Regola di S. Benedetto

Prologo: 4 Prima di tutto chiedi a Dio con costante e intensa preghiera di portare a termine quanto di buono ti proponi di compiere, 5 affinché, dopo averci misericordiosamente accolto tra i suoi figli, egli non debba un giorno adirarsi per la nostra indegna condotta… 19 Fratelli carissimi, che può esserci di più dolce per noi di questa voce del Signore che ci chiama? 20 Guardate come nella sua misericordiosa bontà ci indica la via della vita!

 

Capitolo IV - Gli strumenti delle buone opere: ... nell'eventualità di un contrasto con un fratello, stabilire la pace prima del tramonto del sole. E non disperare mai della misericordia di Dio.

 

Capitolo VII - L'umiltà: Il quinto grado dell'umiltà consiste nel manifestare con un'umile confessione al proprio abate tutti i cattivi pensieri che sorgono nell'animo o le colpe commesse in segreto, secondo l'esortazione della Scrittura, che dice: "Manifesta al Signore la tua via e spera in lui". E anche: "Aprite l'animo vostro al Signore, perché è buono ed eterna è la sua misericordia".

 

Capitolo XXXVII - I vecchi e i ragazzi: Benché la natura umana sia incline ad avere misericordia per queste due età, dei vecchi, cioè, e dei ragazzi, è bene che vi provveda anche l’autorità della Regola.

 

Capitolo LIII - L'accoglienza degli ospiti: Tutti gli ospiti che giungono in monastero siano ricevuti come Cristo, poiché un giorno egli dirà: "Sono stato ospite e mi avete accolto".... L'abate versi personalmente l'acqua sulle mani degli ospiti per la consueta lavanda; lui stesso, poi, e tutta la comunità lavino i piedi a ciascuno degli ospiti e al termine di questo fraterno servizio dicano il versetto: "Abbiamo ricevuto la tua misericordia, o Dio, nel mezzo del tuo Tempio".

 

Capitolo LXIV - L'elezione dell'abate: Il nuovo eletto, poi, pensi sempre al carico che si è addossato e a chi dovrà rendere conto del suo governo e sia consapevole che il suo dovere è di aiutare, piuttosto che di comandare. Bisogna quindi che sia esperto nella legge di Dio per possedere la conoscenza e la materia da cui trarre "cose nuove e antiche", intemerato, sobrio, misericordioso e faccia "trionfare la misericordia sulla giustizia", in modo da meritare un giorno lo stesso trattamento per sé.

 


 

 

Sappiti amato

Paolo Curtaz

Estratto da “Tu sei amato“ - Edizioni Piemme 2024

 

Dalle mie parti, in montagna, i villaggi venivano edificati in un luogo protetto da frane e valanghe, nei pressi di un bosco per avere materiale da costruzione e per scaldarsi, e nei pressi di una sorgente d’acqua.

 

Al centro del villaggio si costruiva una fontana cui tutti potevano attingere: si captava l’acqua da una sorgente sotterranea o si deviava il corso di un torrente, la si convogliava canalizzandola, e questa finiva in una grande vasca in pietra. Normalmente la vasca si riempiva e, attraverso una piccola scanalatura ricavata nel bordo del lato corto, tracimava e finiva col riempire una seconda vasca e, talora, una terza, per poi finire il suo percorso nei campi sottostanti. Nella prima vasca si prendeva l’acqua per cucinare, nella seconda si portavano ad abbeverare le mucche e nella terza si faceva il bucato (guai a sbagliarsi!).

 

Ecco: il comando del Signore segue la stessa logica.

Conoscendo il Vangelo e credendo nel Signore Gesù mi sono scoperto amato.

Il mio cuore si riempie di questo amore fino a traboccare raggiungendo gli altri.

Mi scopro capace di gesti e di azioni che mai avrei creduto di poter compiere.

Cambia il mio modo di vedere me stesso e gli altri.

Tutto cambia. Come quando ci si innamora.

 

Sì: mi scopro amato. Dio mi ama.

Occhio, però.

 

Puntualizzazione cattolica

 

Perché leggo le menti.

Un dono terribile che mi trascino da anni (scheeerzo).

E so, per certo, che qualcuno fra voi, amici lettori, sta pensando:

sì, certo, Dio mi ama.

Se mi comporto bene.

 

No.

No.

No.

Dio mi ama a prescindere.

Questa è la sconcertante novità che Gesù è venuto a rivelare. Ed è morto per essere credibile, ha preferito morire pur di non rinnegare questa straordinaria verità inattesa e destabilizzante: il nostro Dio non può che amare, amare è la sua essenza, la sua sostanza, egli è sorgente inesauribile di amore perché è l’Amore, l’origine stessa dell’amore.

E tutte le esperienze di amore che facciamo, dall’innamoramento, all’amicizia, alla compassione, alla genitorialità, alla sessualità, derivano e discendono da quella sorgente.

Sono amato a prescindere. Sono amato da prima che il cielo e la terra fossero creati.

Solo che molti (non tu, gli altri), pensano che questa cosa sia una conquista: Dio mi ama quando divento amabile, se obbedisco alle sue leggi, quando faccio il bravo.

Un amore che diventa premio, conquista, merito.

Come quando i nostri genitori per darci una qualche struttura morale, da bambini, ci rimproveravano: se fai così mamma non ti vuole più bene.

 

Sbagliato.

(Almeno con Dio.)

 

Dio mi ama perché esisto. Non pone condizioni, non vincola il suo bene, non pretende, non esige, diversamente da noi (da me, almeno, sempre pronto a contabilizzare gli affetti). Dio spreca, è uno scialacquone, uno spendaccione, esagera (Lc 15).

Ama, mi ama.

Perché mi ha pensato dall’eternità (Ger 1, 5).[1]

Poi, certo: l’amante desidera la felicità piena dell’amato. Dio desidera che io fiorisca, che viva la mia libertà come opportunità, che mi orienti verso il bene, il giusto, il bello.

Ma sa (sa!) che la vita è un cammino, un progresso, che sono un essere-in-divenire.

Dio mi ama a prescindere. E se non ricambio quell’amore, se do retta alla tenebra che porto nel cuore, se mi abbandono all’oscurità, mi ama ancora di più. Come accade anche a noi genitori: diamo maggiore attenzione e amore proprio a chi, fra i nostri figli, è più ribelle. Soffriamo, certo, ma lo amiamo di più.

Così Dio con noi.

Non per niente Gesù dona questo suo nuovo comandamento nel momento in cui Giuda, il discepolo, esce nella notte. Ora Gesù potrà dimostrargli che gli vuole bene, fino all’ultimo, fino al momento dell’arresto, chiamandolo ancora amico, cioè colui che io amo (Mt 26,50).

 

Troppo facile

 

Così è troppo facile.

So che qualcuno lo sta pensando.

Se, alla fine, Dio mi ama a prescindere e tiene sempre aperta la porta del suo cuore, se scompare l’idea di una retribuzione, della conseguenza delle proprie azioni, allora tanto vale.

Giusto. In parte.

Ma capiamoci bene, per favore.

 

In effetti il rischio di vedere Dio come un inutile bonaccione esiste. Una sorta di Babbo Natale divino innocuo e bambacione, che accoglie tutti, perdona tutto, anche se non ti penti, anche se continui imperterrito a distruggere tutto, che ti dà una pacca sulla spalla e fa finta di niente... mentre noi, nella realtà talvolta dura della vita, sperimentiamo relazioni tese, difficili, abbiamo a che fare con la prevaricazione dei potenti sui deboli, aneliamo alla giustizia.

Se, alla fine, tutto è concesso, tanto alla fine vengo perdonato, a cosa mi serve credere?

Molti cristiani, in cuor loro, sono più attratti dal male e dal peccato che dal bene, ma si sforzano di essere virtuosi. In altre parole: il peccato è meglio, però mi comporto bene perché non si sa mai.

 

Sbagliato.

Nella Bibbia il peccato viene definito con una parola ebraica, hata’, che significa fallire il bersaglio. [2]

Il peccato è male perché mi fa del male, non perché l’ha ordinato Dio. Il peccato è negare la parte divina che abita in me, è rifiutarsi di vedermi come Dio mi vede, è non riconoscere che Gesù è il definitivo rivelatore del Padre, rifiutare il suo messaggio (1 Gv 3, 22 - 4, 6).

Dio che mi ha creato, sa come funziono, sa cosa mi distrugge, sa cosa mi fa fiorire, e mi fornisce le indicazioni per essere felice.

Poi se decido di essere dio di me stesso, va bene così. Dio (a malincuore) lo accetta, perché mi lascia libero.

È come se, avendo comprato una lavatrice, mi rifiutassi di leggere le istruzioni pensando: non solo quel malandrino di negoziante ha voluto 600 euro per la sua lavatrice, ma pretende anche che legga le sue istruzioni!

Liberissimo di farlo, ma non mi devo lamentare se non funziona e faccio danni!

Io fatico a sapere cosa mi costruisce e cosa mi distrugge.

Dio, tenero, mi offre le istruzioni per l’uso.

 

Quindi: Dio mi lascia straordinariamente libero, perché mi ama (veramente!), libero anche di distruggere me stesso e gli altri. Il peccato stesso porta con sé una conseguenza nefasta perché mi distrugge, mi annienta, divora la mia umanità.

E se anche sembra che i peccatori prosperino (Sal 37), in realtà il loro cuore si spegne.

 

Lo so: non è evidente e, dipendesse da noi, preferiremmo un Dio che castiga i malvagi invece di lasciar crescere la zizzania nel campo seminato a buon grano (Mt 13, 24-30). A noi, come ai servi troppo zelanti della parabola, il Maestro chiede di avere fiducia e pazienza e di curare e irrigare il campo.

 

Segno di riconoscimento

 

Bello: mi scopro amato, decido di amare così come posso.

Ecco la sintesi del cristianesimo.

Partecipo di un amore che mi sorprende. Un amore sorprendente.

Per farlo, ovviamente, devo rimanere in contatto con il Signore. Nella preghiera, nella meditazione, nella presa di consapevolezza. Gesù stesso mi chiede di dimorare.

Stacci.

Rimani.

Insisti.

E, sempre nel nuovo comandamento, Gesù specifica:

 

«Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri». (Gv 13, 35)

 

Ecco fatto. Questa seconda parte l’avrei volentieri evitata.

Eppure è chiara: amare è il segno distintivo del cristiano. Non i crocefissi (che peraltro sono la manifestazione della misura dell’amore, a ben vedere), non le preghiere o il modo di vestirsi, non i canti o i segni di riconoscimento particolari.

Amare dell’amore ricevuto è il segno di appartenenza dei cristiani.

La prova provata che, sul serio, si è fatta un’esperienza totalizzante e in divenire.

 

E qui entriamo in un tema scivoloso. Tanto. Assai.

Perché da una parte ci riempiamo la bocca della parola “amore”. Ne è piena la società, i social, finanche le nostre prediche e i nostri documenti ecclesiali. Dall’altra non sappiamo bene come concretizzare questa parola, come darle dignità, ammettendo che dietro questa parola ci sono idee poco condivise.

Amore è emozione, attrazione, cuore palpitante, desiderio, trasporto.

Ma è anche scelta, prendersi cura, trovare un punto di equilibrio, rinuncia a qualcosa di personale per qualcosa di più grande.

 

Amore è fonte di grande gioia e del dolore più atroce quando non è corrisposto o viene tradito.

Peggio: quando parliamo di Dio, a volte, fra noi cristiani passa l’idea che l’amore che riguarda Dio sia qualcosa di diverso da quello passionale e carnale. Come una sorta di amore disincantato, etereo, angelico, impalpabile.

Come se Dio non fosse diventato carne. Come se non avesse amato sorridendo, soffrendo, piangendo, compiendo gesti concreti per manifestare questo amore.

(A prenderla sul serio l’incarnazione destabilizza e scuote!)

 

Per questo Gesù si premura di entrare nel dettaglio. Pone come modello di amore il gesto inusuale di uno straniero odiato dai devoti (Lc 10, 25-37), l’ospitalità accogliente di una famiglia (Lc 10,38-42), l’attenzione ai piccoli e agli ultimi (Mt 25, 31-46).

Così, per non restare nel vago o nell’iperuranio.

 

Invece

 

Trovo un dettaglio interessante nel racconto del buon samaritano che mi aiuta a capire meglio cosa intende dire Gesù. I due che scendono dal tempio dopo avere officiato a un qualche culto, uno è un prete - diremmo oggi -, l’altro un operatore pastorale, sono in cammino, e per caso, incrociano il povero viandante malmenato e se ne vanno per la loro strada, probabilmente spaventati dalla situazione.

Giusto, normale, ovvio.

Avrei fatto la stessa identica cosa.

Chi è quel tale picchiato a sangue? Un poveraccio o un delinquente ridotto così per un regolamento di conti? Meglio essere prudenti e, al massimo, chiamare il 112.

Il samaritano, invece, è in viaggio. Non passa di lì per caso. Ha una meta da raggiungere.

Lo vede. Ne ha compassione. Se ne occupa.

 

Ecco: è proprio quell’invece che fa la differenza cristiana.

Amare là dove tutti la pensano diversamente, quando si appellano al buon senso. Superare la normalità. Osare.

 

È normale provare rancore verso chi mi ha fatto del male o sparla di me.

È evangelico, invece, lasciar perdere.

 

È normale gettare la spugna quando una relazione si fa complicata.

È evangelico, invece, darsi una possibilità.

 

È normale prevaricare sugli altri, anche calpestandoli.

È evangelico, invece, considerare gli altri dei fratelli, non degli avversari.

 

È normale (!) nella comunità cristiana (e anche fra i preti) avere gelosie, prevaricazioni, commettere piccole ingiustizie.

È evangelico, invece, non lasciare che questa logica del mondo prevarichi. Credere, sul serio, che la Chiesa possa essere il laboratorio di un mondo che intesse relazioni diverse.

Ecco, qualcosa del genere.

Così Gesù chiede ai suoi di vivere l’amore che lui ci dona. Concretamente.

 

Poi

 

Poco più avanti, il Signore torna sullo stesso concetto, aggiungendo un dettaglio (mitico!):

 

«Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici». (Gv 15, 12-13)

 

Ancora parla del comandamento nuovo, il suo questa volta.

Dev’essere davvero importante se insiste così tanto.

Ripete le stesse indicazioni, di amarci con il suo amore. Sia.

Poi il Signore aggiunge, illumina, illustra, spiega. Propone di vivere un amore più grande e spiega in cosa esso consista.

L’amore esiste, fa parte della nostra vita, è un sentimento che fa parte del nostro patrimonio genetico.

Vero; lo sperimento, in tante forme: amo un gatto, amo andare in montagna, amo una persona, amo con trasporto, nostalgia, affetto. Tutti ne fanno esperienza nella vita. E quando manca, l’amore, fa un male cane (penso a quanti hanno vissuto situazioni traumatiche nella delicata età dell’infanzia, fase che segna la vita).

È un sentimento trasversale, l’amore, che riguarda tutti, che non dipende dalla cultura, dalla civiltà in cui si è nati. Poi, lo sappiamo, soprattutto nell’amore di coppia, nell’esercizio della sessualità, lungo i millenni ci si è dati delle regole, dei limiti, degli argini perché si è scoperto che l’amore, soprattutto quello erotico, viscerale, travolgente fa compiere follie (chiedetelo a Paride e alla signorina Elena di Troia).

Quindi è meglio regolamentarlo, anche a scapito delle emozioni e dei sentimenti.

 

Tant’è: c’è l’amore, dice il Maestro, che tutti sperimentiamo e a cui molti anelano.

Fa parte del nostro corredo genetico, è inciso nelle nostre cellule, è patrimonio comune e condiviso.

 

Poi, aggiunge, c’è un amore più grande.

Una sorta di master dell’amore. Che lo innalza, che lo porta al massimo livello.

Cosa intende dire Gesù? Parla di un amore più intenso? Più travolgente? Bruciante?

Macché: l’amore diventa più grande quando dà la vita per chi si ama.

 

Come, prego?

Quindi esiste un amore che dà la morte? Che mortificai

Assolutamente sì, e ne faccio esperienza.

Quando l’amore, il sentimento, diventa possesso, ricatto, manipolazione. Quando suscita senso di colpa (quanta penitenza dobbiamo fare noi cattolici a tal proposito!), quando non è libero e liberante.

 

Se mi ami devi...

Non puoi fare questo a me dopo tutto quello che ho fatto per te!

Mi hai proprio deluso...

 

Esiste una parte oscura dell’amore. Che non vivifica, appunto, ma che ricatta e spegne, ferisce e uccide.

E può diventare un peso, segnare le vite, stravolgerle.

Conosco persone adulte che attribuiscono la propria infelicità al fatto di essere stati amati male da bambini, che accusano una madre possessiva, un padre assente. E si rodono il fegato, si rovinano la vita anche se i propri genitori sono morti da vent’anni!

Sì: l’amore innalza. E schianta.

Libera. E rende mendicanti, dipendenti, schiavi.

Gesù, invece, dalla croce ci svela una nuova dimensione: si può amare senza aspettarsi nulla in contraccambio. Si può amare lasciando liberi. Si può amare senza attendersi risposte. Intensamente.

Un amore che diventa dono, che diventa sacro, un sacrum facere, un sacrificio.

Come è l’amore della madre che, distrutta, si alza per l’ennesima volta ad allattare il proprio figlio neonato.

Come è l’amore dell’amico che fa centinaia di chilometri per incontrare l’amico che ha sentito turbato e stanco.

Come è l’amore dell’amante verso l’amato, che si fa da parte quando intuisce il bisogno più grande dell’altro.

Urca.

Gesù propone un amore più grande, quindi.

E il piccolo anarchico ribelle che c’è in me alza il sopracciglio. Quante volte ho sentito parlare di amore nelle nostre chiese! Frasi del genere dette da un devoto col capino reclinato mi fanno venire l’orticaria. Bei discorsi, brillanti monizioni, forbite elucubrazioni che, troppo spesso, non trovano riscontro nelle azioni, nelle scelte, nella vita.

Gesù no, le dice poco prima di essere appeso a una croce, morendo come è vissuto, amando e perdonando, confidando che questo amore trasformi il mondo. Coerente di una coerenza leggera e incredibile, autentica e stordente.

E ne resto scosso.

 

Mi interroga quanto dice il Signore.

Io Paolo, amo.

Male, ma amo. Faccio casini, ma amo.

Anch’io, spesso, costruisco o assecondo relazioni tossiche, amori di fusione (faccio tutto in funzione dell’altro per essere accolto), creo dipendenze. E colgo l’enormità di quanto (mi) dice il Signore: posso amare dando e dandomi vita. Amare come lui ha amato.

E questo, cavolo sì!, mi piace assai.

 

Mi basta

 

Questo ho scoperto nei primi (intricatissimi) sessant’anni della mia vita.

Il cammino è ancora lungo, ma questo ho capito.

Ho scoperto di essere amato.

Questa è l’esperienza che i discepoli e le discepole (quelli veri, non quelli sgarruppati come noi) hanno scoperto.

Come scrive san Paolo salutando la comunità di Roma nella sua lettera:

 

«a tutti quelli che sono a Roma, amati da Dio

e santi per chiamata». (Rm 1,7)

 

amati da Dio, agapetoi, in greco, la lingua in cui è scritta la lettera, l’inglese di allora.

Apagetov. a quanti si sono scoperti amati.

 

Questo, alla fine dei conti, dice il Vangelo.

Questo è l’essenziale, secondo la mia esperienza.

 

Mi sono scoperto amato, agapetoi.

Ho scelto di amare con l’amore che ho ricevuto, che trabocca dal mio cuore.

Ho scelto di amare come riesco.

 

Come ho sintetizzato in una sorta di slogan riassuntivo:

 

Sappiti amato, perché lo sei;

scegli di amare, se lo vuoi;

scegli di amare, come puoi.

 


[1] «Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni.»

[2] RAVASI, G., L’alfabeto di Dio, San Paolo, Cinisello Balsamo 2023, p. 55.

 


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1 febbraio 2025                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net