Regola dei Solitari di Grimlaico
Riassunto
LA VASTITÀ DEL CIELO
NELL’ANGUSTIA DELLA CELLA
Estratto da "Regola delle recluse",
Aelredo di Rievaulx, Paoline 2003
Attorno alla metà del XII secolo il grande abate di Cluny, Pietro il
Venerabile, scrivendo al monaco Gisleberto, che viveva da recluso nella
diocesi di Senlis, gli augurava di trovare «nell’angustia della cella la
vastità del cielo»
[1]. Uno o due decenni dopo,
Aelredo, abate cistercense di Rievaulx, componeva per la sorella reclusa una
sorta di regola di vita che pure sfociava nella visione del cielo:
per angusta ad augusta, per usare un altro detto celebre nella
storia della spiritualità cristiana. Questi due testi, praticamente
contemporanei, costituiscono due pietre miliari nella letteratura prodotta
per fornire indicazioni di vita riguardanti una forma di consacrazione che,
proprio per la scelta di totale solitudine, offriva enormi margini di
indipendenza. Lo spazio vitale era certo esiguo, talvolta al punto da non
permettere neanche di stare in piedi; e questo pure poteva suscitare qualche
problema. Ma il tempo era tutto a disposizione del recluso, e per gestirlo
in modo serio e proficuo, onde evitare la dissipazione e la dispersione, si
esigevano con ancora più urgenza suggerimenti e direttive.
Pietro il Venerabile (1094-1156) e Aelredo di Rievaulx (1110-1167) non sono
comunque i primi a occuparsi, in Occidente, della vita reclusa:
esisteva già una
Regola dei solitari composta verso la
fine del secolo IX da Grimlaico, un prete vissuto da recluso in
Lotaringia, forse nella diocesi di Metz, del cui vescovo Arnolfo († 816)
l’autore mostra di avere, oltre alla conoscenza, una grande stima
[2]. Si tratta di un testo fondante,
per di più molto esteso, da cui è giocoforza partire, insieme alla lettera
di Pietro il Venerabile, per poter fornire uno sfondo culturale e spirituale
alla
Regola delle recluse di Aelredo, e vedere così, nelle conferme
e nelle differenze, il formarsi di una tradizione che continuerà a fiorire
per tutto il medioevo, e che avrà nello stesso testo di Aelredo un elemento
di riferimento di sostanziale importanza.
A. La
Regola dei solitari
di Grimlaico
Se anche, come sembra appurato, quella di Grimlaico è la prima Regola per
reclusi prodotta in Occidente, il lettore non si sorprenderà di apprendere
dallo stesso autore che non si tratta di un’opera che oggi noi chiameremmo
originale: come era d’uso - e come del resto farà anche Aelredo - Grimlaico
si mostra riluttante davanti all’impresa che dice essergli stata « ingiunta
», e soprattutto non pretende affatto di fondare cose nuove, ma afferma di
aver composto la sua Regola ordinando «sentenze» ed esempi tratti dai Padri
di fede ortodossa
[3]. La confessione di inadeguatezza,
congiunta con la dichiarazione di rifarsi al passato, è notoriamente uno dei
più caratteristici luoghi comuni della letteratura prodotta nel medioevo,
sia in campo religioso sia in quello secolare. Oltretutto Grimlaico è ben
consapevole che la reclusione non l’ha inventata lui, essendo l’eremitismo
alle origini stesse del monachesimo, fin dai tempi di Paolo di Tebe, detto
appunto l’eremita, e di Antonio suo discepolo
[4]. Più importante è conoscere quali
siano le fonti cui Grimlaico attinge più volentieri. Va da sé che la
Scrittura occupa uno spazio rilevante, con oltre 250 citazioni, seguita
immediatamente dalla
Regola di Benedetto: vengono dopo, in ordine di frequenza
decrescente, Isidoro di Siviglia, le
Vite e i detti dei Padri, Basilio, Gregorio Magno, Girolamo,
Giuliano Pomerio (citato come Prospero) e infine Agostino. Al cap. 41
Grimlaico menziona inoltre la
Regula canonicorum di Aquisgrana. Chartier aggiunge alla lista
anche i nomi di Alcuino, Paolino di Aquileia e Smaragdo di San Mihiel, tutti
autori del periodo carolingio, i quali, anche se non sono citati
espressamente, appaiono aver influenzato certe parti della Regola
[5].
La Regola di Grimlaico si distende su 69 capitoli (90 colonne nell’edizione
della Patrologia Latina) e risulterebbe difficile anche solo farne una
sintesi, non fosse altro perché non presenta un piano chiaramente
articolato, essendo una compilazione che raccoglie ciò che, secondo i
criteri moderni, chiameremmo materiali eterogenei. Vi si trovano infatti
accostate senza un’organizzazione apparente, se non forse dentro singole
sezioni, considerazioni sul senso della vita reclusa, esortazioni alla
pratica delle virtù, prescrizioni di carattere canonico-legislativo
riguardanti la clausura (regole di ammissione e probandato) o più in
generale l'organizzazione dell’ufficio liturgico o il modo di gestire il
tempo o regole riguardanti cibo e vestiario: in mezzo a tutto ciò, commenti
a brani della Scrittura riguardanti la vita morale, sostanziati da sentenze
dei classici cristiani e corroborati da aneddoti tratti dalle
Vite dei Padri in funzione di
exempla, e in negativo lamenti sui costumi corrotti del tempo,
soprattutto sulle molte infedeltà dei monaci nei confronti della loro
vocazione.
Senza entrare nei dettagli, potremmo circoscrivere i punti salienti della
Regola di Grimlaico a partire dal piano che lui stesso presenta nel Prologo.
In testa colloca la rinuncia al mondo e la scelta della vita contemplativa;
segue una serie di indicazioni che riguardano lo stile di vita dei solitari
nel loro cammino di santità, tra cui inserisce una sezione sull’osservanza
dei comandamenti del Signore (tre soli capitoli, dice, perché si tratta di
cose che i solitari hanno davanti agli occhi giorno e notte); poi passa a
parlare di quella che lui chiama « vita attiva » (e che più tardi si
costumerà chiamare « regola esterna »), e che consiste in determinazioni
circa il cibo, la bevanda, le vesti e il letto, i digiuni e le astinenze;
segue una sezione sui vizi e le virtù e un capitolo conclusivo sulla
perseveranza. Il sommario è approssimativo, e assomiglia più a un progetto
iniziale che alla sua effettiva realizzazione, ma può comunque servire da
guida per organizzare il materiale.
1. La vocazione alla vita reclusa
Grimlaico distingue anzitutto due tipi di solitari o reclusi, che chiama
"monaci’', dando al termine il senso di uno che vive da solo; dopo aver
detto che essi sono presenti sia tra gli eremiti sia tra i cenobiti (Regola
dei Solitari, RS 1), stabilisce la distinzione fondamentale tra il
monaco, a cui è chiesto di rinunciare a tutti i suoi beni, e il cristiano
che vive nel mondo, il cui compito è di gestire bene ciò che possiede (RS
2). Il rifiuto del mondo e delle sue ricchezze, collocato all’inizio del
percorso (RS 4-7), non è altro che la premessa alla scelta di una vita di
contemplazione: l’invito a vendere ciò che si ha per seguire il Signore
risuona spesso all’origine di tante scelte religiose, a partire da quella
divenuta classica di Antonio, il padre dei monaci
[6]. La scelta della fuga dal mondo
implica un giudizio di valore che è già stato illustrato ampiamente nel
primo capitolo di questa introduzione: la dimensione escatologica della vita
cristiana, infatti, relativizza fino all’azzeramento l’importanza del mondo
e/o della vita terrena e dei suoi beni. Così scrive Grimlaico già nel
Prologo: «Cosa c’è di più faticoso in questa vita che ribollire nei desideri
terreni? O cosa c’è di più sicuro che il non bramare niente della vanità di
questo mondo? Quelli infatti che amano il mondo sono disturbati da affanni e
sollecitudini turbolente. Quelli invece che se ne allontanano, e cercano la
vita solitaria, cominciano in certo modo a possedere già qui il riposo e la
pace che attendono per la vita futura ».
Il contrasto presente/futuro, o mondo/cielo, generato dall’attesa
escatologica, produce tutta una serie di contrapposizioni che ricorrono in
continuazione, al punto da poter affermare che la retorica del paradosso è
il genere letterario più caratteristico della letteratura della reclusione.
Per dare solo un esempio tra i tantissimi che si potrebbero citare, si veda
quanto scrive Grimlaico: « È certo che chi su questa terra preferisce la
vita contemplativa agli onori incerti, alle ricchezze, fonte di ansietà, e a
piaceri caduchi, troverà onori veri, ricchezze sicure e piaceri eterni
quando giungerà al vertice della contemplazione nella vita beata che Dio in
futuro gli darà come premio » (RS 11). Tenere gli occhi fissi sul futuro è
dunque uno dei motivi cardine della scelta di solitudine, che porta «
lontanissimo dal frastuono degli affari mondani » e permette al solitario di
« portare senza posa la punta del suo spirito là dove desidera arrivare.
Tenga davanti agli occhi dell'animo e ami la beatitudine della vita futura.
Non tema né desideri alcunché di temporale: perché né la paura di perdere un
bene temporale né il desiderio di possederlo sfianchi lo slancio della
mente» (RS 12). In definitiva «la vita contemplativa altro non è che la
conoscenza delle cose nascoste nel futuro o l’abbandono di tutte le cose
mondane o lo studio delle scritture divine» (RS 8). E dunque, « tutto ciò
che è visibile va trasceso, e tutto ciò che è transitorio va disprezzato»,
ed è perfettamente logica la preghiera che Grimlaico suggerisce di ripetere
ogni giorno: « Fa’ che da questo infelicissimo pellegrinaggio possiamo
passare presto alla tanto desiderata patria, dove regneremo per tutti i
secoli con i beatissimi angeli e con quegli uomini totalmente felici che
hanno rinunciato al mondo» (RS 3). Il lessico dell’esilio è perfettamente in
tema.
Alla sezione sulla rinuncia alle ricchezze segue dunque, in piena
consequenzialità e naturalezza, quella sulla vita contemplativa, messa a
contrasto - e insieme a complemento - con quella attiva
[7] (RS 8-13), sezione che si
conclude con la ragione storica su cui si fonda la scelta da parte dei padri
antichi della vita eremitica: fuggire lontano non solo dai comportamenti
delle persone viventi nel secolo, ma anche dalla loro compagnia, «convinti
che quanto più si separavano dai piaceri del mondo tanto più erano
frequentati dagli angeli, e quanto più si allontanavano dal mondo tanto più
si avvicinavano a Dio» (RS 14). Grimlaico infatti sa che «vivere in mezzo a
coloro che si comportano trascurando il timore di Dio e disprezzando i suoi
comandamenti è dannoso per i più », e che « molti trovano un ostacolo nella
compagnia e nella vicinanza di persone che conducono una vita dissimile
dalla loro» (RS 26).
2.
La cella del recluso
Precisato il senso della vita solitaria, Grimlaico descrive alcune regole
per l’ammissione degli aspiranti alla reclusione (RS 15 e 18): poiché tale
scelta suppone una persona matura sia psicologicamente sia spiritualmente, è
necessario passare un periodo di prova in una comunità monastica, almeno per
un anno, e avere l’approvazione del proprio vescovo o abate. È interessante
anche osservare come Grimlaico tenda a mitigare la solitudine, che non
dovrebbe essere assoluta: consiglia infatti ai solitari di stare almeno in
due o tre, così che « possano parlarsi attraverso la finestra, stimolarsi a
vicenda all’ufficio divino»; ma anche per mettere alla prova la loro umiltà,
la pazienza, la carità, evitando il rischio, trovandosi in una solitudine
totale, di inorgoglirsi per supposte virtù, che messe alla prova potrebbero
rivelarsi inconsistenti (RS 17). Fa parte di questa mitigazione della
solitudine la presenza di discepoli accanto al recluso (RS 52-53), oltre al
ministero del consiglio offerto a chiunque si rivolga a lui, e perfino la
possibilità di accogliere ospiti (RS 55).
In questa sezione acquista particolare significato la descrizione della
cella del recluso (RS 16), nella quale si entra mediante un rito che
assomiglia a quello di una solenne professione monastica: dopo l’ingresso la
porta è murata e il vescovo vi pone il suo sigillo. La cella infatti non
deve essere accessibile a nessuno e deve contenere, pur nella esiguità
richiesta, tutto ciò di cui il recluso ha bisogno, compreso, se è prete, un
piccolo oratorio, perché non abbia alcuna necessità di uscire. Tale oratorio
sia «contiguo a una chiesa, perché lo stesso recluso possa, attraverso una
finestra, offrire al sacerdote le oblate durante la messa, udire in modo
conveniente i fratelli quando cantano e leggono, così da poter salmodiare
insieme a loro; e sia parimenti in grado anche di conversare con chi viene a
trovarlo. Ma ci siano appesi alla finestra dei veli, dentro e fuori, così
che egli non possa facilmente vedere o essere visto perché non accada che,
attraverso la porta degli occhi, venga estratto morto, come è scritto: “Bada
a che la morte non entri nella tua anima attraverso le tue finestre” (Ger
9,20 Vg)... Abbia anche nel recinto del reclusorio un piccolo orto, se è
possibile, dove possa ogni tanto uscire a piantare e raccogliere verdure, e
anche per essere toccato dall’aria, perché il tocco
dell’aria gli sarà molto utile. Ci sia inoltre fuori dal
recinto del reclusorio un’altra cella in cui abitino i suoi discepoli, e sia
così vicina alla sua cella da permettere ai discepoli di servirgli
facilmente le cose che gli sono necessarie. Se due solitari vivono insieme,
come si sa che avviene in molti luoghi, ci sia tra loro un silenzio immenso,
una grande quiete, e una carità perfetta. Stiano da soli e separati,
ciascuno nella sua cella; ma nell’animo, nella fede e nella carità siano
inseparabilmente uniti » (RS 16). Come già detto, una finestra comune
permette a due solitari di aiutarsi reciprocamente nella vita spirituale e
di trovarsi anche a mangiare insieme. Dal reclusorio le donne sono
rigidamente escluse: non solo non si devono guardare, ma soprattutto non si
deve né parlare con loro né toccarle.
3. La vocazione del recluso alla santità
La santità rimane, naturalmente, l’obiettivo principale della vita reclusa,
e a questo tema vengono consacrati alcuni capitoli a partire da RS 19, che
poi altro non è che un commento alla Lettera a Tito 1,7, dove il soggetto è
il “vescovo”: come lui il monaco deve essere « non arrogante, non iracondo,
non dedito al vino, non violento, non avido di guadagno disonesto», e
inoltre, «non litigioso, non neofita e non doppio nel parlare» (cfr. 1 Tm
3,3.6.8). Siccome il contesto della Lettera a Tito è la messa alla prova dei
candidati a guidare la comunità, è possibile che il passo sia stato
suggerito in connessione con quella parte della Regola appena illustrata
dove il tema principale è costituito appunto dai criteri di ammissione alla
reclusione. È questo un caso, e non certo l’unico, in cui il testo sembra
organizzarsi per generazione interna, per cui un tema, ripescato dal centro
o dalla conclusione di un capitolo, diventa il motivo dominante del capitolo
successivo.
È quanto accade anche in questa sezione sulla santità. Il capitolo 19, che
riguarda la santità personale, si conclude con l’immagine di un monaco che
con la sua vita impetra il perdono di Dio per i suoi peccati e per quelli di
tutti gli uomini, offrendo inoltre un esempio positivo a coloro che
denigrano la vita religiosa. Viene dunque in gioco il rapporto del recluso
con il mondo; ed ecco che nel capitolo successivo si richiede che il
solitario sia sapiente e istruito nella legge divina, « anzitutto per
debellare le insidie del demonio, che spesso si immerge nei cuori degli
stolti, e inoltre per irrigare con le onde fluenti della dottrina i cuori
inariditi di persone che capitano da lui, e istruire generosamente i suoi
discepoli, se ne ha » (RS 20).
Si è già accennato all’esistenza di discepoli che rendono la reclusione più
mite. Questo ha però anche a che fare con l’irradiazione apostolica della
vita reclusa, che dunque non è limitata alla preghiera di intercessione: il
fatto di rinchiudersi in una cella non toglie al recluso la responsabilità
verso la città degli uomini; anzi, è storicamente dimostrato come i reclusi
- e anche, come si vedrà, le recluse - abbiano svolto nella comunità
cristiana un’apprezzata attività di insegnamento e di direzione spirituale.
La cosa non era senza rischi, come appare con evidenza nel testo di Aelredo,
ma importa segnalare che la vocazione alla vita reclusa è stata fin
dall’inizio segnata da questa preoccupazione apostolica, come mostrano
quelle vere e proprie scuole di spiritualità che furono gli eremi della
Tebaide e in genere dell’Oriente antico. Del resto, il bene del prossimo è
talmente cruciale che Grimlaico consacra un intero capitolo (RS 22) a dire
che, se un solitario ha qualità per essere pastore nella Chiesa, non può
rifiutare l’incarico per amore della quiete, perché in questo modo
dimostrerebbe di non amare davvero il pastore sommo che è Cristo.
Normalmente però il recluso vive nella solitudine e nel silenzio; tuttavia,
anche così egli svolge nella comunità un ministero di predicazione: «
Predicheremo nel silenzio quando offriremo agli altri uomini un modello di
vita buona, e mostreremo loro esempi luminosi » (RS 20). Questo tema diventa
l’argomento del capitolo successivo, il quale trova la sua naturale
continuazione in RS 22 appena ricordato, dove l’esempio da dare agli altri
può tradursi anche nell’assunzione di una responsabilità pastorale. Scrive
saggiamente Grimlaico: «Ci sono alcuni che, dotati di grandi doni di
sapienza e scienza, poiché ardono solo del desiderio della contemplazione,
rifiutano di prestarsi ad aiutare il prossimo con la predicazione, amano la
solitudine e la quiete, bramano appartarsi nella speculazione. Costoro, se
chiamati, rifiutano il vertice del governo, ma facendo così perdono anche
per sé i doni che hanno ricevuto non solo per il loro vantaggio, ma anche
per il bene degli altri » (RS 22).
4. La quiete e la lotta del recluso
La quiete, sembra dire Grimlaico, non è tutto, e comunque non deve essere
intesa come assenza di fatica. È vero che la cella è da lui definita « porto
della quiete », ma proprio lì la nave del recluso può correre il rischio del
naufragio (RS 24). Continuando la sua riflessione sulla santità dei
solitari, egli scrive: « Non siamo venuti qui per il riposo e la sicurezza,
ma per una battaglia, ci siamo lanciati in una lotta, ci siamo affrettati a
fare la guerra ai vizi... Questa lotta che abbiamo ingaggiato è molto ardua,
molto dura, molto pericolosa, perché si combatte dentro l’uomo, e finirà
solo con la fine dell'uomo. Perciò siamo venuti a questa vita tranquilla,
appartata e spirituale, per combattere ogni giorno con assalti instancabili
contro le nostre passioni, per circoncidere la nequizia del cuore e smussare
la spada della lingua » (RS 23). Due capitoli, RS 23 e 24, sono consacrati
alla lotta spirituale, mentre RS 25, che elenca gli strumenti da usare in
questa lotta, altro non è, incluso il titolo, che l’intero capitolo 4 della
Regola di Benedetto, al quale fa seguito un capitolo dedicato
all’osservanza dei comandamenti di Dio. Probabilmente questi temi di
carattere generale danno a Grimlaico l’opportunità di ricordare che la
sequenza di atteggiamenti virtuosi da lui esposti in modo sommario «
riguardano tutti i solitari, e per la verità non solo loro, ma tutti i servi
di Dio e i cattolici cristiani » (RS 24). Questo rimanda a quanto si è detto
circa il valore esemplare universale della vita eremitica, e spiega come nel
tardo medioevo siano state utilizzate, come si vedrà, regole monastiche per
fornire a un crescente pubblico di lettori laici dei manuali di vita
interiore
[8]. Dopo l’esposizione delle virtù da
praticare nella lotta spirituale, Grimlaico si espande in quella che pare
una lunga digressione (RS 27-28) in cui registra ciò che in questa lotta
appare una serie di sconfitte: è un lungo lamento contro i tanti mali del
tempo, quando sembra che quasi nessuno si sforzi di osservare la legge di
Dio o riesca a praticarla. È l’altra faccia della medaglia, dove troviamo
uno spiraglio (l’unico, sembra) autobiografico: a indicare quanto radicato
sia in noi il vizio, l’autore dice che proprio mentre pensava a farsi
recluso si scoprì a preoccuparsi di come procurarsi vestiti, lumi, legna,
legumi e quant’altro, più attento al benessere del proprio corpo che a
quello dello spirito (RS 28). E in effetti, quella che sembrava una
digressione, trova una sua collocazione logica nella Regola, funzionando da
schema per un esame di coscienza: conduce infatti a due capitoli (RS 29-30)
che trattano della compunzione del cuore.
5. La vita quotidiana
La sezione successiva comprende temi disparati. Senza forzare e imporre
schemi al testo, si potrebbe ritrovare un elemento unitario vedendo nei
capitoli 31-40 le varie attività che caratterizzano la giornata del
solitario: orazione (RS 31-38),
lectio (RS 38), lavoro manuale (RS 39-40). I temi non sono
sistemati con ordine, e vengono trattati a più riprese. L’orazione occupa,
naturalmente, uno spazio considerevole, e anche qui la Regola sembra
procedere per contrappunti: al capitolo sulla necessità di pregare sempre
(RS 32) segue quello sulle fantasie ingannevoli procurate dal demonio che
impediscono l’orazione (RS 33); a riflessioni generali sul canto dei salmi
alla presenza di Dio e dei suoi angeli (RS 34) segue un titolo che propone
la disposizione delle ore in cui salmodiare (RS 35), che però è curiosamente
contraddetto nello sviluppo del capitolo, dove Grimlaico si rifiuta di dare
indicazioni precise, preferendo esaltare le molteplici virtù dei salmi
[9] e preoccupandosi di esortare
alla varietà delle occupazioni, alternando preghiera, lettura e lavoro
manuale onde evitare il rischio della « noia del cuore e della mente» (RS
35), la classica
acedia.
Questo è un tema centrale nella letteratura sulla reclusione, presente fin
dalle origini: non a caso Grimlaico accompagna la sua esortazione con un
celebre detto di Antonio
[10] che era diventato una sorta di
legge. Appartengono alla sezione sulla preghiera due capitoli che riguardano
i sacerdoti e l’eucaristia: se sia il caso di celebrare la messa tutti i
giorni (RS 36), e se si possa celebrare dopo aver avuto una polluzione
notturna (RS 37). Nelle sue risposte Grimlaico si mostra equilibrato: sul
primo problema lascia la scelta alla fede del sacerdote, e quanto al secondo
ricorda che se la cosa avviene naturalmente, o anche per aver mangiato un
po’ troppo, non è il caso di astenersi dal celebrare, soprattutto se la
necessità lo richiede, mentre altra è la questione quando si può pensare che
la cosa sia dovuta all’aver troppo ingolfato la mente con sguardi e desideri
impudichi; è bene comunque tenere il corpo sotto controllo con digiuni e
astinenze.
Il passaggio da esortazioni spirituali alla soluzione di eventuali problemi
è tipico del modo di procedere di questa Regola, anche se un filo conduttore
viene mantenuto. In effetti il discorso prosegue ritornando a parlare
dell’orazione e della
lectio, che devono essere assidue, costituendo il mezzo
attraverso il quale parliamo con Dio (orazione), e Dio parla con noi
(lectio): la Scrittura, naturalmente, è il luogo per
eccellenza di questa operazione, potendoci offrire ambedue questi doni (RS
38). Non c’è posto invece per le letture profane, perché non accada che «
gli allettamenti di favole vuote o le finzioni dei poeti eccitino la mente
incentivando la libidine» (RS 38). I due capitoli sul lavoro manuale (RS
39-40), che deve essere altrettanto assiduo, ci fanno intendere come il
lavoro abbia più di un significato: serve a combattere l’ozio, e quindi a
evitare la depressione; consente di procurarsi da vivere con le proprie mani
e anche di dare a chi è nella necessità; mantiene liberi da eventuali
dipendenze che si creerebbero con chi mantiene il recluso, e alla fine, come
suggerisce l’esempio di Paolo, primo eremita, è un mezzo per fare penitenza,
purifica il cuore mediante l’afflizione del corpo, e così dà consistenza ai
pensieri evitando le inutili fantasie e fa amare la stabilità nella cella.
Ma anche qui, nessun idealismo futile. La storia di abba Silvano, che lascia
senza cibo e senza acqua uno che diceva di volersi nutrire solo di cibo
celeste
[11], serve a ricordare che Maria ha
assolutamente bisogno di Marta. Perciò, scrive Grimlaico, « i solitari
devono lavorare con le proprie mani per procurarsi da vivere, perché colui
che gode di una quiete del tutto inoperosa, se non attende assiduamente al
lavoro delle mani, e non vive spiritualmente, si comporta al modo delle
bestie» (RS 39). Rimanendo in tema di uso dei beni, Grimlaico ritiene che si
possa combinare il non possedere niente e il ricevere offerte « per
sostentare la propria indigenza e quella dei poveri » (RS 41). Aelredo si
mostrerà invece molto più rigoroso su questo punto, non consentendo alla sua
reclusa di ricevere offerte, neanche per fare la carità (Regola
delle Recluse, RR 4).
6. Il cibo, il vestito, le relazioni con il mondo esterno
1 capitoli dal 42 al 51 formano una sezione di carattere prevalentemente
pratico, anche se non mancano riflessioni e consigli di vita spirituale. Il
riferimento è spesso
alla
Regola
di Benedetto, più volte citata alla lettera. Vi si parla anzitutto dei pasti
(orari, quando e cosa mangiare o bere), con severe messe in guardia contro
le gozzoviglie e le ubriachezze, e con l’invito a usare misura e
discrezione, regolando il cibo e il vestiario secondo le esigenze di
ciascuno, facendo particolare attenzione a chi è vecchio o infermo (RS
42-48). Interessanti e curiose le indicazioni riguardanti i vestiti e le
calzature, così come quelle che si riferiscono al letto (con coperte né
troppo pulite né troppo sporche!) e al modo di gestire le ore della notte
(RS 49-50). Non mancano alcune regole di igiene personale, come quella che
invita a radersi barba e capelli ogni quaranta giorni, e a tenere nel
reclusorio una botte dove i sacerdoti possano fare il bagno ogni volta che
lo ritengano conveniente (RS 51). Grimlaico sa di andare contro certe
tradizioni che facevano consistere la santità nell’avere barba e capelli
incolti o addirittura nella sporcizia. Quanto alla prima cita un proverbio
attribuito a Gregorio Magno: «Se la santità consistesse nella barba, allora
nessuno è più santo di un caprone »; e a coloro che affermano come
sant’Antonio non si sia mai lavato, risponde che il santo non ha mai neppure
cantato messa, e dunque «viene lasciato alla decisione dei sacerdoti l’uso
del bagno, perché possano essere puliti e degni di celebrare i sacri misteri
» (RS 51).
Alla sezione sulle regole di vita pratica possiamo aggiungere i capitoli
riguardanti i discepoli (RS 52-53), il digiuno (RS 54), e il trattamento
degli ospiti (RS 55). Si è già osservato che queste presenze, fisse o di
passaggio, implicano che la solitudine del recluso non è assoluta, anche se
in questi rapporti con l’esterno deve sempre attenersi a un grande senso di
discrezione e di misura. Così, i discepoli non devono essere più di due, o
al massimo tre: in nessun caso si deve fare una scuola (RS 52)! Troveremo
analoga preoccupazione in Aelredo (RR 4). Più importanti sono le indicazioni
che riguardano le relazioni del recluso con le persone che gli vivono vicino
o che vengono a trovarlo: con i discepoli deve essere pieno di moderazione e
di pazienza; riguardo a tutti gli altri, egli deve trasformare il suo
digiuno in elemosina, senza la quale esso non vale niente, intendendo con
elemosina non solo il sovvenire alle necessità materiali di chi è indigente,
ma anche il perdono da regalare a chi ci ha offeso, e la correzione che
riconduce l’errante nella via della verità (RS 54). Il digiuno, comunque,
deve essere moderato, secondo il suggerimento di abba Poemen, per cui,
invece di digiunare per intero tre o quattro giorni la settimana, «è bene
mangiare ogni giorno, ma poco» (RS 54)
[12]. Il rispetto degli ospiti,
inoltre, esige che si sciolga il digiuno, perché adempiere il dovere della
carità è più importante (RS 55).
7. Le virtù con cui vivere l’amore di Dio e del prossimo
Come si è detto, la Regola di Grimlaico procede per spunti che vengono
raccolti nel testo stesso e sviluppati in nuove sezioni. In effetti,
l’accenno alla carità verso gli ospiti genera un capitolo proprio sull’amore
di Dio e del prossimo, che sta in testa a un’intera sezione (RS 56-61)
dedicata ad alcune virtù, che sono, in ordine: la carità (56), l’umiltà
(57), l’obbedienza (58), la pazienza (59), la discrezione (60), il silenzio
(61). L’invito a guardarsi dal calunniare (RS 62) trascina con sé un
capitolo che ha come tema la consolazione del recluso ingiustamente
calunniato (RS 63). Come si devono astenere da comportamenti e da parole
cattive, così i reclusi si devono guardare dai pensieri e dalle fantasie
indotte dal demonio (RS 64), oltre che da diverse tentazioni più
caratteristiche della loro condizione di solitari: i pungiglioni della
povertà, i fastidi creati dall’infermità fisica, il bisogno di essere lodati
e ammirati, i desideri di piaceri cattivi. Torna qui il linguaggio del
paradosso: le tribolazioni sono una scuola di perfezione, e se la debolezza
occupa tutto il corpo, cresce la salute dell'uomo interiore (RS 65).
Dopo un ritorno sui sogni e sulle fantasie notturne (RS 66), Grimlaico
dedica due capitoli (RS 66-67) a mettere in guardia il solitario contro
l’ostentazione e la vanagloria, invitandolo a non cercare segni e miracoli.
Viene da pensare che di tale avvertimento ci fosse bisogno, e che comunque,
come mostra tutta una tradizione, la venerazione della gente per i reclusi
fosse molto alta, e che forse ci fosse nei loro confronti l’attesa di
prodigi. Ma, dopo aver ricordato che i miracoli senza la vita buona non
giovano a nulla, Grimlaico sottolinea, con grande finezza e percettività,
che il pericolo della vanità è sottilissimo, e si nasconde ancora meglio,
per esempio, dietro la compiacenza per i propri successi spirituali: « Il
diavolo, a quello che non può abbattere con gli onori fa lo sgambetto con
l’umiltà, e quello che non riesce a esaltare con l’ornamento della scienza e
della loquela, lo sfracella con la severità del silenzio! » (RS 67). Si può
essere vittime della vanagloria sia se si digiuna apertamente sia di
nascosto: « Molti, infatti, fuggendo la vanagloria vi cadono dentro; e molti
desiderano proprio essere lodati per il fatto di disprezzare le lodi, e
così, per quanto strano possa sembrare, mentre si vuole evitare la lode, di
fatto la si desidera» (RS 67). La vanagloria, aggiunge Grimlaico rifacendosi
ai Padri, è come una cipolla: tolto uno strato se ne trova sotto un altro, e
più la si sfoglia, più se ne trovano. Quasi a rendere ancor più relativo il
valore di segni e miracoli, il capitolo 68 avverte che essi, oltre che
accompagnare le gesta dei santi (cfr. Mt 10,8), possono anche essere
compiuti dai peccatori (cfr. Mt 7,22), e perfino dai demoni con intento
ingannevole (cfr. Mc 13,22). In ogni caso, «è un miracolo più grande
sradicare la lussuria dalla propria carne che cacciare gli spiriti immondi
dai corpi degli altri [...] e c’è un premio maggiore per chi risuscita un
peccatore dai vizi piuttosto che un morto dalla tomba» (RS 68).
La conclusione della
Regola dei solitari (RS 69) stabilisce che la reclusione è a
vita: chi, sotto la suggestione del diavolo, l’abbandona, a meno che non vi
sia costretto da una qualche necessità, sia scomunicato dal vescovo o dal
suo superiore fino a che non torni alla scelta originaria. È del tutto
congruo e ragionevole che il percorso si concluda con un invito alla
perseveranza, a non voltarsi indietro dopo aver messo mano all’aratro (cfr.
Lc 9,62), e a non tornare agli affari del secolo dopo essersi arruolati
dietro al Signore (cfr. 2 Tm 2,5), perché solo chi persevererà sino alla
fine sarà salvo (cfr. Mt 10,22 e 24,13). Abbandonare l’impresa, scrive
Grimlaico, è come far uscire dal porto una nave carica di merci per gettarla
nelle tempeste e in mezzo a scogli e rupi. In conclusione, e rimanendo nella
metafora navale già altre volte usata, la cella del recluso è insieme il
porto della quiete e la garanzia di arrivarci senza pericoli di naufragare
nell’errore e nella titubanza (RS 69); davvero un già e un non ancora,
secondo quella dimensione escatologica della vita cristiana che si è detto
essere l’anima e il senso della vita reclusa.
[1]
«pro angustia cellae latitudinem caeli»: Lettera
20, in
The Letters of Peter the Venerable,
ed. by G. Constable, Cambridge Mass. 1967, vol.
I,27.
[2]
Su Grimlaico e la sua regola cfr. M.-C. Chartier,
Regula solitariorum (Regula Grimlaici), in “Dizionario
Istituti Perfezione”, DIP VII, 1598-1600. La Regola è in “Patrologia
Latina”, PL 103,575- 664. Chartier afferma di avere pronta
(1983) un’edizione per le
Sources Cbrétiennes che però non è ancora apparsa.
[3]
Cfr. Grimlaico,
Regola dei solitari. Prologo, in PL 103,575A-B.
[4]
Nel primo capitolo Grimlaico distingue due tipi di “solitari":
«Quello degli anacoreti, cioè degli eremiti, e quello dei cenobiti,
cioè il genere monasteriale». «Le origini della vita eremitica»,
continua, «vengono fatte da alcuni risalire a Elia e Giovanni
Battista; altri affermano che Antonio fu il primo a seguire tale
proposito. Macario invece, discepolo di Antonio, afferma che il
primo a scegliere tale forma di vita nel Nuovo Testamento fu Paolo
di Tebe; e questo è vero. Si deve infatti sapere che fin dal tempo
del beato Antonio cominciarono a esserci tra i cenobiti dei
solitari, cioè dei reclusi. Ma chi sia stato il primo recluso è
difficile stabilirlo; infatti, non soltanto nei cenobi, ma anche
negli eremi si trovavano dei reclusi» (RS 1). Il lessico è incerto:
pare che reclusi si trovino sia tra gli eremiti (non coincidendo con
questi) sia tra i cenobiti: la differenza cruciale non riguarda
dunque la solitudine, ma la scelta di rinchiudersi in uno spazio
preciso.
[5]
Voce
Regula solitariorum,
in DIP VII, 1598.
[6]
Cfr. Atanasio di Alessandria.
Vita di Antonio
2,3, a cura di L. Cremaschi. Milano 1995, 110-111. c nota 14.
[7]
L’espressione
vita activa deve essere contestualizzata con
precisione, potendo significare in Grimlaico sia le osservanze
esterne della disciplina monastica «con cui progredire nelle cose
umane e moderare i moti di ribellione del corpo» (RS Prologo e 10)
sia, come in questa sezione, le opere di misericordia corporale (RS
8).
[8]
Si
veda quanto è detto alla fine del cap. 4 di questa
Introduzione.
[9]
« Il cantare di frequente i salmi consola i cuori tristi, rende gli
spiriti più amabili, dà piacere a chi è annoiato, risveglia chi è
inerte, spinge i peccatori al pianto di pentimento. Infatti, per
quanto duri siano i nostri cuori, tuttavia non appena risuona la
dolcezza dei salmi, il nostro animo si commuove e cresce nella
pietà. Ogni durezza del cuore è infatti resa tenera dalla loro
dolcezza, e come l’orazione ci offre direttive, il gusto dei salmi
ci dia gioia»: cap. 35,624A.
[10]
Antonio vede un angelo che « sta seduto e lavora, poi si alza dal
lavoro e prega, poi di nuovo si siede e intreccia la corda, poi di
nuovo si alza per pregare »: così egli impara, imitandolo, a
sconfiggere
l’acedia che gli ottenebra la mente e gli causa
afflizione: cfr. Antonio 1, in
Vita e detti dei padri del deserto, a cura di L.
Mortari, Roma 19903. 81.
[11]
Silvano 5, in
Vita e detti, 463-464.
[12]
Cfr. la storia di abba Poemen 31 in
Vita e detti, 380.
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6 luglio 2021 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net