A PROPOSITO DEL «PATER»
Estratto da "Attesa
di Dio", a cura di Maria Concetta Sala e Giancarlo Gaeta, Adelphi
Edizioni 2008
Biografia
di Simone Weil,
estratta e tradotta da "Attente de Dieu" -Éditions Fayard, 1966
Nata a Parigi il 3 febbraio 1909, Simone Weil è stata educata in modo
completamente agnostico. Aveva un'acuta percezione della miseria umana, che le
fece nascere un profondo senso di compassione per i poveri, la classe operaia e
i diseredati. Era antireligiosa, sindacalista militante, innamorata della
rivoluzione proletaria, ma indipendente da qualsiasi partito. Da giovane
insegnante di filosofia, divideva il suo stipendio con i disoccupati. Nel 1934
rinuncia alla cattedra e diventa operaia. Nel 1936 partecipa alla guerra civile
spagnola. Nel 1938, un'illuminazione trasforma la sua vita: "Cristo è sceso e mi
ha presa". Nel 1941, rifugiata nel sud della Francia, incontra i domenicani di
Marsiglia e Gustave Thibon; diffonde Témoignage chrétien. Nel 1942 si imbarca
per New York con i genitori; non smette di prestare servizio a Londra, dove
arriva alla fine di novembre 1942. Ma le sofferenze morali, intellettuali e
fisiche la portano presto in ospedale, poi nel sanatorio di Ashford, dove muore
il 24 agosto 1943.
Πάτερ
ἡμῶν
ὁ
ἐν
τοῖς
οὐρανοῖς
Notre Père, celui qui est dans les cieux
Padre nostro, quello che è nei cieli
Egli è nostro Padre; in noi non vi è alcunché di reale che non proceda da lui.
Noi gli apparteniamo. Egli ci ama: poiché ama se stesso, ama noi che gli
apparteniamo. Ma è il Padre che è nei cieli. Non altrove. Se crediamo di avere
un Padre quaggiù, non è lui, bensì un falso dio. A noi non è dato compiere un
solo passo verso di lui. Non si cammina verticalmente. Ci è dato soltanto di
rivolgergli lo sguardo. Non dobbiamo cercarlo, dobbiamo soltanto mutare la
direzione del nostro sguardo. È lui che cerca noi. Dobbiamo essere felici di
sapere che egli è infinitamente al di fuori della nostra portata Abbiamo così la
certezza che il male in noi, anche se sommerge completamente il nostro essere,
non macchia in alcun modo la purezza, la felicità, la perfezione divine.
ἁγιασθήτω
τὸ
ὄνομά
σου
Soit sanctifié ton nom
Sia santificato il tuo nome
Dio solo ha il potere di nominare se stesso. Il suo nome non può essere
pronunciato da labbra umane. Il suo nome è la sua parola. È il Verbo. Il nome di
un qualunque essere è un intermediario fra lo spirito umano e questo essere, è
la sola via attraverso la quale lo spirito umano possa cogliere qualcosa di
quell’essere quando è assente. Dio è assente; è nei cieli. Il suo nome è l’unica
possibilità per l’uomo di accedere a lui. È il Mediatore. All’uomo è dato di
accedere a questo nome, sebbene sia anch’esso trascendente. Questo nome
risplende nella bellezza e nell’ordine del mondo così come nella luce interiore
dell’anima umana. Questo nome è la santità stessa, non ve ne è altra; dunque non
ha bisogno di essere santificato. Chiedendo che sia santificato, chiediamo ciò
che è in eterno con una pienezza di realtà alla quale non abbiamo il potere di
aggiungere o togliere neppure qualcosa di infinitesimale Chiedere ciò che è ciò
che è realmente, infallibilmente, eternamente, in maniera del tutto indipendente
da ciò che domandiamo costituisce la richiesta perfetta. Fare a meno di
desiderare ci è impossibile; noi siamo desiderio. Ma se questo nostro desiderio
che c’inchioda all’immaginario, al tempo e all’egoismo lo trasferiamo
tutt’intero in quella richiesta allora possiamo farne una leva che ci strappi
dall’immaginario e dal tempo nel reale e nell’eternità, e fuori della prigione
dell’io.
ἐγθέτω
ἡ
βασιλεία
σου
Vienne ton règne
Venga il tuo regno
Si tratta per il momento presente di qualcosa che dovrà venire, qualcosa che
ancora non c’è. Il regno di Dio è lo Spirito Santo che ricolma tutta l’anima
delle creature intelligenti. Lo Spirito soffia dove vuole. Lo si può solo
invocare. Ma non si pensi a invocarlo in modo particolare su di sé, oppure su un
altro essere, o su tutti gli esseri; lo si invochi semplicemente; il pensare
allo Spirito sia un appello e un grido. Allo stesso modo, quando siamo al limite
della sete, quando siamo ammalati di sete, non ci figuriamo più l’atto del bere
in rapporto a noi stessi, e nemmeno l’atto del bere in generale. Ci figuriamo
semplicemente l’acqua, l’acqua in se stessa, ma quell’immagine dell’acqua è come
un grido di tutto l’essere.
γενηθήτω
τὸ
θέλημά
σου
Soit accomplie ta volonté
Sia fatta la tua volontà
Riguardo alla volontà di Dio, abbiamo una certezza assoluta e infallibile solo
per il passato. Tutti gli eventi che si sono verificati, di qualunque tipo, sono
conformi alla volontà del Padre onnipotente. La nozione di onnipotenza comporta
che sia così. Anche l’avvenire, comunque si compia, una volta verificatosi, si
sarà compiuto in maniera conforme alla volontà di Dio. A tale conformità non
possiamo aggiungere né sottrarre alcunché. Così, dopo uno slancio di desiderio
verso il possibile, con questa frase torniamo a chiedere ciò che è. Ma ora
l’oggetto della nostra richiesta non è più una realtà eterna quale la santità
del Verbo, bensì ciò che si produce nel tempo. Chiediamo nondimeno che quanto si
produce nel tempo si conformi alla volontà divina in maniera infallibile ed
eterna. Dopo che con la prima richiesta abbiamo strappato il desiderio dal tempo
per applicarlo all’eterno e così lo abbiamo trasformato, ora riprendiamo questo
desiderio, diventato a sua volta in qualche modo eterno, per applicarlo di nuovo
al tempo. Il nostro desiderio buca quindi il tempo per trovare dietro di esso,
dall’altra parte, l’eternità. Ciò accade quando sappiamo fare di qualunque
evento già verificatosi un oggetto di desiderio. Ma non si tratta affatto di
rassegnazione; anche la parola accettazione è troppo riduttiva. Bisogna
desiderare che quanto è avvenuto sia avvenuto, e null’altro. Non perché noi vi
scorgiamo un bene, ma perché Dio lo ha permesso, e l’obbedienza del corso degli
eventi a Dio è di per sé un bene assoluto.
ὡς
ἐν
οὐρανῷ
καὶ
ἐπὶ
τῆς
γῆς
Pareillement au ciel et sur terre
Parimenti in cielo e in terra
Questo nostro associare il desiderio alla volontà onnipotente di Dio deve essere
esteso alle cose spirituali. Gli avanzamenti e i cedimenti spirituali, i nostri
così come quelli degli esseri che amiamo, hanno un rapporto con l’altro mondo,
ma sono anche eventi che si producono quaggiù, nel tempo. Come tali, sono
particelle dell’immenso mare degli eventi sballottate insieme a questo mare in
maniera conforme al volere di Dio. Poiché i nostri passati cedimenti si sono già
verificati, dobbiamo desiderare che si siano verificati. E dobbiamo estendere
tale desiderio all’avvenire, allorché l’avvenire sarà divenuto passato. È una
correzione necessaria alla richiesta di avvento del regno di Dio. Dobbiamo
abbandonare tutti i desideri a favore di quello della vita eterna, ma nel
contempo desiderare la vita eterna stessa con rinuncia. Non bisogna attaccarsi
neppure al distacco. L’attaccamento alla salvezza è ancor più pericoloso degli
altri. Bisogna pensare alla vita eterna come si pensa all’acqua quando si muore
di sete, e nel contempo desiderare per sé e per i propri cari la privazione
eterna di quell’acqua piuttosto che esserne colmati contro la volontà di Dio,
ammesso che si possa concepire qualcosa di simile. Le tre precedenti richieste
sono in rapporto alle tre Persone della Trinità: il Figlio, lo Spirito Santo e
il Padre così come alle tre parti del tempo: il presente, l’avvenire e il
passato. Le tre richieste che seguono concernono le tre parti del tempo in modo
più diretto, e secondo un altro ordine: presente, passato, avvenire.
τὸν
ἄρτον
ἡμῶν
τὸν
ἐπιούσιον”
δὸς
ἡμῖν
σήμερον
Notre pain, celui qui est surnaturel, donne-le-nous aujourd’hui
Dacci oggi il nostro pane, quello soprannaturale
Il Cristo è il nostro pane. Possiamo chiederlo solo per il momento presente.
Infatti egli è sempre alla porta della nostra anima: vuole entrare, ma senza
violare il nostro consenso. Se acconsentiamo, egli entra; appena non vogliamo
più, se ne va. Non possiamo vincolare oggi la nostra volontà di domani,
stabilire un patto con lui oggi affinché domani sia in noi anche nostro
malgrado. Il nostro consenso alla sua presenza coincide con la sua presenza. Il
consenso è un atto, non può essere che attuale. Non ci è stata data una volontà
che si possa applicare all’avvenire. Tutto ciò che nella nostra volontà è
inefficace è immaginario. Tutto ciò che in essa è efficace lo è immediatamente:
l’efficacia della volontà non si distingue dalla volontà. La parte efficace
della volontà non consiste nello sforzo, che è teso verso l’avvenire, bensì nel
consenso, il sì delle nozze. Un sì proferito nell’istante presente per l’istante
presente, eppure al modo di una parola eterna, perché si acconsente all’unione
del Cristo con la parte eterna della nostra anima. Noi abbiamo bisogno del pane.
Siamo esseri che senza sosta attingono l’energia dall’esterno, giacché man mano
che la ricevono i loro sforzi la esauriscono. Se questa energia non viene
rinnovata quotidianamente, perdiamo le forze e non riusciamo più a muoverci.
Oltre al nutrimento vero e proprio, nell’accezione letterale del termine, tutti
gli stimoli sono per noi fonte di energia. Il denaro, la carriera, la
considerazione altrui, le onorificenze, la fama, il potere, gli esseri che
amiamo, ogni cosa che travasi in noi una qualche capacità di agire equivale a un
po’ di pane. Se uno di questi attaccamenti penetra in noi abbastanza in
profondità, fino alle radici vitali della nostra esistenza carnale, la
privazione può spezzarci e addirittura causare la nostra morte. È quel che si
dice morire di dolore. È come morire di fame. Tutti gli oggetti dei nostri
attaccamenti costituiscono, insieme al nutrimento vero e proprio, il pane di
quaggiù. Dipende solo dalle circostanze che ci venga accordato o meno. E
riguardo alle circostanze, non dobbiamo chiedere altro se non che siano conformi
alla volontà di Dio. Non dobbiamo chiedere il pane di quaggiù. Vi è un’energia
trascendente che scaturisce in cielo ed entra in noi appena lo desideriamo. È
davvero un’energia, che si converte in azione tramite la nostra anima e il
nostro corpo.
È questo il nutrimento che bisogna chiedere. Quando lo chiediamo, e proprio
perché lo chiediamo, sappiamo che Dio vuole donarcelo. Non dobbiamo tollerare di
restarne sprovvisti neppure un solo giorno. Perché qualora i nostri atti
venissero alimentati esclusivamente dalle energie terrene, sottomesse alla
necessità di quaggiù, non potremmo compiere o pensare altro che il male. «Dio
vide che sulla terra i misfatti dell’uomo si moltiplicavano, e che il prodotto
dei pensieri del suo cuore era costantemente e unicamente cattivo». La necessità
che ci costringe al male governa in noi ogni cosa, eccetto l’energia dall’alto
allorché entra in noi. Ma di questa energia non si può fare provvista.
καὶ
ἄφες
ἡμῖν
τὰ
ὀφελήματα
ἡμῶν,
ὡς
καὶ
ἡμεῖς
ἀφίεμεν
τοῖς
ὀφειλέταις
ἡμῶν
Et remets-nous nos dettes, de même que nous aussi avons remis à nos débiteurs
E rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi abbiamo rimesso ai nostri
debitori
Al momento di proferire queste parole occorre che i nostri debiti siano stati
tutti rimessi. Non si tratta soltanto della riparazione alle offese che pensiamo
di aver subìto. Si tratta anche della riconoscenza per il bene che crediamo di
aver compiuto e in generale di tutto ciò che ci aspettiamo da parte degli esseri
e delle cose, di tutto ciò che giudichiamo ci sia dovuto e la cui mancanza
susciterebbe in noi il sentimento di essere stati frustrati. Sono tutti i
diritti che a nostro avviso il passato ci dà sull’avvenire. In primo luogo, il
diritto a una certa permanenza. Quando abbiamo goduto di qualcosa a lungo,
crediamo che sia di nostra proprietà, e che la sorte sia tenuta a lasciarcene
godere ancora. In secondo luogo, il diritto a una compensazione per ogni sforzo,
quale che ne sia la natura – lavoro, sofferenza o desiderio. Ogni volta che esce
da noi uno sforzo e non rientra in noi l’equivalente di questo sforzo sotto
forma di un frutto visibile, avvertiamo un sentimento di squilibrio, di vuoto al
punto di sentirci come derubati. Lo sforzo di subire un’offesa ci induce ad
aspettarci il castigo o le scuse di colui che ci ha offesi; lo sforzo di
compiere il bene ci induce ad aspettarci la riconoscenza di colui che è in
obbligo. Ma questi sono semplici casi particolari di una legge universale della
nostra anima. Ogni volta che esce da noi qualcosa, abbiamo un bisogno assoluto
che rientri in noi almeno l’equivalente, e siccome ne abbiamo bisogno, crediamo
di averne il diritto. Nostri debitori sono tutti gli esseri, tutte le cose,
l’universo intero. Pensiamo di aver crediti su ogni cosa. Ma tutti i crediti che
crediamo di avere sono riconducibili a un credito immaginario del passato verso
l’avvenire. È a questo credito immaginario che bisogna rinunciare. Aver rimesso
ai nostri debitori significa aver rinunciato in blocco a tutto il passato.
Significa accettare che l’avvenire sia ancora vergine e integro, rigorosamente
congiunto al passato con legami a noi ignoti, ma del tutto libero da quei legami
che la nostra immaginazione presume di imporgli. Significa accettare altresì la
possibilità che l’avvenire si compia, e in particolare che ci accada qualsiasi
cosa, e che il domani renda sterile e vana la nostra vita passata. Rinunciando
d’un sol colpo a tutti i frutti del passato, nessuno escluso, possiamo chiedere
a Dio che i peccati da noi commessi non portino nella nostra anima i loro
miserabili frutti di male e di errori. Finché ci aggrappiamo al passato, Dio
stesso non può impedire che in noi avvenga questa orribile fruttificazione. E
attaccandoci al passato, è inevitabile che ci attacchiamo ai nostri crimini,
giacché quanto di più essenzialmente cattivo risiede in noi ci è sconosciuto.
Il credito principale che pensiamo di possedere sull’universo è la permanenza
della nostra personalità. Questo credito implica tutti gli altri. L’istinto di
conservazione ci fa sentire questa permanenza come una necessità, e noi
riteniamo che una necessità sia un diritto. Al pari di quel mendicante che disse
a Talleyrand: «Signore, bisogna pure che io viva» e al quale Talleyrand rispose:
«Non ne vedo la necessità». La nostra personalità dipende interamente dalle
circostanze esterne, che hanno un potere illimitato di schiacciarla. Ma
preferiremmo morire piuttosto che riconoscerlo. Per noi l’equilibrio del mondo è
un concorso di circostanze tali da lasciare intatta la nostra personalità, come
se ci appartenesse. Tutte le circostanze che in passato l’hanno ferita ci
sembrano rotture di equilibrio che un giorno o l’altro dovranno essere
infallibilmente compensate da fenomeni di segno contrario. E viviamo nell’attesa
di queste compensazioni. L’imminenza della morte suscita in noi orrore
soprattutto perché ci costringe a renderci conto che tali compensazioni non
avranno mai luogo. La remissione dei debiti è la rinuncia alla propria
personalità. È rinunciare a tutto ciò che chiamiamo «io». Senza eccezioni.
Sapere che nel cosiddetto «io» non c’è niente, nessun elemento psicologico che
le circostanze esterne non possano far sparire. Accettare tutto ciò. Essere
felici che così sia.
Le parole «sia fatta la tua volontà», se pronunciate con tutta l’anima,
implicano già tale accettazione. Per questo subito dopo è possibile proferire:
«noi abbiamo rimesso ai nostri debitori».
La remissione dei debiti è la povertà spirituale la nudità spirituale, la morte.
Se accettiamo pienamente la morte, possiamo chiedere a Dio di farci rivivere
purificati dal male che è in noi. Perché chiedergli di rimettere i nostri debiti
equivale a chiedergli di cancellare il male che è in noi. Il perdono è la
purificazione. Dio stesso non ha il potere di perdonare il male che è in noi e
che in noi persiste. Dio ci ha rimesso i nostri debiti quando ci ha posti nello
stato di perfezione. Fino allora Dio rimette i nostri debiti parzialmente, nella
misura in cui noi rimettiamo ai nostri debitori.
καὶ
μὴ
εἰσενέγκῃς
ἡμᾶς
εἰς
πειρασμόν,
ἀλλὰ
ῥῦσαι
ἡμᾶς
ἀπὸ
τοῦ
πονηροῦ
Et ne nous jette pas dans l’épreuve, mais protège-nous du mal
E non metterci alla prova, ma proteggici dal male
L’unica prova per l’uomo consiste nell’essere lasciato in balìa di se stesso a
contatto con il male. Il nulla che è l’uomo allora è verificato
sperimentalmente. Benché l’anima abbia ricevuto il pane soprannaturale nel
momento in cui lo ha chiesto, la sua gioia è nondimeno frammista al timore,
perché le è stato possibile chiederlo solo per il presente. L’avvenire continua
a essere temibile. Pur non avendo il diritto di chiedere quel pane per il
domani, l’anima esprime il proprio timore sotto forma di supplica. E in questo
modo conclude. La preghiera ha inizio con la parola «Padre» e si chiude con la
parola «male». Bisogna procedere dalla fiducia al timore. La fiducia sola dà
forza sufficiente affinché il timore non provochi una caduta. Dopo aver
contemplato il nome, il regno e la volontà di Dio, dopo aver ricevuto il pane ed
essere stata purificata dal male, l’anima è pronta per l’autentica umiltà che
corona tutte le virtù. L’umiltà consiste nel sapere che in questo mondo tutta l’anima –
non solo il cosiddetto io, nella sua totalità, ma anche la parte soprannaturale,
ovverosia Dio in essa presente – è sottomessa al tempo e alle vicissitudini del
mutamento. Riguardo a quanto vi è di naturale in se stessi, bisogna
assolutamente accettare la possibilità che venga distrutto. Riguardo alla parte
soprannaturale dell’anima, bisogna invece accettarne e insieme respingerne la
possibile scomparsa. Accettarla come un evento che potrebbe verificarsi solo se
conforme alla volontà di Dio; respingerla come qualcosa di orrendo. Bisogna
averne paura, ma in modo che la paura sia come il compimento della fiducia. Le
sei richieste si corrispondono a due a due. Il pane trascendente equivale al
nome divino: è ciò che opera il contatto dell’uomo con Dio. Il regno di Dio
equivale alla protezione che egli stende su di noi contro il male; proteggere è
funzione regale.
La remissione dei debiti ai nostri debitori equivale alla piena accettazione
della volontà di Dio. La differenza sta nel fatto che nelle prime tre richieste
l’attenzione è rivolta soltanto a Dio, mentre nelle ultime tre la si riporta su
di sé per costringersi a fare di quelle richieste un atto reale e non
immaginario. Nella prima metà della preghiera si esordisce con l’accettazione.
Poi ci si permette un desiderio. Quindi lo si corregge ritornando
all’accettazione. Nella seconda metà si muta l’ordine e l’espressione del
desiderio viene per ultima. Ma il desiderio è diventato negativo; si esprime
come un timore: di conseguenza corrisponde al sommo grado di umiltà, come si
conviene a una chiusa. Questa preghiera contiene tutte le richieste possibili;
non se ne può concepire una che non vi sia già racchiusa. Essa sta alla
preghiera come il Cristo sta all’umanità. È impossibile recitarla una sola volta
prestando piena attenzione a ogni parola senza che nell’anima si operi un reale
mutamento, sia pure infinitesimale.
| Ora, lege et labora | San Benedetto | Santa Regola | Attualità di San Benedetto |
| Storia del Monachesimo | A Diogneto | Imitazione di Cristo | Sacra Bibbia |
7 marzo 2024 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net