Regola di S. Benedetto

Capitolo XXXVII - I vecchi e i ragazzi: 1. Benché la stessa natura umana sia portata alla compassione per queste due età, dei vecchi, cioè, e dei ragazzi, bisogna che se ne interessi anche l'autorità della Regola. 2. Si tenga sempre conto della loro fragilità e, per quanto riguarda i cibi, non siano affatto obbligati all'austerità della Regola, 3. Ma, con amorevole indulgenza, si conceda loro un anticipo sulle ore fissate per i pasti.

Capitolo LXIII - L'ordine della comunità: 10. I più giovani, dunque, trattino con riguardo i più anziani, che a loro volta li ricambino con amore. 11. Anche quando si chiamano tra loro, nessuno si permetta di rivolgersi all'altro con il solo nome, 12. ma gli anziani diano ai giovani l'appellativo di "fratello" e i giovani usino per gli anziani quello di "reverendo padre", come espressione del loro rispetto filiale.

Capitolo LXVI - I portinai del monastero: 1. Alla porta del monastero sia destinato un monaco anziano e assennato, che sappia ricevere e riportare le commissioni e sia abbastanza maturo da non disperdersi, andando in giro a destra e a sinistra.


 

Leggere, scrivere, ascoltare, vedere

Enzo Bianchi

Estratto da “La vita e i giorni – Sulla vecchiaia” – Ed. Il Mulino 2018


 

Già gli antichi leggevano la vecchiaia come occasione per praticare l’otium, quell’ozio che appare tanto difficile finché perdura la condizione del lavoratore, dell’occupato in una professione. Nell’anzianità giunge «il tempo di avere tempo» per una vita dedicata a molti interessi, personalissimi e specifici, per i quali in precedenza sembrava impossibile trovare occasioni opportune e spazio nella giornata. Abbiamo già considerato il dedicarsi alla casa, al giardino, all’orto e alla cucina. Vorrei ora prendere in esame la possibilità di dedicarsi a ciò che nutre e favorisce la vita intima: il leggere, lo scrivere, il vedere con sapienza film o programmi televisivi, l’ascoltare musica nel silenzio della casa non più abitata da bambini o ragazzi. In questi casi l’otium non è vuoto, non è uno stato di passività ma una condizione per vivere gratuitamente e nella quiete molti interessi a lungo tempo trascurati.

Rembrandt, pittore esperto dell’invecchiamento, dello sguardo dei vecchi perduto nel vuoto o rivolto al passato, ha saputo rendere l’atto della lettura come una caratteristica dell’anzianità. Colui che è ritratto – sia l’apostolo Paolo o Pietro, sia l’evangelista Matteo – ha davanti a sé il libro, ma alza lo sguardo per pensare, per contemplare ciò che ha letto, in una sorta di ri-creazione fatta dallo spirito di ciò che si è letto, mentre gli occhi riposano. Anch’io ormai mi sorprendo con in mano il libro aperto e con gli occhi alzati quasi nel vuoto, lasciando che il libro mi ispiri pensieri e cammini, sicché mi sembra che ciò che sta scritto nel libro cresca con me che lo leggo. Questo è il momento più importante nella lettura: momento di rivelazione perché il libro, mentre lo si legge, fa apparire altri mondi, fa conoscere altre vite che mai avremmo conosciuto, maestri che mai avremmo incontrato.

Un monaco è esercitato alla lettura fin dall’inizio del cammino monastico. Ogni giorno, possibilmente ante lucem, prima dell’alba, apre il Libro, il libro per eccellenza, quello delle sante Scritture, e legge, legge… Chiama questa attività lectio divina, lettura delle cose di Dio, perché l’operazione che ripete ogni mattina e poi altre volte nella giornata è quella di leggere il testo, di meditarlo cercandone il messaggio, di lasciarsene ispirare nella preghiera fino ad assumere lo stesso sguardo di Dio sul mondo, sugli eventi, sulle persone e su se stesso. Tutti i monaci d’Oriente e d’Occidente sanno che questa è l’operazione fondamentale della loro giornata, da cui trarre nutrimento per la fede e ispirazione per la vita che, come un duro mestiere, anch’essi conducono nella precarietà, nella fragilità e nella comunione con gli altri. Togliete a un monaco la lectio divina, e non resterà in lui più nulla di monachesimo cristiano!

È però vero che il monaco, più in generale, legge. I monaci hanno sempre letto opere della sapienza greca e latina non cristiana e si deve soprattutto a loro se i filosofi greci e gli scrittori latini sono stati tramandati e sono ancora letti da noi. Sicché io leggo, e leggo molto. Da vecchio le mie letture spaziano con libertà: meno libri di ricerca biblica o teologica e più libri offerti dalla letteratura. Non è un caso che, diventando anziano, abbia voluto radunare in uno scaffale i libri della collana «Medusa» di Mondadori. Cominciai a leggere quei libri da ragazzo e da allora ogni suo libro, con l’indimenticabile e inconfondibile cornice verde, mi giungeva a casa come un dono da parte di chi mi amava e mi educava. Ho conservato quei libri e li ho sempre portati con me, finché quella collana è cessata. Ma ora sono lì, con il loro dorso verde, e vado a quello scaffale con riverenza, come a un’arca, a un tabernacolo: prendo in mano un libro di Graham Greene, di Jack Kerouac, di Thomas Mann, di James Joyce, di Hermann Hesse o di altri autori, e lo pongo sul comodino o sul tavolino vicino alla poltrona, come segno di un appuntamento che non dovrò disertare.

E mentre si conoscono mondi sconosciuti, leggendo si conoscono le proprie profondità sconosciute. Mi ripeteva un’amica anziana: «Io leggo per sentire battere il cuore del mondo!». «Per i vecchi», mi diceva sorridendo un’altra anziana che non poteva più andare a Lourdes come faceva da giovane, «la lettura è un pellegrinaggio». Ed è vero, perché ogni libro può rappresentare una fontana a cui andare quali assetati di conoscere e di sapere, uscendo così dal nostro piccolo mondo.

I libri sono un bagaglio essenziale per la vecchiaia, in particolare i libri che abbiamo letto da giovani ma che desideriamo rileggere con uno sguardo diverso, avendo accumulato lungo la vita altre chiavi di interpretazione: sono una consolazione, ci fanno viaggiare quando ormai è diventato difficile spostarci, rinnovano in noi sentimenti e ce li fanno rivivere in una dinamica dialogica che richiede di tacere, leggendo, per lasciar parlare il libro, per poi risuscitare ciò che è scritto fino a riviverlo in noi. Tante volte, alla fine della lettura, rivolgo allo scrittore una parola che scaturisce dal cuore, per dirgli grazie di avermi aiutato a capire, a costruirmi, per avermi confortato e consentito di scendere nelle mie profondità. Allo scrittore va allora la mia riconoscenza e la mia gratitudine, perché senza di lui sarei stato più povero. Per un vecchio leggere può anche essere un’operazione faticosa e il libro stesso appare davvero un volume che pesa e stanca le mani che lo sostengono. Ma io provo tanta gioia nel tenere in mano un libro, nell’aprirlo, nel sostenerlo, per poterlo leggere in poltrona o a letto: è una fatica fatta con convinzione e piacere, necessaria per dialogare, soprattutto quando il dialogo, nei giorni dell’anzianità, si fa più raro.

La lettura poi spesso si arricchisce di un commento che la accompagna e la prolunga. Si parla con gli amici del libro letto, lo si interpreta in modi diversi, e così si può dire che «il libro cresce con chi lo ha letto»; lo si degusta interiormente, condividendo il suo messaggio in uno scambio di cordiale ospitalità intellettuale. Dalla solitudine a due, lettore e libro, alla condivisione tra amici.

Vi sono però anziani non abituati a leggere, i quali trovano nella televisione una possibilità di tralasciare molti pensieri che li ossessionano e di riempire alcuni spazi della giornata. Non bisogna demonizzare questo strumento, che per molti è come i libri, fonte di conoscenza e di ascolto del battito del cuore del mondo. Per i vecchi la televisione è una possibilità e, se non finisce per inchiodarli sulla poltrona o per intontirli con rumori e informazioni molteplici e svianti, può donare loro ore di serenità. Tanti vecchi mi confidano che amano vedere documentari sulla natura o di argomento storico. Altri invece confessano di dover spegnere la televisione per non essere invasi dalla bruttezza o dalla cattiveria che da essa viene diffusa. I vecchi sono più vulnerabili, fragili, e spesso, di fronte a certe immagini crudeli o spaventose, girano la testa dall’altra parte per non guardare. Per questo vi è chi preferisce ascoltare la radio, in particolare le trasmissioni di approfondimento culturale che possono essere seguite mentre si cucina o ci si dedica ad altre occupazioni domestiche. A ciascuno il suo piacere!

Per me e per molti altri che conosco, l’ascolto della musica resta un piacere inesauribile. Verso sera, nella penombra (o se è estate stando sulla porta a guardare le colline che verdeggiano sotto di me), si è meno stanchi ascoltando musica vicino al camino acceso: una vera e propria grazia! Passo dalla musica classica, a Eleni Karaindrou, ad Arvo Pärt, a Vangelis. A volte ritorno ai cantanti-poeti della mia giovinezza, come Jacques Brel, Georges Moustaki, o alle esecuzioni di Mina e Ornella Vanoni. Affiorano ricordi vivissimi delle avventure, degli amori vissuti, delle amicizie condivise… Ascoltare un Adagio di Mozart o le Variazioni Goldberg di Bach, anche eseguite da Keith Jarrett, mi dà una grande pace. Talvolta, mentre ascolto, sorseggio un calice di Barolo chinato in inverno o di brandy spagnolo in estate.

Non va infine dimenticato che anche scrivere è una pratica senile: sono molti i vecchi che si sentono spinti a comporre autobiografie o memorie. Nell’anamnesi che fanno della loro vita trovano eventi vissuti che possono essere trasmessi in eredità ad altri, a possibili lettori. Aiuta in questo anche la «presbiopia della memoria»: ci si dimentica di ciò che è accaduto negli ultimi giorni, mentre riaffiorano con forza i ricordi della vita vissuta nell’infanzia, giovinezza e maturità. A volte attraverso interviste, altre volte attraverso confessioni scritte personalmente, si narra la propria vicenda e lo si fa con la convinzione di avere qualcosa da comunicare, qualcosa che può essere utile ad altri, qualcosa che non deve cadere nel dimenticatoio. Io stesso, giunto all’anzianità, ho sentito il bisogno di scrivere Il pane di ieri [E. Bianchi, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008] e Ogni cosa alla sua stagione [E. Bianchi, Ogni cosa alla sua stagione, Torino, Einaudi, 2010.] , due libri dai titoli molto eloquenti, che prendono spunto dalla mia vita in Monferrato, da persone che sono state per me grandi maestri (non piccoli maestri come quelli noti!), dalla fatica del lavoro di poveri contadini che abitavano quelle colline interamente coperte dalle vigne.

In questa scia, sto ora preparando un terzo libro, Nella natura delle cose, nel quale vorrei tentare una sorta di De rerum natura, frutto del pensare, del cercare, dell’osservare e del vivere come uomo che nella vita ha sempre avuto tanto tempo per meditare. Alla mia vecchiaia si addice questo impegno più di ogni altro: così rivivo la mia vita, entro in maggior comunicazione con la terra e con tutta la natura, posso dialogare con gli amici e con quanti desiderano ascoltarmi. Per me tutto è principalmente frutto dell’ascolto di uomini e donne nel dolore e nella gioia, nella fatica e nella pienezza della felicità, nella salute e nella malattia, nell’età che ognuno percorre, dalla nascita alla morte. Un ascolto disciplinato, che non diventa dissipazione, come mi ricorda Konstantinos Kavafis:

E se non puoi la vita che desideri

cerca almeno questo

per quanto sta in te: non sciuparla

nel troppo commercio con la gente

con troppe parole in un viavai frenetico.

[K. Kavafis, Cinquantacinque poesie, Torino, Einaudi, 1968, p. 59.]

 


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18 febbraio 2025                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net