VITA PATRUM IURENSIUM
ROMANI, LUPICINI, EUGENDI. III
VITA SANCTI EUGENDI ABBATIS.
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VITA DEI PADRI DEL GIURA
ROMANO, LUPICINO, EUGENDO.
II VITA DEL SANTO ABATE EUGENDO
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118.
Quantum, beatissimi fratres, desiderio fervorique vestro ex debiti summa
subpleverim, sicut ex ratione apicum ex parte sum, opitulante Domino,
iam securus, ita conscientiae propriae extraneique iudicii incertus ago
haec quae iniungitis non praesumptione indocti, sed oboedientia, ut
cernitis, regulari. Sic adnuens divinitas faxit, ut umana proclivior in
diiudicando fragilitas dum melo delectatur aut musicis, dumque oratorias
venustates, vocabulorum quoque ac temporum signata proprietate miratur,
ΘΑΠΙΝΩСIЅ (tapinosis) haec
nostra nequaquam iactantia superborum iudicum ventosa superfluitate
calcetur. 119.
Porro nos, ut prefati iam sumus, vobis proprie opuscula ista dicavimus,
quos novimus non oratorum, sed piscatorum esse discipulos, nec in
philosophia sermonis regnum Dei, sed in virtute prospicere, magisque
pura ac iugi observantia Dominum exorare, quam vana perituraque facundia
perorare. Hinc ergo iam nobis in relationem vitae beatissimi viri
narrationis sumatur exordium.
120.
Sanctus namque famulus Christi Eugendus, sicut beatorum patrum Romani ac
Lupicini in religione discipulus, ita etiam natalibus hac provincia
extitit indigena atque concivis. Ortus nempe est baud longe a vico, cui
vetusta paganitas ob celebritatem clausuramque fortissimam
superstitiosissimi templi Gallica lingua Isarnodori, id est ferrei
hostii, indidit nomen, quo nunc quoque in
loco, delubris ex parte
iam dirutis,
sacratissima micant caelestis regni culmina decata christicolis. Atque
inibi pater sanctissimae prolis iudicio pontificali plebisque testimonio
extitit in presbiteri dignitate sacerdos. |
118.
Nella misura in cui ho già sciolto con l'aiuto del Signore, beati
fratelli, una parte del mio debito per soddisfare il vostro appassionato
desiderio, mi sento certamente in parte rassicurato, considerando il
numero di parole (già scritte). Ma, davanti alla mia coscienza e davanti
al giudizio altrui, rimango dubbioso nel proseguire il compito che mi
imponete, non per ignorante presunzione ma, come vedete, per obbedienza
alla Regola. La debolezza umana è abbastanza propensa alla critica,
mentre si diletta nell’udire un canto o una musica e ammira le grazie di
un discorso rimarcandone la proprietà dei termini e dei tempi; pertanto
che la Divinità, favorevole alla nostra impresa, conceda che il nostro
umile stile non venga in nessun modo calpestato dall’arroganza di
superbi giudici, gonfiati di parole inutili.
119. D’altra parte, come
abbiamo già detto nella prefazione, è proprio a voi che abbiamo dedicato
questi libricini e sappiamo che voi non siete discepoli di oratori, ma
di pescatori. Voi cercate il Regno di Dio non nello stile del discorso,
ma nella sua qualità e preferite implorare il Signore con puro e
continuo rispetto piuttosto che perorarlo con una vana e deperibile
verbosità. Possa quindi essere questa la nostra premessa alla narrazione
della vita del beato uomo.
120.
Il santo servo di Cristo, Eugendo, discepolo in religione dei beati
Padri Romano e Lupicino, fu anche, per la sua provincia di nascita, un
loro compatriota e concittadino. Infatti nacque non lontano dal borgo
che l'antico paganesimo, a causa della fama e delle solidissime mura di
un santuario dove fioriva la superstizione, chiamò nella lingua dei
Galli «Isarnodurum»,
cioè «Porta di
Ferro». Oggi in
quel luogo il santuario è in parte distrutto, ma vi risplende il
santissimo edificio del Regno celeste, dedicato ai devoti di Cristo. È
là che il padre di un figlio così santo, con decisione episcopale ed
approvazione del popolo, fu elevato alla dignità sacerdotale e
costituito sacerdote. |
121.
Igitur cum beatissimum pignus ab ipsis poene incunabulis quodam
instinctu successuque
felicitatis ac luminis, virtute divina, ut reor, praesagante, succresceret,
nocte quadam,
ne venerabilis pater ipsius vel subolis sancta
ab
effectu
profectuque futurae beatitudinis tenerentur incerti, in visione puer
sanctus a duobus religiosis viris sublatus, ultra domus paterne
vestibulum sistitur, ita ut Orientis plagam caelique astra,
quasi condam multigenis Abraham patriarcha intuitu diligenti prospiceret,
atque ipsi typice iam quodammodo dicebatur:
Sic erit semen
tuum.
122.
Post intervallum namque modicum hinc unus, ast hinc alter atque alius
inde, donec succrescens multitudo efficeretur innumera, beatum puerum
vel sanctos procul dubio Romanum ac Lupicinum patres, qui eum in spiritu
de coeno paterne domus eduxerant tamquam inhormitas apum in modum
mellificantis uve quadam constipatione sepserunt.
123.
Et subito a parte prospicua videt instar amplissimae portae culmina
patefacta caelestia, ex lento etiam deductoque ad se usque ae caeli
vertice cum lumine clivo, in modum reclinis scale cristata proclivitate,
descensum
et niveos fulgidosque angelicos
choros
ad se usque vel socios trepudiantes in Christi laudibus adventare, ita
tamen quod, crescente semper in loco
societate, nullus omnino reverentia divinitatis adtonitus aut sermonem
movebatur aut muttum. Cumque sensim cauteque mortalibus multitudo sese
inseruisset angelica, collectis copulatisque
sibi terrestribus. concinentes angeli, ut venerant, caelestia sacra
repedantes ascendunt.
124.
Hoc solummodo puer sanctus inter carminum modulationem percipit, quod
post annum circiter monasterio intromissus ex euangeliis recitari
cognovit: istud nempe vice antiphonae, ut bene, ipso dignanter
referente, commemini, reciprocis vocibus multitudo concinebat angelica:
Ego sum via et veritas et vita.
Recepta igitur ingenti multitudine, post contemplationem diutinam
area quoque sese clausit astrigera, et solum semet puer contemplatus in
loco, excussus e sonino concutitur, ac visionis terrore perculsus, rem
gestam ilico refert patri. Confestim namque presbyter sanctus, cui
potissimum prolis sanctissima dicari deberet, agnovit.
|
121.
Il bimbo benedetto cresceva, mosso quasi fin dalla culla da un istinto
interno verso la felicità e la luce, ed una forza divina, come credo,
gli presagiva un sicuro avvenire. Ma una notte, perché questo degno
padre e il suo santo figlio non rimanessero nell'incertezza quanto alla
delizia ed alle promesse della futura beatitudine, il santo bambino, in
una visione, fu portato via da due religiosi. Fu posto davanti
all'entrata della casa paterna, in modo da potere contemplare con uno
sguardo attento le regioni orientali del cielo e le loro stelle, come un
tempo il patriarca Abramo guardò alla numerosa discendenza. Ed anche a
lui fu detto, con linguaggio figurato:
«Tale sarà la tua discendenza»
(Gn 15,5). 122. Poco
tempo dopo iniziarono ad apparire qui un personaggio, là un altro, poi
un altro ancora, fino a che la loro crescente moltitudine divenne
innumerevole, e circondano ed avvolgono il beato bambino ed i santi
Padri come un enorme sciame di api, simile ad un grappolo dolce come il
miele - senza alcun dubbio i santi padri erano
Romano e Lupicino che lo avevano
spiritualmente tolto dal fango della casa paterna.
123. Ed all’improvviso, dalla parte dove è rivolto il suo sguardo,
Eugendo vide aprirsi nelle altezze celesti come una larga porta. E vide
venire fino a lui e ai suoi compagni dei cori di angeli, vestiti di
bianco e splendenti come neve, che scendevano dal sommo del cielo lungo
una strada in dolce discesa, circondata di luce e simile ad una scala
lievemente inclinata, coi gradini di cristallo, ed esultavano di gioia
nell'elogio di Cristo. Tuttavia, nonostante il numero sempre crescente
dei personaggi, nessuno di loro disse una parola o mosse un muscolo,
colpiti come erano dal sacro timore della divinità. Poco a poco, con
precauzione, la truppa angelica si mescola ai mortali; gli angeli
raccolsero queste creature terrestri, le unirono a loro e, cantando
tutti uno stesso canto, risalirono verso le sacre dimore del Cielo, così
come ne erano venuti. (Cf. Gn 28,12)
124.
Fra le melodie dell’inno il santo fanciullo comprese soltanto una frase
che, circa un anno dopo, quando entrò nel monastero apprese essere una
frase del Vangelo: ecco infatti ciò che diceva, come antifona, il coro
alternato della folla di angeli e che io ricordo molto bene, poiché
Eugendo stesso ebbe la bontà di riferirmelo:
«Io sono la
via, la verità e la vita»
(Gv 14,6). Quindi la folla immensa si ritirò; la volta celeste,
riempita di stelle e a lungo contemplata da Eugendo, si richiuse
anch’essa ed il bambino, vedendosi solo in quel luogo, si svegliò di
soprassalto. Terrorizzato da questa visione raccontò subito dell’evento
a suo padre. Il santo presbitero capì immediatamente a chi doveva in
primo luogo essere consacrato un figlio così santo. |
125.
Mox igitur litterarum eum instituit aelementis, et anni exacto
circulo,
tamquam Samuhel quondam non in typico excubaturus tempio, sed ipse
potius Christi efficiendus
templum,
sancto Romano oblatus est patri. In quo vere ita beatorum abbatum, qui
eum in spiriti de incolatu terrestri eduxerant, gratiarum gemina
confluxit ubertas,
ut succidua quoque posteritas, utrum in Eugendo Lupicinum potius
suspiceret an Romanum, iudicio fluctuaret incerto.
126.
Illis dumtaxat huc illucque necessitate misericordia e monasterio saepe
progressis, iste vero a septimo ultra sexagesimo vite quo transiit anno
nusquam exinde post ingressum extulit pedem. Lectione namque in tantum
se die noctuque, expletis consummatisque omnibus, quae a proposito vel
abbate iniuncta sunt, dedit et inpendit, ut praeter Latinis voluminibus
etiam Greca facundia redderetur instructus. 127.
In vestitu autem duabus tunicis numquam est usus atque unam ipsam
nullatenus immutavit, nisi antea fuisset plurima vetustate consumpta,
simili quoque coculle ipsius condicione servata. Paleis vero lectuli
ineventilatis multo tempore vilique sagello constrictis pellicioque
superposito, conquievit. Aestivis namque temporibus carecaIla vel
scapulari cilicina utebatur vetusta, quod ei quoque vir sanctitate
conspicuus Leunianus Viennensis urbis abba pignore transmiserat
karitatis.
128.
Fuit namque sanctus iste de Pannoniis quondam, expargente barbarie, in
Galleis vinculo captivitatis abductus et non solum in Viennensi, sed
etiam in Augustudunensium urbe multo tempore claustro peculiaris cellae
conclusus, ita ut amplius quadraginta annis in utraque civitate
cohercitus, nulli hominum ex prima retrusione vultu aut corpore praeter
sola sermonis notitia nosceretur. Monachos iuxta cellulam haud plurimos
regens, monachas vero procul intra urbem monasterioque conseptas ultra
sexagenario numero admirabili ordinatione rexit et aluit praemisitque
maximas, magnas interim succiduasque in spiritu non dimisit. Sed sursum
redeo.
129.
Habebat namque Eugendus beatissimus calciamenta fortia rusticaque in
modum priscorum patrum,
constrictis ocreis cruris fasceolisque plantis. At vero nocturnis
matutinisque conventiculis nec in frigidissimis pruinis nec in magnis
nivibus quicquam nuditati pedum praeter ligneas Gallicanasque caligas
addidit umquam atque in hunc quoque modum eminus saepissime matutinis
oris ad fraternum cimiterium oraturus gradiebatur in nivibus.
130.
Nemo namque eum umquam aut in diurna aut in nocturna sinaxi ante
expletionem conspexit egredi foras. Nam cum ipse noctibus certe oratu
longissimo atque secreto cunctos in oratorium diutissime anteiret, post
omnium quoque discessum nihilominus formulae suae incumbens oratione
diutina pascebatur in spiritu. Atque ita exinde quolibet
tempore
vultu
hilari
ac laeto egrediebatur ad fratres, ut solet exsatiata ambitio vultus
hominum lasciva iucunditate dissolvere.
|
125.
Immediatamente gli insegna i fondamenti del sapere e dopo un anno
Eugendo fu offerto al santo Padre Romano come lo fu un tempo Samuele, ma
non per garantire la guardia di un tempio simbolico, ma piuttosto per
diventare lui stesso il tempio di Cristo. In lui confluì veramente la
duplice abbondanza di grazie accordata ai beati Abati che lo avevano
spiritualmente fatto uscire dalla sua residenza terrestre, tanto che la
generazione che seguì (quella di questi Abati) non sapeva decidere se in
Eugendo si dovesse contemplare l'immagine di Lupicino o quella di
Romano. 126. Osserviamo
soltanto che, mentre i suoi due predecessori, per opere di misericordia,
furono spesso obbligati ad uscire dal monastero e ad andare di qua e di
là, lui, al contrario, una volta entrato non mise mai piede al di fuori,
a partire dal settimo anno della sua vita fino a dopo il sessantesimo,
età in cui morì. Non appena eseguiti e portati a termine tutti gli
incarichi affidatigli dal priore o dall’abate si dedicava di giorno e di
notte alla lettura e si impegnava a tal punto che acquisì una solida
conoscenza, non solo delle opere latine, ma anche dell'eloquenza greca.
127.
Quanto al vestirsi non utilizzò mai due tonache e la sola che egli
possedeva non la cambiava per nessun motivo prima che non ne fosse
consunta dalla vecchiaia. La stessa regola osservava per la sua cocolla
(cappuccio con mantello N.d.T.). La paglia del suo giaciglio era chiusa
in un grezzo sacco e solo raramente veniva scossa. Qui dormiva
coprendosi con una pelle di animale. Durante l'estate, utilizzava una
lunga tunica con maniche e un vecchio scapolare in pelo di capra che gli
aveva inviato l'abate Leoniano di Vienna, un uomo di rilevante santità,
come pegno di fraterna amore.
128.
Un tempo, quando i Barbari si sparsero fino alla Gallia, il sant’uomo
(Leoniano) era stato portato dalla Pannonia come prigioniero: visse
molto a lungo nella clausura di una cella particolare, non soltanto a
Vienna, ma anche ad Autun. Restò rinchiuso più di quaranta anni nell’una
o nell’altra città, tanto che, dopo la sua segregazione, nessuno lo
conobbe più di viso o di corpo, ma solo dal suo modo di parlare.
Dirigeva una piccola comunità di monaci vicino alla sua cella; più
lontano, all'interno della città, guidava più di sessanta monache di
clausura, nutrendole nella vita religiosa con un’ammirevole saggezza: le
più anziane le ha lasciate partire prima di lui (per il cielo), ma
tuttavia non ha abbandonato spiritualmente le anziane che sopravvissero
a lui. Ma ora torno al racconto originario. 129. Il beato Eugendo portava scarpe resistenti e rustiche, al modo degli antichi Padri, e le sue gambe erano strette in gambali ed i suoi piedi in fasce. Ma per l'ufficio del mattutino e per quello delle lodi, non mise mai ai suoi piedi nudi altra cosa che zoccoli di legno all’uso gallico, anche con i più rigidi freddi ed anche quando c'era molta neve. In questo modo molto spesso nelle ore mattutine camminava a lungo nella per recarsi a pregare al cimitero dei fratelli. 130. E mai nessuno lo vide uscire prima della fine, durante la sinassi del giorno o della notte. Se durante la notte si recava nell'oratorio un bel po’ di tempo prima degli altri per pregare a lungo e nel segreto, così pure, quando tutti erano usciti, continuava ancora a nutrirsi spiritualmente con un lunga preghiera, appoggiato sul suo banco. E, qualunque fosse l'ora, usciva di là avvicinandosi ai fratelli con un’aria serena e lieta, allo stesso modo che gli uomini (del secolo) hanno un viso inondato di una spensierata allegria, una volta soddisfatta la loro ambizione. |
131.
Refectio ei omni tempore semel in die fuit, quae tamen aestivis diebus
nunc in sexta cum ceteris fatigato, nunc vero cum his, qui iterato
reficiebantur, terminabatur in vespera, ita tamen quod nihil umquam,
excepto his quae cunctis adponebantur fratribus, degustavit in mensa.
Igitur ad inquoationem administrationis ipsius revertamur.
132.
Cum ergo pater ille, quem beatissimus Romanus vel Lupicinus
Condatescensi coenobio signaverant successorem, praeter labores
sollicitudinesque coenobiales etiam corporeae inequalitatis frangeretur
incommodis, vocatis ad se fratribus, sic sanctum Eugendum vice sua
sollicitudine innexuit, quod sibi tamen ius paternae eminentiae in nullo
penitus inminuit aut subtraxit.
Temptavit namque idem abba, ut antedictum sanctumque Eugendum cum
administrationis onere etiam presbiterii dignitate artius inligaret.
133.
Sed non solum voluntati ipsius in hac parte saepissime, immo sanctissime
contradixit, verum etiam sacrosanctos pontifices, qui illic orationis
causa confluxerant, reverentia tanti honoris caute ac diligenter aufugit.
Mihi tamen crebro secretissime testabatur, utilius multo esse abbati
propter iuniorum ambitionem liberum a sacerdotio praeesse fratribus et
non inligari dignitate, quam abrenuntiantes ac remotos minime convenit
adfectare.
134.
Novimus namque, aiebat, praeter hanc quam prediximus causam multos etiam
patres post humilitatis professe culmina hoc officio gravius ac
latentius superbisse et plus se efferre fratribus, quos exemplo
humilitatis convenerat anteire. Suscepit ergo Dei sanctus, sicut etiam
pater Lupicinus, absque sacerdotali aeminentia iniunctae sibi
vicissitudinis societatisque laborem, ea maxime securitate fretus, quod
de paterna sollicitudine ac provisione non habebatur incertus; sed mox
evidentissima revelatione percellitur, ne de plenaria administratione,
velut in aliquo incertus, redderetur ambiguus. |
131.
In tutte le stagioni prendeva un solo pasto al giorno. Durante l'estate
alle volte a mezzogiorno con tutta la comunità, quando era stanco, ed
alle volte alla sera, con i monaci che prendevano un secondo pasto.
Tuttavia non gustò altro a tavola al di fuori di quello che era servito
a tutti fratelli. Ma riprendiamo il nostro racconto dai primi giorni
della sua guida.
132.
Dunque, quando il padre che i beati Romano e Lupicino avevano designato
come successore per dirigere il monastero di Condat perse il vigore, non
soltanto per gli impegni e le preoccupazioni della comunità, ma anche
per i disturbi di infermità fisiche, convocò presso di sé i fratelli ed
associò sant’Eugendo alle preoccupazioni del suo incarico, senza
tuttavia allentare o rinunciare per niente alla sua paterna e superiore
autorità. Questo stesso abate tentò anche di legare più strettamente lo
stesso sant’Eugendo invitandolo ad unire alla fatica del governo l'onore
del sacerdozio.
133.
Ma, su questo punto, (Eugendo) non solo si limitò a resistere molto
spesso e così molto santamente alla volontà del suo superiore, ma anche
schivò con prudenza ed attenzione i venerabili pontefici che si erano
riuniti in questo luogo per pregare, per la soggezione di un tale onore.
Del resto spesso mi confidava segretamente che è molto meglio per un
abate, a causa dell'ambizione dei giovani, dirigere i fratelli essendo
libero dal sacerdozio, senza essere legati da questa dignità, a cui non
conviene per niente aspirare da parte di uomini rivolti alla rinuncia ed
alla solitudine. 134.
«Del resto,
aggiungeva, noi sappiamo che, oltre a questa prima ragione che ho appena
dato, anche molti padri, dopo avere praticato alla perfezione l'umiltà
del loro stato, si sono profondamente e segretamente inorgogliti del
ministero sacerdotale e si sono sentiti superiori ai fratelli che
avrebbero dovuto precedere come esempio di umiltà».
Dunque il santo di Dio ricevette il pesante impegno di sostituto e di
collaboratore che gli era stato imposto senza la dignità sacerdotale,
come già il Padre Lupicino; trovava soprattutto la sua serenità nel
fatto di poter contare sulla sollecitudine e la previdenza del padre. Ma
ben presto fu sconvolto da una rivelazione molto chiara, affinché non
avesse alcun dubbio sull'attribuzione dei pieni poteri e non rimanesse
in lui alcuna incertezza. |
135.
Nocte
igitur subsecuta subito raptus in
visione, beatissimis quoque Romano ac
Lupicino abbatibus, ut in iniciis quondam, ita nunc in oratorii
secretario a parte dextera praesentatur
necnon etiam inter ipsos seniores ac superstites circumspicit fratres
cereos ac lampades gestare lucentes. Et data sibi a sanctis patribus
oratione vel pace, ilico benedictum illum abbatem, decessorem sibi
utique mox futurum conspicit intromitti ac super dorsum ipsius vel
scapulas, rigentibus clavis purporeis, pallium album aspicit dependere.
136.
Soluto namque beatus Romanus sancti illius cingulo constringit ilico
lumbos Eugendi. Dehinc excusso quod desuper, ut
diximus, gestabat pallio, huius adeque umeris superinponens, ait: “Hec
tibi ad praesens nosce interim adsignari”; et digitis dalmaticam
praedicti decessoris adstringens: “Etiam hanc tibi”, inquid, “probata in
acceptis utilitate, noveris adsignandam.”
Mox adstantes cum cereis fratres, incipiente primitus uno, confestim
cuncti claritatis hac solatii lumina inpacta parieti depremunt et
extingunt.
137.
Cumque vir beatus tenebrarum angustiis cohercitus, eventum rei adtonitus
praestolaretur in visu, vox ad eum facta est: “Noli”, ait, “te, Eugende,
fraude horum praesentium hac materialium luminum contristare; orientalem
namque cellulae huius adtende prospectum, et videbis ilico tibi absque
opitulatione humana lumen divinitus ministrari”. At ille confestim illic
porrigens visus, aspicit, sensim deluciscente aurora, radium ad se diei
ac lucis influere, et in semet reversus, lectulo laetus excutitur. Nec
mora visionem sequitur effectus.
138.
Nam ad Christum decessore ilico migrato, volens nolensque
administrationem subterfugere non potuit subarratam. Illi vero qui per
visionem luminis solatia prestata subtraxerant, humanitatis malo aliquid
passi, livoris zelo fiammati in beatissimum virum invidiae ardore
turgescunt et sanctum Eugendum abbatem nunc dispectione
animi, nunc
quoque monasterii professionisque desertione tamquam novitium ac
rudem monachorum laicorumque patiuntur subiacere contemptui.
139.
At non ille divinae pietatis obtutus famulum suum passus est prolixa
fatigatione
vexari. Confestim namque ipsi potentiae ac virtutis suae dexteram
affluentissima signorum largitate porrexit, dando atque ostendendo per
servum suum sanitatum dona, prodigia multa, ita ut summae saeculi
potestates sospitari se crebro ac benedici eius litteris exorarent nec
se clementiam divinam
crederent
habere placatam, nisi prius Christi amici gratiam sive suffragia aut
visu aut litteris potirentur electa:
140.
episcopi quoque ac suspicientissimi sacerdotes prae se omnimodis ferre,
si eum corporaliter cernere aut affatu litterario obtinuissent
familiarius conpellari. Ipsi etiam pseudofratres, qui pridie coturno
elationis inflati discesserant. tamquam infelices atque degeneres
notabantur a laicis,
nisi, deposito invidiae virus, ad sanctum Christi famulum quantocius
repedarent. |
135.
Nella notte seguente, improvvisamente fu rapito da una visione: i beati
Abati Romano e Lupicino si presentarono a lui come durante la sua
infanzia, ma questa volta nella sagrestia situata alla destra della
chiesa. Lì intorno insieme a loro vide anche gli anziani e i fratelli
del monastero che erano sopravvissuti ai due fondatori e che portavano
candele e lampade accese. Non appena i santi Padri gli diedero la
benedizione ed il bacio della pace, vide entrare questo abate benedetto
a cui ben presto egli sarebbe subentrato nell’incarico: vide che lungo
il dorso e le spalle di questo abate cadeva un mantello bianco ornato di
fasce di porpora. 136. Il
beato Romano slegò la cintura di quest’uomo santo
e, senza indugio, la passò
attorno alle reni di Eugendo. Quindi tolse al medesimo il mantello che,
come abbiamo detto, portava sopra gli altri suoi abiti e, posandolo
sulle spalle di Eugendo, disse: «Sappi
che questo incarico ti è fin d'ora attribuito per un certo tempo».
Poi, afferrando con le dita la tunica dalmatica dello stesso
predecessore, aggiunse: «Sappi che anche questo
(ornamento) ti sarà conferito, per aver fatto buon uso di ciò che hai
già ricevuto». I fratelli erano là in
piedi con le candele ma, ben presto, su iniziativa di uno di loro,
queste luci che spargevano luminosità e conforto vennero gettate contro
il muro, furono schiacciate e si spensero.
137. Soffocato dalle tenebre
e colpito da stupore, il santo attendeva di vedere la conseguenza di
quella visione, ma fu una voce che lo informò:
«Non affliggerti,
Eugendo, diceva (la voce), a causa dell’attuale mancanza di questa luce
materiale; osserva all'Oriente di questa celletta e subito vedrai una
luce divina che ti offre il suo aiuto, in mancanza del soccorso umano».
E subito, girando lo sguardo da quella parte, vide un raggio di giorno e
di luce che scendeva fino a lui mentre poco a poco si illuminava l'alba.
Ritornato in se stesso, saltò giù felice dal suo letto. Questa visione
non ritardò a realizzarsi.
138.
Infatti, andatosene a Cristo il suo predecessore, Eugendo, volente o
nolente, non poté sottrarsi al governo (del monastero) di cui aveva già
ricevuto l’ipoteca. Ma gli stessi che nel corso della visione gli
avevano sottratto il conforto della luce, dopo averglielo offerto,
quelli stessi soccombettero alla cattiveria umana e, in preda alle
passioni della gelosia, si gonfiarono di un ardente odio contro il beato
uomo: disprezzandolo nel loro cuore, a volte anche lasciando il
monastero e la vita religiosa, permettevano che monaci e laici
calunniassero il santo Abate Eugendo come un novizio ed un ignorante.
139.
Ma l'amore divino che vegliava su di lui non permise che il suo servo
fosse tormentato da prolungate sofferenze. Immediatamente, infatti,
tende verso lui, con una straboccante abbondanza di segni, la sua destra
potente ed efficace: grazie al suo servo, Dio concedeva visibilmente
guarigioni e molti prodigi, tanto che, spesso, i più importanti e
potenti personaggi del secolo lo supplicavano tramite le loro lettere di
essere protetti e benedetti da lui. Costoro pensavano di non essersi
riconciliati con la clemenza divina se prima non avessero acquisito, con
una visita o con una lettera, gli speciali favori o intercessioni di
questo amico di Cristo. 140.
Persino vescovi e ammirevoli sacerdoti si mostravano in tutti i modi
lusingati, se avessero avuto il privilegio di vedere fisicamente Eugendo
o di ricevere da lui una lettera in cui egli si rivolgeva a loro con
tono familiare. Ed anche questi falsi fratelli che qualche tempo prima
se ne erano andati gonfiati dall’arroganza dell’orgoglio, erano additati
dai laici (e considerati) come infelici e degeneri, a meno che,
ricusando il veleno dell’invidia, ritornassero al più presto dal santo
servo di Cristo. |
141.
Dum haec odorifera fama geruntur,
puella quaedam iuxta saeculi dignitatem non infima, circa Secundiacensim
parrochiam a daemonio atroci correpta, solum claustris retrusa, verum
etiam ferreis vinculis tenebatur obstricta. Cumque sanitatis causa a
multis, ut solet, exorcismorum scripta nexae cervicibus necterentur,
atque illa ignotas sibi scriptorum personas per inmundum spiritum cum
nomina, quod dolendum est, carperet et vitia se magis illos qui
scripserant iam olim in ilio atque ilio peccato, latentibus apud
humanitatem indiciis, adsereret possidere, tum ad ipsam inerguminam
de adstantibus unus:
142.
Quid nos, inquit, istis alienis, immo propriis vitiis terres,
inmunde? Vere in Christi nomine non solum istorum quos derogas virorum,
sed cunctorum quoque, si potuero, scripta sanctorum ita cervicibus tuis
innectam, ut vel multitudine imperantium obruaris, si hos paucos audire
dispicis et contemnis. Tu mihi, inquit diabulus, Alexandrina, si placet,
cartarum onera exarata inponas, numquam tamen ex obtento vasculo poteris
propulsare, dummodo mihi solius Eugendi Iurensis monachi ex hoc non
adferas iussionem.
143.
Confestim namque rapientes proximi dictum, ad beatissimum virum
plenissima fide concurrunt, ac rem gestam pedibus provoluti narrantes,
non se reddituros esse testantur, nisi misericordiam Christi praestaret
exoratus obpresse. Victus igitur vel ratione vel precibus pater,
breviter cum longa oratione, ut Gregorius quondam Magnus Apollini, in
hunc modum scribens atque consignans, sporcissimo transmisit epistolam:
144.
Eugendus servus Christi Iesu in nomine domini nostri Iesu Christi,
Patris et Spiritus
Dei nostri
praecipio tibi per scripturam istam : Spiritus
gule et ire et fornicationis et amoris, et lunatice et Dianatice et
meridiane et diurne et
nocturne et omnis spiritus inmunde, exi ab omine, quae istam
scripturam secum habet. Per ipsum te adiuro
verum filium Dei vivi : Exi velociter et cave,
ne amplius introeas in eam. Amen. Alleluia.
Et orans atque conplicans, subplicibus tradidit deportandam. Quid plura?
Necdum itineris medii
spatia
confecerant, cum ecce! furcifer ille frendens atque eiulans prius
egressus est ex obsessa, quam calcarent domus limina revertentes.
145.
Ab hoc fere tempore beati viri longe lateque fama nomenque enituit, ut
qui sanctus iam habebatur indigenis, potens etiam et vere apostolicus
porrogenitis haberetur. Materfamilias quondam Siagria nunc quoque
ecclesiarum monasteriorumque per elymosinam mater, cum gravi obsessa
incommodo iam iamque haberetur a medicis desperata, epistolam beati
viri, quae casu ad eam delata pervenerat, de amariolo sibi vice dextere
beati viri exosculandam praecepit ad tingi.
146.
Cumque adprehensam,
contactis ex eadem cum oratione oculis, lacrimis quoque haut minime
deciduis infecisset, ori dehinc insertam aliquantisper dentibus cum
oratione constringens, mox, recuperata sanitate, surrexit. Quo gaudio
atque miraculo non solum ipsa suique,
verum
etiam civitas maxima Lugdunensium exultatione mira relevata atque
laetata est. |
141.
Mentre accadevano questi fatti, la cui fragrante fama (si diffondeva
ovunque), una ragazza di non piccolo rango, secondo la considerazione
del mondo, e che abitava vicino alla parrocchia di Secundiacum, era
posseduta da un terribile demonio: non solo era tenuta rinchiusa, ma la
si teneva legata con catene di ferro. Secondo l'abitudine, molte persone
legavano sulla nuca di questa ragazza delle formule d'esorcismo per
guarirla. Essa, tuttavia, sotto l’influenza dallo spirito immondo e
senza conoscerle, purtroppo offendeva le persone che avevano scritto
queste formule, dicendo i loro nomi ed i loro vizi e affermando che lo
stesso spirito immondo possedeva da tempo coloro che le avevano scritte,
a causa di questo o quel peccato, pur rimanendo le prove nascoste agli
uomini. Allora, uno dei presenti sfidò la potenza maligna:
142.
«Perché, dice, provi a spaventarci
con questi vizi altrui, piuttosto che con i tuoi propri vizi, essere
immondo? Per il nome di Cristo, non mi accontenterò degli esorcismi di
cui screditi gli autori, ma chiamerò tutti i santi, se potrò, a redigere
formule che legherò alla tua nuca, in modo che tu sia oppresso da una
moltitudine di padroni che ti comandano, se rifiuti di ascoltare, e
diffami questi pochi che sono qui».
«Su di me, risponde il diavolo, se ti
fa piacere puoi mettere un carico di papiri di Alessandria tutti
scritti, ma tuttavia non riuscirai mai ad espellermi dal vasetto che ho
occupato, finché non mi porterai l'ordine imperativo di un solo uomo,
Eugendo, monaco del Giura».
143.
I (testimoni) più vicini afferrano immediatamente queste parole e
corrono verso il beato con incondizionata fede. Gettandosi ai suoi piedi
gli raccontano il fatto, affermando che non se ne andranno finché, mosso
a pietà, non accorderà la misericordia di Cristo alla (ragazza)
posseduta. Vinto dunque sia dalle loro spiegazioni che dalle loro
preghiere, il padre agisce come un tempo Gregorio Magno nei confronti di
Apollo: dopo una lunga preghiera scrive una breve la lettera in questi
termini. Poi la sigilla e la fa recapitare all’infame creatura:
144.
«Io, Eugendo, servo di Cristo Gesù, in nome del nostro signore Gesù
Cristo, del Padre e dello Spirito del nostro Dio, ti ordino con il
presente scritto: Spirito di golosità e di rabbia e di fornicazione e
d'amore, Demone della luna e di Diana e di mezzogiorno e del giorno e
della notte, Spirito immondo, chiunque tu sia, esci dalla creatura umana
che porta su di sé questo scritto. È per Lui, il vero Figlio del Dio
vivente, che te ne scongiuro: esci in fretta e guardati dal rientrare in
futuro dentro di lei. Amen. Alleluia».
Quindi prega, piega la lettera e la rende a coloro che lo supplicavano
perché la portino a destinazione. Cosa (devo aggiungere) di più? I
messaggeri non avevano ancora percorso la metà del cammino quand’ecco
che il furfante, stridendo i denti e gemendo, uscì dalla ragazza
posseduta prima ancora che gli stessi superassero la soglia della casa.
145.
Proprio a partire da quel momento la notorietà del beato uomo si diffuse
in lungo e in largo e il suo nome brillò tanto che, già considerato un
santo dagli abitanti del paese, fu riconosciuta anche da genti lontane
la sua autorevolezza ed il suo carattere da vero Apostolo. Siagria, un
tempo madre di famiglia, ed oggi anche madre delle chiese e dei
monasteri per le sue elemosine, era in preda ad una grave malattia, ed i
medici consideravano ormai il suo caso come disperato. Ma ecco che prese
dal suo armadietto una lettera che aveva ricevuto dal beato uomo,
proprio a lei indirizzata, e la baciò come se fosse la mano del beato.
146. Afferratala la pone sui suoi occhi pregando, la bagna con le
abbondanti lacrime che le cadono e poi la mette in bocca stringendola
per un po’ di tempo tra i suoi denti senza cessare di pregare: ed ecco
che, tornata in buona salute, si alza. La felicità di questo miracolo
non riempie soltanto lei ed i suoi, ma anche la molto nobile città dei
Lionesi, rasserenata, si rallegra con straordinaria gioia. |
147.
Cum ergo fama vitaque viri virtutum dilatatione succresceret, tanta
miserorum acervatim coepit in
monasterium
turba concurrere, ut secularium,
immo tribulantium multitudo paene catervis videretur numerosior
monachorum. Interea dum inibi mox nonnulli, alii etiam post bidui
triduique, quidam vero post mensibus quommoda votiva percipiunt, Dei
sanctus manum ad salutare compendium mittens, fatigationem miseris
auferebat.
148.
Dabat ergo subplicibus atque sospitibus
deportanda inligandaque infirmis cum sancti olei quantitate
superius contra larvis ac miseris scripta mandata, quae ita, quooperante
fide, porrigebant in provinciis longe positis medicinam, ut illi quoque
obtinebant, qui eius in monasterio praesentabantur aspectui. Neque solus
beatissimus pater in
coenobio, sed et presbiteri multique inibi fratres potiebantur
charismata meritorum, et zeli ambitione cessante, illis potissimum quam
sibi Dei homo medendi delegabat officium.
149.
Et hoc studebat omnimodis, ut unusquisque illi rei vel studio in
monasterio deserviret, in quo eum dono sancti Spiritus pollere
eminentius praespexisset. Atque ideo mansuetum ac lenem illi ordinabat
officio vel loco famulari, ubi mansuetudinis ac patientiae bonum
nullatenus inquietudo decoloraret alterius; rursumque superbiae forsitan
aut vanitatis naevo notatos non patiebatur esse sepositos, ne iudicio
virosae ac propriae elationis inflati, altius graviusque corruerent, cum
culpas ac vitia sua non agnovissent, in medium crebrius increpati.
150.
Si quos sane, ut sese habet natura fragilitatis humane, aedacis
tristiciae morsibus interea noverat sauciari, illis quoque inopinantibus,
ita spiritaliter ex industria blandus superveniebat ac laetus et sancto
dulcique fovebat alloquio, ut, deterso tristiciae perniciosissimum
virus, quasi quadam salutaris olei perunctione, exasperata sanaretur
austeritas. Dissolucioribus vero ac levioribus acriorem se severioremque
semper exibuit.
151.
Presbiteris quoque ipsis, quorum officio, constrictus saepe ab episcopis,
humilitatis causa noluit, ut diximus, implicari, ita semper ob
ministerium sacrificii salutaris quodam remotionis opere conscientiae
purae tribuit facultatem, — ut illo cuique pro delicto mordaciter
forsitan quippiam, ut assolet, succensenti, illi vero, dum reatum
culpamque ignorarent, absque notitia vel participatione alieni reatus
corpus dominicum traderent ab altari, — ut nec se conscii plecterent
communione delicti nec alterum severitate paterna ante emendationem
forsitan sacramentorum indultu subtraxisse viderentur in aliquo. |
147.
Mentre la fama e la vita di Eugendo crescevano grazie al moltiplicarsi
dei suoi miracoli, iniziò a correre in massa al monastero una tale ressa
di infelici, che la folla dei secolari, o meglio degli afflitti,
sembrava quasi superare in numero la schiera dei monaci. Intanto che nel
monastero alcuni beneficiavano subito dei vantaggi sperati, altri dopo
due o tre giorni, alcuni dopo mesi, il santo di Dio dispensava gli
infelici dalla fatica, ricorrendo a mezzi di guarigione più convenienti.
148. Alle persone sane che venivano a supplicarlo per dei malati,
dava da portare via, oltre ad una certa quantità di olio santo, anche
delle ingiunzioni scritte contro i demoni e le malattie e che dovevano
essere attaccate sul corpo dei pazienti; questi biglietti, con l'aiuto
della fede, portavano fino alle lontane province il conforto che
ottenevano coloro che si presentavano alla vista del santo nel suo
monastero. Ed il beato padre non era il solo nella comunità a
beneficiare della potenza miracolosa, ma anche i sacerdoti e molti
fratelli avevano questo privilegio. E, mettendo a tacere gli stimoli
della gelosia, l'uomo di Dio preferiva delegare loro i suoi poteri di
guaritore piuttosto che esercitarli lui stesso.
149.
Egli tendeva in tutti i modi ad assegnare ad ogni monaco le mansioni o i
compiti per i quali intuiva fosse particolarmente dotato per grazia
dello Spirito Santo. In questo modo un fratello moderato e mite si
vedeva assegnato un servizio ed un posto dove i vantaggi della sua
mansuetudine e della sua pazienza non fossero in alcun modo guastati
dalla veemenza di un compagno irrequieto. Se, al contrario, notava altri
che forse avevano il difetto dell'orgoglio o della vanità, non
permetteva loro di vivere separati, per paura che, gonfiati di proposito
dalla loro stessa meschina esaltazione, cadessero più in basso ed in
difetti più gravi, non riconoscendo neppure più i loro peccati ed i loro
vizi, nonostante i frequenti e pubblici rimproveri.
150. Se nel frattempo veniva
a sapere che proprio alcuni fratelli che soffrivano la natura della
fragilità umana ed erano in preda ai morsi di una tristezza divorante,
appariva all'improvviso mostrando di proposito tanta gentilezza e gioia
soprannaturali, riscaldava il cuore degli infelici con parole sante e
delicate. Questi, purificati dal veleno molto pericoloso della
tristezza, si trovavano guariti dal loro esasperato pessimismo, come con
l'unzione di un olio salutare. Ma l’Abate mostrò sempre più rigore e
severità nei confronti di monaci troppo negligenti e frivoli.
151.
Quanto ai sacerdoti - abbiamo detto che, a motivo dell'umiltà, non volle
mai essere incaricato lui stesso di queste funzioni, nonostante le
ripetute richieste dei vescovi -, (considerando che sono) i ministri del
sacrificio salvatore, permise loro di tenersi in disparte per custodire
la purezza della loro coscienza: in questo modo, se per caso il Padre si
infiammasse nei confronti dell'autore di un colpa e si mostrasse, come
succede spesso in questi casi, un po' brusco, i sacerdoti, loro che
ignoravano sia il difetto che la penitenza inflitta, potevano
distribuire all'altare il Corpo del Signore senza conoscere il peccato
di questo fratello e senza nessuna compartecipazione: così in coscienza
non dovevano rimproverarsi per una complicità nella colpa e neanche
sembrava loro di sottrarre il colpevole alla severità del padre, prima
che egli se ne fosse emendato, accordandogli per caso i sacramenti. |
152.
Hic namque fuit, immo est aput Christum beatissimus homo, ex cuius ore,
Deum testor, numquam processit obloquium. cuius aures numquam polluit
maliloqui oris ferale contagium. Tantum namque detestabatur hoc vitium,
immo flagitium, quantum quis letiferi anguis non solum venenum metuit,
verum etiam occursus ipsius vitat atque conspectus. In tantum mens
ipsius, abstrusis viciis, pura pollebat, ut etiam beatissimos Christi
apostolos Petrum ac Paulum sanctumque Andream, adaeque apostolicum
conspicuumque virum Martinum episcopum et conloquio fuerit potitus et
visu.
153.
Quodam namque tempore, antequam ipsi administrationis onus incumberet,
diebus aestivis ultra monasterium,
iuxta semitam qua Genua usque transcenditur, sub arbore solito
quiescenti subito tres sese per soporem adventantes offerunt viri.
Quorum cum post orationem et pacem novitatem ac vultus abitusque
contemplatur adtonitus, interrogat quoque, quinam ipsi venerabiles
essent, quorum benedici meruisset adventu.
154.
Tum unus:
“Ego”,
ait,
“Petrus,
ast hic germanus meus Andreas et iste frater noster est Paulus”.
At ille confestim in spiritu ad eorum vestigia provolutus: “Et quid
est”, inquit, “domini, quod vos in haec rura cerno silvestria, quos in
magnis urbibus Romae hac Patras post sanctum martyrium legimus corpore
contineri?”
“Verum
est”,
inquiunt,
“et
illic quidem, ut asseris, sumus et hic quoque nunc abituri venimus”.
Et in haec verba visio finivit et somnus.
155.
Cumque, confricata facie, torporem somni depulisset ex vultu,
conspicatur eminus duos qui ante biennium circiter discesserant fratres
eo adventare calle, quo sanctos apostolos per visionem conspexerat
advenisse. Et prosiliens ilico in occursu, consalutatos quoque ex more,
consulit, unde dulcissimi fratres post tam diutinum commeatum ad
coenobium repedarent. “Nos”, inquiunt, “inter alia ad Urbem usque
progressi, obtentis quoque sanctorum patrociniis, sub trina martyrum
sera quidem, sed fida intercessione revertimur. Dominorum namque
apostolorum Petri et Pauli atque Andreae ditati reliquias, ad caulas
repedamus antiquas.
156.
In loco igitur, ut moris est, subsistentes, currens Eugendus sanctus ad
monasterium, ipse patri ac fratribus adventantium sanctorum efficitur
nuntius, qui fuerat paulo ante contemplator in visione. Prosiliunt
confestim obviam, et consalutatis fratribus deosculatisque reliquiarum
vasculis, cum trepudio et exultatione atque psalmi sono exhibitis,
inclusis quoque sub altari, patrocinantur nunc exorantibus indefessa
virtute, quorum laudes ac merita nequeunt localiter coherceri. |
152.
Fu, o meglio è, beato presso Cristo, quest'uomo dalla cui bocca, Dio mi
è testimone, non uscì mai un'ingiuria, le cui orecchie non si lasciarono
mai sporcare dal distruttivo contagio di una bocca maldicente. Poiché
egli odiava questo vizio, o meglio questa infamia, quanto si può odiare
un serpente mortale: non solo si teme il suo veleno, ma si evita persino
di incontrarlo e di vederlo. La sua anima, sgombra dai vizi, era
talmente pura che fu capace di vedere e di conversare persino con i
beati apostoli di Cristo Pietro e Paolo e sant’Andrea, ed anche con
quest'uomo apostolico e famoso che fu il vescovo Martino.
153.
Infatti, un giorno d'estate, prima che incombesse su di lui il carico
della direzione, egli dormiva fuori dal monastero, sotto un albero che
gli era familiare, proprio vicino al cammino che conduce a Ginevra
superando i monti: improvvisamente, durante il suo profondo sonno, tre
uomini si avvicinano e si presentano a lui. Dopo l’orazione ed il bacio
della pace Eugendo contempla, stupefatto, la loro stranezza, il loro
aspetto, il loro abito, quindi chiede loro chi siano questi venerabili
uomini, di cui ha meritato la visita come una benedizione.
154. Allora uno di loro:
«Io sono Pietro,
dice, quanto a lui, è mio fratello Andrea e quello è nostro fratello
Paolo». Eugendo
si inchina subito in spirito ai loro piedi e dice:
«Come può essere,
signori, che vi vedo in queste campagne, in mezzo alle foreste, voi i
cui corpi, come leggiamo, sono seppelliti nelle grandi città di Roma e
di Patras dopo il vostro santo martirio?» «È vero,
rispondono, noi siamo laggiù come tu dici e ora siamo venuti per
dimorare qui nello stesso luogo».
Su queste parole la visione finisce ed anche il suo sonno.
155.
Essendosi sfregato gli occhi per cacciare dal volto l'intorpidimento del
sonno, scorge a distanza due fratelli che erano partiti (da Condat) da
due anni circa. Essi si avvicinavano sulla stessa strada dove aveva
visto arrivare i santi apostoli durante la sua visione. Subito si
precipita loro incontro e, dopo averli salutati secondo l’uso, si
informa da dove vengano questi carissimi fratelli che rientrano al
monastero dopo una così lunga assenza.
«Oltre ad altri luoghi, rispondono, noi siamo andati fino alla
città di Roma e abbiamo ottenuto la protezione dei santi. Ma ora
ritorniamo sotto una tripla intercessione di tre martiri, accordataci
tardi ma affidabile. Infatti, oggi rientriamo al nostro vecchio ovile
arricchiti dalle reliquie dei signori apostoli Pietro, Paolo e Andrea.
156. Mentre (i due
viaggiatori) rimangono sul luogo dell’incontro, secondo l'abitudine,
santo Eugendo corre al monastero e lui stesso, che aveva appena
contemplato i santi in una visione, diventa il messaggero del loro
arrivo presso il padre (Abate) ed i fratelli. I monaci si slanciano
subito loro incontro, salutano i fratelli e baciano i reliquiari che
vengono esposti con gioia ed esultanza al canto dei salmi. Infine sono
posti sotto l'altare, accordando a coloro che li pregano la loro
inesauribile e potente protezione: le lodi ed i meriti (di questi santi)
non possono essere contenuti nei limiti di un luogo qualunque. |
157.
Ut enim de sancto ac beatissimo viro Martino dicamus, cuius mihi quoque
vultum atque abitum cum suprafatorum secretissime solebat exponere,
parumper nobis referre non pigeat. Quadam namque vice, dum diros metuunt
ac vicinos Alamannorum incursus, qui inopinatis viantibus non
congressione in comminus, sed ritu superventuque solent inruere
bestiali, ad mortem aut suspicionem
mortis penitus evitandam, quae crebro timoris iaculo totiens
interimit, quotiens timetur, e limite Tyrreni maris
potius,
quam de vicinis Aeriensium locis coctile decernunt petere sal.
158.
Sed hoc totum ut fieret, et consilium et ordinatio beati viri
persuaderant. Cumque emenso bimenstri tempore, nullum darent proprii
adventus indicium, vertitur in sanctum inputatio fratrum, quod, aliis e
vicino quod timuerant sospitibus iam reversis, non tam distinatis
fratribus exilium, quam mortem peregrinam propria persuasione dedisset.
Ille vero incertus licet de reatu, quia
ipsos ancipiti abstraxisset eventu, metuens tamen saltim indebite
increpari, misericordiam Christi pro salute eorum diebus singulis exorat
ac noctibus.
159.
Cumque post lacrimas fessus fuisset soporatus in lectulo, ita claritate
subita vallatur in grabatto, ut plus se luce cerneret circumfusum, quam
si purissimi solis inlustraretur allapsu. Ilico iuxta lectulum
beatissimus Martinus adsistens, cumsalutatum quoque, qualiter valeret,
interrogat. At ille: ‘Bene’, inquit, ‘agerem, si de salute fratrum, quos,
increpor, exules feci, non haberer incertus’.
160.
Et ille: ‘Non meministi’, ait, ‘quia euntes mihi eos, id est Martino
tuo, in orationem propriae commendasti?’ ‘Ecce’ inquit, ‘in Christi
nomine reddo tibi cum effectu incolomes, quos mihi in oratione sospites
commendasti. Hac namque nocte in Pontianensi parrochia manent; crastina
vero unus ex ipsis istic veniet, suspicionem cunctis ablaturus, ad
mansum’. Expergefactus igitur Christi homo, tamquam memoratus fratres
cunctis visibiliter adsignaret, ita diem et oram praedixit adventus: ut
ipse sanctus Dei nuntiaverat, vel ipsi continuo sunt regressi.
161.
Nam et hoc, quod in consequens relaturus sum, licet iam nullus ambigat
beatissimi Martini mirabilibus adplicari, tamen ignoro, quis tam ignarus
ac brutus sit, ut non illic specialius noverit virtutum dona clarescere,
ubi per unitatem fidei familiarius concordans, residere noscitur gratia
meritorum. Permisit namque Dominus nocte quadam in secretano antedictum
sanctumque Martinum
temptari quidem incendio,
sed probari. Sic igitur et Condatescense monasterium exustum quondam est
flammis, sed tamen Martini oleum nullo flammarum est voratus incendio.
162. Quodque etiam beatus Eugendus tanta patientia atque
aequanimitate suscepit, ut mox illi divina providentia non solum ad
victum sive vestimentum duplicia pro simpla reddiderit, verum etiam
tabernacula ipsa multo utilius congruentiusque quam fuerant in usus
pristinos restaurarit.
Vice igitur quadam, inminente vespera, omne illud, ut dixi, monasterium,
quia erat ex lignis fabrefactum antiquitus, et non solum contignatis
indiscretisque cellulis, verum etiam pulchre fuerat cenaculis geminatum,
ita subito redactum est in favillis, ut mane non solum nihil resideret
ex edificiis, verum etiam celeritate arentis pabuli ignis ipse pene
totus redderetur extinctus. |
157.
Ma per parlare del santo e beato Martino, di cui Eugendo amava
descrivermi con riservatezza il viso e l'aspetto, insieme a quelli dei
santi di cui ho parlato, non tiriamoci indietro di fronte ad una
relazione un po' lunga. Un giorno, mentre si temevano i terribili e
vicini attacchi degli Alemanni, - che hanno l’abitudine di non attaccare
di fronte i viaggiatori, ma di presentarsi all'improvviso e di gettarsi
su loro come bestie - e che si cercava di evitare la morte o anche solo
il timore della morte, poiché i colpi ripetuti dello spavento vi
uccidono altrettante volte che avete paura -, si decide di andare a
cercare il sale di cucina sulla riva del Mediterraneo piuttosto che nel
vicino paese degli Hériens. 158.
Ma tutta l'impresa era stata intrapresa col consiglio e
l’incoraggiamento del beato. Siccome al termine di due mesi (i monaci
inviati laggiù) non davano alcun segno del loro ritorno, i fratelli
fanno ricadere la colpa sul santo, dicendo che altri viaggiatori sono
già ritornati illesi dalla temuta regione vicina e che (l’Abate),
imponendo le sue decisioni, ha inflitto ai fratelli che ha designato non
un esilio, ma la morte in un paese straniero. Benché non avesse la
certezza di essere colpevole, poiché li aveva sottratti ad un rischio, (Eugendo,)
che teme tuttavia questi ingiustificati rimproveri, implora ogni giorno
ed ogni notte la misericordia di Cristo per la loro protezione.
159.
Un giorno, dopo avere pianto, si era addormentato sfinito sul suo
giaciglio, quando un chiarore improvviso circonda il suo giaciglio al
punto che egli si vide inondato da una luce più viva di quanto un sole
splendente lo avesse inondato coi suoi raggi. Subito il beato Martino,
essendogli accanto e vicino al suo letto, dopo averlo salutato gli
chiese sue notizie. Ed egli rispose: «Starei
bene se non fossi nell’incertezza riguardo alla vita di alcuni fratelli
che mi si rimprovera di avere esiliato».
160. Il suo interlocutore
riprese: «Non ti ricordi che alla
loro partenza inviasti una preghiera a me, il tuo caro Martino, per
raccomandarmeli in modo particolare? Ebbene! ecco che in nome di Cristo,
proseguì, coloro che mi hai affidato sani e salvi nella tua preghiera,
io te li rendo incolumi esaudendoti. Infatti questa notte la
passeranno nella parrocchia di
Poncin; ma la prossima notte uno di loro arriverà qui fra noi per
toglierci ogni apprensione».
L'uomo di Cristo si svegliò e,
come se avesse visto (sulla loro strada) i fratelli assenti e li
mostrasse a tutta la Comunità, predisse il giorno e l'ora del loro
arrivo: esattamente come il santo di Dio gli aveva annunciato e come
effettivamente subito ritornarono.
161.
Quanto al fatto che riporterò nel seguito del mio resoconto, nessuno
sarà incerto nel collegarlo ai miracoli del beato Martino; ma non so chi
sarebbe così ignorante e stupido da non capire che i doni dei miracoli
sono specialmente evidenti in quei luoghi dove i doni delle virtù si
manifestano più facilmente perché gli uomini sono uniti nella loro fede.
(Si sa infatti che) una notte il Signore permise che il santo di cui
parliamo, Martino, fosse messo alla prova da un incendio in sagrestia,
ma là fu valutato favorevolmente. La stessa cosa successe un tempo a
Condat, dove tutto il monastero bruciò, senza che tuttavia l'olio di
Martino fosse divorato dalle fiamme.
162. Eugendo sopportò (questa
disgrazia) con tanta pazienza e serenità che la divina Provvidenza non
tardò a rendergli non solo due volte più di quello che aveva perso in
prodotti alimentari e abiti, ma anche dei locali tutti nuovi, costruiti
in modo molto più pratico ed adatto di quanto non fossero quelli vecchi. Come ho dunque detto, un certo giorno verso sera, bruciò tutto il monastero che era stato costruito in legno molto tempo prima. Esso era non solo costituito da un blocco di celle collegate tra di loro da una struttura, ma era stato raddoppiato di un piano ben strutturato. Fu in poco tempo così ridotto in cenere che, la mattina, non soltanto non restava più nulla della costruzione, ma persino il fuoco, alimentato da materiale secco, si era quasi interamente estinto.
|
163.
Cumque
fratres illi, prout quisque sarculum securemve posuerat, ferrum
re vera, quod solum exuri nequiverat, prunis eventilatis, inquirerent,
ecce! Antidiolus sanctus presbiter prospicit ampullam cum oleo beati
Martini, quae salutis gratia ad lectuli sui capitium dependebat, plenam
clausamque, ut fuerat, post vasta incendia postque caenaculorum desuper
ruentium ardentiumque ruinas ita integram ac stabilitam inter fumantes
ignium residere favillas, ut tres condam pueros roscidis refrigeriis
legimus in camino Persico claruisse.
164.
Quae etiam ampullula cum oleo ipso ad virtutum testimonium odie usque in
eodem monasterio servatur. Unde non amplius sub Eugendo sancto
incendiali arbitror casui licuisse quam, ut diximus, beatissimo quondam
cessisse Martino, vel postmodum Condatescenses monachos cum oleo
virtuteque Martini reminiscimur evasisse.
165.
Nam praeter ista, que ob meritorum virtutumque testimonium pauca
perstrinximus, tam praecipua extant, que puritate spiritus, divina
inluminatione praescivit, ut in corpore positus, iam quodammodo cum
supernis virtutibus clarescere putaretur, adeo ut vice quadam
venerabilem virum Valentinum eiusdem monasterii diaconum commoneret,
secretius dicens: ‘Constat te, karissime frater, intra hos viginti
circiter dies ex hoc saeculo ad praeparata premia migraturum. Et ideo
quamlibet exutus peccatorum nexibus, paratus ad Dominum eas, moneo tamen,
ut te ita circa clausulam vitae, dum tempus suppetit, profectuum
conlatione ditifices, quo possis digna, ut vidi, acceptabiliorque hostia
ex ara Christi adsumi.
166.
Hac namque nocte vestitum te niveis linteis a sanctis patribus vidi cum
psalmi sono in altare oratorii huius imponi. Igitur licet meritum
qualitatemque tuae adsumptionis agnoscas, suadeo tamen, ut tibi interim
addas, quod possis illic
felicitate perpetua possidere’. Cumque sermocinationem cum alacritatis
lacrimis et oratione complessent, post decem circiter dies febricula
levi correptus paulatimque inequalitate vexatus, cursum vite praesentis
explicuit.
167.
Ceterum ex cuiuslibet superventu persone ita per odoris flagrantiam
fetorisque adflatum meritorum insignia dinoscebat, ut praesciret ilico,
cui quis virtuti vel vitio subiaceret. Nam et adventus fratrum et
secularium expetentium fidem prius saepe praedixit, quam ulla fratribus
adventans praesentia nosceretur: ita tamen magnis eximiisque bonis
exuberans, quod numquam se meliorem eminentioremque alteri vel leviter
iudicavit; sed pietate refertus, non quid interim esset, sed quam longe
a perfectione adhuc esset, quasi cunctis abiectior et infimus
perpensabat.
|
163.
Mentre i fratelli, disperdendo le braci, cercavano nel posto dove li
avevano riposti, chi una zappa, chi un'ascia – ovviamente il ferro (di
questi attrezzi), la sola parte non combustibile -, ecco che il santo
sacerdote Antidiolo vede davanti a lui, sospesa come protezione sulla
testata del suo letto, la piccola lampada contenente l'olio del beato
Martino: era restata piena e chiusa come prima e, nonostante l’impeto di
un vasto incendio e il crollo dei locali del piano superiore che
precipitavano in mezzo alle fiamme, era rimasta intatta e immobile in
mezzo alle ceneri fumanti. Così un tempo, stando a ciò che leggiamo, i
tre giovani, protetti dal vento di rugiada, si coprirono di gloria nel
forno persiano. (cfr, Dn 3,49-50)
164. Aggiungiamo che questa piccola lampada con il suo olio è
conservata ancora oggi in questo stesso monastero, come prova di questi
fatti miracolosi. Così, io credo che sotto sant’Eugendo la sventura di
un incendio non ebbe più potere di quanto non ne avesse avuto in passato
quando, come abbiamo detto, era arretrata davanti al beato Martino; e
anche in seguito noi ci ricordiamo che i monaci di Condat vi sfuggirono
grazie all'olio ed alla potenza di Martino.
165.
Oltre ad alcuni fatti che abbiamo brevemente raccontato come prova dei
suoi meriti e dei suoi poteri miracolosi, (sant’Eugendo) ci ha lasciato
esempi così straordinari di profezia, dove la sua purezza d’animo gli
valse l'illuminazione divina, che, fin dalla sua vita terrestre,
sembrava già partecipare in qualche modo alla gloria fra le potenze
celesti. A tal punto che un giorno andò ad avvertire il venerabile
Valentino, diacono nello stesso monastero, dicendogli in grande segreto:
«È certo, fratello mio carissimo, che
tra circa venti giorni tu lascerai questo secolo per raggiungere i premi
che ti sono stati preparato. Inoltre, per quanto tu sia libero dai
vincoli del peccato, pronto per andare presso il Signore, ti esorto
tuttavia così: dato che ormai sei vicino al termine, essendoti rimasto
ancora del tempo, arricchisciti realizzando nuovi progressi per potere
essere preso sull'altare di Cristo, come già ho visto, come un degno ed
ancora più gradevole sacrificio.
166. Infatti io questa notte ti ho visto, durante il canto dei
salmi, vestito di lino bianco come neve e collocato dai santi Padri
sull'altare del nostro oratorio. Inoltre, sebbene tu conosca i tuoi
meriti e tu sappia di quale qualità sarà il tuo passaggio, io ti invito
tuttavia durante l’attesa ad aggiungere ancora (tesori) che tu possa
lassù possedere nella felicità immortale». Terminata la conversazione con lacrime di gioia e
nella preghiera, dopo circa dieci giorni il diacono è colpito da una
leggera febbre, la malattia lo affligge lentamente ed il corso della sua
vita terrestre si completa.
167.
Inoltre, quando inoltre arrivava qualcuno (al monastero), (Eugendo),
distingueva così bene i segni dei meriti della persona, dal soave
profumo o dal ripugnante respiro che emanava, tanto da indovinare subito
a quale virtù o a quale vizio fosse sottomessa. Spesso predisse tanto
l'arrivo di fratelli che la fede di postulanti venuti dal secolo, ancora
prima che la Comunità si accorgesse del loro avvicinamento. Per quanto
sovrabbondasse di grandi e notevoli benefici, non si giudicò mai
migliore degli altri o superiore a loro, neanche per poco ma, colmo di
devozione, meditava non sul suo valore presente, ma su quanto fosse
ancora lontano dalla perfezione, come (se fosse) il più spregevole e il
più piccolo di tutti. |
168.
Habebat
autem, nimirum habitatore inlustrante, magnam et in vultu laetitiam; nam
sicut illum tristem nemo unquam vidit, ita ridentem nullus aspexit. Non
illi beatorum Antoni atque Martini gesta aut mores umquam labebantur ex
animo. Numquam iste,
ut de Antonio
refertur, aut ira subita patientiam rupit,
aut humilitatem erexit in gloriam. Numquam laudatus ac
beatificatus inflatus est; numquam vituperatus fractus est aut tristatus.
169.
Tantum namque lectione reficiebatur, ut cum lectitaretur ad mensam,
sepissime futurorum victus affectu, vel utin extasi positus,
obliviscebatur adpositis; nam prae gaudio attonitus, peregrinationem
praesentis vite dispiciens, municipatum
suspirabat in caelestibus praeparatum. Iste namque illic post
priscis patribus legendi proprie invexit industriam.
170.
Iste etiam, refutato archimandritarum orientalium instari, utilius omnes
univit in medium. Distructis namque mansionum ediculis, uno cunctos
secum xenodochio quiescere fecit, ut quos causa unitae
refectionis una claudebat aedicula, discretis quoque lectulis una
ambiret et mansio, cui tamen lumen olei, sicut in oratorium, indeficiens
noctibus prebebatur. Iste, inquam, abba sanctus nec mensulam suam, ut
quosdam facere nuper audivi, nec victum umquam exceptavit a fratribus;
omnium omnino omnia erant.
171.
Non ille umquam imperio docuit, quod exemplo antea aut opere non
complevit. Infirmis semper aut valde senibus clementissime obsequi fecit,
adiciens quoque, ut ipsi illis e fratribus in necessitate servirent,
quos egroti potissimum praelegissent; et non solum faciebat alimenta
convenientia ministrari, verum etiam propter laborem infirmitatis, donec
sanitas suppeteret, prestitit sequestratim reficere vel manere.
172.
Nam et saeculi hominibus absque personali acceptione se praebuit;
pauperibus vero adaeque ut divitibus osculum convictumque praestitit
atque consessum, omni cautela iuxta patrum regulam servans, ne se
conspectui adventantum laicorum vel propinquorum saltim iniussus
monachus praesentaret. Si quid vero cuique fuit a proximis fortassis
oblatum, confestim hoc abbati aut
economo deferens, nihil
exinde absque paterno praesumpsit imperio. |
168.
Inoltre, portava sul suo viso una grande gioia, illuminato senza dubbio
dall’Ospite che stava in lui; così nessuno lo vide mai triste, ma
neppure qualcuno lo vide ridere. Le belle azioni e la condotta dei beati
Antonio e Martino non uscivano mai dal suo spirito.
Mai in lui, come si riferisce
di Antonio, in
un accesso di ira si infranse la pazienza; mai si fece gloria
dell’umiltà. Mai si gonfiò per gli elogi, o perché era considerato
beato; mai si scoraggiò o diventò triste per un rimprovero.
169. La lettura gli procurava
un tale conforto, che gli capitava molto spesso, durante la lettura nel
refettorio, di essere soggiogato dall'amore dei beni futuri e di entrare
in una specie di estasi, al punto di dimenticare gli alimenti posti
davanti a lui; infatti veniva preso da una gioia profonda e,
disprezzando la peregrinazione della vita presente, aspirava al diritto
di cittadinanza preparato nella patria celeste. Del resto, è lui
personalmente che prese l'iniziativa, sull’esempio dei vecchi Padri, di
introdurre l'usanza della lettura (nel refettorio).
170.
È sempre lui che, rifiutando l'esempio degli archimandriti orientali,
trovò più utile che tutti (i monaci) vivessero in comunità. Dopo la
distruzione delle piccole celle individuali, decise che tutti
prendessero riposo con lui in un unico dormitorio: coloro che erano già
riuniti in una sala comune per un pasto comune, volle riunirli anche in
un dormitorio comune, essendo soli i letti separati; come nell'oratorio
vi era una lampada ad olio che forniva la sua luce durante tutta la
notte. Aggiungo che il santo Abate non ebbe mai un suo proprio tavolino,
come ho recentemente appreso che fanno alcuni e non prese mai alimenti
diversi da quelli dei fratelli; tutto, in tutto, apparteneva a tutti (at
4,32). 171. Non insegnò mai
nulla d'autorità che non avesse compiuto prima con il suo esempio o con
il suo lavoro. Nei confronti dei monaci malati o molto anziani, pretese
sempre che ci si comportasse con estrema dolcezza, ordinando inoltre che
i malati fossero serviti nelle loro necessità da quei fratelli che loro
stessi avrebbero scelto di preferenza; e non solo faceva loro preparare
delle vivande convenienti al loro stato ma, inoltre, per evitare loro le
fatiche dovute alla debolezza,
permise loro di prendere i pasti separati e di restare in
disparte fino al loro ristabilimento.
172.
Inoltre, (nelle sue relazioni) con la gente del secolo, si rese sempre
disponibile senza avere preferenze personali: abbracciava i poveri come
i ricchi e tutti erano ammessi in sua presenza e potevano sedersi al suo
fianco; conformemente alla Regola dei Padri, egli vigilava accuratamente
affinché nessun monaco si presentasse senza il suo ordine alla presenza
degli ospiti laici, fossero anche vicini parenti. Se un fratello
riceveva un regalo dai suoi parenti, lo portava subito all'Abate o
all’economo e si asteneva dal toccarlo senza l'ordine del Padre. |
173.
Cellam, armarium arcellamve nullus illic omnino habuit umquam; nulla
cuique de necessitate exigua proprietate operandi dabatur occasio. Nam
usque ad acum ipsam lanasque nitas etiam suendi consuendique cuncta
prebebantur in medio, duminodo subtilissima fratribus deviandi
eximeretur occasio. Inter haec autem omnia omnibus proprietatis causa
solum legere licuit aut orare. Ceterum novit fraternitas cuncta, quod
dico, numquam in coenobio declinandi delinquendique causas deesse
maximas, ubi non propelluntur etiam minimae.
174.
Et quia sermo attulit, ut de institutione patrum per imitationem beati
Eugendi aliqua tangeremus iuxta promissum, quod memet praedixi tertio
opusculo servaturum, prout memoriae, Christo inspirante, suggeritur,
abrenuntiantum exordia primitus intimamus: sic namque, quod non illa
omnino quae quondam sanctus ac praecipuus Basilius Capadociae urbis
antistes, vel ea quae sancti Lirinensium patres, sanctus quoque
Pachomius Syrorum priscus
abba, sive illa quae recensior venerabilis edidit Cassianus fastidiosa
presumptione calcamus; sed ea cotidie lectitantes, ista pro qualitate
loci et instantia laboris invicta potius quam Orientalium perficere
affectamus, quia procul dubio efficacius haec faciliusque natura vel
infirmitas exequitur Gallicana.
175.
Igitur quia oratiuncula haec nostra instar gubernatoris trepiditante,
institutionis pelagus contemplata, circumspiciens undique, portum
silentii gaudet adtingere, paululum circa transitum gesta viri
beatissimi referam.
Cum enim ultra sexaginaria aetate sex ferme mensibus praedictus pater
inaequalitate corporea laboraret, sic tamen quod numquam canonico usque
ad horam defuisset cursu, nec bis in die fesso corpusculo quoactus fuit
aliquid inpertire, vocato ad se uno e fratribus, cui cum libertate
peculiari olim etiam perunguendi infirmus opus iniunxerat, secretissime
quoque sibi pectusculum petiit, ut moris est, perungueri.
176.
Cumque, transacta nocte, de nocturna quoque quiete a nobis percontaretur,
diluculo in lacrimis ac singultum aerumpens: ‘Parcat’, ait, ‘vobis
omnipotens Deus, qui me tanta inequalitate constrictum non permittitis
corporeis vinculis iam resolvi’.
At cum trepidi inter profluas lacrimas, convulsis quoque in corde
singultibus, sileremus: ‘Domini’, inquit, ‘mei abbates Romanus ac
Lupicinus propriis humeris feretrum ante hoc lectulum exhibentes, me
quoque deosculatum atque conpositum elevantes, deferendum gestaturio
inmiserunt.
177.
Cumque elevatum in oratorium introferrent, concurrentibus vobis in
hostio, violenter excussus, in hoc sum vobis lectulo reportatus. Et ideo
rogo, si quid seni, si quid vero paternae pietati praestatis, ne me
istic retinere diutius, sed tandem transire permittatis ad patres. Oro
ergo omnes et obsecro, filioli, ut accepta ac tradita patrum in omnibus
inviolabiliter instituta ad gaudium meum sanctorumque omnium ac vestrum
ad palmam victoriae perducatis’.
178.
Igitur cum verba inter lamenta nostra complesset, quinto admodum die
huic ipsi lectulo idem in mausurio semet imponens, subito, tamquam
dormiens visus, animam exalavit. Cuius sanctum ac beatum corpusculum
inibi inter catervas filiorum ac fratrum, posteritatis quoque
deserviente famulatu, venerabiliter est in Christi nomine consepultum.
179.
His interim fidei fervorisque vostri sitim, o sanctissimi, exsatiatis
tantisper desideriis, reficite, fratres. At si animas vestras, spreta
dudum philosophia, rusticana quoque garrulitas exsatiare non quiverit,
instituta, quae de informatione monasterii vestri, id est Acaunensis
coenobii, sancto Marino presbitero insulae Lirinensis abbate conpellente,
digessimus, desideria vestra tam pro institutionis insignia, quam pro
iubentis auctoritate, Christo opitulante, luculenter explebunt. |
173.
Nessuno in monastero ebbe mai
per nessun motivo una cella, un armadio o una credenza (a sua
personale disposizione). A nessuno era data l'occasione di lavorare per
soddisfare la purché minima necessità personale. Infatti, fino ad un
semplice ago ed ai fili di lana necessari alla cucitura ed al rammendo,
tutto era messo a disposizione di tutti, in modo che fosse tolta ai
fratelli la più tenue occasione di allontanarsi (dalla Regola). Fra
tutte queste occupazioni soltanto due erano permesse a tutti per un
profitto personale: la lettura e la preghiera. Tutti i fratelli sanno di
cosa parlo: nella vita cenobitica non mancano mai le più forti cause
d'errore o di colpa, quando non si eliminano anche le più piccole.
174.
La nostra conversazione ci ha portati ad evocare alcune caratteristiche
delle istituzioni dei Padri e l'imitazione che ne ha fatto il beato
Eugendo. In accordo con la promessa che ho fatto prima, che io avrei
riservato questi fatti a questo terzo piccolo lavoro, facciamo ora
conoscere in primo luogo i primi passi di coloro che rinunciano al
mondo, intanto che l'ispirazione di Cristo ce li richiama in memoria.
Noi non abbassiamo per niente, con sdegnosa presunzione, le istituzioni
un tempo promulgate dall’eminente san Basilio, vescovo della capitale
della Cappadocia, o quelle dei santi Padri di Lérins, o quelle di san
Pacomio, antico abate dei Siriani, o quelle che formulò più recentemente
il venerabile Cassiano ma, pur leggendo ogni giorno quelle Regole, è
questa (del monastero di Condat) che ci preoccupiamo di seguire, perché
fu senza dubbio introdotta in funzione del clima del paese e delle
esigenze del lavoro e perché la naturale debolezza dei Galli la segue
più efficacemente e più facilmente, piuttosto che quelle
degli Orientali.
175.
Ed ora che il nostro modesto discorso, dopo avere contemplato il vasto
mare di una (così grande) istituzione, come un
tremante timoniere, voltando lo
sguardo dovunque, gioisce per aver raggiunto il porto del silenzio,
riporterò brevemente i fatti riguardanti il transito del beato uomo.
Il
Padre (Eugendo) di cui abbiamo parlato prima, che aveva già superato la
sessantina, da sei mesi circa soffriva di una malattia, senza tuttavia
avere mai mancato neanche per un'ora agli uffici canonici e senza che si
potesse indurlo a concedere al suo povero corpo esaurito qualche
alimento oltre una volta al giorno; ed ecco che chiama a sé uno dei
fratelli, al quale aveva già in passato affidato in tutta libertà
l’incarico di amministrare l'unzione ai malati e nel più grande segreto
lo prega di fargli anche un'unzione sul petto, secondo l'uso.
176. Passata la notte e sul
far del giorno gli chiedevamo come avesse riposato durante la notte ed
egli scoppiò in lacrime ed in singhiozzi:
«Che Dio
onnipotente, disse, vi perdoni perché cercate di impedire che io sia in
fretta liberato dalle catene del mio corpo, malato come sono».
Noi, tutti tremanti e versando abbondanti lacrime, scossi anche dai
singhiozzi dei nostri cuori, tacevamo.
«I miei signori
Abati Romano e Lupicino, continuò, hanno portato sulle loro spalle e
davanti a questo letto una barella; dopo avermi abbracciato e dopo aver
sistemato il mio corpo, mi hanno sollevato e messo sulla portantina per
portarmi via. 177. Mentre costoro mi introducevano nell'oratorio tenendomi sulle
loro spalle, voi siete accorsi sulla porta, mi avete strappato loro con
violenza e mi avete riportato su questo letto. Dunque vi supplico, se
avete qualche riguardo per un vecchio, o per un padre che vi ama, non
trattenetemi qui più a lungo, ma lasciate infine che si compia il mio
passaggio presso i Padri. Prego dunque e scongiuro tutti voi, miei
piccoli figli, affinché osserviate la Regola dei Padri, inviolabile in
qualsiasi punto, che avete ricevuto e che vi è stata trasmessa. In
questo modo farete la mia gioia, farete quella di tutti i santi e la
vostra, e vi condurrà fino alla palma della vittoria».
178.
Aveva finito di parlare in mezzo ai nostri lamenti. Esattamente cinque
giorni dopo si stendeva senza aiuto su quello stesso letto nel
dormitorio quando, improvvisamente, sembrò addormentarsi e rese l'ultimo
sospiro. La sua spoglia santa e beata fu seppellita con grande rispetto
e in nome di Cristo nel monastero stesso, in mezzo alla moltitudine dei
suoi figli e dei suoi fratelli di Condat, dove i loro devoti discendenti
continuano a servirlo.
179.
Saziate per il momento (a queste fonti), fratelli santissimi, la sete
della vostra fede e del vostro entusiasmo, essendo per il momento
soddisfatti i vostri desideri. Ma se le vostre anime, già piene di
spregio per la filosofia, non possono soddisfarsi neppure di queste
rozze chiacchiere, allora le Istituzioni che abbiamo redatto riguardo
alla forma di vita del vostro monastero, cioè della Comunità di Agaune,
su richiesta del santo sacerdote Marino, abate di Lérins, colmeranno
magnificamente, con l'aiuto di Cristo, tutti i vostri desideri - sia a
causa dell’insigne carattere di questa istituzione, che a causa
dell'autorità di colui che mi ha chiesto (questo lavoro). |
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