenti e da parole 
	cattive, così i reclusi si devono guardare dai pensieri e dalle fantasie 
	indotte dal demonio (RS 64), oltre che da diverse tentazioni più 
	caratteristiche della loro condizione di solitari: i pungiglioni della 
	povertà, i fastidi creati dall’infermità fisica, il bisogno di essere lodati 
	e ammirati, i desideri di piaceri cattivi. Torna qui il linguaggio del 
	paradosso: le tribolazioni sono una scuola di perfezione, e se la debolezza 
	occupa tutto il corpo, cresce la salute dell'uomo interiore (RS 65).
	
	Dopo un ritorno sui sogni e sulle fantasie notturne (RS 66), Grimlaico 
	dedica due capitoli (RS 66-67) a mettere in guardia il solitario contro 
	l’ostentazione e la vanagloria, invitandolo a non cercare segni e miracoli. 
	Viene da pensare che di tale avvertimento ci fosse bisogno, e che comunque, 
	come mostra tutta una tradizione, la venerazione della gente per i reclusi 
	fosse molto alta, e che forse ci fosse nei loro confronti l’attesa di 
	prodigi. Ma, dopo aver ricordato che i miracoli senza la vita buona non 
	giovano a nulla, Grimlaico sottolinea, con grande finezza e percettività, 
	che il pericolo della vanità è sottilissimo, e si nasconde ancora meglio, 
	per esempio, dietro la compiacenza per i propri successi spirituali: « Il 
	diavolo, a quello che non può abbattere con gli onori fa lo sgambetto con 
	l’umiltà, e quello che non riesce a esaltare con l’ornamento della scienza e 
	della loquela, lo sfracella con la severità del silenzio! » (RS 67). Si può 
	essere vittime della vanagloria sia se si digiuna apertamente sia di 
	nascosto: « Molti, infatti, fuggendo la vanagloria vi cadono dentro; e molti 
	desiderano proprio essere lodati per il fatto di disprezzare le lodi, e 
	così, per quanto strano possa sembrare, mentre si vuole evitare la lode, di 
	fatto la si desidera» (RS 67). La vanagloria, aggiunge Grimlaico rifacendosi 
	ai Padri, è come una cipolla: tolto uno strato se ne trova sotto un altro, e 
	più la si sfoglia, più se ne trovano. Quasi a rendere ancor più relativo il 
	valore di segni e miracoli, il capitolo 68 avverte che essi, oltre che 
	accompagnare le gesta dei santi (cfr. Mt 10,8), possono anche essere 
	compiuti dai peccatori (cfr. Mt 7,22), e perfino dai demoni con intento 
	ingannevole (cfr. Mc 13,22). In ogni caso, «è un miracolo più grande 
	sradicare la lussuria dalla propria carne che cacciare gli spiriti immondi 
	dai corpi degli altri [...] e c’è un premio maggiore per chi risuscita un 
	peccatore dai vizi piuttosto che un morto dalla tomba» (RS 68).
	
	La conclusione della
	
	
	Regola dei solitari (RS 69) stabilisce che la reclusione è a 
	vita: chi, sotto la suggestione del diavolo, l’abbandona, a meno che non vi 
	sia costretto da una qualche necessità, sia scomunicato dal vescovo o dal 
	suo superiore fino a che non torni alla scelta originaria. È del tutto 
	congruo e ragionevole che il percorso si concluda con un invito alla 
	perseveranza, a non voltarsi indietro dopo aver messo mano all’aratro (cfr. 
	Lc 9,62), e a non tornare agli affari del secolo dopo essersi arruolati 
	dietro al Signore (cfr. 2 Tm 2,5), perché solo chi persevererà sino alla 
	fine sarà salvo (cfr. Mt 10,22 e 24,13). Abbandonare l’impresa, scrive 
	Grimlaico, è come far uscire dal porto una nave carica di merci per gettarla 
	nelle tempeste e in mezzo a scogli e rupi. In conclusione, e rimanendo nella 
	metafora navale già altre volte usata, la cella del recluso è insieme il 
	porto della quiete e la garanzia di arrivarci senza pericoli di naufragare 
	nell’errore e nella titubanza (RS 69); davvero un già e un non ancora, 
	secondo quella dimensione escatologica della vita cristiana che si è detto 
	essere l’anima e il senso della vita reclusa.
			
			
			
			
			
			
			
			[1]
			
			
			«pro angustia cellae latitudinem caeli»: Lettera 
			20, in 
			
			The Letters of Peter the Venerable, 
			ed. by G. Constable, Cambridge Mass. 1967, vol. 
			
			
			I,27.
			
			
			
			
			
			
			
			[2] 
			Su Grimlaico e la sua regola cfr. M.-C. Chartier,
			
			
			Regula solitariorum (Regula Grimlaici), in “Dizionario 
			Istituti Perfezione”, DIP VII, 1598-1600. La Regola è in “Patrologia 
			Latina”, PL 103,575- 664. Chartier afferma di avere pronta 
			(1983) un’edizione per le
			
			
			Sources Cbrétiennes che però non è ancora apparsa.
			
			
			
			
			
			[3] 
			Cfr. Grimlaico,
			
			
			Regola dei solitari. Prologo, in PL 103,575A-B.
			
			
			
			
			
			[4] 
			Nel primo capitolo Grimlaico distingue due tipi di “solitari": 
			«Quello degli anacoreti, cioè degli eremiti, e quello dei cenobiti, 
			cioè il genere monasteriale». «Le origini della vita eremitica», 
			continua, «vengono fatte da alcuni risalire a Elia e Giovanni 
			Battista; altri affermano che Antonio fu il primo a seguire tale 
			proposito. Macario invece, discepolo di Antonio, afferma che il 
			primo a scegliere tale forma di vita nel Nuovo Testamento fu Paolo 
			di Tebe; e questo è vero. Si deve infatti sapere che fin dal tempo 
			del beato Antonio cominciarono a esserci tra i cenobiti dei 
			solitari, cioè dei reclusi. Ma chi sia stato il primo recluso è 
			difficile stabilirlo; infatti, non soltanto nei cenobi, ma anche 
			negli eremi si trovavano dei reclusi» (RS 1). Il lessico è incerto: 
			pare che reclusi si trovino sia tra gli eremiti (non coincidendo con 
			questi) sia tra i cenobiti: la differenza cruciale non riguarda 
			dunque la solitudine, ma la scelta di rinchiudersi in uno spazio 
			preciso.
			
			
			
			
			
			[5]
			
			
			Voce 
			
			
			Regula solitariorum, 
			in DIP VII, 1598.
			
			
			
			
			
			[6]
			
			
			Cfr. Atanasio di Alessandria. 
			
			
			Vita di Antonio 
			2,3, a cura di L. Cremaschi. Milano 1995, 110-111. c nota 14.
			
			
			
			
			
			
			[7] 
			L’espressione
			
			
			vita activa deve essere contestualizzata con 
			precisione, potendo significare in Grimlaico sia le osservanze 
			esterne della disciplina monastica «con cui progredire nelle cose 
			umane e moderare i moti di ribellione del corpo» (RS Prologo e 10) 
			sia, come in questa sezione, le opere di misericordia corporale (RS 
			8).
			
			
			
			
			
			[8]
			
			
			
			 Si 
			
			veda quanto è detto alla fine del cap. 4 di questa 
			
			
			Introduzione.
			
			
			
			
			
			
			[9] 
			« Il cantare di frequente i salmi consola i cuori tristi, rende gli 
			spiriti più amabili, dà piacere a chi è annoiato, risveglia chi è 
			inerte, spinge i peccatori al pianto di pentimento. Infatti, per 
			quanto duri siano i nostri cuori, tuttavia non appena risuona la 
			dolcezza dei salmi, il nostro animo si commuove e cresce nella 
			pietà. Ogni durezza del cuore è infatti resa tenera dalla loro 
			dolcezza, e come l’orazione ci offre direttive, il gusto dei salmi 
			ci dia gioia»: cap. 35,624A.
			
			
			
			
			
			
			[10] 
			Antonio vede un angelo che « sta seduto e lavora, poi si alza dal 
			lavoro e prega, poi di nuovo si siede e intreccia la corda, poi di 
			nuovo si alza per pregare »: così egli impara, imitandolo, a 
			sconfiggere
			
			
			l’acedia che gli ottenebra la mente e gli causa 
			afflizione: cfr. Antonio 1, in
			
			
			Vita e detti dei padri del deserto, a cura di L. 
			Mortari, Roma 19903. 81.
			
			
			
			
			
			
			[11] 
			Silvano 5, in
			
			
			Vita e detti, 463-464.
			
			
			
			
			
			
			
			[12]
			
			
			Cfr. la storia di abba Poemen 31 in
			
			
			Vita e detti, 380.
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	 6 luglio 2021        a cura di Alberto "da Cormano"        
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