Regola di S. Benedetto

Capitolo VII - L'umiltà

1. La sacra Scrittura si rivolge a noi, fratelli, proclamando a gran voce: "Chiunque si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato". 2. Così dicendo, ci fa intendere che ogni esaltazione è una forma di superbia, 3. dalla quale il profeta mostra di volersi guardare quando dice: "Signore, non si è esaltato il mio cuore, né si è innalzato il mio sguardo, non sono andato dietro a cose troppo grandi o troppo alte per me". 4. E allora? "Se non ho nutrito sentimenti di umiltà, se il mio cuore si è insuperbito, tu mi tratterai come un bimbo svezzato dalla propria madre"...

10 Dunque il primo grado dell'umiltà è quello in cui, rimanendo sempre nel santo timor di Dio, si fugge decisamente la leggerezza e la dissipazione, 11 si tengono costantemente presenti i divini comandamenti ... 12 In altre parole, mentre si astiene costantemente dai peccati e dai vizi dei pensieri, della lingua, delle mani, dei piedi e della volontà propria, come pure dai desideri della carne, 13 l'uomo deve prendere coscienza che Dio lo osserva a ogni istante dal cielo e che, dovunque egli si trovi, le sue azioni non sfuggono mai allo sguardo divino e sono di continuo riferite dagli angeli...

67 Una volta ascesi tutti questi gradi dell'umiltà, il monaco giungerà subito a quella carità, che quando è perfetta, scaccia il timore; 68 per mezzo di essa comincerà allora a custodire senza alcuno sforzo e quasi naturalmente, grazie all'abitudine, tutto quello che prima osservava con una certa paura; 69 in altre parole non più per timore dell'inferno, ma per amore di Cristo, per la stessa buona abitudine e per il gusto della virtù.


 

Estratto e tradotto da "Radical Spirit - 12 Ways to Live a Free and Authentic Life"

"Spirito Radicale - 12 modi per vivere una vita libera e autentica"

Joan Chittister OSB

Ed. Crown Publishing Group – 2017

 

Il primo gradino dell'umiltà

Riconoscere che Dio è Dio

 

Il primo gradino dell'umiltà, quindi, è che teniamo "il timore – la riverenza - di Dio sempre davanti ai nostri occhi (Sal 36:2) e non lo dimentichiamo mai".

 

Qual è la sfida qui?

L'umiltà non è mai stata facile per me, almeno non nel modo in cui è scritto nel capitolo 7 della Regola di Benedetto.

Lo ricordo fin troppo bene: era il 1952. Allora ero una novizia e per le novizie la preparazione per l'adesione a pieno titolo alla comunità era intensa. Lo studio, la preghiera ed il ritiro quasi totale dalla società hanno segnato quell'anno come speciale, come diverso.

Non abbiamo preso lezioni al college. Invece, abbiamo studiato solo la Regola di Benedetto del sesto secolo, che formava il quadro in cui avremmo vissuto il resto della nostra vita. Non solo pregavamo sette volte al giorno, ma studiavamo il latino in cui erano scritte le preghiere per rendere comprensibili quei momenti di preghiera. Soprattutto, ci siamo concentrate sulla Regola stessa ed, in particolare, sul suo capitolo cardine, “Dell'umiltà”.

Ogni mattina, infatti, sottraevamo un'ora alle normali incombenze della giornata - come cuocere i pani dell'altare o pulire la cappella, lavare i vetri o lavorare in cucina - per studiare la Regola di Vita secondo la quale presto avremmo promesso di vivere. E quella sola lettura, non il lavoro manuale, avrebbe potuto benissimo essere sufficiente nel rendere impossibile qualsiasi pensiero di compiere un’altra tappa nel percorso.

In primo luogo, la Regola stessa era stata scritta quindici secoli prima di questo noviziato. In secondo luogo, il libro aveva bisogno di un buon editore. Il suo linguaggio era per la maggior parte stantio e conciso. Ed almeno per un adolescente nel 1952, in un'era del dopoguerra piena di scritti nuovi e liberatori, le idee erano agghiaccianti. Una, in particolare, ha attirato la mia attenzione e mi ha turbata profondamente: dovevamo "tenere sempre davanti agli occhi il timore di Dio e non dimenticarlo mai". La vita doveva riguardare “il timore di Dio”? Oh, grandioso.

Anni dopo, naturalmente, ci dissero che “il timore di Dio” era ormai un termine arcaico, che significava “un sentimento misto di paura e riverenza”, ma nessuno ne sottolineava la “riverenza” in quei giorni. "Il timore di Dio" era la traduzione corrente, l'essenza determinante della relazione, e così è rimasta.

Ma ero giovane e nuova alla vita monastica, ed il linguaggio stesso di questo primo gradino dell’umiltà era di per sé abbastanza scoraggiante. Cosa significava “tenere sempre davanti agli occhi il timor di Dio”? Ho trovato le parole soffocanti. Minacciose, a dire la verità. Questo Dio, sembrava, aleggiava per sempre su di noi aspettando solo che commettessimo un errore. Allora tutto il paradiso avrebbe fatto un balzo all’indietro e, come i vecchi manuali della Chiesa chiarivano così bene, ci avrebbe chiuso per sempre le porte della vita. Come avremmo potuto riverire un Dio così, un Dio che aspetta nell'oscurità, uno spettro nella notte?

Eravamo, immaginai, intrappolate dalla presenza di Dio, per nulla liberate da essa: questo Dio vede "i pensieri del mio cuore", dice il capitolo sull'umiltà. Un pensiero scoraggiante in sé. In quel caso saremmo condannate solo per aver pensato a qualcosa, prima ancora di avere la possibilità di metterlo in atto. Eppure, nel corso degli anni, un'altra luce cominciò ad albeggiare: se quello era vero, allora qualcos'altro era sicuramente altrettanto vero. Questo Dio che sapeva tutto doveva sapere anche quanto stavo cercando di vivere decentemente, di amare profondamente, di crescere oltre le lacune della mia anima. E quello, almeno, era un pensiero tranquillizzante.

Ma c'era qualcos'altro che ancora mi infastidiva: come era possibile affermare di non avere nient'altro che Dio nella mia mente? Quanto realistico poteva essere tutto ciò? Il mio spirito affondò. Aveva senso qualcosa di questo capitolo? E se lo avesse avuto, sarei mai stata in grado di compierlo? Sapevo nel profondo di me stessa che, se il modo in cui si leggeva questo capitolo era davvero il modo in cui le cose dovevano essere, vi era il dubbio che riuscissi a viverlo bene.

Semplicemente non riuscivo ad immaginare come essere perfettamente immersa in Dio. Perfettamente in sintonia con Dio. Perfettamente soddisfatta di una vita più indirizzata alla perfezione che alla vita stessa. Cercavo una vita spirituale più radicata, più reale, meno eterea. Volevo andare avanti, trovare più del sacro nella vita piuttosto che tagliarlo fuori in nome della Vita. Qualcosa in me insisteva sul fatto che dovevo diventare pienamente umana prima ancora di poter pensare di essere perfettamente santa. Perché? Perché sforzarsi di giungere alla pienezza è la natura della condizione umana, e senza di essa come si può essere veramente santi?

Quando ero più giovane, non mettevo in dubbio che la perfezione fosse possibile. La verità - così ho imparato man mano che la vita andava avanti - è che in effetti c'è sempre qualcosa che ci manca. Non nasciamo perfetti. Lo stesso processo di sviluppo umano - lento, incerto, curioso, volubile dall'infanzia alla vecchiaia - ne è la prova. Ed io ne ero la prova vivente. Di certo non sono diventata perfetta con il passare degli anni, per quanto la formazione religiosa fosse stata chiara sul percorso. Non ero nemmeno sicura di voler essere perfetta se la paura di provare, di assaporare, di fallire, e solo allora di riprovare, fosse stato il punto di partenza. Al contrario, mi sembrava solo di allontanarmi sempre di più da un ideale spirituale che mi sembrava una morte vivente. Ogni giorno, ogni nuovo fallimento, mi lasciava sempre meno convinta che l'ideale fosse possibile.

Una situazione in particolare mi irritava ogni singolo giorno.

Il programma di preghiera prevedeva esercizi di esame di coscienza una volta a mezzogiorno e di nuovo la sera. Ognuno di loro era concentrato su ciò che avevamo fatto di sbagliato quel giorno. Nessuno ha mai suggerito che avremmo dovuto ringraziare Dio per averci aiutato a fare qualcosa di giusto. Quindi, mi sono inginocchiata nel mio banco, a testa bassa, e mi sono accusata di cose che consideravo troppo piccole, troppo prive di significato, su cui sprecare il mio tempo. La maestra delle novizie, ad esempio, era particolarmente stressata dal fatto che camminavo troppo velocemente, troppo rumorosamente sulle mie suole di cuoio nelle sale dal suono cupo. Non dimenticarlo al momento dell'esame: ho capito.

Questa "vita di perfezione" in un mondo di imperfezione umana cominciava a sembrare un'escursione nella nevrosi. Sicuramente la vita spirituale non si occupava solo del camminare pesantemente – una mancanza che ci veniva insegnato di confessare settimanalmente – e del far cadere qualcosa, del rovesciare cibo e di fare errori durante la preghiera comunitaria. I confini tra il morale, l'immorale e l'amorale iniziarono a scivolare via, a confondersi, a diventare quasi privi di significato.

No, questo grande confronto con Dio nel primo gradino dell'umiltà doveva riguardare qualcosa di più che fare piccoli errori mentre affrontavamo le routine della vita. Chiaramente, la vita spirituale era stata ridotta ad una sorta di ossessione psicosociale da qualche tempo a questa parte. Riguardava quello che facevamo e come lo facevamo. Ma cosa stava succedendo al livello della spiritualità che stavamo sviluppando come risultato? Come poteva essere questa la materia di cui era fatta la santità?

A dire il vero, ogni giorno di quel periodo ho fallito in un numero sempre maggiore di modi. Tutto ciò che qui si chiamava "buono" mi era estraneo. Parlavo a sproposito, rimuginavo incessantemente e rompevo ripetutamente il silenzio, cosa che ho imparato rapidamente che era una questione più riprovevole del fatto che ciò che stavo dicendo potesse essere considerato virtuoso. Così ho detto una cosa in pubblico e ne ho pensate altre in privato. Sono rimasta sulla via della vita religiosa ma ho passato molto tempo a pensare a tutte le altre strade che avrei potuto, e forse dovuto, intraprendere. Sono diventata sempre più piccola nel mio pensiero e anche il mio mondo è diventato più ristretto. Mi sentivo come se fossi costantemente sott'acqua, i miei polmoni scoppiavano per mancanza di respiro, il mio cuore si fermava a mezz'aria. La cosa più difficile è che stavo cominciando ad accettare il fatto che la "vita spirituale" era una cosa per bambini spirituali e che contava su cose infantili come moneta corrente.

“Non amare la tua volontà”, sottolineava il capitolo sull'umiltà. Ed ho provato ad allungarmi fino a quelle altezze. Ma allora l’amore cosa è, invece, pensavo, in questo luogo di misere pietà? “Ovunque le nostre azioni sono sotto gli occhi di Dio”, mi ricordava la Regola, “e sono riferite dagli angeli ad ogni ora”, alla ricerca di peccati e di vizi.

Più leggevo, più mi sentivo intrappolata nella centrifuga del mio io. Sono diventata un soggetto costante della mia piccolezza. Oppure, come mi disse anni dopo un mio amico, “ho lasciato la Chiesa perché se fossi rimasto lì non avrei mai potuto essere altro che un fallimento”.

Che tipo di spiritualità era questa? E con che tipo di Dio avevamo a che fare?

Dov'era la grandezza della vita spirituale? Sicuramente l'avevo vista una volta. In effetti, l'avevo rintracciata nella scia di figure che ci avevano preceduto e che avevano tracciato un arco nel cielo della vita affinché tutti noi potessimo seguirlo.

Dov'era, per esempio, la grandezza d'animo di una Teresa d'Avila, che aveva stravolto la vita religiosa della sua epoca - e che aveva fatto impennare la mia visione di essa nella mia? O un Martino di Tours, che rifiutò di combattere nell'esercito imperiale romano per seguire il pacificatore Gesù? O una Giovanna d'Arco, che ha argomentato la propria coscienza contro la Chiesa stessa ed era stata disposta a morire per essa? O una madre Catherine McAuley, che ha dato la vita per educare ragazze analfabete? O una Mary Ward, che è stata condannata per aver tentato di rinnovare la vita religiosa al di fuori dell'architettura spirituale del suo tempo, ma a lungo andare ha prevalso, a prescindere? O una Dorothy Day, che ha passato la vita a cercare di richiamare la Chiesa stessa al Vangelo? Questi, e centinaia di altri come loro, avevano infiammato la mia giovane anima prima che entrassi nel monastero. Ma ora eccomi qui. Questa tradizione spirituale, mi dissero, durava già da oltre millecinquecento anni. Ma c’era qualcosa che andasse oltre la pallida ombra di una guida ad un tipo di santità creata ed inaridita in epoche precedenti? Doveva esserci qualcosa di più di questa equazione tra umiltà e spiritualità ed umiliazione e repressione. Semplicemente non riuscivo a vedere in questo capitolo sull'umiltà un Dio abbastanza grande da seguire.

A poco a poco ho cominciato a rendermi conto che non era la spiritualità dell'umiltà di cui questo capitolo pretende di parlare a creare un problema. Era la nozione del tipo di Dio a cui dobbiamo andare incontro che aveva creato le barriere. La mia rovina non era la spiritualità dell'umiltà. La mia rovina è stata l'immagine di Dio che avevo portato con me nello studio del capitolo (della Regola sull’umiltà).

Ma con il passare degli anni, lentamente ma inesorabilmente, la visione più ampia è tornata a fuoco. Ho finalmente scoperto i riferimenti ai salmi che questo capitolo sull'umiltà cita come suoi luminari lungo il cammino verso l'espansione dell'anima. La sollecitudine dei salmisti a cui la Regola di Benedetto fa riferimento in questo capitolo riguarda un Dio molto più grande di quello forgiato dalla nozione popolare di perfezione. È quel Dio che alla fine è diventato per me il faro ed il timone della vita.

 

Qual è il problema di fondo?

 Se il timore di Dio è il nocciolo ed il nucleo dell'umiltà benedettina, allora le domande che devono essere alla base della nostra comprensione sono queste: chi è questo Dio a cui dobbiamo “timore, riverenza, timore reverenziale, genuflessione”? In che modo lo stesso Benedetto da Norcia comprendeva Dio? E, soprattutto, cosa dice questo sulla vita spirituale nella tradizione benedettina, per non parlare dei nostri viaggi singolari e spesso scoraggianti verso Dio? E come facciamo a sapere se il nostro concetto di Dio ed il concetto di Dio di Benedetto sono sincronizzati?

Un modo per studiare la mente di Benedetto - raramente segnalato, troppo spesso trascurato dai lettori moderni di questa antica Regola - è seguire da vicino i passaggi della Scrittura a cui Benedetto attinge per darci un'immagine di Dio. Allora non ci possono essere fraintendimenti su chi sia ed a chi dobbiamo sia timore reverenziale che omaggio. Infatti, in questo capitolo Benedetto racconta Dio in azione per noi. Permette alla Scrittura stessa di spiegare questo primo gradino dell’umiltà citando con attenzione i versetti dei salmi che confermano la sua visione di Dio e della vita santa.

Il Dio di Benedetto è una difesa dalle tempeste della vita, non una minaccia alla prosperità umana (Sal 7:10). Questo Dio vede tutto, certamente, il che significa che questo Dio vede oltre le nostre debolezze. Questo Dio vede anche i nostri bisogni, il nostro dolore, la lotta dell’essere umano (Sal 38:10) e premia coloro i cui cuori sono retti e le cui anime sono giuste (Sal 18:24). È a questo Dio amorevole, a questo Dio misericordioso, che dobbiamo portare gratitudine, lode, venerazione, timore reverenziale e genuflessione (Sal 50,21).

Chiaramente, per Benedetto Dio è un Dio potente. Questo Dio sa cosa siamo e sta con le braccia aperte per riceverci, sempre e comunque. Questa è una visione toccante di Dio, confortante. Questo è un Dio che vuole che l'amore, non la paura, sia il legame tra noi. E il vero amore, ogni amante lo sa, non se ne va mai. Invece, crea una sorta di velo invisibile ma cristallino verso il quale tendiamo sempre, per quanto grande sia la distanza, per coglierlo tutto.

Benedetto è molto chiaro riguardo al carattere di Dio. Questo non è un Dio dell'ira, non un Dio indifferente al mondo, non un demone di un Dio che ci spia nella speranza di vederci cadere in disgrazia. Soprattutto, questo non è un "Dio insidioso" che sta semplicemente in agguato per punirci quando lo trasgrediamo. Anzi.

In questa luce Dio, l'Operatore di Miracoli Magici al di fuori dell'ordine naturale, scompare. Invece, il Dio della Creazione libera la natura affinché faccia il suo corso con noi mentre anche noi testiamo, gustiamo e cresciamo in saggezza, età e grazia. Avendo sperimentato la vita in tutta la sua gloria, tutto il suo dolore, cresciamo fino alla piena altezza della nostra umanità. È un processo lento, sì, ma alla fine la nostra scelta per Dio è valida, è santa, perché è reale, ponderata, non forzata, non estorta. Questo Dio vuole per la creazione la pienezza di tutto il bene che è in essa.

 Soprattutto, questo Dio premuroso ci ama e quindi rifiuta di interferire con i nostri giudizi od impedire le nostre prove con la vita. Invece, questo Dio ci rispetta e sta semplicemente a guardare, è sempre lì per sostenerci, per confermare la nostra fiducia guidandoci attraverso i giorni oscuri e le lunghe notti. In quale altro modo spiegare la profondità dell'anima di coloro che sono sopravvissuti a grandi calamità, hanno sopportato la morte brutale di un bambino, hanno lottato contro debilitazioni paralizzanti, dipendenze tortuose, eppure ne sono usciti lodando il Dio che li ha sostenuti? Una volta che abbiamo conosciuto la presenza rafforzante di Dio nelle nostre vite, ci sentiamo ancora più vicini al Dio della vita dopo la tragedia di quanto non lo fossimo prima. Non ci sono dubbi: questo Dio confida che l'umanità si faccia strada verso la pienezza della sua anima.

Quindi il vero miracolo della Vita - questo diritto di scegliere il nostro destino ed il modo in cui arrivarci - con tutti i suoi insegnamenti, tutte le nostre lezioni, ci accoglie a casa per una nuova vita e per una nuova comprensione del modo in cui Dio si comporta con le Sue creature.

Questo primo gradino dell’umiltà – questo mandato “di tenere sempre davanti agli occhi la presenza, il timore, la riverenza, lo stupore di Dio… e non dimenticarlo mai” – non ci riduce in polvere. Invece ci rende sensibili verso Dio. Ora siamo accessibili alla chiamata di Dio. Siamo pronti a vivere alla presenza di Dio. Siamo aperti alla volontà di Dio sia per ciascuno di noi che per il mondo. Dio e la volontà di Dio ora stanno per lasciare un'impronta nelle nostre vite.

Cosa più importante di tutte, questa nuda affermazione sulla presenza di Dio nella nostra vita sconvolge ciò che il mondo conosce come "teologia del merito". Benedetto respinge semplicemente l'idea che siamo stati creati per cercare di "meritare" Dio. Ricordo fin troppo bene il numero di novene che ho contato nella speranza di buone votazioni, il numero di messe dei primi sabati del mese a cui ho assistito nei giorni liberi per uscire dal purgatorio dopo la mia morte. Ricordo anche la partita di football del venerdì sera in cui ho spinto un hot dog dall'altra parte del panino finché non è caduto a terra sotto le tribune. Il punto era evitare di insultare il ragazzo protestante che mi aveva portato lì, ma allo stesso tempo salvare la mia anima dal peccato mortale di mangiare carne il venerdì.

Se supererai queste prove “fai da te”, come suggerisce questo approccio della teologia del merito a Dio, otterrai Dio. In caso contrario, peccato.

La verità è che nessuno può meritare Dio. Non guadagniamo Dio con una preghiera, un obbligo legalistico, una devozione alla volta. Non abbiamo bisogno di guadagnarci Dio perché la verità fondamentale e vivificante è che abbiamo già Dio. Dio è qui. Con noi. Ora. In questa situazione. Per sempre. Ciò che è importante per noi è cercare Dio, entrare in contatto con Dio, che ci sta già cercando. Questa è l'unione con Dio. Questo è il matrimonio di due anime. Il cercare di guadagnarsi Dio ci porta solo a fallire, perché nessuno è in grado di farlo perfettamente.

“Vivere nel timore – nel rispetto – di Dio” ci mette in sintonia con la presenza della Vita nella vita e ci rende pronti a coglierne il messaggio sia nelle cose buone che in quelle cattive, sia nelle cose semplici che in quelle difficili. Ci rende abbastanza audaci da invitare questo Dio delle Meraviglie ad aprirci alla possibilità ed al potenziale per tutta la vita. Ci ricorda ogni giorno che la creazione che vediamo intorno a noi - elettrica nella sua energia, solida nella sua eterna riproduzione - è stata creata "per la nostra pace e non per la nostra sventura", come dice la Scrittura (Ger. 29:11). In modo che possiamo crescere in essa e grazie ad essa. Cos'altro può essere davvero la vita? Che cosa dobbiamo temere di fronte a un Dio che è, come ricorda il salmista in questo capitolo della Regola, nostro “scudo, nostra difesa”? Cosa c'è nell'universo che può disfare ciò che l'ancoraggio di noi stessi alla Vita garantisce e Dio ci promette attraverso i salmisti?

Questo senso di stupore per il Dio di una creazione che è dinamica, in continuo cambiamento, sempre in crescita, questo venire a conoscere il Dio della possibilità ci rende liberi di fidarci della vita. Qualunque cosa ci accada adesso - questa consapevolezza che Dio è il centro di tutto - rende tutto e sempre possibile, rende tutto e sempre sopportabile. Ora sappiamo che non siamo soli in questo. No, non possiamo stravolgere la vita secondo i nostri progetti perché non l'abbiamo creata noi e, quindi, non possiamo piegarla ai nostri schemi. Possiamo, tuttavia, consegnarlo al Dio che è "Emmanuele" - che è davvero "Dio con noi" - e quindi usare anche questo momento mondano presente per crescere fino alla piena statura spirituale.

Nel mondo moderno, mentre esploriamo lo spazio e minacciamo di far saltare in aria il pianeta, la tentazione di agire come dei, anche nelle nostre vite più personali e private, è comune. Ci siamo guadagnati la nostra arroganza: abbiamo diviso l'atomo e tracciato il DNA umano. Abbiamo viaggiato più veloci del suono e creato cuori artificiali per bambini. Siamo in grado di nutrire il globo ed avvelenare la sua terra allo stesso tempo. La domanda è se nel processo abbiamo soffocato o meno le basi della vita: la consapevolezza di cosa significhi veramente essere umani, operare umanamente, rendere l'umanità di nuovo umana.

Non c'è da stupirsi quindi che nel capitolo sull'umiltà Benedetto inserisca un monito. Ci spinge ad evitare il tipo di orgoglio che non riesce a pregare che “la volontà di Dio sia fatta in noi” e così deforma la volontà di Dio per il mondo. Egli ci ricorda, mentre continuiamo a rifare il mondo, l'avvertimento della Scrittura: “C’è una via che sembra diritta per l’uomo, ma alla fine conduce su sentieri di morte” (Pr 16,25).

La lezione di questo primo grado di umiltà è che la vita ben vissuta, la vita vissuta al massimo delle nostre capacità, è la vita che cerca la volontà di Dio per il mondo.

Il primo gradino dell'umiltà, poi, ci pone il problema di saper distinguere l'orgoglio dall'arroganza, l'umiltà dall'umiliazione. L'umiltà, ironicamente, consiste nel comprendere che la semplicità spirituale non riguarda lo svilimento del sé. Né si tratta dell'esaltazione del sé. Quindi, cos'è?

 

Quali sono le implicazioni spirituali di questo gradino dell’umiltà?

C'era una volta, dicono gli antichi, un discepolo che viaggiò in lungo e in largo per trovare un maestro spirituale che potesse condurlo alla pienezza della vita spirituale.

"Cosa cerchi?" gli chiese il Santo.

"Maestro", rispose il giovane ricercatore, "come potrò mai essere libero?"

Il Maestro Zen rispose: "Devi chiederti chi è che ti ha reso schiavo".

Il ricercatore siamo noi. Il maestro spirituale mancante in questo caso è l'umiltà necessaria per far riposare le nostre vite nella consapevolezza che solo Dio è Dio. Non noi. E non vi è sicuramente null'altro nella vita a cui abbiamo permesso di diventare il nostro dio piuttosto che Dio.

La tendenza a costruirci santuari, tuttavia, diventa così facilmente la norma della nostra esistenza. La nostra professione, il nostro denaro, il nostro status sociale, il nostro bisogno di riconoscimento pubblico iniziano a controllarci. Da qualche parte lungo la linea iniziamo a sprofondare nella routine, nel sistema, in noi stessi. Ci sistemiamo con il lavoro, la famiglia, il percorso professionale. E diventiamo eccessivamente ciechi a ciò che ci governa internamente, o almeno ignari del nostro bisogno impellente di un centro spirituale al di là di noi stessi. Sì, è una fase naturale della vita questa esaltazione dell'ego. È parte integrante del processo di sviluppo umano, infatti. L'unico problema è che se e quando non ne usciamo, come dovremmo, ci rende privi di una vita spirituale adulta. Diventiamo, invece, infanti spirituali, adolescenti sospesi a metà tra la maturità e l'autoindulgenza.

Di conseguenza, attraversiamo la vita trascinandoci dietro le nostre catene, cercando di essere ciò che non siamo, cercando di fare ciò che non può essere fatto, cercando di farci strada a gomitate verso la cima infinita di qualcosa. "So di più io sull'ISIS che i generali", ha detto al mondo Donald Trump. È stata una dimostrazione di falsa superiorità che ha fatto dubitare della sua candidatura alla presidenza degli Stati Uniti. Ma tale esaltazione dell'io ci tenta tutti. Frantuma la stessa pace interiore che cerchiamo e non abbiamo la più pallida idea del perché. Solo quando siamo pronti ad ammettere che le nostre catene di egocentrismo ed alterigia sono in gran parte di nostra costruzione siamo pronti a crescere.

Ma le catene che ci legano hanno molte facce al di là della pura arroganza. Ci incateniamo alla ricchezza che impoverisce il nostro spirito. Cediamo il passo al senso di superiorità che ci separa dal resto della condizione umana. E, cosa più sottile di tutte, ci manca la coscienza della presenza di Dio nella vita. È allora che facciamo di noi stessi la divinità interiore. E quel messaggio genera in noi la malattia del privilegio.

Ci leghiamo alla parte di noi stessi che ci sussurra all'orecchio che possiamo semplicemente prendere ciò che non abbiamo di diritto. Ad esempio, possiamo prendere le terre dei poveri per le colture da reddito. Possiamo rubare il giusto salario alle donne impunemente. Possiamo distruggere chiunque e qualsiasi cosa che etichettiamo inferiore a noi stessi a causa del colore, del sesso, della razza o della differenza fisica, per esempio. Possiamo trasformare le bambine in schiave del sesso e sottoporre gli animali alla tortura in nome della ricerca. Peggio ancora, possiamo essere indifferenti a tutte queste cose perché siamo la nostra unica vera agenda. Possiamo fare di noi stessi i nostri dei, per i quali richiediamo lo stupore del resto del nostro mondo.

Catene come queste sono forgiate nella paura o nel risentimento o nell'egoismo patologico, forse. Ma qualunque cosa siano, una cosa è certa: le cose che infiammano la nostra meschinità, la nostra rabbia, le nostre frustrazioni con i nostri mondi ci tengono prigionieri di noi stessi. Ed è proprio qui che entra in gioco l'umiltà. È nel primo gradino dell'umiltà - questa chiamata alla coscienza della presenza di Dio nella vita - che possiamo deporre il fardello dell'eterna autoesaltazione, del potere illimitato, delle richieste incessanti, di appetiti senza sosta.

Dio, mi insegna allora l'umiltà, è la parte della mia vita che è veramente reale. È solo la presenza di Dio che continuerà per sempre, che non mi abbandonerà indipendentemente da quanto spesso cado e fallisco. Solo quando riconosco di poter rinunciare ai miei tentativi, al mio autoproclamato diritto sovrano, di plasmare il mondo a mia soddisfazione, di strappare il mondo ai miei disegni, di soddisfare i miei desideri illimitati, posso liberarmi da me stessa. Posso donarmi a qualcosa di più grande di me. Posso sopportare, come disse Shakespeare, "i colpi di fionda e i dardi della fortuna insensata" senza crollare [1].

E posso sopravvivere. Come? Perché Dio è con noi, ci sostiene, ci sprona, essendo la forza che ora ci manca. È ciò per cui ci genuflettiamo, per cui siamo in venerazione.

Questo, quindi, è il momento ultimo della liberazione. Si presenta con un lampo di consapevolezza. Questa è l'unione con Dio. Sapendo – nei nostri cuori ora così come nelle nostre menti – che Dio è veramente “Emmanuele”. Questo è ciò che ci permette di andare nei luoghi oscuri della vita cantando Alleluia. Nient'altro.

Ora siamo pronti ad assumerci dei rischi che altrimenti eviteremmo sicuramente. Il fallimento non è così spaventoso ora, il successo non è così accattivante. L'umiltà ci dice che la vita non riguarda solo noi. Ciò che conta ora è semplicemente essere in sintonia con la volontà di Dio per me, per il mondo. La resa comporta l'effetto tossico di permettere alla mia volontà di oscurare il bene che è più grande di quanto io possa vedere.

La cosa più importante di tutte, forse, è che tutte le immagini infantili di Dio - Dio il Mago, Dio il Babbo Natale, Dio il Giudice adirato, Dio il Burattinaio - scompaiono. Ora sappiamo che il Dio della creazione ha condiviso il potere con noi e rimane con noi per aiutarci a guardare attraverso la vita. Il nostro ruolo è fare la nostra parte, fare del nostro meglio, fidarci del percorso. La nostra parte è diventare tutto ciò che dovremmo essere e quindi rendere il mondo un posto migliore perché siamo vissuti qui.

Il primo passo verso la liberazione dal sé è il riconoscimento che Dio è con noi - primo, ultimo e sempre - anche nei momenti di avversità. Dio, “nostro rifugio e nostra forza”, abbiamo capito, non può essere “meritato”, non può essere guadagnato, non ha bisogno di essere vinto in una sorta di gara ecclesiale. No, questo Dio è già con noi. Ma quando lo comprendiamo veramente, totalmente, sinceramente, siamo liberi di vivere la vita senza il tipo di paura che ci rende impotenti o malati di orgoglio. Ora possiamo vivere la vita con una tranquilla comprensione, facendo ciò che deve essere fatto, affidando la fine a Dio. Non c'è niente di cui preoccuparsi, niente da temere, una volta che decidiamo di lasciare che Dio sia Dio nella mia vita.

Il primo passo dell'umiltà ci libera dal demone della teologia del merito, che ci segna per sempre come falliti. Ci libera per crescere attraverso la vita sempre più vicini a Dio. Ci ricorda sempre che Dio non è un obiettivo da raggiungere.

Dio è una presenza da riconoscere. Né Dio è qualcosa che accade alla fine della vita. Al contrario, Dio è in ogni suo piccolo orifizio. Questo gradino dell’umiltà inizia dal centro, dal nucleo, dal fine desiderato della vita spirituale. Inizia con la contemplazione e la coscienza del Mistero che è l'unica ragione, l'unica possibilità di sviluppare per sempre una vita veramente spirituale.

 


[1] Ndt: Amleto - Atto III - Tragedia di William Shakespeare: "Essere o non essere, è questo che mi chiedo: se è più grande l’animo che sopporta i colpi di fionda e i dardi della fortuna insensata, o quello che si arma contro un mare di guai e opponendosi li annienta".

 


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16 giugno 2023                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net