Prologo: Perciò
il Signore stesso dichiara nel Vangelo:
"Chi ascolta da me queste parole e le mette in pratica, sarà simile a un uomo
saggio il quale edificò la sua casa sulla roccia... Dopo aver concluso con
queste parole il Signore attende che, giorno per giorno, rispondiamo con i fatti
alle sue sante esortazioni... Bisogna dunque
istituire una scuola del servizio del Signore
nella quale ci auguriamo di non prescrivere nulla di duro o di gravoso...
Capitolo XXXV -
Il servizio della cucina:
I fratelli si servano a vicenda
e nessuno sia dispensato dal servizio della cucina, se non per malattia o per un
impegno di maggiore importanza, perché così si acquista un merito più grande e
si accresce la carità.
Capitolo XXXVI - I fratelli infermi:
L'assistenza agli infermi deve avere la precedenza e la superiorità su tutto,
in modo che essi siano serviti veramente come
Cristo in persona, il quale ha detto di sé:
"Sono stato malato e mi avete visitato", e: "Quello che avete fatto a uno di
questi piccoli, lo avete fatto a me".
Capitolo LIII -
L'accoglienza degli ospiti:
Tutti gli ospiti che giungono in monastero siano
ricevuti come Cristo, poiché un giorno egli
dirà: "Sono stato ospite e mi avete accolto"... L'abate e tutta la comunità
lavino i piedi a ciascuno degli ospiti e al
termine di questo fraterno servizio dicano il
versetto: "Abbiamo ricevuto la tua misericordia, o Dio, nel mezzo del tuo
Tempio".
Capitolo LXXII - Il buon zelo dei monaci:
Come c'è un cattivo zelo, pieno di amarezza, che separa da Dio e porta
all'inferno, così ce n'è uno buono, che allontana dal peccato e conduce a Dio e
alla vita eterna. Ed è proprio in quest'ultimo
che i monaci devono esercitarsi con la più ardente carità
IL SERVIZIO AI FRATELLI COME SEGNO
DI UNA UMANITÀ NUOVA
Alessia Buriani
Estratto da “Una Regola obbediente al
Vangelo”, Cedoc SFR, Ferrara 2009
[1]
Nel Prologo della Regola San Benedetto presenta il monastero come una scuola di
servizio di Dio: "Bisogna dunque che
istituiamo una scuola di servizio del Signore" (Prol. 45). Mentre nella
tradizione egiziana il cenobio era considerato come "scuola" in quanto preparava
all'eremo, e Cassiano, in Conlationes
3,1,2 parla in questo senso di "scuola del cenobio", nelle Regole del
Maestro e di San Benedetto la vita cenobitica viene considerata scuola in quanto
insegna a servire e seguire Cristo in
una vita comunitaria organizzata.
In questa scuola, presentata anche come un'officina dell'arte spirituale, in cui
non si imparano i mestieri, ma ci si esercita nella ricerca Dio, Benedetto
dispone gli "strumenti delle buone opere",
che sono gli attrezzi dell'arte spirituale. La parola "arte" è metafora diffusa
nella tradizione: essa consiste nel lavoro richiesto per la crescita cristiana
attraverso la pratica delle buone azioni, le quali sono strumenti per il
raggiungimento della santità. Si tratta di massime in gran parte prese dalla
Sacra Scrittura, altre dai Padri più antichi della Chiesa o da scrittori
monastici anteriori al Santo; sono sentenze, aforismi, che ricordano il Decalogo
e indicano i difetti da evitare, i vizi da correggere, le virtù da praticare per
il raggiungimento del premio eterno. Sono in tutto settantatré e sono
elencati nel capitolo 4 della Regola,
il quale inizia con i due comandamenti dell'amore di Dio e del prossimo. Ciò
pone l'"arte" in sintonia sia col Vangelo, sia con l'Antico Testamento.
La maggior parte dei precetti elencati riguarda la carità fraterna. Vengono dati
insegnamenti di morale naturale fondamentali per ogni battezzato e quindi non
specifici solo per i monaci. In questo senso il capitolo si pone nella
prospettiva della continuità tra vita del battezzato e vita del monaco. Ma vi
sono altre due ragioni. Prima di tutto perché ai tempi di San Benedetto la
civiltà cristiana non si era ancora diffusa in ogni luogo e la mentalità di gran
parte della popolazione era permeata ancora di residui del paganesimo e
dell'invasione barbarica. "Si trovano nei monasteri nobili romani che avevano
vissuto nei bassifondi della decadenza, e i Goti, appena dirozzati dalla loro
brutalità; per codesti discepoli bisognava promulgare di nuovo i precetti della
legge naturale e le più ovvie verità del Vangelo. Ma un'altra ragione più
profonda guidava il santo Legislatore: stabilire il carattere di unità cristiana
proprio della sua spiritualità; il
monaco deve prima osservare la legge naturale, quindi praticare integralmente
quella di Cristo; la perfezione religiosa si associa alla virtù naturale; e
il santo Legislatore intreccia precetti e consigli.
L'ideale evangelico non è mai stato
intraveduto con unità maggiore"
[2].
La carità percorre l'intera Regola e alla carità è finalizzata l'ascesi. Essa è
l'anima dell'esercizio dell'autorità, delle correzioni, dell'obbedienza, del
servizio reciproco e dei rapporti umani. L'esercizio della carità è richiesto,
in particolare, a chi svolge incarichi speciali: dal cellerario, al portinaio, a
chi si prende cura dei malati. Questa virtù anima l'accoglienza degli ospiti e
dei poveri: "Dare ristoro ai poveri; vestire chi è nudo; visitare chi è malato"
(RB 4,14- 16). Questi versetti rimandano a Mt 25,35-40 che, in prospettiva del
giudizio finale, presenta l'aiuto ai poveri come aiuto dato a Cristo stesso ed è
proprio in questa visione di fede che San Benedetto collocherà i vari tipi di
servizio prestati in monastero.
Il capitolo 36 dedicato ai fratelli malati raccomanda di non far mancare loro
nessun soccorso, perché la fede vede il Cristo nei suoi membri che soffrono; il
capitolo 53 comanda che gli ospiti, a qualunque ora arrivino, siano ricevuti
premurosamente e con gioia, perché in essi si riceve il Cristo.
Nel capitolo 66 "i portinai del monastero" San Benedetto traccia il profilo
umano del portinaio, chiedendo che sia saggio e vigilante, che sia in grado di
prestare ascolto e rispondere a quanti sopraggiungono, mostrando prontezza e
comprensione e fervore di carità. In questi tratti si ritrova il clima
spirituale proprio dell'accoglienza degli ospiti del capitolo 53 e quello della
cura dei malati del capitolo 36, dovuto al senso della presenza di Cristo nella
persona che sta dinanzi. Non a caso il
capitolo 72 "Dello zelo buono che devono avere i monaci" chiude l'appendice
(c. 67-72) aggiunta alla prima stesura della Regola e si ritiene sia l'ultimo
composto da Benedetto. Egli rivolge ai suoi monaci una sorta di testamento
spirituale con cui raccomanda loro di coltivare "incessantemente con il più
fervente amore" lo "zelo buono", il quale è carità.
Il santo Legislatore riepiloga qui nella
carità l'intera sua Regola, già tutta permeata di questo tema.
I rapporti, ancora regolati nel capitolo 71 dall'ordine di ingresso nel
monastero, nel 72 diventano di libera reciprocità poiché il fervore dello "zelo
buono" attua la piena fraternità. Giungono così a compimento quel dinamismo
dello Spirito che Benedetto aveva annunciato in Prol. 49, e quell'unificazione
profonda di libertà e carità, a cui lui stesso era giunto nel suo cammino
spirituale.
Vi sono delle massime che ricordano gli strumenti delle buone opere, tutte
relative alla vita comunitaria dei monaci, tutte incentrate sullo zelo che anima
reciprocamente le relazioni fraterne nel rispetto (v. 4), nella pazienza (v. 5),
nell'obbedienza (v. 6), nell'abnegazione (v. 7).
Nuova è l'abnegazione nel rapporto con il prossimo, come responsabilità
personale di tutti. E in questo
Benedetto riprende la Conlatio 16
di Cassiano, che presenta l'amicizia
come un reciproco obbedire, in cui cedere sempre all'altro indipendentemente
da ogni valutazione
[3].
Lo zelo fraterno è il coronamento di una Regola che riflette in sé il pieno
spirito del Vangelo perché riproduce nell'anima quei sentimenti di riverenza e
amore verso il Padre, di carità verso i fratelli, d'umiltà e di obbedienza che
ispiravano Cristo Gesù in terra. Il legame profondo che vi è tra zelo e
obbedienza consiste proprio nello sforzarsi di fare la volontà del Padre, amando
Cristo nei suoi fratelli: "Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni
gli altri, come io vi ho amati" (Gv 15,12). Lo zelo buono conduce a Dio, apre
alla comunione di amore con Lui, crea unità di amore nella comunità, la quale si
apre al dinamismo dello Spirito Santo, che la rinnova e la fa crescere nel
timore di Dio e nella totale dedizione a Cristo. E il Cristo diventa Colui che
farà giungere la comunità intera alla vita eterna.
La prospettiva escatologica intesa come un raggiungimento della vita celeste
dopo la morte, si intreccia con la visione antropologica di un'umanità nuova,
rinnovata dallo Spirito Santo, costituita da coloro che si sentono figli di Dio
e che vanno fino in fondo al loro battesimo, lasciandosi leggere da Dio e
collaborando con Lui come strumento nelle Sue mani, nella consapevolezza che
Egli è il vero regista della storia, che crea personaggi e situazioni, chiama
gli uomini alla vita e dà loro un nome e una missione.
Non a caso la vocazione monastica è riassunta globalmente nella
ricerca di Dio, i cui segni sono tre
aspetti di un unico zelo: lo zelo per
l'Opera di Dio, con cui il cuore si apre alla preghiera;
zelo per l'obbedienza con cui si
compie il distacco dalla volontà propria e l'adesione alla volontà divina,
zelo per l'accettazione di ciò che può
essere sentito come umiliante, con cui si entra nell'abbassamento in umiltà
con Cristo. In questo triplice zelo in
cui si unifica la vita del monaco si manifesta oggettivamente la ricerca di Dio:
con questa il monaco risponde all'invito che risuona all'inizio della Regola
(Prol. 3), invito rivolto universalmente all'uomo peccatore a compiere il
cammino di ritorno al Padre, dal quale il peccato l'aveva separato. In tal modo
la vocazione monastica si configura
quale immagine simbolica dell'universale vocazione religiosa dell'uomo creatura
di Dio e il cammino monastico di ricerca risulta inserito nella storia
universale dell'umanità. E qui sta il messaggio sempre attuale del
monachesimo.
La teologia cristiana considera il
monaco "il tipo dell'uomo nuovo", quale appare agli occhi della fede il credente
dopo la sua partecipazione al mistero pasquale. Egli aspira ad essere sempre
più pienamente l'immagine di Cristo, morto e risorto, che sta nel mondo, ma non
è del mondo, perché è come morto per le cose transitorie e per le preoccupazioni
terrene. È veramente cittadino della patria celeste, che apparirà con tutto il
suo splendore alla fine dei tempi, ma nonostante questo contribuisce anche al
benessere e all'evoluzione della città terrena, in quanto egli è sempre
orientato verso la vita eterna, intesa
non solo come prospettiva di beatitudine in Cristo dopo la morte, ma anche come
realizzazione del regno di Dio qui in terra.
Vita eterna, dunque, come qualità della
vita terrena nel presente, in cui l'uomo nel suo quotidiano si apre alla
comunione di amore con il Padre e il Figlio nella grazia dello Spirito Santo e
ritrova veramente se stesso, la sua vocazione, la sua
identità di figlio di Dio
nell'instaurazione di rapporti veri e profondi con i fratelli.
"Da tali presupposti si spiegano gli
appellativi dati alla vita monastica dalla teologia patristica e medievale.
Essa è una vita angelica, perché
vive un'esistenza celeste nella ricerca di Dio, nella sua lode incessante e nel
distacco dalla terra. È una vita
profetica, perché esprime un messaggio di penitenza e di perdono, di attesa
e di vigilanza; ricorda ai cristiani distratti che si è in cammino verso la vera
patria. È una vita evangelica,
perché l'esempio e la dottrina del Maestro ne sono l'unica norma. È una
vita apostolica, perché in essa si
lascia tutto per star sempre vicino a Gesù e seguirlo ovunque nella rinuncia più
completa e nell'amore più devoto. È vita
di testimonianza (o di martirio) poiché si proclama dinanzi agli uomini la
veracità del Vangelo e la possibilità della sua attuazione con l'aiuto
dell'Onnipotente ... La vita monastica
perciò, pur essendo un carisma particolare, è un bene comune per tutta la
cristianità. E questo sia sul piano delle realtà soprannaturali, a cagione
del contributo proprio dato in tante forme al mistico corpo, e sia sul piano
sociale a causa della sua caratteristica missione esemplare. Con la sola sua
esistenza il monaco ricorda al fedele le
esigenze fondamentali di ogni vocazione cristiana, come l'appartenenza al
secolo futuro e la transitorietà di quello presente, la necessità della
imitazione di Cristo, del distacco e della mortificazione, l'impegno del
colloquio amoroso col Padre, la brama dell'avvento del Regno e del trionfo
finale di Dio"
[4].
"È in vista del divino incontro che Iddio ha chiamato il monaco alla solitudine,
perché lungi dagli uomini e dalle tormentate cose del mondo, nella preghiera e
nella penitenza, lo sguardo dell'animo si affinasse e mentre il mondo si
allontana dagli occhi, dalla mente, dai ricordi e dal cuore, Iddio invada
quest'anima che non vuole altri che lui... La solitudine è l'attuazione di un
distacco... Il monaco è l'uomo distaccato, spogliato, nudo, la cui dimora è Dio
stesso, dove egli si è nascosto con Gesù Cristo. Egli vede che il destino della
grazia illumina la sua solitudine, solamente se fino all'ultimo respiro ha la
volontà di non domandare niente alla terra..."
[5].
CONCLUSIONI
Il merito di San Benedetto è stato quello di aver composto un testo che si
presenta come una sorta di "guida pratica" del Vangelo,
in cui confluiscono le voci della Sacra Scrittura e della Tradizione, del
monachesimo e della vita spirituale della Chiesa.
Benedetto non ha voluto mettere in rilievo la sua voce solo personale. Al
contrario, ha voluto dare voce a Cristo, proponendolo all'uomo come via.
La sua grandezza è stata quella di avere avuto prospettive profetiche per il
futuro, perché Cristo è il futuro ("Io sono l'Alfa e l'Omega, il Primo e
l'Ultimo, il principio e la fine")
[6]. Come scrive De Vogüé: "Benedetto
trascorrerà la sua vita fuori del tempo politico, lontano dalla storia. Il suo
carisma non era quello del profeta che annuncia giorno per giorno il disegno
divino, ma dell'educatore che prepara l'avvenire.
È vivendo e scrivendo la sua Regola che
quest'uomo di Dio lavorerà per i suoi fratelli del futuro sia barbari che
romani, non solo sul posto, ma ben oltre le frontiere dell'Italia"
[7]. Egli aveva in mente un'umanità in senso
cristologico, libera da tutto ciò che il mondo ritiene importante. La sua
missione è stata quella di assumere, approfondire e illuminare con splendore di
eternità le cose transitorie.
Uomo di pace e di equilibrio spirituale, il monaco è segno di questa dimensione
escatologica, in una società che sta parlando un altro linguaggio.
Quello del monachesimo è un invito rivolto all'uomo di tutti i tempi a lasciarsi
leggere da Dio e non dal mondo.
È una testimonianza del
primato di Cristo, che indica la
direzione verso cui deve orientarsi la persona di fede.
Come Cristo, il monaco è colui che è obbediente, ma anche colui che serve. E
poiché il Cristo Servo è anche il Cristo Risorto, allora anche il monaco ha la
speranza della vita eterna dopo la morte e vive già sin da ora, qui in terra,
una vita da figlio di Dio.
Una vita fatta di lavoro e missione, che si fondano sulla contemplazione. La
vita piena e realizzata di chi è aperto all'amore e alla comunione con Cristo e
con la Chiesa
[8].
Questo messaggio viene accolto da tutti coloro che vogliono avere il "cuore
docile", ossia che desiderano fare la volontà di Dio, così come Gesù per tutta
la sua vita fece la volontà del Padre.
Coloro che ascoltano la Parola e la mettono in pratica sono i veri figli del
Regno, quelli che sono disposti a tutto, anche al sacrificio di sé fino a dare
la vita, pur di testimoniare il Vangelo.
[1]
In questo 9° Quaderno del Cedoc SFR (Centro
di Documentazione Santa Francesca Romana, Ferrara) si presenta la
tesi di diploma di Alessia Buriani:
Gli aspetti dell’obbedienza e del
servizio nella Regola di san Benedetto, discussa presso l’Istituto
di scienze Religiose “Beato Giovanni Tavelli da Tossignano” della
diocesi di Ferrara-Comacchio nell’anno accademico 2008-2009
[2]
D. C. MARMION, Cristo ideale del
monaco, 125.
[3]
Vedi, in particolare, CASSIANO,
Conl. 16,16,1, dove è richiesta una pronta riparazione "anche per un
contrasto leggero, nato da cosa insignificante".
[4]
D. G. TURBESSI: Regole monastiche
antiche, 36-38.
[5]
M. ZAMBON, Memorie, 123-124.
[6]
Ap 22,13.
[7]
A. DE VOGÜÉ,
San Benedetto Uomo di Dio,
43-44.
[8]
Cfr. Concilio Vaticano II, LG n. 44.
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1 febbraio 2022 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net