Capitolo VI - L'amore del silenzio: "Facciamo come dice il profeta: "Ho detto: Custodirò le mie vie per non peccare con la lingua; ho posto un freno sulla mia bocca, non ho parlato, mi sono umiliato e ho taciuto anche su cose buone". Se con queste parole egli dimostra che per amore del silenzio bisogna rinunciare anche ai discorsi buoni, quanto più è necessario troncare quelli sconvenienti in vista della pena riserbata al peccato!... Se infatti parlare e insegnare é compito del maestro, il dovere del discepolo è di tacere e ascoltare."
Capitolo LII - La chiesa del monastero: "La chiesa sia quello che dice il suo nome, quindi in essa non si faccia né si riponga altro. Alla fine dell'Ufficio divino escano tutti in perfetto silenzio e con grande rispetto per Dio, in modo che, se un monaco volesse rimanere a pregare privatamente, non sia impedito dall'indiscrezione altrui."
Capitolo XIX - La partecipazione interiore all'Ufficio divino: "Sappiamo per fede che Dio è presente dappertutto e che "gli occhi del Signore guardano in ogni luogo i buoni e i cattivi", ma dobbiamo crederlo con assoluta certezza e senza la minima esitazione, quando prendiamo parte all'Ufficio divino. ...Consideriamo dunque come bisogna comportarsi alla presenza di Dio e dei suoi Angeli e partecipiamo alla salmodia in modo tale che l'intima disposizione dell'animo si armonizzi con la nostra voce."
IL SILENZIO
Pierfrancesco Stagi,
Estratto da “Benedetto da Norcia.
L’esperienza di Dio”, ed. Borla, Roma 2014
Il capitolo De taciturnitate (VI, 1-8) è tra i più attuali della
Regula, non solo in chiave monastica ma più in generale per i cristiani
odierni, che con difficoltà riescono a percepire il significato del silenzio per
la nascita dell’esperienza religiosa (Wathe 1973 e Whaten 1982, 195-211; Merton
1984). Il silenzio e l’esperienza religiosa sono profondamente legati nella
tradizione cristiana antica, e Benedetto lo conferma, smentendo l’opinione
diffusa che essi trovino la loro migliore espressione nelle tradizioni religiose
orientali. Nella dottrina ascetica di Benedetto il silenzio ha il compito di
precedere e preparare la pratica dell’umiltà. Senza aver fatto esperienza del
silenzio in sé stessi e nei rapporti con gli altri è difficile interiorizzare
quell’umiltà che è decisiva affinché si realizzi un’autentica esperienza
religiosa. Oltre al capitolo (VI, 1-8), De taciturnitate, il tema del
silenzio ritorna costantemente in tutta la sua opera (XXXVIII, 5; XLII, 1 e 9;
XLIII, 9; XLVIII, 5 e 18; LIII, 23-24, LXVII, 5). Anche nella Regula
Magistri il silenzio aveva una posizione privilegiata prima della
discussioni sull’umiltà (VIII, 1-37 - IX, 1-51), anche se il Maestro si dilunga
in una lunga casistica di silenzi che manca nella Regula Benedicti.
Benedetto è interessato ancora una volta ai principi che regolano il silenzio
nel monastero, piuttosto che ai casi concreti che sono lasciati alla sensibilità
personale di ogni monaco. Bisogna, anzitutto, comprendere che cosa significhi il termine
di taciturnitas che Benedetto usa, perché diverge in maniera abbastanza
decisa dall’italiano silenzio. “La taciturnitas, osserva Lentini, del
titolo e del corpo del capitolo, non è la taciturnità, la quale può importare
anche quell’aria di musoneria che diviene così pesante e fastidiosa nei
necessari contatti con il prossimo, ma è piuttosto il volontario e virtuoso
amore del silenzio, frutto d’umiltà e di raccoglimento interiore, o anche
senz’altro il silenzio” (1980, 124). Il silenzio, o amore del silenzio, non è
perciò il rimanere silenziosi, evitando di entrare in contatto con il prossimo,
ma al contrario è il desiderio di raccoglimento, di una meditazione silenziosa
tra sé e sé, che non può che essere il presupposto di un fruttuoso scambio di
esperienze. Ciò che Benedetto consiglia non è un silenzio “vuoto”, risultato di
un’obbedienza pesante e cieca, ma un silenzio “pieno” di esperienze e
riflessioni. Il rimanere in silenzio non significa condannare (e condannarsi) a
un’assenza di vita interiore, di pensiero, anzi proprio nel silenzio cresce per
Benedetto la vita interiore. Il silenzio non proibisce soltanto i discorsi
“cattivi”, perché, precisa Benedetto, non è questione della qualità dei discorsi
che si fanno, se spirituali o no. Il silenzio ha una diversa funzione, ascetica,
che è indipendente dalla bontà dei discorsi, “anche se si tratta di discorsi
buoni, santi e edificanti, per mantenere la gravità del silenzio ai discepoli
perfetti si conceda raramente la facoltà di parlare” (VI, 3). Il silenzio deve
essere amato per sé stesso come una modalità con cui relazionarsi a sé e agli
altri. Il silenzio interiore ha come scopo di creare le condizioni migliori per
l’ascolto dell’unica Parola, la parola di Dio. “Riconoscere nel silenzio,
osserva De Vogüé, un segno di umiltà, è inserirlo nel grande sforzo di
purificazione interiore che conduce alla carità. Esigere dal monaco il silenzio
perché è un discepolo, significa fare di esso un atteggiamento religioso, quello
dell’uomo che rimane nell’ascolto di Dio” (1998, 167). Dalla Parola di Dio è
aperto e chiuso il silenzio che Benedetto richiede ai suoi monaci. Esso è aperto
dalla Parola di Dio, perché il silenzio nasce in conseguenza dell’accoglimento
della parola di Dio. In questo senso, si differenzia dal mutismo o dalla volontà
di non parlare, perché deriva dalla scelta originaria a favore della Parola di
Dio e non è la conseguenza di una preferenza personale e caratteriale. Chi
sceglie di non parlare lo fa per poter meglio ascoltare la Parola che Dio gli ha
rivolto, per non essere confuso dal brusio di sottofondo di colore che parlano.
Perciò, oltre a essere aperto alla Parola di Dio il silenzio è chiuso alle
parole del mondo, alle chiacchiere di sottofondo. Nella sua chiusura il silenzio
è pieno di parole, di un ascolto che si confronta e risponde all’appello di Dio.
Nel silenzio il cristiano instaura un confronto radicale con Dio e la sua
Parola, la ascolta e cerca di risponderle con la sua vita: un processo di
ascolto e risposta che accada apparentemente nel nulla, ma che sia “pieno di
Parole” all’interno di un fitto e profondo dialogo dell’anima con Dio. Dalla
pienezza interiore del silenzio provengono secondo Benedetto le due forme del
fare silenzio. Il fare silenzio, innanzitutto, è un serbare il silenzio per sé
(VI, 1-5). In tal senso esso ha un valore in sé, nella predisposizione che crea
tra l’anima e se stessa e permette l’ascolto della parola che viene dall’Altro.
Il silenzio in sé è rivolto al totalmente Altro. L’alterità di Dio spinge
l’anima a chiudersi in se stessa e a iniziare un dialogo in silenzio, perché
nell’atto contemplativo le parole perdono il proprio carattere i riferimento
(Vor-stellung), per assumere quello di presentazione (Dar-stellung). Nel
silenzio in sé la parola non denota più qualcosa, non si riferisce più a
qualcuno, ma presenta, mostra sé stessa, affinché possa essere adorato ciò che
vi si presenta. Eppure, il silenzio in sé non può prescindere dal silenzio verso
l’altro, il prossimo (VI, 6- 7). Dopo che è stata fatta l’esperienza del
silenzio in sé, in cui la parola di Dio chiude le labbra dell’anima, lo spirito
si trova a dover mantenere lo stesso silenzio anche di fronte alle parole del
maestro, dell’abate. Certamente, il silenzio “obbediente” alle parole alle
parole dell’abate deve prima aver fatto esperienza del silenzio di chi è a
contatto con le parole di Dio. Un silenzio, che non passasse prima per
l’esperienza del dialogo con Dio, rischierebbe di rimanere una costrizione verso
sé stesso, un’umiliazione personale. Il discepolo sa fare silenzio davanti
all’autorità dell’abate, perché prima ha imparato a fare silenzio davanti a Dio.
Il maestro divino l’ha educato con l’esperienza dell’ascolto della sua Parola a
rispettare le parole umane del maestro umano. Senza questa esperienza
preliminare e fondamentale le parole del superiore sarebbero soltanto umane, il
cui ascolto confonde più di quanto non insegna. E Benedetto mostra sempre una
grande diffidenza verso le parole soltanto umane, anche quando danno
l’impressione di essere “buoni discorsi” (VI, 2), perché se non sono fondati
sull’esperienza della parola di Dio, rimangono soltanto discorsi, né più buoni
né migliori di tanti altri discorsi umani. Bisogna, tuttavia, mostrare il
carattere più pratico che teorico che il silenzio ha per Benedetto rispetto al
Maestro (Pricoco 1995, 325). Per il Maestro il silenzio rimaneva ancora una
questione teorica ed era trattata all’interno di una complessa teoria
antropologica sulle facoltà superiori del pensiero, della parola e della vista
(VIII, 26-32). Il silenzio comprendeva tutte le facoltà superiori che dovevano
essere custodite con cura. Inoltre, la sua antropologia del silenzio sfociava in
un lungo elenco di prescrizioni, dove il Maestro definiva con cura quali fossero
i casi in cui il silenzio dovesse essere conservato. Benedetto non ha
l’interesse antropologico del Maestro e la sua “teoria” del silenzio è piuttosto
l’esposizione della sua pratica. Come ogni altra prescrizione
della Regula Benedicti, il silenzio non ha nulla di teorico, ma descrive una
“pratica”; in questo senso non è neppure un’etica del silenzio, se per etica si
intende una dottrina del comportamento pratico. Benedetto è interessato a che il
silenzio diventi l’abito del monaco (in questo senso ethos), la sua seconda
pelle, la sua “pratica” quotidiana, e non ad elaborare una teoria del silenzio
monastico. L’amore per il silenzio ci permette di dare uno sguardo nella
“pratica” quotidiana della vita cristiana, che nel silenzio tiene preziosamente
racchiuso un dialogo intimo, un’esperienza costante di Dio, che è ciò che
permette al momento opportuno anche di interrompere questo silenzio per
condividere con l’interlocutore la “fonte” viva della Parola fatta carne
divenuta esperienza.
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31 maggio 2024 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net