III
VITA DEL SANTO ABATE EUGENDO
118. Nella misura in cui ho già sciolto con l'aiuto del Signore, beati
fratelli, una parte del mio debito per soddisfare il vostro appassionato
desiderio, mi sento certamente in parte rassicurato, considerando il numero
di parole (già scritte). Ma, davanti alla mia coscienza e davanti al
giudizio altrui, rimango dubbioso nel proseguire il compito che mi imponete,
non per ignorante presunzione ma, come vedete, per obbedienza alla Regola.
[1]
La debolezza umana è abbastanza propensa alla critica, mentre si diletta
nell’udire un canto o una musica e ammira le grazie di un discorso
rimarcandone la proprietà dei termini e dei tempi; pertanto che la Divinità,
favorevole alla nostra impresa, conceda che il nostro umile stile non venga
in nessun modo calpestato dall’arroganza di superbi giudici, gonfiati di
parole inutili.
[2]
119. D’altra parte, come abbiamo già detto nella prefazione, è proprio a voi
che abbiamo dedicato questi libricini e sappiamo che voi non siete discepoli
di oratori, ma di pescatori. Voi cercate il Regno di Dio non nello stile del
discorso, ma nella sua qualità (cfr. 1 Cor 4,20) e preferite implorare il
Signore con puro e continuo rispetto piuttosto che perorarlo con una vana e
deperibile verbosità.
[3]
Possa quindi essere questa la nostra premessa alla narrazione della vita del
beato uomo.
120. Il santo servo di Cristo, Eugendo, discepolo in religione dei beati
Padri Romano e Lupicino, fu anche, per la sua provincia di nascita, un loro
compatriota e concittadino. Infatti nacque non lontano dal borgo
(d’Izernore) che l'antico paganesimo, a causa della fama e delle solidissime
mura di un santuario dove fioriva la superstizione, chiamò nella lingua dei
Galli «Isarnodurum»,
cioè «Porta di Ferro».
[4]
Oggi in quel luogo il santuario è in parte distrutto,
[5]
ma vi risplende il santissimo edificio del Regno celeste, dedicato ai devoti
di Cristo. È là che il padre di un figlio così santo, con decisione
episcopale ed approvazione del popolo, fu elevato alla dignità sacerdotale e
costituito sacerdote.
[6]
121. Il bimbo benedetto cresceva, mosso quasi fin dalla culla da un istinto
interno verso la felicità e la luce, ed una forza divina, come credo, gli
presagiva un sicuro avvenire.
[7]
Ma una notte, perché questo degno padre e il suo santo figlio non
rimanessero nell'incertezza quanto alla delizia ed alle promesse della
futura beatitudine, il santo bambino, in una visione, fu portato via da due
religiosi. Fu posto davanti all'entrata della casa paterna, in modo da
potere contemplare con uno sguardo attento le regioni orientali del cielo e
le loro stelle, come un tempo il patriarca Abramo guardò alla numerosa
discendenza. Ed anche a lui fu detto, con linguaggio figurato:
«Tale
sarà la tua discendenza» (Gn 15,5).
122. Poco tempo dopo iniziarono ad apparire qui un personaggio, là un altro,
poi un altro ancora, fino a che la loro crescente moltitudine divenne
innumerevole, e circondano ed avvolgono il beato bambino ed i santi Padri
come un enorme sciame di api,
[8]
simile ad un grappolo dolce come il miele - senza alcun dubbio i santi padri
erano Romano e Lupicino che lo avevano spiritualmente tolto dal fango della
casa paterna.
[9]
123. Ed all’improvviso, dalla parte dove è rivolto il suo sguardo, Eugendo
vide aprirsi nelle altezze celesti come una larga porta. E vide venire fino
a lui e ai suoi compagni dei cori di angeli, vestiti di bianco e splendenti
come neve, che scendevano dal sommo del cielo lungo una strada in dolce
discesa, circondata di luce e simile ad una scala lievemente inclinata, coi
gradini di cristallo, ed esultavano di gioia nell'elogio di Cristo.
Tuttavia, nonostante il numero sempre crescente dei personaggi, nessuno di
loro disse una parola o mosse un muscolo, colpiti come erano dal sacro
timore della divinità. Poco a poco, con precauzione, la truppa angelica si
mescola ai mortali; gli angeli raccolsero queste creature terrestri, le
unirono a loro e, cantando tutti uno stesso canto, risalirono verso le sacre
dimore del Cielo, così come ne erano venuti. (Cfr. Gn 28,12).
[10]
124. Fra le melodie dell’inno il santo fanciullo comprese soltanto una frase
che, circa un anno dopo, quando entrò nel monastero apprese essere una frase
del Vangelo: ecco infatti ciò che diceva, come antifona, il coro alternato
della folla di angeli e che io ricordo molto bene, poiché Eugendo stesso
ebbe la bontà di riferirmelo: «Io
sono la via, la verità e la vita» (Gv
14,6).
[11]
Quindi la folla immensa si ritirò; la volta celeste, riempita di stelle e a
lungo contemplata da Eugendo, si richiuse anch’essa ed il bambino, vedendosi
solo in quel luogo, si svegliò di soprassalto. Terrorizzato da questa
visione raccontò subito dell’evento a suo padre. Il santo presbitero capì
immediatamente a chi doveva in primo luogo essere consacrato un figlio così
santo.
125. Immediatamente gli insegna i fondamenti del sapere e dopo un anno
Eugendo fu offerto al santo Padre Romano come lo fu un tempo Samuele, ma non
per garantire la guardia di un tempio simbolico, ma piuttosto per diventare
lui stesso il tempio di Cristo.
[12]
In lui confluì veramente la duplice abbondanza di grazie accordata ai beati
Abati che lo avevano spiritualmente fatto uscire dalla sua residenza
terrestre, tanto che la generazione che seguì (quella di questi Abati) non
sapeva decidere se in Eugendo si dovesse contemplare l'immagine di Lupicino
o quella di Romano.
[13]
126. Osserviamo soltanto che, mentre i suoi due predecessori, per opere di
misericordia, furono spesso obbligati ad uscire dal monastero e ad andare di
qua e di là, lui, al contrario, una volta entrato non mise mai piede al di
fuori, a partire dal settimo anno della sua vita fino a dopo il
sessantesimo, età in cui morì.
[14]
Non appena eseguiti e portati a termine tutti gli incarichi affidatigli dal
priore o dall’abate si dedicava di giorno e di notte alla lettura e si
impegnava a tal punto che acquisì una solida conoscenza, non solo delle
opere latine, ma anche dell'eloquenza greca.
[15]
127. Quanto al vestirsi non utilizzò mai due tonache e la sola che egli
possedeva non la cambiava per nessun motivo prima che non ne fosse consunta
dalla vecchiaia.
[16]
La stessa regola osservava per la sua cocolla (cappuccio con mantello
N.d.t.). La paglia del suo giaciglio era chiusa in un grezzo sacco e solo
raramente veniva scossa. Qui dormiva coprendosi con una pelle di animale.
Durante l'estate, utilizzava una lunga tunica con maniche (o caracalla)
[17]
e un vecchio scapolare in pelo di capra che gli aveva inviato l'abate
Leoniano di Vienna, un uomo di rilevante santità, come pegno di fraterno
amore.
[18]
128. Un tempo, quando i Barbari si sparsero fino alla Gallia, il sant’uomo
(Leoniano) era stato portato dalla Pannonia come prigioniero: visse molto a
lungo nella clausura di una cella particolare, non soltanto a Vienna, ma
anche ad Autun. Restò rinchiuso più di quaranta anni nell’una o nell’altra
città, tanto che, dopo la sua segregazione, nessuno lo conobbe più di viso o
di corpo, ma solo dal suo modo di parlare. Dirigeva una piccola comunità di
monaci vicino alla sua cella; più lontano, all'interno della città, guidava
più di sessanta monache di clausura, nutrendole nella vita religiosa con
un’ammirevole saggezza: le più anziane le ha lasciate partire prima di lui
(per il cielo), ma tuttavia non ha abbandonato spiritualmente le anziane che
sopravvissero a lui. Ma ora torno al racconto originario.
[19]
129. Il beato Eugendo portava scarpe resistenti e rustiche, al modo degli
antichi Padri, e le sue gambe erano strette in gambali ed i suoi piedi in
fasce. Ma per l'ufficio del mattutino e per quello delle lodi, non mise mai
ai suoi piedi nudi altra cosa che zoccoli di legno all’uso gallico, anche
con i più rigidi freddi ed anche quando c'era molta neve. In questo modo
molto spesso nelle ore mattutine camminava a lungo nella per recarsi a
pregare al cimitero dei fratelli. 130. E mai nessuno lo vide uscire prima
della fine, durante la sinassi del giorno o della notte. Se durante la notte
si recava nell'oratorio un bel po’ di tempo prima degli altri per pregare a
lungo e nel segreto, così pure, quando tutti erano usciti, continuava ancora
a nutrirsi spiritualmente con un lunga preghiera, appoggiato sul suo banco.
E, qualunque fosse l'ora, usciva di là avvicinandosi ai fratelli con un’aria
serena e lieta, allo stesso modo che gli uomini (del secolo) hanno un viso
inondato di una spensierata allegria, una volta soddisfatta la loro
ambizione.
[20]
131. In tutte le stagioni prendeva un solo pasto al giorno. Durante l'estate
alle volte a mezzogiorno con tutta la comunità, quando era stanco, ed alle
volte alla sera, con i monaci che prendevano un secondo pasto. Tuttavia non
gustò altro a tavola al di fuori di quello che era servito a tutti fratelli.
[21]
Ma riprendiamo il nostro racconto dai primi giorni della sua guida.
132. Dunque, quando il padre che i beati Romano e Lupicino avevano designato
come successore per dirigere il monastero di Condat perse il vigore,
[22]
non soltanto per gli impegni e le preoccupazioni della comunità, ma anche
per i disturbi di infermità fisiche, convocò presso di sé i fratelli ed
associò sant’Eugendo alle preoccupazioni del suo incarico,
[23]
senza tuttavia allentare o rinunciare per niente alla sua paterna e
superiore autorità. Questo stesso abate tentò anche di legare più
strettamente lo stesso sant’Eugendo invitandolo ad unire alla fatica del
governo l'onore del sacerdozio
[24].
133. Ma, su questo punto, (Eugendo) non solo si limitò a resistere molto
spesso e così molto santamente alla volontà del suo superiore, ma anche
schivò con prudenza ed attenzione i venerabili pontefici che si erano
riuniti in questo luogo per pregare, per la soggezione di un tale onore.
[25]
Del resto spesso mi confidava segretamente che è molto meglio per un abate,
a causa dell'ambizione dei giovani, dirigere i fratelli essendo libero dal
sacerdozio, senza essere legati da questa dignità, a cui non conviene per
niente aspirare da parte di uomini rivolti alla rinuncia ed alla solitudine.
134. «Del resto, aggiungeva, noi
sappiamo che, oltre a questa prima ragione che ho appena dato, anche molti
padri, dopo avere praticato alla perfezione l'umiltà del loro stato, si sono
profondamente e segretamente inorgogliti del ministero sacerdotale e si sono
sentiti superiori ai fratelli che avrebbero dovuto precedere come esempio di
umiltà». Dunque il santo di Dio ricevette il pesante impegno di sostituto e
di collaboratore che gli era stato imposto senza la dignità sacerdotale,
come già il Padre Lupicino;
[26]
trovava soprattutto la sua serenità nel fatto di poter contare sulla
sollecitudine e la previdenza del padre. Ma ben presto fu sconvolto da una
rivelazione molto chiara, affinché non avesse alcun dubbio sull'attribuzione
dei pieni poteri e non rimanesse in lui alcuna incertezza.
135. Nella notte seguente, improvvisamente fu rapito da una visione: i beati
Abati Romano e Lupicino si presentarono a lui come durante la sua infanzia,
ma questa volta nella sagrestia situata alla destra della chiesa. Lì intorno
insieme a loro vide anche gli anziani e i fratelli del monastero che erano
sopravvissuti ai due fondatori e che portavano candele e lampade accese. Non
appena i santi Padri gli diedero la benedizione ed il bacio della pace, vide
entrare questo abate benedetto a cui ben presto egli sarebbe subentrato
nell’incarico: vide che lungo il dorso e le spalle di questo abate cadeva un
mantello bianco ornato di fasce di porpora. 136. Il beato Romano slegò la
cintura di quest’uomo santo e, senza indugio, la passò attorno alle reni di
Eugendo. Quindi tolse al medesimo il mantello che, come abbiamo detto,
portava sopra gli altri suoi abiti e, posandolo sulle spalle di Eugendo,
disse: «Sappi che questo incarico ti è fin d'ora attribuito per un certo
tempo». Poi, afferrando con le dita la tunica dalmatica dello stesso
predecessore, aggiunse: «Sappi che anche questo (ornamento) ti sarà
conferito, per aver fatto buon uso di ciò che hai già ricevuto». I fratelli
erano là in piedi con le candele ma, ben presto, su iniziativa di uno di
loro, queste luci che spargevano luminosità e conforto vennero gettate
contro il muro, furono schiacciate e si spensero.
[27]
137. Soffocato dalle tenebre e colpito da stupore, il santo attendeva di
vedere la conseguenza di quella visione, ma fu una voce che lo informò:
«Non affliggerti, Eugendo, diceva
(la voce), a causa dell’attuale mancanza di questa luce materiale; osserva
all'Oriente di questa celletta e subito vedrai una luce divina che ti offre
il suo aiuto, in mancanza del soccorso umano».
E subito, girando lo sguardo da quella parte, vide un raggio di giorno e di
luce che scendeva fino a lui mentre poco a poco si illuminava l'alba.
Ritornato in se stesso, saltò giù felice dal suo letto. Questa visione non
ritardò a realizzarsi.
138. Infatti, andatosene a Cristo il suo predecessore, Eugendo, volente o
nolente, non poté sottrarsi al governo (del monastero) di cui aveva già
ricevuto l’ipoteca. Ma gli stessi che nel corso della visione gli avevano
sottratto il conforto della luce, dopo averglielo offerto, quelli stessi
soccombettero alla cattiveria umana e, in preda alle passioni della gelosia,
si gonfiarono di un ardente odio contro il beato uomo: disprezzandolo nel
loro cuore, a volte anche lasciando il monastero e la vita religiosa,
permettevano che monaci e laici calunniassero il santo Abate Eugendo come un
novizio ed un ignorante.
[28]
139. Ma l'amore divino che vegliava su di lui non permise che il suo servo
fosse tormentato da prolungate sofferenze. Immediatamente, infatti, tende
verso lui, con una straboccante abbondanza di segni, la sua destra potente
ed efficace: grazie al suo servo, Dio concedeva visibilmente guarigioni e
molti prodigi, tanto che, spesso, i più importanti e potenti personaggi del
secolo lo supplicavano tramite le loro lettere di essere protetti e
benedetti da lui. Costoro pensavano di non essersi riconciliati con la
clemenza divina se prima non avessero acquisito, con una visita o con una
lettera, gli speciali favori o intercessioni di questo amico di Cristo. 140.
Persino vescovi e ammirevoli sacerdoti si mostravano in tutti i modi
lusingati, se avessero avuto il privilegio di vedere fisicamente Eugendo o
di ricevere da lui una lettera in cui egli si rivolgeva a loro con tono
familiare.
[29]
Ed anche questi falsi fratelli che qualche tempo prima se ne erano andati
gonfiati dall’arroganza dell’orgoglio, erano additati dai laici (e
considerati) come infelici e degeneri, a meno che, ricusando il veleno
dell’invidia, ritornassero al più presto dal santo servo di Cristo.
141. Mentre accadevano questi fatti, la cui fragrante fama (si diffondeva
ovunque), una ragazza di non piccolo rango, secondo la considerazione del
mondo, e che abitava vicino alla parrocchia di Secundiacum,
[30]
era posseduta da un terribile demonio: non solo era tenuta rinchiusa, ma la
si teneva legata con catene di ferro. Secondo l'abitudine, molte persone
legavano sulla nuca di questa ragazza delle formule d'esorcismo per
guarirla. Essa, tuttavia, sotto l’influenza dallo spirito immondo e senza
conoscerle, purtroppo offendeva le persone che avevano scritto queste
formule, dicendo i loro nomi ed i loro vizi e affermando che lo stesso
spirito immondo possedeva da tempo coloro che le avevano scritte, a causa di
questo o quel peccato, pur rimanendo le prove nascoste agli uomini.
[31]
Allora, uno dei presenti sfidò la potenza maligna: 142. «Perché, dice, provi
a spaventarci con questi vizi altrui, piuttosto che con i tuoi propri vizi,
essere immondo? Per il nome di Cristo, non mi accontenterò degli esorcismi
di cui screditi gli autori, ma chiamerò tutti i santi, se potrò, a redigere
formule che legherò alla tua nuca, in modo che tu sia oppresso da una
moltitudine di padroni che ti comandano, se rifiuti di ascoltare, e diffami
questi pochi che sono qui». «Su di me, risponde il diavolo, se ti fa piacere
puoi mettere un carico di papiri di Alessandria tutti scritti,
[32]
ma tuttavia non riuscirai mai ad espellermi dal vasetto che ho occupato,
finché non mi porterai l'ordine imperativo di un solo uomo, Eugendo, monaco
del Giura».
143. I (testimoni) più vicini afferrano immediatamente queste parole e
corrono verso il beato con incondizionata fede. Gettandosi ai suoi piedi gli
raccontano il fatto, affermando che non se ne andranno finché, mosso a
pietà, non accorderà la misericordia di Cristo alla (ragazza) posseduta.
Vinto dunque sia dalle loro spiegazioni che dalle loro preghiere, il padre
agisce come un tempo Gregorio Magno nei confronti di Apollo:
[33]
dopo una lunga preghiera scrive una breve la lettera in questi termini. Poi
la sigilla e la fa recapitare all’infame creatura: 144.
«Io,
Eugendo, servo di Cristo Gesù, in nome del nostro signore Gesù Cristo, del
Padre e dello Spirito del nostro Dio, ti ordino con il presente scritto:
Spirito di golosità e di rabbia e di fornicazione e d'amore, Demone della
luna e di Diana e di mezzogiorno e del giorno e della notte, Spirito
immondo, chiunque tu sia, esci dalla creatura umana che porta su di sé
questo scritto. È per Lui, il vero Figlio del Dio vivente, che te ne
scongiuro: esci in fretta e guardati dal rientrare in futuro dentro di lei.
Amen. Alleluia».
[34]
Quindi prega, piega la lettera e la rende a coloro che lo supplicavano
perché la portino a destinazione. Cosa (devo aggiungere) di più? I
messaggeri non avevano ancora percorso la metà del cammino quand’ecco che il
furfante, stridendo i denti e gemendo, uscì dalla ragazza posseduta prima
ancora che gli stessi superassero la soglia della casa.
145. Proprio a partire da quel momento la notorietà del beato uomo si
diffuse in lungo e in largo e il suo nome brillò tanto che, già considerato
un santo dagli abitanti del paese, fu riconosciuta anche da genti lontane la
sua autorevolezza ed il suo carattere da vero Apostolo.
[35]
Siagria, un tempo madre di famiglia, ed oggi anche madre delle chiese e dei
monasteri per le sue elemosine, era in preda ad una grave malattia, ed i
medici consideravano ormai il suo caso come disperato.
[36]
Ma ecco che prese dal suo armadietto una lettera che aveva ricevuto dal
beato uomo, proprio a lei indirizzata, e la baciò come se fosse la mano del
beato. 146. Afferratala la pone sui suoi occhi pregando, la bagna con le
abbondanti lacrime che le cadono e poi la mette in bocca stringendola per un
po’ di tempo tra i suoi denti senza cessare di pregare:
[37]
ed ecco che, tornata in buona salute, si alza. La felicità di questo
miracolo non riempie soltanto lei ed i suoi, ma anche la molto nobile città
dei Lionesi, rasserenata, si rallegra con straordinaria gioia.
147. Mentre la fama e la vita di Eugendo crescevano grazie al moltiplicarsi
dei suoi miracoli, iniziò a correre in massa al monastero una tale ressa di
infelici, che la folla dei secolari, o meglio degli afflitti, sembrava quasi
superare in numero la schiera dei monaci. Intanto che nel monastero alcuni
beneficiavano subito dei vantaggi sperati, altri dopo due o tre giorni,
alcuni dopo mesi, il santo di Dio dispensava gli infelici dalla fatica,
ricorrendo a mezzi di guarigione più convenienti. 148. Alle persone sane che
venivano a supplicarlo per dei malati, dava da portare via, oltre ad una
certa quantità di olio santo,
[38]
anche delle ingiunzioni scritte
[39]
contro i demoni e le malattie e che dovevano essere attaccate sul corpo dei
pazienti; questi biglietti, con l'aiuto della fede, portavano fino alle
lontane province il conforto che ottenevano coloro che si presentavano alla
vista del santo nel suo monastero.
[40]
Ed il beato padre non era il solo nella comunità a beneficiare della potenza
miracolosa, ma anche i sacerdoti e molti fratelli avevano questo privilegio.
E, mettendo a tacere gli stimoli della gelosia, l'uomo di Dio preferiva
delegare loro i suoi poteri di guaritore piuttosto che esercitarli lui
stesso.
149. Egli tendeva in tutti i modi ad assegnare ad ogni monaco le mansioni o
i compiti per i quali intuiva fosse particolarmente dotato per grazia dello
Spirito Santo.
[41]
In questo modo un fratello moderato e mite si vedeva assegnato un servizio
ed un posto dove i vantaggi della sua mansuetudine e della sua pazienza non
fossero in alcun modo guastati dalla veemenza di un compagno irrequieto. Se,
al contrario, notava altri che forse avevano il difetto dell'orgoglio o
della vanità, non permetteva loro di vivere separati, per paura che,
gonfiati di proposito dalla loro stessa meschina esaltazione, cadessero più
in basso ed in difetti più gravi, non riconoscendo neppure più i loro
peccati ed i loro vizi, nonostante i frequenti e pubblici rimproveri. 150.
Se nel frattempo veniva a sapere che proprio alcuni fratelli che soffrivano
la natura della fragilità umana ed erano in preda ai morsi di una tristezza
divorante, appariva all'improvviso mostrando di proposito tanta gentilezza e
gioia soprannaturali, riscaldava il cuore degli infelici con parole sante e
delicate. Questi, purificati dal veleno molto pericoloso della tristezza,
[42]
si trovavano guariti dal loro esasperato pessimismo, come con l'unzione di
un olio salutare. Ma l’Abate mostrò sempre più rigore e severità nei
confronti di monaci troppo negligenti e frivoli.
[43]
151. Quanto ai sacerdoti - abbiamo detto
[44]
che, a motivo dell'umiltà, non volle mai essere incaricato lui stesso di
queste funzioni, nonostante le ripetute richieste dei vescovi -,
(considerando che sono) i ministri del sacrificio salvatore, permise loro di
tenersi in disparte per custodire la purezza della loro coscienza: in questo
modo, se per caso il Padre si infiammasse nei confronti dell'autore di un
colpa e si mostrasse, come succede spesso in questi casi, un po' brusco, i
sacerdoti, loro che ignoravano sia il difetto che la penitenza inflitta,
potevano distribuire all'altare il Corpo del Signore senza conoscere il
peccato di questo fratello e senza nessuna compartecipazione: così in
coscienza non dovevano rimproverarsi per una complicità nella colpa e
neanche sembrava loro di sottrarre il colpevole alla severità del padre,
prima che egli se ne fosse emendato, accordandogli per caso i sacramenti.
[45]
152. Fu, o meglio è, beato presso Cristo, quest'uomo dalla cui bocca, Dio mi
è testimone, non uscì mai un'ingiuria, le cui orecchie non si lasciarono mai
sporcare dal distruttivo contagio di una bocca maldicente. Poiché egli
odiava questo vizio, o meglio questa infamia, quanto si può odiare un
serpente mortale: non solo si teme il suo veleno, ma si evita persino di
incontrarlo e di vederlo. La sua anima, sgombra dai vizi, era talmente pura
che fu capace di vedere e di conversare persino con i beati apostoli di
Cristo Pietro e Paolo e sant’Andrea,
[46]
ed anche con quest'uomo apostolico e famoso che fu il vescovo Martino.
153. Infatti, un giorno d'estate, prima che incombesse su di lui il carico
della direzione, egli dormiva fuori dal monastero, sotto un albero che gli
era familiare, proprio vicino al cammino che conduce a Ginevra superando i
monti: improvvisamente, durante il suo profondo sonno, tre uomini si
avvicinano e si presentano a lui. Dopo l’orazione ed il bacio della pace
Eugendo contempla, stupefatto, la loro stranezza, il loro aspetto, il loro
abito, quindi chiede loro chi siano questi venerabili uomini, di cui ha
meritato la visita come una benedizione. 154. Allora uno di loro:
«Io sono Pietro, dice, quanto a
lui, è mio fratello Andrea e quello è nostro fratello Paolo».
Eugendo si inchina subito in spirito ai loro piedi e dice:
«Come può essere, signori, che vi
vedo in queste campagne, in mezzo alle foreste, voi i cui corpi, come
leggiamo, sono seppelliti nelle grandi città di Roma e di Patras dopo il
vostro santo martirio?»
[47]
«È
vero, rispondono, noi siamo laggiù come tu dici e ora siamo venuti per
dimorare qui nello stesso luogo».
[48]
Su queste parole la visione finisce ed anche il suo sonno.
155. Essendosi sfregato gli occhi per cacciare dal volto l'intorpidimento
del sonno, scorge a distanza due fratelli che erano partiti (da Condat) da
due anni circa. Essi si avvicinavano sulla stessa strada dove aveva visto
arrivare i santi apostoli durante la sua visione. Subito si precipita loro
incontro e, dopo averli salutati secondo l’uso, si informa da dove vengano
questi carissimi fratelli che rientrano al monastero dopo una così lunga
assenza. «Oltre ad altri luoghi, rispondono, noi siamo andati fino alla
città di Roma e abbiamo ottenuto la protezione dei santi. Ma ora ritorniamo
sotto una tripla intercessione di tre martiri, accordataci tardi ma
affidabile. Infatti, oggi rientriamo al nostro vecchio ovile arricchiti
dalle reliquie dei signori apostoli Pietro, Paolo e Andrea.
[49]
156. Mentre (i due viaggiatori) rimangono sul luogo dell’incontro, secondo
l'abitudine, santo Eugendo corre al monastero e lui stesso, che aveva appena
contemplato i santi in una visione, diventa il messaggero del loro arrivo
presso il padre (Abate) ed i fratelli. I monaci si slanciano subito loro
incontro, salutano i fratelli e baciano i reliquiari che vengono esposti con
gioia ed esultanza al canto dei salmi.
[50]
Infine sono posti sotto l'altare, accordando a coloro che li pregano la loro
inesauribile e potente protezione: le lodi ed i meriti (di questi santi) non
possono essere contenuti nei limiti di un luogo qualunque.
[51]
157. Ma per parlare del santo e beato Martino, di cui Eugendo amava
descrivermi con riservatezza il viso e l'aspetto, insieme a quelli dei santi
di cui ho parlato,
[52]
non tiriamoci indietro di fronte ad una relazione un po' lunga. Un giorno,
mentre si temevano i terribili e vicini attacchi degli Alemanni,
[53]
- che hanno l’abitudine di non attaccare di fronte i viaggiatori, ma di
presentarsi all'improvviso e di gettarsi su loro come bestie - e che si
cercava di evitare la morte o anche solo il timore della morte, poiché i
colpi ripetuti dello spavento vi uccidono altrettante volte che avete paura
-, si decide di andare a cercare il sale di cucina sulla riva del
Mediterraneo
[54]
piuttosto che nel vicino paese degli “Eriensi”.
[55]
158. Ma tutta l'impresa era stata intrapresa col consiglio e
l’incoraggiamento del beato. Siccome al termine di due mesi (i monaci
inviati laggiù) non davano alcun segno del loro ritorno, i fratelli fanno
ricadere la colpa sul santo, dicendo che altri viaggiatori sono già
ritornati illesi dalla temuta regione vicina e che (l’Abate), imponendo le
sue decisioni, ha inflitto ai fratelli che ha designato non un esilio, ma la
morte in un paese straniero. Benché non avesse la certezza di essere
colpevole, poiché li aveva sottratti ad un rischio, (Eugendo,) che teme
tuttavia questi ingiustificati rimproveri, implora ogni giorno ed ogni notte
la misericordia di Cristo per la loro protezione.
159. Un giorno, dopo avere pianto, si era addormentato sfinito sul suo
giaciglio, quando un chiarore improvviso circonda il suo giaciglio al punto
che egli si vide inondato da una luce più viva di quanto un sole splendente
lo avesse inondato coi suoi raggi.
[56]
Subito il beato Martino, essendogli accanto e vicino al suo letto, dopo
averlo salutato gli chiese sue notizie. Ed egli rispose: «Starei bene se non
fossi nell’incertezza riguardo alla vita di alcuni fratelli che mi si
rimprovera di avere esiliato». 160. Il suo interlocutore riprese: «Non ti
ricordi che alla loro partenza inviasti una preghiera a me, il tuo caro
Martino, per raccomandarmeli in modo particolare? Ebbene! ecco che in nome
di Cristo, proseguì, coloro che mi hai affidato sani e salvi nella tua
preghiera, io te li rendo incolumi esaudendoti. Infatti questa notte la
passeranno nella parrocchia di Poncin;
[57]
ma la prossima notte uno di loro arriverà qui fra noi per toglierci ogni
apprensione». L'uomo di Cristo si svegliò e, come se avesse visto (sulla
loro strada) i fratelli assenti e li mostrasse a tutta la Comunità, predisse
il giorno e l'ora del loro arrivo: esattamente come il santo di Dio gli
aveva annunciato e come effettivamente subito ritornarono.
161. Quanto al fatto che riporterò nel seguito del mio resoconto, nessuno
sarà incerto nel collegarlo ai miracoli del beato Martino; ma non so chi
sarebbe così ignorante e stupido da non capire che i doni dei miracoli sono
specialmente evidenti in quei luoghi riconosciuti come il soggiorno della
grazia, dove i favori divini si manifestano più facilmente perché gli uomini
sono uniti nella loro fede. (Si sa infatti che) una notte il Signore permise
che il santo di cui parliamo, Martino, fosse messo alla prova da un incendio
in sagrestia, ma là fu messo alla prova positivamente.
[58]
La stessa cosa successe un tempo a Condat, dove tutto il monastero bruciò,
senza che tuttavia l'olio di Martino fosse divorato dalle fiamme.
[59]
162. Eugendo sopportò (questa disgrazia) con tanta pazienza e serenità che
la divina Provvidenza non tardò a rendergli non solo due volte più di quello
che aveva perso in prodotti alimentari e abiti,
[60]
ma anche dei locali tutti nuovi, costruiti in modo molto più pratico ed
adatto di quanto non fossero quelli vecchi.
Come ho dunque detto, un certo giorno verso sera, bruciò tutto il monastero
che era stato costruito in legno molto tempo prima. Esso era non solo
costituito da un blocco di celle collegate tra di loro da una struttura, ma
era stato raddoppiato di un piano ben strutturato. Fu in poco tempo così
ridotto in cenere che, la mattina, non soltanto non restava più nulla della
costruzione, ma persino il fuoco, alimentato da materiale secco, si era
quasi interamente estinto.
163. Mentre i fratelli, disperdendo le braci, cercavano nel posto dove li
avevano riposti, chi una zappa, chi un'ascia – ovviamente il ferro (di
questi attrezzi), la sola parte non combustibile -, ecco che il santo
sacerdote Antidiolo vede davanti a lui, sospesa come protezione sulla
testata del suo letto, la piccola lampada contenente l'olio del beato
Martino:[61]
era restata piena e chiusa come prima e, nonostante l’impeto di un vasto
incendio e il crollo dei locali del piano superiore che precipitavano in
mezzo alle fiamme, era rimasta intatta e immobile in mezzo alle ceneri
fumanti. Così un tempo, stando a ciò che leggiamo, i tre giovani, protetti
dal vento di rugiada, si coprirono di gloria nel forno persiano.
[62]
(cfr. Dn 3,49-50) 164. Aggiungiamo che questa piccola lampada con il suo
olio è conservata ancora oggi in questo stesso monastero, come prova di
questi fatti miracolosi.[63]
Così, io credo che sotto sant’Eugendo la sventura di un incendio non ebbe
più potere di quanto non ne avesse avuto in passato quando, come abbiamo
detto, era arretrata davanti al beato Martino; e anche in seguito noi ci
ricordiamo che i monaci di Condat vi sfuggirono grazie all'olio ed alla
potenza di Martino.
165. Oltre ad alcuni fatti che abbiamo brevemente raccontato come prova dei
suoi meriti e dei suoi poteri miracolosi, (sant’Eugendo) ci ha lasciato
esempi così straordinari di profezia, dove la sua purezza d’animo gli valse
l'illuminazione divina, che, fin dalla sua vita terrestre, sembrava già
partecipare in qualche modo alla gloria fra le potenze celesti. A tal punto
che un giorno andò ad avvertire il venerabile Valentino, diacono nello
stesso monastero, dicendogli in grande segreto: «È certo, fratello mio
carissimo, che tra circa venti giorni tu lascerai questo secolo per
raggiungere i premi che ti sono stati preparato. Inoltre, per quanto tu sia
libero dai vincoli del peccato, pronto per andare presso il Signore, ti
esorto tuttavia così: dato che ormai sei vicino al termine, essendoti
rimasto ancora del tempo, arricchisciti realizzando nuovi progressi per
potere essere preso sull'altare di Cristo, come già ho visto, come un degno
ed ancora più gradevole sacrificio. 166. Infatti io questa notte ti ho
visto, durante il canto dei salmi, vestito di lino bianco come neve e
collocato dai santi Padri sull'altare del nostro oratorio. Inoltre, sebbene
tu conosca i tuoi meriti e tu sappia di quale qualità sarà il tuo passaggio,
io ti invito tuttavia durante l’attesa ad aggiungere ancora (tesori) che tu
possa lassù possedere nella felicità immortale».
[64]
Terminata la conversazione con lacrime di gioia e nella preghiera, dopo
circa dieci giorni il diacono è colpito da una leggera febbre, la malattia
lo affligge lentamente ed il corso della sua vita terrestre si completa.
167. Inoltre, quando inoltre arrivava qualcuno (al monastero), (Eugendo),
distingueva così bene i segni dei meriti della persona, dal soave profumo o
dal ripugnante respiro che emanava, tanto da indovinare subito a quale virtù
o a quale vizio fosse sottomessa.
[65]
Spesso predisse tanto l'arrivo di fratelli che la fede di postulanti venuti
dal secolo, ancora prima che la Comunità si accorgesse del loro
avvicinamento. Per quanto sovrabbondasse di grandi e notevoli benefici, non
si giudicò mai migliore degli altri o superiore a loro, neanche per poco ma,
colmo di devozione, meditava non sul suo valore presente, ma su quanto fosse
ancora lontano dalla perfezione, come (se fosse) il più spregevole e il più
piccolo di tutti.
168. Inoltre, portava sul suo viso una grande gioia, illuminato senza dubbio
dall’Ospite che stava in lui; così nessuno lo vide mai triste, ma neppure
qualcuno lo vide ridere.
[66]
Le belle azioni e la condotta dei beati Antonio e Martino non uscivano mai
dal suo spirito. Mai in lui, come
si riferisce di Antonio, in un
accesso di ira si infranse la pazienza; mai si fece gloria dell’umiltà.
[67]
Mai si gonfiò per gli elogi, o perché era considerato beato; mai si
scoraggiò o diventò triste per un rimprovero. 169. La lettura gli procurava
un tale conforto, che gli capitava molto spesso, durante la lettura nel
refettorio, di essere soggiogato dall'amore dei beni futuri e di entrare in
una specie di estasi, al punto di dimenticare gli alimenti posti davanti a
lui; infatti veniva preso da una gioia profonda e, disprezzando la
peregrinazione della vita presente, aspirava al diritto di cittadinanza
preparato nella patria celeste.
[68]
Del resto, è lui personalmente che prese l'iniziativa, sull’esempio dei
vecchi Padri, di introdurre l'usanza della lettura (nel refettorio).
[69]
170. È sempre lui che, rifiutando l'esempio degli archimandriti orientali,
trovò più utile che tutti (i monaci) vivessero in comunità.
[70]
Dopo la distruzione delle piccole celle individuali, decise che tutti
prendessero riposo con lui in un unico dormitorio: coloro che erano già
riuniti in una sala comune per un pasto comune, volle riunirli anche in un
dormitorio comune, essendo soli i letti separati; come nell'oratorio vi era
una lampada ad olio che forniva la sua luce durante tutta la notte.
[71]
Aggiungo che il santo Abate non ebbe mai un suo proprio tavolino, come ho
recentemente appreso che fanno alcuni
[72]
e non prese mai alimenti diversi da quelli dei fratelli; tutto, in tutto,
apparteneva a tutti (At 4,32).
[73]
171. Non insegnò mai nulla d'autorità che non avesse compiuto prima con il
suo esempio o con il suo lavoro. Nei confronti dei monaci malati o molto
anziani, pretese sempre che ci si comportasse con estrema dolcezza,
ordinando inoltre che i malati fossero serviti nelle loro necessità da quei
fratelli che loro stessi avrebbero scelto di preferenza; e non solo faceva
loro preparare delle vivande convenienti al loro stato ma, inoltre, per
evitare loro le fatiche dovute alla debolezza, permise loro di prendere i
pasti separati e di restare in disparte fino al loro ristabilimento.
[74]
172. Inoltre, (nelle sue relazioni) con la gente del secolo, si rese sempre
disponibile senza avere preferenze personali:
[75]
abbracciava i poveri come i ricchi
[76]
e tutti erano ammessi in sua presenza e potevano sedersi al suo fianco;
conformemente alla Regola dei Padri,
[77]
egli vigilava accuratamente affinché nessun monaco si presentasse senza il
suo ordine alla presenza degli ospiti laici, fossero anche vicini parenti.
Se un fratello riceveva un regalo dai suoi parenti, lo portava subito
all'Abate o all’economo e si asteneva dal toccarlo senza l'ordine del Padre.
[78]
173. Nessuno in monastero ebbe mai per nessun motivo una cella, un armadio o
una credenza (a sua personale disposizione).
[79]
A nessuno era data l'occasione di lavorare per soddisfare la purché minima
necessità personale. Infatti, fino ad un semplice ago ed ai fili di lana
necessari alla cucitura ed al rammendo, tutto era messo a disposizione di
tutti, in modo che fosse tolta ai fratelli la più tenue occasione di
allontanarsi (dalla Regola).
[80]
Fra tutte queste occupazioni soltanto due erano permesse a tutti per un
profitto personale: la lettura e la preghiera. Tutti i fratelli sanno di
cosa parlo: nella vita cenobitica non mancano mai le più forti cause
d'errore o di colpa, quando non si eliminano anche le più piccole.
[81]
174. La nostra conversazione ci ha portati ad evocare alcune caratteristiche
delle istituzioni dei Padri e l'imitazione che ne ha fatto il beato Eugendo.
In accordo con la promessa che ho fatto prima, che io avrei riservato questi
fatti a questo terzo piccolo lavoro, facciamo ora conoscere in primo luogo i
primi passi di coloro che rinunciano al mondo, intanto che l'ispirazione di
Cristo ce li richiama in memoria. Noi non abbassiamo per niente, con
sdegnosa presunzione, le istituzioni un tempo promulgate dall’eminente san
Basilio, vescovo della capitale della Cappadocia,
[82]
o quelle dei santi Padri di Lérins,
[83]
o quelle di san Pacomio, antico abate dei Siriani,
[84]
o quelle che formulò più recentemente il venerabile Cassiano ma, pur
leggendo ogni giorno quelle Regole, è questa (del monastero di Condat) che
ci preoccupiamo di seguire, perché fu senza dubbio introdotta in funzione
del clima del paese e delle esigenze del lavoro e perché la naturale
debolezza dei Galli la segue più efficacemente e più facilmente, piuttosto
che quelle degli Orientali.
[85]
………………………………………………………………………………………
175. Ed ora che il nostro modesto discorso, dopo avere contemplato il vasto
mare di una (così grande) istituzione, come un tremante timoniere, voltando
lo sguardo dovunque, gioisce per aver raggiunto il porto del silenzio,
[86]
riporterò brevemente i fatti riguardanti il transito del beato uomo.
Il Padre di cui abbiamo parlato prima, Eugendo, che aveva già superato la
sessantina, da sei mesi circa soffriva di una malattia, senza tuttavia avere
mai mancato neanche per un'ora agli uffici canonici e senza che si potesse
indurlo a concedere al suo povero corpo esaurito qualche alimento oltre una
volta al giorno; ed ecco che chiama a sé uno dei fratelli,
[87]
al quale aveva già in passato affidato in tutta libertà l’incarico di
amministrare l'unzione ai malati e nel più grande segreto lo prega di fargli
anche un'unzione sul petto, secondo l'uso. 176. Passata la notte e sul far
del giorno gli chiedevamo come avesse riposato durante la notte ed egli
scoppiò in lacrime ed in singhiozzi: «Che
Dio onnipotente, disse, vi perdoni perché cercate di impedire che io sia in
fretta liberato dalle catene del mio corpo, malato come sono».
Noi, tutti tremanti e versando abbondanti lacrime, scossi anche dai
singhiozzi dei nostri cuori, tacevamo. «I
miei signori Abati Romano e Lupicino, continuò, hanno portato sulle
loro spalle e davanti a questo letto una barella;
[88]
dopo avermi abbracciato e dopo aver sistemato il mio corpo, mi hanno
sollevato e messo sulla portantina per portarmi via. 177. Mentre costoro mi
introducevano nell'oratorio tenendomi sulle loro spalle, voi siete accorsi
sulla porta, mi avete strappato loro con violenza e mi avete riportato su
questo letto. Dunque vi supplico, se avete qualche riguardo per un vecchio,
o per un padre che vi ama, non trattenetemi qui più a lungo, ma lasciate
infine che si compia il mio passaggio presso i Padri. Prego dunque e
scongiuro tutti voi, miei piccoli figli, affinché osserviate la Regola dei
Padri, inviolabile in qualsiasi punto, che avete ricevuto e che vi è stata
trasmessa. In questo modo farete la mia gioia, farete quella di tutti i
santi e la vostra, e vi condurrà fino alla palma della vittoria».
178. Aveva finito di parlare in mezzo ai nostri lamenti. Esattamente cinque
giorni dopo si stendeva senza aiuto su quello stesso letto nel dormitorio
quando, improvvisamente, sembrò addormentarsi e rese l'ultimo respiro. La
sua spoglia santa e beata fu seppellita con grande rispetto e in nome di
Cristo nel monastero stesso, in mezzo alla moltitudine dei suoi figli e dei
suoi fratelli di Condat, dove i loro devoti discendenti continuano a
servirlo.
[89]
179. Saziate per il momento (a queste fonti), fratelli santissimi, la sete
della vostra fede e del vostro entusiasmo, essendo per il momento
soddisfatti i vostri desideri. Ma se le vostre anime, già piene di spregio
per la filosofia, non possono soddisfarsi neppure di queste rozze
chiacchiere, allora le Istituzioni che abbiamo redatto riguardo alla forma
di vita del vostro monastero, cioè della Comunità di Agauno, su richiesta
del santo sacerdote Marino, abate di Lérins,
[90]
colmeranno magnificamente, con l'aiuto di Cristo, tutti i vostri desideri -
sia a causa dell’insigne carattere di questa istituzione, che a causa
dell'autorità di colui che mi ha chiesto (questo lavoro).
[91]
[1]
Non è del tutto chiaro perché l'autore scrive qui di "obbedienza alla
regola". In generale, si può pensare che il monaco debba restare in
atteggiamento di obbedienza una volta iniziato il lavoro. Forse c'era
anche un ordine diretto del suo attuale abate per completare la vita
degli abati fondatori.
[2]
Probabilmente qui troviamo l'indicazione dell’attività letteraria
esistente tra i monaci a Condat. Nonostante tutte le affermazioni
contrarie, il monaco si prende anche cura nel suo scritto dei "vocabula
et tempora (i termini ed i tempi)".
Tempora designa sia i tempi
dei verbi, sia le quantità prosodiche, ovvero la durata delle vocali e
delle sillabe.
[3]
L’opposizione oratori (oratores)…
pescatori (piscatores) è
frequente nella letteratura patristica, specialmente nei commentari di 1
Cor 1: per esempio in sant’Agostino,
Serm. XLIII, 6. In questo
testo la fonte più prossima è il Prologo della
Vita Martini dove questa
opposizione è anche legata ad una citazione di 1 Cor 4,20. Così nella
Vita Martini: “… poiché il
regno di Dio si fonda non già sull’eloquenza bensì sulla fede.
Rammentino anche che la salvezza fu predicata al mondo non già da
oratori, bensì da pescatori”. La stessa opposizione la troviamo in testi
agiografici come per esempio nel prologo della
Vita Caesarii Arelatensis e
nella lettera dedicatoria del De
virtutibus sancti Martini
di Gregorio di Tours.
[4]
Questa spiegazione etimologica si applica difficilmente; piuttosto si
deve ricordare che Isarnodurum
deriva da un uomo di nome Isarnos
e dalla parola gallica durum
che significa mercato.
[5]
Ancor oggi rimangono rovine importanti di questo tempio che, da
un'iscrizione scoperta su di una pietra di reimpiego, era consacrato a
Mercurio.
[6]
A quell'epoca, un uomo sposato poteva essere ordinato sacerdote, a
condizione di osservare la continenza. L'idea del celibato obbligatorio
non si impone che poco a poco. Questo
testimonium reso dal popolo
al nuovo sacerdote è menzionato nelle formule dell'ordinazione nel rito
gallico.
[7]
I segni della santità "ab
incunabulis" appartengono al modello agiografico come prova
dell'elezione divina. Tuttavia l'autore è in grado di riprodurre le
tematiche tradizionali in una stesura di testo originale e con ciò
motiva la rapida entrata di Eugendo al Condat.
[8]
Le api si posano sul volto del piccolo Ambrogio ed entrano ed escono
dalla sua bocca (Vita Ambrogio 3). Mentre da Ambrogio le api sono come
un segno dei suoi futuri lavori teologici, da Eugendo le api e le uve
fanno riferimento alla folla di monaci del Condat.
[9]
La dura espressione "de caeno
paternae domus (dal fango della casa paterna)" deve essere compresa
dalla giustapposizione tra "mondo e monastero" come è tradizionale nella
letteratura ascetica.
[10]
La visione si basa sulla scala di Giacobbe (Gen 28,12), mescolata con
l’idea della "Gerusalemme celeste" e vuole mostrare un quadro della
santa Comunità di Condat. Se, nella Bibbia, questa immagine sembra
rappresentare la Provvidenza divina e prefigurare l'Incarnazione, qui
essa è l'annuncio della fecondità e della santità di Condat.
[11]
Cfr. Gv 14,6;
ma l'anonimo, che cerca l'originalità fino nelle citazioni, non teme di
invertire l'ordine dei due ultimi termini: la sua disposizione dei tre
nomi aumenta l'effetto dell'allitterazione offerta già dalla Vulgata e
perfeziona il ritmo della frase.
[12]
Cfr. 1 Sam 3,3 “Samuele dormiva nel tempio del Signore, dove si trovava
l’arca di Dio”. La relazione tra Samuele nel tempio ed Eugendo è chiara;
ma è superata, secondo lo schema dell’esegesi della Chiesa primitiva,
dall’esempio e dalla realtà. Per "Tempio di Cristo" vedere inoltre
sopra, al paragrafo 114.
[13]
Il concetto di sequela fu particolarmente familiare nel primo
monachesimo. L’anacoresi egiziana ha trovato particolare espressione nel
rapporto maestro-discepolo. Un antico prototipo di tale sequela lo
troviamo in Eliseo, “su cui si è posato lo Spirito di Elia” (2 Re
2,9-10; 15).
[14]
Vedere il paragrafo 26, dove è stata espressa la
stabilitas loci per il
convento di monache di Balme. Il requisito è dunque richiesto anche per
le comunità di monaci. - Eugendo entrò
nel monastero
verso i sette anni come
puer oblatus,
(RB
59; RM 91). La morte di
Eugendo viene stabilita nell’anno 516 / 517 (Vita
par. 175: con oltre 60 anni). Era dunque nato nel 456/457 ed entrato in
monastero nel 462/463. Secondo altre fonti nacque nel 450 e morì nel
510.
[15]
Il programma giornaliero monastico stabiliva per tutti il tempo per il
lavoro manuale e quello per il lavoro intellettuale; ma lasciava al
monaco un certo tempo disponibile da utilizzare anche per la lettura (studium).
Quando Eugendo imparò anche il greco (e non solo su testi greci già
tradotti), rappresentò un'eccezione per quel tempo. In un Breviario
medievale di Besançon si narra che lo Spirito Santo lo istruì in
entrambe le lingue.
[16]
Riguardo all’usanza di indossare l’abito fino a quando non era più
utilizzabile, si confronti la “vita
di Germano” (vescovo di Auxerre tra il 420 e il 450 circa) di
Costanzo di Lione, al paragrafo 2 “(Germano) utilizzava i due elementi
del suo abbigliamento (la cocolla e la tonaca) fino a quando non fossero
completamente fuori uso, a meno che non se ne sbarazzasse in favore dei
poveri”.
[17]
La caracalla
non è mai menzionata nella letteratura monastica. Solitamente la si
considera una veste di origine gallica formata da un cappuccio, fermato
alla gola con una fibula, con mantello o con maniche. Dall’abitudine
all’uso di questo indumento prese il nome l’imperatore Caracalla, che
era nato nella Gallia Lugdunense (regione dove si trova l’odierna
Lione).
[18]
Riguardo l'abate Leoniano a Vienne non ci è noto nient'altro. Lo si
ricorda solo in un sarcofago conservato nel museo di St. Pierre a
Vienne. Riguardo all’offrire vestiti in regalo si veda per es. il
mantello donato ad Antonio da Atanasio e richiesto da Paolo come sudario
(Vita Pauli, 12) oppure i
vestiti tramandati da Antonio (“Dividetevi le mie vesti”,
Vita Antonii, 58).
[19]
Leoniano, originario della Pannonia (oggi per la maggior parte è
Ungheria) potrebbe essere stato rapito dagli Unni e rimasto poi in
Gallia. Visse poi come un recluso. Palladio, nella
Storia Lausiaca 29-30
racconta di Elia e Doroteo, che dirigevano monasteri di monache da
reclusi. Si noti che anche san Martino era originario della Pannonia.
[20]
L’” aria serena e lieta" come segno di vicinanza a Dio è sottolineata
anche nella Vita di Sant’Antonio
67,6: “la gioia del cuore rendeva lieto il suo volto”. L’Anonimo insiste
anche sulle lunghe meditazioni di san Romano e san Lupicino, ma non
descrive l’espressione del loro viso all’uscita dall’oratorio poiché non
ha mai potuto osservarla. Avendo invece conosciuto sant’Eugendo trova un
felice confronto per suggerire la profonda soddisfazione che si legge
sul suo volto.
[21]
L’ascesi nell’alimentazione di Eugendo dimostra che a Condat erano
possibili certe libertà che invece vietava il cenobitismo rigoroso. La
descrizione dell'autore corrisponde circa a ciò dice Giovanni Cassiano,
Istituzioni Cenobitiche III,
12, ed anche RM 26. Inoltre
sant’Eugendo non ha un tavolo separato dai fratelli (cfr. par. 170).
[22]
Minauso è stato già menzionato più volte, ma mai con il suo nome, perché
l'Autore della Vita non lo
nomina esplicitamente. Conosciamo il suo nome tramite la lista degli
Abati di Saint Claude. Una possibile spiegazione del fatto che non sia
mai nominato è che la storia di questo abate non entrava nel disegno di
quest’opera. Il piano dell’autore è quello di riunire il suo abate e
maestro Eugendo con i due fondatori di Condat. Inserire anche la storia
di Minauso avrebbe voluto dire rovinare l’equilibrio della composizione
letteraria, la trilogia, di cui parla nella prefazione.
[23]
Anche in questo caso la scelta avviene per designazione. Secondo la
RM 92, 73 e seguenti, l'abate
riunisce insieme tutti i monaci per la nomina del suo successore.
[24]
Questo passaggio offre un interessante parallelo con quello in cui
Sulpicio Severo racconta il tentativo di sant’Ilario di ordinare diacono
san Martino: “Ilario tentò, conferitagli la funzione di diacono, ... di
legarlo al servizio di Dio; ma avendo egli rifiutato più volte ...” (Vita
Martini, 5,2)
[25]
Cfr. sopra la vita di Romano
18; 20; ed anche la vita di
Martino 5,2, come riferito nella nota precedente.
[26]
Qui si vede chiaramente espressa la riserva del primo monachesimo nei
riguardi dei monaci sacerdoti (cfr. Anche RB 62, RM 83). E’
un’interpretazione puramente ascetica. Pacomio respinge i monaci
sacerdoti, perché temeva che all'interno della comunità monastica
sorgesse da tale posizione "controversia, invidia e gelosia" (Th.
Lefort, Les vies coptes de S. Pachöme, Lovanio 1943, p 237, 10-13).
Nel monastero di Condat vi furono effettivamente dei monaci sacerdoti.
Vedere dopo al paragrafo 151.
[27]
Eugendo intravede in una visione la sua imminente benedizione abbaziale.
Mentre la Regula Benedicti
non conosce un tale rito, questo è descritto in dettaglio nella
Regula Magistri 93.
L'insediamento del nuovo abate si svolge nell'Oratorio del monastero
(anche nella Regula Magistri,
ma in cui è coinvolto il vescovo locale), in presenza di tutti i
fratelli. La consegna del pallio (mantello) è prevista in entrambi i
testi. Forse questo rito si riferisce a 2 Re 2,13, dove Eliseo raccoglie
il mantello di Elia. Il trasferimento della cintura (mancante nella
Regula Magistri) appartiene
allo stesso contesto simbolico. La tunica dalmatica, un importante
indumento utilizzato a Roma fin dal II secolo (una tunica larga con
maniche larghe), a partire dal IV secolo è stato un indumento liturgico
dei diaconi romani e anche dei vescovi di Roma. Come un speciale
onorificenza, la dalmatica veniva concessa ai vescovi e diaconi
stranieri (ad esempio sotto papa Simmaco, 498-541, ai diaconi di Arles).
Solo a partire dal IX secolo è solitamente l'abito liturgico dei
diaconi. Minauso ha indossato la dalmatica non certo come diacono,
altrimenti anche Eugendo sarebbe stato diacono, ciò che non è detto da
nessuna parte. Probabilmente qui abbiamo a che fare con un costume
proprio del monastero di Condat, dove l'abate indossava la dalmatica.
[28]
Anche le due altre vite degli abati mostrano difficoltà con la comunità
monastica del Giura. L’autore non ci comunica i motivi della ribellione
nei confronti di Eugendo. Si possono sospettare questi motivi: a) la
giovinezza dell’abate, che forse non aveva ancora 40 anni di età;
tuttavia, se si situa l'ordinazione dal 480 (morte di Lupicino) al 490
(morte di Minauso?), aveva comunque vissuto almeno 20 anni nel
monastero, e b) il fatto della designazione, che era comunque comune
anche per i predecessori e che sicuramente era conforme alla "regola" di
Condat. Tuttavia, mentre questo tipo di designazione era stato ben
accettato quando si trattò dei fondatori, nel caso di Eugendo forse non
fu ben accetta perché si trattava di un abate non prestigioso come i
primi. Forse era già conosciuta l’usanza di elezione dell'abate da parte
di tutta la comunità, come ad esempio prevede la Regola benedettina al
cap. 64, e questa rivolta era una sollecitazione per modificare
l'attuale legislazione. A. de Vogue,
La communauté et l'abbé dans la
Règle de S. Benoit, Bruges 1961, pp 352, considera in linea di
principio la designazione come sistema arcaico; con il consolidamento
della comunità ha luogo la transizione verso una libera elezione.
Eugendo rappresenta nel Condat già la terza generazione di abati, motivo
per cui potrebbe essersi verificato un cambiamento nella modalità
dell’elezione.
[29]
Le difficoltà interne al monastero sono risolte dalla reputazione
dell’abate taumaturgo all’esterno del monastero.
[30]
La parrocchia Secundiacum non
ha un’identificazione certa, ma dal racconto sembra essere piuttosto
distante dai monasteri del Giura. Riguardo alla descrizione dell'origine
della ragazza: "Iuxta saeculi
dignitatem non infima" (“i suoi genitori erano di rango non basso,
secondo la valutazione del mondo”), si confronti la
vita di Martino 2.1: "parentibus
secundum saeculi dignitatem non infimis" (detto dei genitori di
Martino).
[31]
L'esorcismo popolare lavora con formule di esorcismo scritte, una
mescolanza di testi magici e liturgici.
[32]
L’epiteto Alexandrina precisa
a meraviglia la parola carta,
sinonimo allora di papiro. Si tratta di un’interessante testimonianza
del commercio di papiri egiziani attraverso i porti del Mediterraneo fin
da quel tempo.
[33]
Secondo Rufino, Hist. Eccl. VII
25(28), Gregorio il Taumaturgo (morto nel 270 circa) ha evocato Apollo
con una lettera e con quel segno ha convertito un sacerdote di Apollo.
L’Anonimo cita Gregorio il Taumaturgo con l’appellativo “Magno” non per
ignoranza, come si è sospettato, ma per un’usanza comune in quel tempo.
Per esempio Gregorio di Nissa lo qualifica abitualmente come “Magno”.
[34]
Un impressionante esempio di tali formule di esorcismo. Il modo di
rivolgersi al demone è un misto di dottrina ascetica cristiana (spiritus
gulae, irae etc.), in accordo col pensiero pagano (lunaticus,
dianaticus).
[35]
Trasposizione originale, ma quasi letterale, di una frase di Sulpicio
Severo in conclusione della prima delle resurrezioni compiute da san
Martino (vita di san Martino 7.7).
“Vere apostolicus” è il più
bel elogio riservato a sant’Eugendo, poiché l’epiteto era allora
assegnato quasi solo a san Martino.
[36]
Syagria, della famiglia dei Syagrii, era un pia, ricca vedova di Lione,
la cui carità è anche testimoniata da Ennodio di Pavia,
Vita Epiphanii 173. Restata
presto vedova, si votò alle opere di carità e distribuì in elemosine una
gran parte della sua fortuna.
[37]
Qui non si tratta di un biglietto con scritta la formula dell’esorcismo,
ma di un'altra lettera, che è stata considerata come una reliquia. Si
veda anche la vita di Martino
19, dove la figlia di Arborio viene guarita tramite il contatto del
corpo con una lettera ricevuta da san Martino
[38]
L’olio santo, vale a dire l’olio consacrato da Eugendo, era
probabilmente distribuito in piccole ampolle. L’olio santo riveste un
grande ruolo nelle guarigioni riportate dagli agiografi del V e del VI
secolo. Le più note ampolle di olio provenienti da luoghi di
pellegrinaggio dell’antichità sono quelle che erano distribuite nei
santuari di Abu Mena (sud-ovest di Alessandria).
[39]
Olio e biglietti di esorcismo sono stati distribuiti come oggetti
devozionali.
[40]
La descrizione ci fa conoscere Condat, al tempo di Eugendo, come un
luogo di pellegrinaggio, nel quale il sanatorio è collegato al
santuario, come gli antichi santuari di Asclepio (o Esculapio, il dio
della medicina) e come le famose città santuari della chiesa primitiva.
[41]
Nella seguente esposizione l'autore torna su di un tema favorito delle
sue tre Vite, ovvero l'alta
qualità spirituale della guida degli abati.
[42]
La "tristitia" è considerata
da Giovanni Cassiano, Conl. 5,
9-11, come uno degli otto vizi capitali.
[43]
Sant’Eugendo offre un eccellente esempio di questo “spirito pedagogico,
che procura il suo fondamentale tema a tutto il cenobitismo antico”,
come dice il De Vogüé (La
communauté et l’Abbé, p.25).
[44]
Cfr. il precedente paragrafo 133
[45]
Come la Regula Magistri 83
(meno chiara la Regula Benedicli
62) la Vita Eugendi limita
l'attività del sacerdote nella comunità monastica al solo servizio
liturgico. E’ degna di considerazione l’importanza conferita
all’isolamento, una specie di separazione dal resto della Comunità, che
si giustifica con la pratica penitenziale monastica. Il metodo
penitenziale è interamente nelle mani dell’abate, che è l'unico
responsabile per il perdono e l'assoluzione.
[46]
I tre santi sono menzionati nella stessa lista nell’embolismo del Padre
Nostro della liturgia della Messa secondo il canone romano, ovvero nella
preghiera, recitata dal sacerdote, che “si intercala” tra il Padre
Nostro e la dossologia, ovvero nella risposta dei fedeli.
[47]
Roma è considerata fin dal II secolo il luogo di sepoltura di Pietro e
Paolo (Eusebio, Hist. Eccl.
11 25,5-7). Andrea è stato giustiziato secondo gli
Atti di Andrea, un testo
apocrifo cristiano in greco composto tra il 150 e il 200, a Patrasso. Le
sue reliquie sono state trasferite a Costantinopoli nel 357.
[48]
Secondo l'antico pensiero l'uomo morto "vive" nella sua tomba; ciò che
può essere espresso anche dalle reliquie. La divisione delle reliquie è
stata praticata fin dalla seconda metà del IV secolo - a dispetto di
leggi imperiali. – Un’interessante giustificazione teologica la si trova
in Basilio, I quaranta martiri di
Sebaste 8 “Essi serbano sotto il loro patrocinio la nostra regione
come torri poste l'una accanto all'altra ad offrirci sicura difesa
dall'assalto degli avversari, perché non si rinchiusero in un solo
luogo, bensì ospitati in molti siti adornarono molte città. Ed è
straordinario che non separati vengono a chi li riceva, ma uniti fra
loro insieme tripudiano”.
[49]
Con l'arrivo delle reliquie si chiarisce la visione precedente. La
difficoltà di ottenere le reliquie degli apostoli a Roma è spesso
attestata a quei tempi; per esempio una lettera del principe ereditario
Giustiniano a papa Ormisda (514-523) con una richiesta di reliquie di
Pietro e Paolo, e cioè "sanctuaria
(ovvero dei veli), che erano stati posti nella cavità della tomba
dell’Apostolo". Anche Gregorio Magno (590-604) si rifiutò di inviare
reliquie originali dell’Apostolo a Costantinopoli: "Questa non è una
consuetudine romana," e riferisce del terribile destino di coloro che si
erano troppo avvicinati alla tomba del martire san Lorenzo e che
morirono nel giro di dieci giorni. Per questo motivo egli propose
reliquie che erano entrate in contatto con le reliquie originali (Ep.
IV 30 alla figlia dell’imperatore Tiberio Costantino). I due monaci
di Condat hanno quindi portato solo reliquie di contatto. Durante il V
secolo è attestata una vivace venerazione di sant’Andrea. Santuari
romani dedicati al santo risalgono ai Papi Simplicio (468-483), Gelasio
(492-496) e Simmaco (498-514).
[50]
Nella solenne sepoltura delle reliquie nell’altare di una chiesa
rivivono elementi dell'antico sfarzo delle sepolture.
[51]
Un modesto tentativo di giustificare la venerazione delle reliquie;
vedere le precedenti note al paragrafo 153.
[52]
Anche Martino comunica al suo ascoltatore “volto e aspetto dei santi "
che gli erano apparsi: Agnese, Tecla, Maria e spesso Pietro e Paolo;
vedere Sulpicio Severo, Dial.
II, 13.
[53]
Probabilmente 15 o 20 anni prima della vittoria di Clodoveo sugli
Alemanni nell’anno 496, quando furono respinti al di là del Reno.
[54]
Si noti che il testo latino “Tyrreni
maris” è stato tradotto in Mar Mediterraneo, come già intendeva
Sidone Apollinare. Probabilmente nel VI secolo si è prodotta questa
confusione poiché il Mar Mediterraneo veniva chiamato
Mare Terrenum: da qui lo
scambio tra quest’ultimo aggettivo e la parola
Tyrrhenus.
[55]
Il "Paese degli Eriensi" è la zona intorno a Salins, circa 60 km a nord
di Saint Claude, dove per lungo tempo ci si è riforniti di sale.
[56]
Il visionario fenomeno luminoso come segno della vicina misericordia
divina compare anche nel paragrafo 137.
[57]
Poncin si trova a sud ovest di Nantua, situata nel dipartimento dell'Ain
della regione del Rodano-Alpi, situato a circa 70 km di strada da Saint
Claude. Dato che è impossibile percorrere questo tragitto in un solo
giorno, anche a cavallo, si può supporre che il messaggero fosse partito
uno o due giorni prima.
[58]
Sulpicio Severo, Ep. I,
10-15, racconta di San Martino che scampa miracolosamente ad un incendio
scoppiato nella sagrestia dove era alloggiato. L’Anonimo utilizza nel
suo racconto delle reminiscenze in parte letterali del testo di
Sulpicio.
[59]
Secondo il paragrafo 163 si tratta di un’ampolla di olio che Eugendo
aveva appeso come un filatterio sul suo letto. L'ampolla di olio poteva
aver semplicemente toccato la tomba di San Martino (riguardo a tali
“reliquie di contatto” ci informa Gregorio di Tours,
In gloria Martyrum 27) oppure
sarà stata riempita con l'olio delle lampade accese sulla tomba. Tali
reliquie furono ricevute anche dalla regina Langobarda Teodolinda da
parte di Gregorio Magno provenienti dalle tombe dei martiri romani (in
parte conservate nel tesoro della cattedrale di Monza).
[60]
Forse un'allusione a Giobbe 39,10, che viene ricompensato del doppio di
quello che aveva.
[61]
La lista degli abati di Condat nomina Antidiolo come successore di
Eugendo, quindi al momento della scrittura della
Vita. L'identificazione
dell’Antidiolo qui menzionato con l'abate Antidiolo risulta difficile,
anche a causa di ciò che ha detto l'autore a proposito del sacerdozio e
dell’abate (vedere sopra ai paragrafi 133; 151).
[62]
Cfr. Dan 3,49-50, anche se l’autore utilizza il testo biblico in modo
non tanto letterale.
[63]
L’ampolla poteva essere ammirata a Saint Claude ancora nel XVI secolo.
L’uso dell’olio benedetto per la guarigione taumaturgica delle malattie
è frequente (Si veda “Vita di
Martino” 16, “Historia
Monachorum” 1,12 e 21,17 con Giovanni di Licopoli e Macario che
utilizzano l’olio per delle guarigioni. Così pure in Mc 6,13 e Gc 5,14).
Infatti veniva chiamato “balsamo apportatore di salute”.
[64]
La dote visionaria di Eugendo, che l'autore sottolinea notevolmente, si
manifesta in modo simile anche nella prospettiva della sua morte; si
vedano i paragrafi 176-177.
[65]
A proposito di questa “fiuto spirituale” si confronti
Vita Antonii 35, dove il
santo sente la presenza di un posseduto nascosto in un battello. Eugendo
sembra però avere delle capacità superiori a quelle di sant’Antonio.
[66]
A proposito dell’atteggiamento gioioso di Eugendo, si confronti la
vita di Martino 27,1:
“Nessuno l’ha mai visto in collera, nessuno turbato, nessuno afflitto,
nessuno in atto di ridere;….il volto raggiante d’una letizia per così
dire celeste.
[67]
Citazione quasi letterale di Vita
Antonii 39. In queste affermazioni si trova l’ideale
ascetico-monastico dell’apàtheia,
ovvero uno stato di pace
interiore che non viene più disturbata dagli affetti che pur rimangono
nell’uomo (come dice Evagrio d’Antiochia).
[68]
Testimonianze bibliche (Fil 3,20; Eb 13,14) si sono mescolate con il
pensiero platonico per lungo tempo nella letteratura ascetica.
[69]
Sull'origine della lettura monastica a tavola si veda Giovanni Cassiano,
De Inst IV, 17. Cassiano
precisa che l’uso della lettura a tavola, estranea ai monaci d’Egitto, è
ststa introdotta dai Cappadoci, per esempio da san Basilio nelle
Regole Brevi. Anche Cesario
di Arles, Regula Monachorum 49
(Reg. Virginum 18),
Regula Benedicti 38 e
Regula Magistri 24
prescrivono che si legga a tavola. Eugendo, in questa occasione, ha così
congiunto la sua comunità alla generale pratica monastica.
[70]
La lezione "Archimandriti orientali" è attestata dai due più antichi
manoscritti: Ci sono probabilmente, secondo l’autore, solo monasteri
orientali di alto livello con stile di vita semi-cenobitico.
[71]
Il dormitorio comune, illuminato da una lampada, è previsto anche da
Regula Benedicti 22 e
Regula Magistri 29.
[72]
La
Regula Benedicti
56 prevede che l'abate mangi con gli ospiti in una stanza separata, per
evitare che i monaci siano disturbati dall'arrivo improvviso degli
ospiti. La Regula Magistri 84
prevede una tavolo separato dell'abate (con gli anziani, gli ospiti e
dei fratelli selezionati) nella sala da pranzo comune.
[73]
Reminiscenza di At 4,32. L’Anonimo scrive col suo stile rafforzativo; “omnium
omnino omnia erant” anziché “erant
illis omnia communia”.
[74]
La premura verso i malati si trova in tutte le regole monastiche, a
partire da quella di san Pacomio. Sorprendente e insolita è la scelta
degli infermieri da parte dei malati.
[75]
Si confronti Rm 2,11: “Dio infatti non fa preferenza di persone”;
Questo, e altri testi simili della Scrittura (Dt 10,17: Mt 22,16: Ef
6,9: ecc.), sono spesso citati nella letteratura monastica, come una
massima per l'incontro con gli ospiti, così come all'interno del
monastero.
[76]
“Osculum”,
qui tradotto con “abbraccio” (seguendo la traduzione del Martine) può
anche essere “bacio”. Si veda RB
53,5: ”Questo bacio di pace non dev'essere offerto prima della preghiera
“. La preghiera ed il bacio della pace come gesti di augurio sono
evidenti tradizioni monastiche già dai tempi dell’anacoresi egiziana.
[77]
Questa "Regola dei Padri (Regula
Patrum)" si trova ad esempio in Pacomio,
Praecepta 51-53;
Regula Magistri 79;
Regula Benedicti 53, 23.
Precetti analoghi si ritrovano anche nelle regole più antiche, come la
Regola dei santi padri Serapione,
Macario, Pafnuzio e un altro Macario.
[78]
Anche qui è riportata una prassi monastica, per esempio, Pacomio,
Praecepta 106; 113; Cesario
di Arles, Regula Virginum 25
(che ha ripreso da Agostino), e
Regula Benedicti 54 (con dipendenza da Cesario di Arles).
[79]
Si confronti Cesario di Arles,
Regula Virginum 9 (Regula
Monachorum 3); Regula
Magistri 16,57-61; Regula
Benedicti 33.
[80]
Vedere la vita di Martino
10,6: “Nessuno possedeva lì alcunché di proprio, tutto era messo in
comune”; Regula Magistri
16,61: "Res monasterii omnium est
et est nullius" “Il patrimonio del monastero è di tutti ed è di
nessuno”.
[81]
L'autore tratta in questa sezione della povertà monastica; invece di una
regola schematica descrive il comportamento dell'abate, che mantiene la
promessa dell’argomento della sua opera (Vita
et Regula).
[82]
Nella prefazione delle
Istituzioni Cenobitiche, Giovanni Cassiano esprimeva già idee
analoghe riguardo all’importanza delle Regole e degli insegnamenti
dell’Oriente ed al necessario loro adattamento alle condizioni di vita
del luogo dove vengono vissute.
[83]
Tra i "Santi Padri di Lérins", l'autore può pensare a quegli scrittori
monastici della Gallia meridionale che vivevano nel monastero dell'isola
e che, con la loro vita ed il loro lavoro hanno propagato la pratica
monastica di Lérins.
[84]
Pacomio (morto nel 346) fu un monaco e abate egiziano, le cui regole
furono tradotte da san Gerolamo. Di origine pagana, si convertì dopo
avere ammirato la carità dei cristiani a Tebe, ove era tenuto
prigioniero.
[85]
Le righe mancanti sono una perdita insostituibile. Queste ci dovrebbero
dare informazioni più dettagliate sulla osservanza monastica di Condat.
L’autore, così come Giovanni Cassiano scrisse le sue
Istituzioni, probabilmente
voleva mostrare il particolare modo di vivere a Condat che, pur
basandosi totalmente sulla tradizione monastica, ha trovato i propri
adattamenti sulla base della "naturale debolezza dei Galli".
[86]
Formulazioni simili si trovano in Giovanni Cassiano,
Conl. 8,25; 22,16; 24,26. Si
confronti anche Leandro di Siviglia,
Regola per la sorella Florentina
31.
[87]
Il Martine sospetta che questo fratello sia l'autore della Vita. Dal
momento che è improbabile che sia stato un sacerdote, il testo è una
prova della pratica ancora aperta dell’unzione ecclesiastica degli
infermi.
[88]
I due abati fondatori accompagnano tutta la vita di Eugendo, la cui
fedeltà è manifestata dall’espressione "accepta
ac tradita patrum instituta - la Regola dei Padri ricevuta e
trasmessa ". Questa fedeltà sostiene il moribondo ed anche la sua
comunità.
[89]
Il giorno della morte: 1 Gennaio 512/14.
[90]
Marino, attualmente l'autore delle
Vite degli abati di Lerins,
può essersi fatto spedire dall'anonimo gli "Instituta"
di Agauno, probabilmente per rendere più fruttuosa l’osservanza del
monastero dell'isola. Che il monaco di Condat compili questi “Instituta”,
è ancora una volta una chiara indicazione del collegamento tra i
monasteri di Condat e di Agaune-Saint-Maurice.
[91]
In questo ultimo paragrafo si notano diverse reminiscenze di Cassiano.
In particolare si riferiscono alla Prefazione delle
Conferenze XI-XVII,
indirizzate al vescovo Onorato ed al monaco Eucherio. “Se poi anche
queste Conferenze non potranno saziare la santa sete delle vostre
aspirazioni, sette ulteriori Conferenze, che io mi propongo di inviare
ai santi confratelli che dimorano nelle isole Stecadi, appagheranno
(latino: explebunt), come io
suppongo, i vostri desideri.
Explebunt è anche l’ultima parola della
Vita dei Padri del Giura.
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Sacra Bibbia | 7
aprile 2015
a cura di
Alberto "da
Cormano"
alberto@ora-et-labora.net