LIBER AD MILITES TEMPLI
DE LAUDE NOVAE MILITIAE
ELOGIO DELLA NUOVA CAVALLERIA
AI CAVALIERI DEL TEMPIO
Traduzione a cura di Carlo e Giulio Cico
Estratto da “La via Francigena e
l'idea di crociata”. Edizioni Il Chiostro 2009
Autori: Francesco Saverio Barbato Romano, Corrado Gnerre, Gianandrea De
Antonellis
Prologo
A Ugo, cavaliere di Cristo e Maestro della Milizia di
Cristo, Bernardo, abate di Chiaravalle solo di nome: combattere il giusto
combattimento [2 Tm. 4, 7].
Per, una, due e tre volte, se non erro, o dilettissimo
Ugo, mi hai chiesto di scrivere un discorso di esortazione per te e per i
tuoi compagni d’arme e di brandire lo stilo, dal momento che non mi è
concesso brandire la lancia, contro un nemico tirannico. Affermi che sarà
per voi di non poco conforto se io vi incoraggerò per mezzo dei miei
scritti, dal momento che non posso farlo per mezzo delle armi. Ho tardato
alquanto, in verità, non perché la richiesta mi sembrasse da disprezzare, ma
perché il mio consenso non fosse tacciato di leggerezza e frettolosità: uno
migliore di me potrebbe adempiere più degnamente a questo compito. Se nella
mia inesperienza, peccassi di presunzione rischierei di rovinare per colpa
mia un’opera quanto mai necessaria. Mi rendo conto di aver atteso abbastanza
a lungo e inutilmente, e, per non sembrare riluttante più che incapace, ho
fatto infine quello che ho potuto: il lettore giudichi se sono stato
all’altezza del compito. E se pure qualcuno rimarrà poco o niente
soddisfatto, non importa poiché, nella misura delle mie capacità, io non ho
deluso la tua aspettativa.
I.
Esortazione al Cavalieri del Tempio
1. Da qualche tempo si diffonde la notizia che un nuovo
genere di Cavalleria è apparso nel mondo, e proprio in quella contrada che
un giorno Colui che si leva dall’alto visitò essendosi reso manifesto nella
carne; in quegli stessi luoghi dai quali Egli con la potenza della sua mano
[Is. 10,13] scacciò i principi delle tenebre, possa oggi annientare con la
schiera dei suoi forti seguaci di quelli, i figli dell’incredulità,
riscattando di nuovo il suo popolo e suscitando per noi un Salvatore nella
casa di David, suo servo. [Ef. 2, 2; Lc. 1, 69]. Un nuovo genere di
Cavalieri, dico, che i tempi passati non hanno mai conosciuto: essi
combattono senza tregua una duplice battaglia, sia contro la carne ed il
sangue, sia contro gli spiriti maligni del mondo invisibile. [Ef. 6, 12]. In
verità quando valorosamente si combatte con le sole forze psichiche contro
un nemico terreno, io non ritengo ciò stupefacente né eccezionale. E quando
col valore dell’anima si dichiari guerra ai vizi o ai demoni, neppure allora
dirò che questo è segno di ammirazione, sebbene questa battaglia sia degna
di lode, al momento che il mondo è pieno di monaci. Ma quando il combattente
ed il monaco con il coraggio si cingono ciascuno con forza la propria spada
e nobilmente si fregiano del proprio cingolo chi non potrebbe ritenere un
fatto del genere davvero degno d’ogni ammirazione, per quanto finora
insolito? È davvero impavido e protetto da ogni lato quel cavaliere che come
si riveste il corpo di ferro, così riveste la sua anima con l’armatura della
fede [1 Ts. 5, 8]. Nessuna meraviglia se, possedendo entrambe le armi, non
teme né il demonio né gli uomini. E nemmeno teme la morte egli che desidera
morire. Difatti cosa avrebbe da temere, in vita o in morte, colui per il
quale il Cristo è la vita e la morte un guadagno? [Fil. I, 21]. Egli sta
saldo, invero, con fiducia e di buon grado per il Cristo; ma ancor più
desidera che la sua vita sia dissolta per essere con Cristo [Fil. 1, 23]:
questa è infatti la cosa migliore. Avanzate dunque sicuri, cavalieri e con
intrepido animo respingete i nemici della croce del Cristo! [Fil. 3, 18].
Siate sicuri che né la morte né la vita potranno separarvi dall’amore di Dio
che è in Cristo Gesù. [Rm. 8, 38]. E ripetete nel momento del pericolo, ben
a ragione: sia che viviamo sia che moriamo apparteniamo al Signore. [Rm. 14,
8]. Con quanta gloria tornano i vincitori dalla battaglia! Quanto beati
muoiono i martiri in combattimento! Rallegrati o forte campione se vivi e
vinci nel Signore: ma ancor più esulta e sii fiero nella tua gloria se
morirai e ti unirai al Signore. Per quanto la vita sia fruttuosa e la
vittoria gloriosa a giusto diritto ad entrambe è da anteporre la morte
sacra. Se, infatti, sono beati quelli che muoiono nel Signore [Ap. 14, 13],
quanto più lo saranno quelli che muoiono per il Signore?
2. È senza dubbio preziosa al cospetto di Dio la morte
dei suoi santi [Sal. 115, 15] ma la morte in combattimento ha molto più
valore in quanto è più gloriosa. Oh, vita sicura, quando vi sia coscienza
pura! Oh, dico io, vita sicura quanto la morte è attesa senza terrore, ma è
addirittura desiderata con gioia ed accettata con devozione! Oh, Cavalleria
veramente santa e sicura e del tutto immune dal duplice pericolo nel quale
gli uomini corrono spesso il rischio di cadere quando la causa del
combattimento non è solo in Cristo. Infatti, tu che sei cavaliere secondo le
norme della cavalleria secolare, ogni volta che entri in battaglia devi
soprattutto temere di uccidere te stesso nell’anima se uccidi Il nemico nel
corpo o di essere ucciso nell’anima e nel corpo se è il tuo nemico ad
ucciderti. Inoltre, per il cristiano, il pericolo o la vittoria vengono
giudicati non dal successo delle azioni, ma dalla disposizione del cuore Se
la causa per la quale si combatte è buona, l’esito della battaglia non potrà
essere cattivo, allo stesso modo non sarà stimata buona conclusione quella
che non sia stata preceduta da una buona causa e da una retta intenzione Se
nell’intenzione di uccidere l’avversario ti succederà invece di essere
ucciso, tu morirai da omicida. E se avrai il sopravvento nel desiderio di
sopraffare e di vendicarti, vivrai da omicida. L’omicidio non giova né a chi
vive, né al vinto né al vincitore. Infelice vittoria quella mediante la
quale, vincendo un uomo, soccombi al peccato! E dal momento che sei dominato
dall’ira o dalla superbia, invano ti glorierai di aver dominato il tuo
avversario. Vi è tuttavia chi uccide non per desiderio di vendetta né per
brama di vitto a, ma solo per salvare la propria vita. Ma neppure questa
affermerò essere una buona vittoria: dei due mali il minore è morire nel
corpo che nell’anima. Infatti l’anima non muore per l’uccisione del corpo:
ma l’anima che avrò peccato morrà. [Ez. 18, 4]
II. Della Cavalleria secolare
3. Qual è dunque il fine ed i vantaggi di quella
cavalleria secolare che io non chiamo “milizia” ma “malizia” dal momento che
l’uccisore pecca mortalmente e chi muore perisce per l’eternità? Infatti,
per usare le parole dell’Apostolo: chi ara deve arare nella speranza e chi
batte il grano nella speranza di coglierne i frutti [1 Cor. 9, 10].
Pertanto, cos’è, cavalieri questo errore tanto sbalorditivo, questa follia
tanto insopportabile: compiere la vostra milizia con tante spese e fatiche
senza nessun altra ricompensa se non la morte ed il crimine? Bardate di seta
i cavalli, e sopra le vostre armature indossate non so quali bande di stoffa
ondeggianti; dipingete le lance e gli scudi e le selle; abbellite con oro,
argento e gemme i morsi e gli speroni E con tanto sfarzo, con un furore
vergognoso e una stupidità che vi impedisce la vergogna vi precipitate alla
morte. Ma sono questi ornamenti militari o piuttosto abbigliamenti da donne?
Credete forse che la spada del nemico rispetterà l’oro, risparmierà le gemme
e non sarà in grado di trapassare la seta? Ed infine tre sono le qualità
principalmente necessarie al combattente – cosa che voi stessi molto spesso
e concretamente avete sperimentato – cioè che il cavaliere sia risoluto,
abile e circospetto per la propria salvezza, libero da impedimenti per poter
correre e pronto a colpire. Voi, al contrario, lasciate crescere con uso
femmineo la chioma a molestia degli occhi, impacciate i passi con camicie
lunghe e fluenti, seppellite le mani tenere e delicate in maniche ampie e
svolazzanti. Ma, al di sopra di tutto ciò, vi è – cosa che maggiormente
atterrisce la coscienza d’un uomo d’armi – la causa leggera e frivola per la
quale intraprendete la vita di cavalleria tanto pericolosa. Tra voi
null’altro provoca le guerre se non un irragionevole atto di collera,
desiderio d’una gloria vana, bramosia di qualche bene terreno. E certamente
per tali motivi non è senza pericolo uccidere o morire.
III. La nuova Cavalleria
4. I Cavalieri di Cristo, al contrario, combattono
sicuri la guerra del loro Signore, non temendo in alcun modo né peccato per
l’uccisione dei nemici né pericolo se cadono in combattimento. La morte per
Cristo, infatti, sia che venga subita sia che venga data, non ha nulla di
peccaminoso ed è degna di altissima gloria. Infatti nel primo caso si
guadagna per Cristo, nel secondo si guadagna il Cristo stesso. Egli accetta
certamente di buon grado la morte del nemico come castigo, ma ancor più
volentieri offre se stesso al combattente come conforto. Affermo dunque che
il Cavaliere di Cristo con sicurezza dà la morte ma con sicurezza ancora
maggiore cade. Morendo vince per se stesso, dando la morte vince per Cristo.
Non è infatti senza ragione che porta la spada: è ministro di Dio per la
punizione dei malvagi e la lode dei giusti. [Rm. 13,4; 1 Pt. 2, 14]. Quando
uccide un malfattore giustamente non viene considerato un omicida, ma,
oserei dire, un «malicida» e vendicatore da parte di Cristo nei confronti di
coloro che operano il male, difensore del popolo cristiano E quando invece
viene ucciso si sa che non perisce ma raggiunge il suo scopo. La morte che
infligge è una vittoria di Cristo; quella che riceve è a proprio vantaggio.
Dalla morte dell’infedele il cristiano trae gloria poiché il Cristo viene
glorificato: nella morte del cristiano si manifesta la generosità del suo Re
che chiama a sé il suo cavaliere per donargli la ricompensa. Pertanto sul
nemico ucciso il giusto si rallegrerà vedendo la vendetta [Sal. 57, 11]. Ma
sul cavaliere ucciso si dirà: – Il giusto guadagna ad essere tale? Sì,
perché Dio gli rende giustizia sulla terra. [Sal. 57, 12]. Certo non si
dovrebbero uccidere neppure gli infedeli se in qualche altro modo si potesse
impedire la loro eccessiva molestia e l’oppressione dei fedeli. Ma nella
situazione attuale è meglio che essi vengano uccisi, piuttosto che lasciare
senza scampo la verga dei peccatori sospesa sulla sorte dei giusti e
affinché i giusti non spingano le loro azioni fino alla iniquità.
5. E che, dunque, se ferire di spada fosse del tutto
illecito per il Cristiano, perché dunque l’araldo del Salvatore avrebbe
prescritto ai soldati di essere contenti dei loro stipendi [Lc. 3, 14] e non
avrebbe piuttosto interdetto loro l’uso di ogni arma? Se invece è permesso a
tutti – e ciò risponde a verità – o almeno a quelli ordinati espressamente
per volere divino all’esercizio delle armi, è che non hanno fatto voto di
maggior perfezione da chi, io chiedo, dovrebbe esser tenuta la nostra città
di Sion, città della nostra fortezza, se non dal braccio e dal valore dei
cristiani, per protezione nostra e di tutti? Così che, avendone scacciati i
trasgressori della legge divina, con sicurezza vi entrino i giusti, custodi
della verità. Siano dunque disperse senza timore le nazioni che vogliono la
guerra [Sal. 67, 31]; siano estirpati coloro che ci minacciano, e siano
scacciati dalla città del Signore tutti i malfattori che tentano di portar
via da Gerusalemme le inestimabili ricchezze del popolo cristiano ivi
riposte, che contaminano i luoghi santi, che si trasmettono di padre in
figlio il santuario di Dio. Sia sguainata la doppia spada dei fedeli sulle
teste dei nemici per distruggere qualunque superbia che osi ergersi contro
la conoscenza di Dio, che è la fede cristiana, affinché le nazioni non
dicano: Dov’ è il loro Dio? [Sal. 113, 2]
6. Quando tutti gli infedeli saranno stati scacciati
riprenderà possesso della sua casa e della sua eredità quello stesso che a
proposito di essa gridò con collera nel Vangelo: Ecco, la nostra dimora sarà
lasciata deserta [Mt. 23, 38], e che per bocca del profeta si era lamentato:
Ho lasciato la mia casa, ho abbandonato la mia eredità [Ger. 12, 7]. Egli
adempierà in tal modo quella profezia: Il Signore ha riscattato il suo
popolo e lo ha liberato; verranno ed esulteranno sulla montagna di Sion e
godranno i benefici del Signore [Ger. 31, 11-12]. Rallegrati, Gerusalemme, e
riconosci il tempo in cui sei stata visitata. Godete e lodate anche voi,
rovine di Gerusalemme, perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha
riscattato Gerusalemme; Dio ha mostrato la sua santa potenza a cospetto di
tutte le nazioni [Is. 52, 9-10]. Tu eri caduta, o Vergine d ‘Israele, e non
c ‘era chi ti risollevasse: sorgi, dunque, o vergine, scuoti la polvere, o
sventurata figlia di Sion! Alzati, ti dico, e tieniti eretta nello splendore
[Is. 52, 2], e vedi la gioia che ti viene dal tuo Dio. Non ti chiameranno
più derelitta, e la tua terra non sarà più a lungo detta desolata. Poiché il
Signore si è compiaciuto di te [Is. 62, 64], ed il tuo territorio sarà
ripopolato. Alza gli occhi attorno e guarda: tutti costoro si sono riuniti e
sono venuti a te [Is. 49, 18]. Dall’alto ti è stato inviato questo aiuto.
Per mezzo di questi [cavalieri] perfettamente si compie l’antica promessa:
Io ti conferirò una gloria che durerà nei secoli e la tua gioia sarà di
generazione in gene razione; tu berrai il latte delle nazioni, ti nutrirai
alle mammelle riservate ai re [Is. 60, 15]. Ed ancora: Così come la madre
consola i suoi figli, così io vi consolerò, ed in Gerusalemme sarete
confortati [Is. 66, 13]. Non vedete, dunque, quanta abbondante testimonianza
la nuova cavalleria ha ricevuto dai tempi antichi, e che quanto abbiamo
udito lo vedremo compiersi nella città del Signore degli eserciti [Sal. 49,
7]? Ma non bisogna che l’interpretazione della lettera nuoccia alla
comprensione dello spirito: le parole dei profeti, che noi speriamo di veder
realizzate per l’eternità, le adattiamo a questi nostri tempi in modo che
ciò in cui crediamo non svanisca a causa di ciò che vediamo, e affinché la
pochezza dei beni di questa terra non faccia scemare la ricchezza del la
speranza e la testimonianza delle cose presenti non tolga speranza per
l’avvenire. La gloria temporale della città terrena non distrugge i beni
celesti, al contrario li garantisce; a patto che noi sappiamo riconoscere in
questa [Gerusalemme terrena] l’immagine della città del cielo, nostra madre
[cfr. Ap. 21, 9-27].
IV. Come devono comportarsi i Cavalieri del
Tempio
7. Ma ora, per dare un esempio e per confondere i
nostri cavalieri secolari, che certamente non militano per Dio ma per i!
diavolo, trattiamo brevemente dei costumi e della vita dei cavalieri di
Cristo: come essi si comportano in guerra e in pace, affinché appaia
chiaramente quanto differiscano tra loro la cavalleria di Dio e la
cavalleria del secolo. Innanzitutto certamente non manca la disciplina, né
l’obbedienza viene mai disprezzata: poiché, secondo la testimonianza della
Scrittura, Il figlio disobbediente perirà [Eccl. 22, 3] e Opporsi alla
disciplina è peccato pari all’esercizio della magia, e non voler obbedire è
peccato quasi come l’idolatria [1 Re. 15, 23]. Ad un cenno del superiore si
viene e si va si veste di ciò che egli donò; né si attende da altre fonti il
nutrimento e il vestito. Nel vitto e nell’atteggiamento ci si astiene da
ogni cosa superflua, si provvede alla pura necessità. Si vive in comune, con
un genere di vita sobrio e lieto senza spose e figli. E affinché la
perfezione evangelica sia completamente realizzata, essi abitano in una
stessa casa, con una stessa regola di vita e senza possedere niente di
proprio solleciti di conservare l’unità dello spirito nel vincolo della pace
[Ef. 4, 3]. Diresti che tutta questa
gente abbia un cuore solo ed un’anima sola: a tal punto ognuno si sforza di
seguire non la propria volontà ma quella di chi comanda. Non siedono mai
oziosi, né gironzolano curiosi; ma quando non sono occupati in guerra [cosa
che succede davvero di rado], per non mangiare il pane ad ufo riparano le
armi e le vesti danneggiate, o rinnovano quelle vecchie, o mettono in ordine
ciò che è in disordine, ed infine la volontà del maestro e la comune
necessità dispongono il da farsi Tra di essi nessuna preferenza: il rispetto
è dato al migliore, non al più nobile di natali. Fanno a gara nell’onorarsi
a vicenda [Rm. 12, 10]; e vicendevolmente portano il loro fardello, per
compiere così la legge di Cristo [Gal. 6, 2]. Mai una parola insolente,
un’azione inutile, una risata sguaiata, una mormorazione per quanto leggera
e fatta sottovoce, quando vengono colte in fallo restano impunite. Detestano
il gioco degli scacchi e dei dadi; la caccia è tenuta in spregio, né si
rallegrano della cattura di uccelli per diporto cosa molto in voga
[altrove]. Sdegnano ed aborriscono i mimi, i fattucchieri, i cantastorie, le
canzoni scurrili, gli spettacoli dei giocolieri, e così pure le vanità e le
follie contrarie alla verità. Tagliano corti i capelli sapendo che, come
dice l’apostolo, è vergognoso per un uomo curarsi la chioma [1 Cor. 11,4].
Non si acconciano mai, si lavano dirado, ma sono piuttosto irsuti per la
capigliatura negletta, bruttati di polvere, abbronzati dal l’armatura e dal
forte calore.
8. Quando giunge l’ora della battaglia, essi si armano
di dentro con la fede e di fuori col ferro e non con l’oro, affinché i
nemici abbia no terrore di loro e non invidia, essi sono armati, cioè, e non
ornati Vogliono cavalli forti e veloci e non ricoperti da sgargianti
gualdrappe e finimenti di lusso: essi si preoccupano infatti della battaglia
e non dello sfarzo, della vittoria, non della gloria, e badano d’esser
piuttosto causa di terrore che d’ammirazione. Pertanto non turbolenti ed
impetuosi, senza precipitarsi con leggerezza, si ordinano ponderatamente e
con ogni cautela e prudenza si dispongono in assetto di guerra, così come è
stato scritto dai nostri padri, come veri figli del [nuovo] Israele pieni di
pace s’avanzano per la battaglia [cfr. 2 Mac. 15, 20]. Ma al momento dello
scontro, e allora soltanto, smessa la dolcezza di prima, come dicessero: Non
devo forse odiare chi Ti odia, o Signore, e detestare i Tuoi avversari?
[Sal. 138,21] fanno impeto contro i propri avversari, reputano i propri
nemici branchi di pecore e mai, pur essendo pochissimi, temono la crudele
barbarie e la schiacciante moltitudine. Essi hanno infatti appreso a non
confidare nelle proprie forze, ma ad attendere la vittoria dal volere del
Dio degli eserciti, al quale, secondo quanto è scritto nel Libro dei
Maccabei, pensano sia molto agevole mettere molti nelle mani di pochi; e che
per il Dio dei cieli non fa differenza salvare i molti o i pochi, poiché la
vittoria non sta nel numero dei combattenti, ma nella forza che vien
dall’alto [I Mac. 3, 18-19]. E di ciò hanno fatto molto spesso esperienza,
così che generalmente uno solo ne incalza quasi mille e due ne hanno messi
in fuga diecimila [cfr. Sal. 90]. Così dunque per una singolare ed
ammirabile combinazione sono, a vedersi, più miti degli agnelli e più feroci
dei leoni, a tal punto che dubito se sia meglio chiamarli monaci o piuttosto
cavalieri. Ma, forse, potrei chiamarli più esattamente in entrambi i modi,
poiché ad essi non manca né la dolcezza del monaco né la fermezza del
cavaliere. E di questa qualità cosa si potrebbe dire se non che è opera di
Dio, ed è degna di ammirazione ai nostri occhi [Ct. 3,7-8]? Dio stesso ha
scelto per sé tali uomini ed ha raccolto dai confini estremi del mon do
questi Suoi ministri [ministri della Sua giustizia] tra i più valorosi
d’Israele, per custodire con fedeltà e vigilmente il letto del vero Salomone
– cioè il Santo Sepolcro – tutti armati di spada ed esperti quant’altri mai
nell’arte della guerra [Sal. 117, 23].
V. Il Tempio
9. Il tempio di Gerusalemme, nel quale hanno comune
dimora, è una costruzione senza dubbio più modesta dell’antico e di gran
lunga più famoso tempio di Salomone, ma non gli è inferiore in gloria.
Mentre lo splendore di quello consisteva in cose corruttibili d’oro e
d’argento [1 Pt. 1, 18], nella squadratura delle pietre, nella varietà dei
legni, tutto il decoro di questo, al contrario, e l’ornamento che fa gradita
la sua bellezza è la devota religiosità dei suoi abitanti ed il loro
disciplinatissimo genere di vita. Il primo tempio s’imponeva all’ammirazione
per la varietà dei colori; il secondo è degno di venerazione per le svariate
virtù e le sante azioni. La santità conviene infatti alla casa di Dio,
poiché Egli si compiace non tanto dei marmi lucidati a specchio, quanto dei
costumi morigerati ed ama le menti pure più che le pareti dorate [cfr. Sal.
92, 5]. Tuttavia l’aspetto di questo tempio è anch’esso ornato, ma di armi,
non di gemme. Ed invece delle antiche corone d’oro, le pareti sono ricoperte
di scudi appesi tutt’intorno; e invece dei candelieri, de gli incensieri,
dei vasi, la dimora è provvista d’ogni parte di freni, di selle, di lance.
Queste cose dimostrano apertamente che i cavalieri fervono per la casa di
Dio del medesimo zelo del quale una volta violentissimamente infiammato il
Condottiero stesso dei cavalieri, avendo armato la sua mano santissima non
di spada ma di un flagello fatto di funicelle, entrò nel tempio e ne scacciò
i mercanti, sparse il denaro dei cambiavalute e rovesciò i banchi dei
venditori di colombe, giudicando cosa oltremodo indegna che una casa di
orazione fosse macchiata da mercanti di tal fatta [cfr. Mt. 20, 12-13; Gv.
2, 14-16]. Pertanto, trascinata dall’esempio del suo Re, questa armata
consacrata, giudicando a ragione di gran lunga più indegno che i luoghi
santi siano infestati dagli infedeli invece d’essere contaminati dai
mercanti, vivono nella casa santa con armi e cavalli; e così, avendo
rigettato da essa e da tutti i luoghi santi ogni sozza e tirannica rabbia de
gli infedeli, ci si intrattengono notte e giorno in occupazioni tanto utili
quanto oneste. Essi onorano a gara il tempio di Dio con assiduo e sincero
ossequio, immolando in esso con devozione perenne, non carni ovine secondo
l’antico rito, ma vittime pacifiche: l’affetto fraterno e l’ubbidienza
fedele, la povertà volontaria.
10. Questi fatti avvengono in Gerusalemme, ed il mondo
intero ne è scosso. Le isole stanno in ascolto; i popoli lontani osservano e
da Oriente ad Occidente ribollono come un torrente di gloria universale che
straripa, e come l’impeto di un fiume che allieta la città di Dio [cfr. Is.
49, 1]. Ma ciò che appare più bello ed offre più vantaggi è che, in quella
folla tanto numerosa che confluisce a Gerusalemme, pochi sono Certamente
coloro che non siano stati scellerati ed empi, ladri e sacrileghi, omicidi,
spergiuri, adulteri E, come dalla loro partenza scaturisce un doppio
beneficio, essa produce una duplice gioia: dal momento che essi danno tanta
gioia alloro prossimo quando se ne vanno, quanta ne danno a coloro in
soccorso dei quali si dirigono. Essi sono infatti ben accolti in entrambi i
casi, non solo difendendo questi [i cristiani pellegrini a Gerusalemme] ma
anche cessando di opprimere quelli [i loro conterranei]. Così si rallegra
l’Egitto per la loro partenza, come pure si allieta il monte Sion di averli
come protettori ed esultano le figlie di Giuda [Sal. 47, 12]. Il primo si
rallegra di esser stato liberato da loro, il secondo di esser liberato per
opera loro. Quello di buon grado perde i suoi crudelissimi devastatori;
questo con gioia ha accolto i suoi fedelissimi difensori, e mentre questa
nazione viene con gran gioia consolata, quello intanto viene abbandonato con
uguale grande vantaggio. Così Cristo sa vendicarsi dei suoi nemici, non solo
trionfando sudi essi, ma essendo anche solito spesso trionfare per mezzo di
essi con tanta più gloria quanto maggiore è la potenza. È cosa lieta, a
ragione, ed utile: che ora cominci a rendere suoi difensori quelli che
sopportò a lungo come suoi persecutori, e Colui che trasformò un tempo Saulo
persecutore in Paolo predicatore faccia del suo nemico un suo cavaliere
[cfr. At. 9]. Pertanto io non mi meraviglio affatto se quella corte celeste,
secondo la testimonianza del Salvatore, esulta più per un peccatore pentito
che per molti giusti che non hanno bisogno di penitenza [Lc. 15, 7]: poiché
la conversione di un malvagio e di un peccatore senza dubbio giova a tanti
quanti erano quelli cui egli aveva nuociuto.
11. Salve, dunque, o Città Santa, che l’Altissimo in
persona ha consacrato per sé come suo tabernacolo, in modo che in te e per
te venissero salvate tante generazioni [cfr. Ap. 22, 19]. Salve, Città del
gran Re, dalla quale mai vennero meno fin dall’inizio ed in quasi tutti i
tempi miracoli sempre nuovi e lieti per il genere umano. Salve, signora
delle genti, guida delle nazioni, retaggio dei Patriarchi, madre dei Profeti
e degli Apostoli, Iniziatrice della Fede, gloria del popolo cristiano, tu
cui Dio sempre, fin dal principio, permise che fossi combattuta affinché
potessi essere occasione di valore e di salvezza per i forti. Salve o Terra
Promessa, che un tempo facevi scorrere latte e miele solo per i tuoi figli
ed ora fai scorrere i farmaci della salvezza per tutto il mondo, il
nutrimento di vita, O Terra, dico, buona ed eccellente, tu che hai ricevuto
nel tuo fecondissimo seno i! grano celeste dall’arca del cuore del Padre ed
hai prodotto, da questa celeste semenza, tanto grande messe di martiri, e
nondimeno tu, fertile gleba, hai prodotto frutto dal la stirpe dei fedeli
moltiplicandolo trenta, sessanta e cento volte sopra ogni contrada.
Lietissimamente saziati e abbondantemente nutriti dalla tua sconfinata
dolcezza, coloro che ti hanno conosciuto diffondono ovunque il ricordo della
tua soavità inesauribile e narrano a coloro che non ti hanno conosciuto la
magnificenza della tua gloria fino agli estremi limiti del mondo. Essi
raccontano le meraviglie che in te si compiono. Si dicono dite cose
stupende, o Città di Dio! [Sal. 86, 3]. Ebbene, anche noi diremo del tuo
nome brevi parole di lode e gloria a proposito delle delizie delle quali sei
colma fino a straripare.
VI. Betlemme
12. Ecco, prima di tutto, Betlemme, “casa del pane”
[Gv. 6, 51] per il ristoro delle anime sante: in essa per la prima volta si
mostrò come Pane vivo Colui che discese dal Cielo, quando la Vergine lo
partorì. E lì viene mostrata la mangiatoia ai pii animali e nella mangiatoia
il fieno del prato verginale, affinché in tal modo il bue riconosca il suo
padrone e l’asino il presepe del Signore suo. Poiché ogni essere mortale è
come erba, e tutta la sua gloria come fiore in un prato [Is. 40, 6]. Ma
l’uomo, non comprendendo l’onore di essere uomo, fu comparato ai bruti privi
d’intelligenza e divenne come loro [Sal. 48, 13]. Il Verbo, Pane degli
Angeli, divenne pasto per i giumenti affinché avessero da ruminare il fieno
della sua carne, dal momento che persero del tutto l’abitudine di nutrirsi
col Pane della Parola: fino a quando la creatura, restituita dall’Uomo-Dio
alla sua dignità originaria e da bestia trasformata di nuovo in uomo, potrà
dire con Paolo: Per quanto abbiamo conosciuto il Cristo solo secondo la
carne, ora però non lo conosciamo più così [2 Cor. 5, 16]. Ma credo che
nessuno possa parlare con verità se non colui che abbia, come Pietro,
ascoltata quella verità dalla bocca stessa della Verità: Le parole che vi ho
detto sono spirito e vita: la carne, infatti, non vivifica [Gv. 6, 64]. Del
resto chi ha trovato la vita nelle parole del Cristo non cerca più la carne:
egli rientra nel novero dei bea ti, che non hanno veduto ed hanno creduto
[Gv. 20, 29]. Infatti nessuno ha bisogno del latte se non il bambino, e solo
l’animale ha bisogno del fieno. Ma colui che non inciampa nella Parola è
uomo perfetto e può cibarsi di cibi solidi; egli mangia il pane del Verbo
senza offesa, anche se col sudore della Sua fronte. Anzi, sicuro e senza
scandalo egli annunzia la sapienza di Dio ai perfetti, procacciando cibo
spirituale a coloro che vivono nello spirito; quando però si rivolge ai
fanciulli e al gregge, è cauto nel proporre loro, d’accordo con le loro
capacità di comprensione, Gesù e Gesù Crocifisso [1 Cor. 2,2]. Lo stesso e
medesimo cibo proviene dai pascoli celesti e viene ruminato dal gregge e
consumato dall’uomo, nutre il piccolo e dà forza agl’uomini.
VII. Nazareth
13. Vediamo anche Nazareth, il nome della quale è
interpretato come “fiore”; in essa fu nutrito il Dio fanciullo che era nato
a Betlemme, così come il frutto si forma sul fiore: affinché il profumo del
fiore precedesse il sapore del frutto ed il succo santo, che i Profeti
odorano, si riversasse nella bocca degli Apostoli. Gli Ebrei si
accontentarono del sottile profumo, i cristiani si sono però saziati con
l’alimento solido Tuttavia Natanaele aveva percepito l’odore di questo fiore
che sorpassava per dolcezza ogni altro fiore, e per questo si chiese: Può da
Nazareth venire qualcosa di buono? [Gv. 1,45] e, non contentandosi della
sola fragranza, seguì Filippo che gli aveva risposto: vieni e vedi [Gv. 1,
46]. Anzi, dilettato quanto mai dallo spargersi della sua stupenda dolcezza,
avendo respirato la soave fragranza divenne ancor più desideroso di
assaporarlo e, guidato dal profumo, fu sollecito ad arrivare al frutto,
volendo godere più pienamente ciò che aveva appena presentito ed assaggiare
di persona ciò che da lontano aveva odorato. E consideriamo se anche Isacco
non abbia percepito qualcosa del profumo del quale stiamo trattando. Di lui
così dice la Scrittura: Appena ebbe sentito la fragranza delle vesti [di
Giacobbe]: «Ecco, gridò, l’odore di mio figlio, come il profumo di un campo
ubertoso che il Signore ha benedetto!» [Gen. 27,27]. Sentì il profumo delle
vesti ma non riconobbe la presenza di chi le portava e, dilettatosi solo
esteriormente della veste come del profumo di un fiore, non avendo gustato
l’interna dolcezza di frutto rimase così privo della conoscenza
dell’elezione di suo figlio e del sacro mistero. A cosa si riferisce ciò? La
veste dello spirito è la lettera, carne del Verbo. Ma gli Ebrei neppure ora
riconoscono né il Verbo nella carne né la divinità nell’Uomo né intravedono
il significato spirituale sotto il senso della lettera. Palpando
esternamente [come Isacco] la pelle del capro, che esprime la somiglianza
col progenitore, cioè col primo ed antico peccatore, non giunsero alla nuda
verità. Colui che era venuto non a peccare ma per assumere su di sé i
peccati degli uomini si manifestò non già nella carne del peccato ma in
somiglianza materiale della carne del peccato [Rm. 8, 3], per l’adempimento
di quella missione della quale Egli stesso non fece mistero: Affinché i
ciechi veda no, e quelli che vedono divengano ciechi [Gv. 9, 39]. Tratto in
inganno da questa somiglianza il popolo del quale i profeti avevano
vaticinato il Messia, ancor oggi, cieco, benedice colui che ignora e di
sconosce nei miracoli Colui di cui raccoglie continuamente testimonianza
nelle Scritture. Non comprende Colui verso cui pure stende la mano per
legarlo, flagellarlo, schiaffeggiarlo, e neppure Lo comprende nella sua
resurrezione. Se infatti Lo avessero riconosciuto, non avrebbero mai
crocefisso il Signore della gloria [1 Cor. 2, 8]. Ma percorriamo con una
breve descrizione anche gli altri luoghi santi e, se non proprio tutti,
almeno alcuni. Dal momento che non possiamo soffermarci su ciascuno in
particolare ricordiamo almeno i più illustri.
VIII. Il Monte degli Ulivi e la Valle di
Gjosafat
14. Si ascende al Monte degli Ulivi e si discende nella
Valle di Giosafat per poter meditare sui tesori della divina misericordia,
senza però trascurare la spaventosità del giudizio; poiché, sebbene Dio sia
largo nel perdonare nella sua grande misericordia, tuttavia il suo giudizio
è un abisso profondo attraverso il quale Egli si mostra terribile ai figli
degli uomini. David si riferisce al Monte degli Ulivi quando dice: Tu
salverai uomini ed animali, o Signore; a tal punto hai moltiplicato, Dio, la
tua misericordia! [Sal. 35, 7-8] ma nel medesimo salmo ricorda anche la
valle del giudizio dicendo: Non si alzi contro di me il piede del superbo,
né mi muova la mano del peccatore! [Sal. 35, 12] e confessa di essere
atterrito da quel giudizio quando in un altro salmo dice: Trafiggi le mie
carni col timore di te. Infatti ho tremato davanti ai tuoi giudizi [Sal.
118, 120]. Il superbo cade a precipizio in questa valle e viene abbattuto:
l’umile vi discende e non corre pericolo. Il superbo giustifica il suo
peccato, l’umile si accusa, sapendo che per questo Dio non giudica due volte
il medesimo errore e che se ci giudicheremo non saremo giudicati [1 Cor. 11,
31].
15. Il superbo, non comprendendo quanto sia terribile
cadere tra le mani del Dio vivente [Eb. 10, 31], leggermente prorompe in
perfide parole per scusare i suoi peccati [Sal. 140, 4]. Ed è davvero una
grande malizia che tu non abbia pietà dite stesso, e che rifiuti l’unico
rimedio della confessione dopo il peccato, e che tu voglia piuttosto
racchiudere il fuoco nel tuo petto invece di allontanarlo, né hai dato
ascolto al giudizio del Sapiente che dice: Abbi pietà della tua anima e
piacerai a Dio [Eccl. 30, 24]. E chi è malvagio con se stesso con chi mai
potrà essere buono? Ora avviene il giudizio del mondo, ora il principe di
questo mondo ne verrà scacciato: fuori dal tuo cuore, se tu stesso ti
giudicherai con umiltà. Vi sarà il giudizio del cielo, quando Dio convocherà
a sé il cielo e la terra per riconoscere i suoi [Sai, 49, 4]. Allora temere
dovrai di non venire respinto con quello stesso [ diavolo] e coi suoi angeli
perché sei stato trovato non giudicato. D’altronde l’uomo spirituale, che
giudica ogni sua azione, da nessuno è giudicato [cfr. 1 Cor. 11, 15]. Per
questo il giudizio incomincia nella casa di Dio: perché il Giudice, che
conosce i suoi, li trovi giudicati: e non abbia più nulla di loro da
giudicare, dal momento che sono da giudicare coloro che non condividono le
fatiche degli uomini e con gli uomini non sono flagellati [Sal. 72, 5].
IX. Il Giordano
16. Quanto è lieto il Giordano di ricevere nel suo
grembo i cristiani, lui che si gloria di esser stato consacrato dal
battesimo del Cristo [cfr. 4 Re. 5, 12]. Senza dubbio mentì quel lebbroso
siriano che preferì non so quali acque di Damasco a queste d’Israele, dal
momento che il nostro Giordano ha provato tante volte il suo devoto servizio
a Dio sia quando si aprì ad Elia [cfr. 4 Re. 2,1-14], sia quando si offrì
asciutto ad Eliseo, sia [per ricordare un fatto più antico] quando frenando
mirabilmente l’impeto delle sue correnti, permise il passaggio di Giosuè e
del suo popolo [cfr. Gs. 3]. E, infine, quale tra i fiumi è più nobile di
questo che la Trinità stessa ha consacrato a sé con una presenza davvero
evidente? [cfr. Lc. 3, 2 1-22]. Il Padre fu udito. Lo Spirito Santo fu
visto. Il Figlio fu battezzato. A ragione, quindi, anche il popolo tutto dei
fedeli esperimenta nell’anima per volontà di Cristo la stessa virtù che
Naaman sentì nel suo corpo dopo aver seguito i consigli del profeta [cfr. 4
Re. 5, 14].
X. Il Calvario
17. Si esce fuori [da Gerusalemme] dirigendosi verso il
Calvario, là dove il vero Eliseo, deriso da stolti fanciulli, infuse nei
suoi il suo eterno sorriso, dei quali disse: «Ecco me ed i miei fanciulli
che il Signore mi ha dato» [Is. 8, 18]. Questi sono i fanciulli giusti che
il Salmista, in contrasto con la malignità degli altri sprona alla lode
cantando: Lodate il Signore; fanciulli, lodate il nome del Signore [Sal.
112, 1]. Poiché sulla bocca dei santi fanciulli e dei lattanti la lode sarà
portata a compimento, essa che svanì dalle labbra degli invidiosi dei quali
è detto: Ho nutrito e cresciuto dei figli, ma essi mi hanno disprezzato [Is.
1, 2]. Salì sulla croce quel nostro Eliseo [ lett. “il Calvo” poiché Eliseo,
che era calvo, è prefigurazione dei Cristo, cfr. 3 Re. 12,28] esposto al
mondo in favore dei mondo: a viso aperto e fronte scoperta, compiendo la
purificazione dell’umanità carica di peccati, non arrossì per la vergogna di
una morte crudele ed obbrobriosa né inorridì di fronte a quella pena. Non
v’è da meravigliarsi: perché avrebbe dovuto arrossire Egli che ci lavò dai
peccati [Ap. 1, 5], non come l’acqua che pulisce ma trattiene in sé le
impurità, ma come raggio di sole che arde le impurità e conserva la sua
purezza? La sapienza di Dio tutto raggiunge grazie alla sua purezza.
XI. Il Sepolcro
18. Tra tutti i luoghi santi e degni d’amore il
Sepolcro ha, in un certo senso, il primo posto. Si prova un non so che di
teneramente de voto più dove Egli riposò da morto che dove dimorò da vivo.
Il ricordo della sua morte muove a pietà più di quello della sua vita. Penso
che ciò avvenga perché la morte sembra più crudele e la vita più dolce e la
quiete del sonno lusinga l’umana debolezza più del la fatica del vivere, il
quieto stato della morte più che il diritto sentiero della vita. La vita di
Cristo mi offre un modello per la vita; ma la sua morte mi offre la
redenzione dalla morte. La sua vita mi insegnò a vivere, ma la sua morte
distrusse la morte. Laboriosa è stata la sua vita, preziosa la sua morte.
Entrambe furono necessarie. Ma a cosa potrebbe giovare la morte del Cristo
ad uno che viva empiamente e a che cosa la sua vita ad uno che muoia da
dannato? Forse che la morte del Cristo, ancor oggi, serve a liberare dalla
morte eterna coloro che fino alla morte hanno vissuto in colpa? E la santità
della sua vita ha liberato i Santi Padri vissuti prima della sua venuta?
Così sta scritto: Quale dei viventi non vedrà la morte e potrà strappare la
sua anima dalle grinfie dell’abisso? [Sal. 88, 49]. Erano dunque per noi
egualmente necessarie e l’una e l’altra, e la sua vita giusta e la sua morte
impavida. Vivendo insegnò a vivere e morendo rese sicuro il morire: è morto
per risorgere ed ha fondato la speranza della resurrezione per coloro che
muoiono. Ma a ciò Egli aggiunse un terzo beneficio, senza il quale ne anche
il resto sarebbe servito: la remissione dei peccati. Difatti, per quanto
concerne la vera e suprema beatitudine, cosa avrebbe potuto giovare a chi
era tenuto prigioniero anche dal solo peccato originale una vita per quanto
retta e di lunga durata? Il peccato ha infatti preceduto la morte e se
l’uomo l’avesse evitato non avrebbe assaporato la morte in eterno.
19. Peccando l’uomo perse la vita e trovò la morte: Dio
stesso l’aveva infatti predetto – e rispondeva a giustizia – che se l’uomo
avesse peccato sarebbe morto. Cosa avrebbe potuto ricevere di più giusto se
non la pena del taglione? Dio infatti è la vita dell’anima, e questa è la
vita del corpo. Avendo l’uomo peccato col libero arbitrio, di sua propria
volontà ha rinunciato alla vita: che perda dunque, di conseguenza, la
possibilità di dare a sua volta la vita, contro la sua propria volontà.
Spontaneamente respinse la Vita, ha rifiutato di vivere: sia incapace di
darla a chi vuole e quando vuole. L’anima che non ha voluto essere governata
da Dio sia impotente a reggere il corpo. Dal momento che non ha ubbidito a
chi è sopra di lei, perché dovrebbe comandare a chi è al di sotto di lei? Il
Creatore ha trovato ribelle la sua creatura [l’anima], così pure l’anima
trovi ribelle la creatura [il corpo] a lei asservita. L’uomo ha trasgredito
la legge divina: scopra quindi nelle sue membra un’altra legge che si
rifiuta di ubbidire alla legge della sua volontà e lo imprigiona nella legge
della caduta [cfr. Rm. 7,25]. Inoltre il peccato, secondo le Scritture, ci
separa da Dio [Is. 59, 2] e quindi così pure la morte ci separi dal corpo.
L’anima non può separarsi da Dio se non per mezzo del peccato, il corpo non
può separarsi dall’anima se non per mezzo della morte. E forse troppo
spietata questa pena che si limita a prescrivere che il suddito subisca lo
stesso male che ha commesso contro il suo Creatore? Niente di più
consequenziale, indubbiamente, del fatto che, essendo la morte spirituale
colpevole e volontaria, abbia causato altresì la morte corporale, punitiva e
necessaria.
20. Poiché l’uomo era stato condannato in conformità
alla sua duplice natura a questa doppia morte, l’una dello spirito dovuta
alla sua volontà e l’altra del corpo come conseguenza della prima,
l’Uomo-Dio, per la sua potenza e benevolenza, venne in aiuto all’una e al
l’altra con la sua morte, insieme corporale e volontaria, e con quella sua
unica morte sconfisse la nostra doppia morte. E a ragione, infatti di quelle
nostre due morti una ci fu imputata come risultato della nostra colpa,
l’altra come dovuto castigo. Il Cristo accettò il castigo e, pur essendo
indenne da colpa, morendo di sua spontanea volontà soltanto nel corpo
guadagnò per noi la vita e la remissione. Del resto, se non avesse sofferto
nel corpo, non avrebbe prosciolto il nostro debito: se non fosse morto
spontaneamente, la sua morte non avrebbe avuto me rito. Ma, se come si è
detto, la morte è il risultato meritato per la colpa e la morte è il debito
della colpa, dal momento che il Cristo ha rimesso i peccati ed è morto per i
peccatori, ormai quanto dovevamo è stato pagato e il debito è sciolto.
21. E poi, come sappiamo che Cristo ha il potere di
rimettere i peccati? Senza dubbio perché Egli è Dio e può ciò che vuole. E
come sappiamo che Egli è Dio? I miracoli lo provano. Ha compiuto opere che
nessun altro potrebbe, per tacere poi l’oracolo dei Profeti e la
testimonianza della voce del Padre discesa dall’ alto sudi lui nella
magnificenza della gloria dei cieli. Ché se Dio è a nostro favore, chi è
contro di noi? E se Dio ci giustifica chi ci condannerà? [Rm. 8, 31 e 8,
33-34]. A Lui ed a Lui solo noi confermiamo ogni giorno: Contro te,
unicamente, ho peccato [Sal. 50, 6]. Chi meglio, anzi, chi altri ha la
facoltà di perdonare il peccato fatto contro di lui? O, come nonio potrebbe
Egli che può tutto? E, infine, io ho facoltà di perdonare, se voglio, le
colpe commesse contro di me: e Dio non potrebbe rimettere quelle fatte
contro di lui? Se chiunque ha la facoltà di rimettere i peccati, Egli
onnipotente – e solo lo può Egli contro il quale si pecca – beato colui al
quale Egli non addosserà colpa. Ecco, abbiamo conosciuto come Cristo, per la
potenza della sua divinità, ha la facoltà di condonare le colpe.
22. Quanto alla sua volontà [di rimettere i peccati]
chi mai potrà dubitarne? Infatti chi ha rivestito la nostra carne e subito
la nostra stessa morte credi forse che ci negherà la sua giustizia? Egli che
volontariamente s’incarnò, che volontariamente patì, che volontariamente fu
crocefisso, ci negherà proprio il suo perdono? Se per la sua deità è chiaro
che Egli può rimettere i peccati, con la sua umanità dimostra chiaramente
che questo è il suo volere. Ma da quali fatti possiamo trarre ancor motivo
di credere che Egli scacciò da noi la morte? Dal fatto che Egli la sopportò
pur non avendola meritata. Per qual motivo dovrebbe dunque esigere di nuovo
da noi ciò che Egli ha già pagato per noi? Colui che concesse il perdono del
peccato donandoci la sua giustizia scioglie il debito della morte e riporta
alla vita. Uccisa dunque la morte, ritorna la vita. Cancellando il peccato
torna la giustizia. La morte è stata dispersa nella morte del Cristo e la
sua giustizia ci viene concessa. Ma come ha potuto morire Colui che era Dio?
Perché era anche vero uomo. E in che modo la sua morte ha potuto giovare
alla morte dell’uomo? Poiché Egli era anche giusto. Dunque, in quanto era
uomo poté morire, ma in quanto era giusto non poteva morire affatto. Un
peccatore non può certo estinguere con la sua morte il debito di un altro
peccatore, dal momento che la morte di ognuno vale come debito personale: ma
Colui che non deve morire per saldare il suo debito, morì forse invano per
gli altri? Quanto poi indegnamente muore chi non merita di morire, tanto più
giustamente vive colui a favore dei quale è morto.
23. «Ma che giustizia è quella – dirai – ove un
innocente abbia a morire per un malvagio?». Non si tratta di giustizia, ma
di misericordia. Se giustizia fosse, il Cristo non sarebbe morto senza
motivo, ma per pagare il dovuto. Se fosse morto per debito [nei confronti
della Giustizia divina], Egli sarebbe morto sicuramente ma colui per il
quale muore non vivrebbe. Ma pure non trattandosi propriamente di giustizia,
tuttavia la sua morte non è contro giustizia. D’altronde non poteva essere
giusto nel rigore e misericordioso insieme. «Ma anche se di diritto un
giusto possa bastare a dare giustificazione per un peccatore, per quale
legge dovrebbe essere sufficiente un giusto per molti peccatori? Secondo
giustizia la morte di uno solo dovrebbe essere sufficiente a ridare la vita
a uno solo». A ciò risponda ora l’Apostolo: Come infatti per la colpa di uno
solo la condanna si è abbattuta su tutto il genere umano: così a causa della
giustizia di uno solo è stata resa giustizia per tutti gli uomini. Come
infatti per la disubbidienza di uno solo sono stati peccatori molti; così
pure per l’ubbidienza di uno solo molti sono resi giusti [Rm. 5, 18-19]. Ma
perché mai Colui che ha potuto restituire la giustizia a molti non avrebbe
potuto restituire loro anche la vita? Per mezzo di un uomo la morte, per
mezzo di un Uomo la vita. Come tutti periscono in Adamo, così pure tutti in
Cristo hanno la vita [I Cor. 15-2 1]. E che? Uno solo peccò e tutti ne
pagano il fo e l’innocenza di uno solo verrà ascritta a quel solo? Il
peccato di uno solo ha causato la morte di tutti, e la rettitudine di uno
solo restituirà la vita a uno solo? La giustizia di Dio vale più a
condannare il genere umano, dunque, che a ripristinano nella giustizia? O
poté più Adamo nel male che Cristo nel bene? Il peccato di Adamo è stato
addebitato anche a me e la giustizia di Cristo invece non mi appartiene? La
disubbidienza di quello mi ha perduto e l’obbedienza di Cristo non mi
gioverà?
24. «Ma noi tutti abbiamo contratto le colpe del
delitto di Adamo – tu dici -poiché in Adamo noi tutti abbiamo peccato:
eravamo in lui quand’ egli peccò e dalla sua carne siamo stati generati
attraverso la concupiscenza della carne». Tuttavia, noi nasciamo molto più
direttamente da Dio secondo lo spirito che da Adamo secondo la carne: quanto
meno se crediamo di poter essere annoverati anche noi tra coloro dei quali
l’Apostolo dice: «Egli ci ha eletti in se stesso – cioè il Padre nel Figlio
– prima della costruzione del mondo» [Ef. 1,
4] Anche l’Evangelista Giovanni testimonia che siamo nati da Dio, quando
dice: «Quelli che non sono nati dal sangue né dalla volontà della carne, né
dalla volontà dell’uomo, ma da Dio» [Gv. 1, 13]. Ed ancora scrisse Giovanni
nell’Epistola: «Chiunque sia nato da Dio non commette peccato» [Gv. 3,9],
poiché la sua generazione celeste lo conserva. «Ma il desiderio corporeo –
si potrebbe obiettare – attesta il legame carnale, e il peccato che sentiamo
nella carne chiaramente rivela che discendiamo, secondo il corpo, dalla
carne del peccatore». Ma nondimeno viene sentita non dalla carne ma nello
spirito [in corde] quella generazione spirituale almeno da quelli che
possono affermare con Paolo: «Noi possediamo la facoltà di sentire il
Cristo» [1 Cor. 2, 16], nella quale facoltà sentono d’esser giunti tanto
addentro da poter dire con tanta sicurezza: Lo spirito stesso rende
testimonianza al nostro spirito che noi siamo figli di Dio [Rm. 8, 16]. Ed
ancora: «Noi non abbiamo ricevuto lo spirito di questo mondo ma lo spirito
che è da Dio per conoscere ciò che da Dio ci viene elargito» [1 Cor. 2, 12].
Per mezzo dello spirito che proviene da Dio la carità è stata infatti
diffusa nei nostri cuori, come attraverso la carne che da Adamo discende la
concupiscenza resta annidata nelle nostre membra. E come questa, che
discende dal progenitore del corpo, non si separa mai dalla carne in questa
vita mortale, così la carità, procedendo dal Padre degli spiriti, non viene
mai meno almeno dall’indole dei suoi figli migliori.
25. Se pertanto siamo nati da Dio ed eletti in Cristo,
quale giustizia è dunque quella che la nascita umana e terrena abbia a
nuocere più di quanto giovi la provenienza divina e celeste; e che la
discendenza corporea abbia a sopraffare l’elezione da parte di Dio e che la
concupiscenza della carne, limitata nel tempo, abbia a dettar legge al Suo
eterno disegno? E perché mai, dunque, se abbiamo avuto la morte a causa d’un
solo uomo, non dovremmo avere la vita a maggior ragione per opera di un solo
uomo, e per di più, di quell’Uomo [Cristo] Se in Adamo tutti noi troviamo la
morte, perché non potremmo esser riportati alla vita dal Cristo con potenza
infinitamente superiore? Poiché, dunque: Il dono e il delitto non segnano le
medesime vie. Il giudizio provocato dal peccato di un solo uomo ha portato
alla condanna, mentre la grazia concessa dopo tanti peccati ci ha
giustificati [Rm. 5, 16]. Cristo ha potuto rimettere i peccati essendo Dio
ed essendo uomo ha potuto morire e morendo prosciogliere il debito della
nostra morte poiché Egli è giusto, ed Egli solo bastò per la giustizia e La
vita di tutti, come da uno solo era derivata all’umanità la morte e il
peccato.
26. Ma la Provvidenza dispose anche che il Cristo si
degnasse di vivere alcun tempo uomo tra gli uomini avendo un poco differita
la sua morte, per rivolgere gli animi al desiderio dei beni invisibili, con
paro le di verità spesso ripetute, per sostenere la fede con opere degne
d’ammirazione, per istruire con una vita vissuta secondo giustizia. E così
l’Uomo-Dio, avendo vissuto al cospetto degli uomini nella sobrietà, nella
rettitudine, nel sentimento del dovere, avendo parlato secondo verità,
operato miracoli, patito essendo innocente, cosa avrebbe ormai potuto
mancare alla nostra salvezza? Si aggiunga la grazia della remissione dei
peccati, che Egli gratuitamente ci ha rimesso, e l’opera della nostra
salvezza è completa. Non è da temere che la potestà o la volontà di
condonare i peccati venga meno a Dio avendo Egli sofferto, e sofferto tanto
grandi dolori per i peccatori perché noi, com’è giusto, ci dimostriamo
solleciti ad imitarne gli esempi e a venerarne i miracoli. Viviamo dunque
confidenti nella sua dottrina e grati per le Sue sofferenze.
27. Dunque, ogni aspetto di Cristo ci fu giovevole,
tutto fu salutare, tutto necessario. E la fragilità umana non giovò meno
della sua maestà: poiché se comandando con la potenza della sua divinità
tolse il giogo del peccato, morendo con la fragilità dell’umana natura ha
abbattuto i diritti della morte. Per cui l’Apostolo dice a ragione: Quello
che è debole in Dio è la cosa più forte per gli uomini [1 Cor. 1, 25]. Ma
pure quella sua follia per la quale gli piacque salvare il mondo, confutando
la sapienza del mondo, confondendo i sapienti poiché pur essendo Cristo
della stessa natura di Dio, Dio in Dio, s ‘abbassò fino a prendere la natura
del servitore [Fil. 2, 6-7]; poiché potente si fece bisognoso per amor
nostro, da grande piccolo, da sommo umile, da forte bisognoso; poiché ebbe
fame, sete, si stancò con le marce e sopportò tutte le altre sofferenze per
volontà sua, non per necessità, la sua follia, dunque, non fu per noi la via
della sapienza, il modello della giustizia, l’esempio della santità? Per
questo l’Apostolo dice: «Quel che in Dio è stoltezza, per gli uomini è
sapienza somma» [1 Cor. 1, 25]. La sua morte liberò quindi dalla morte; la
vita dall’errore; la grazia dal peccato. La sua morte ha vinto grazie alla
sua giustizia, poiché Egli, Giusto, pagando ciò che non aveva preso,
recuperò di diritto ciò che aveva perduto. La sua vita raggiunse lo scopo
grazie alla sua sapienza, e resta per noi modello di vita e specchio di
comportamento. Inoltre la sua grazia ci ha rimesso i peccati in virtù di
quel potere per cui Egli realizza ogni suo desiderio. La morte di Cristo è,
dunque, la morte della mia stessa morte: poiché Egli morì perché io vivessi.
E come potrebbe non vivere colui a favore del quale la vita stessa ha
accettato di morire? O chi temerà sotto la guida della Sapienza di errare
nell’adempimento delle leggi o nella conoscenza? O da chi sarà ritenuto
colpevole colui che la Giustizia ha assolto? Egli stesso si proclama vita
nel Vangelo dicendo: «Io sono la vita» [Gv. 4,6]. E le altre due cose sono
testimoniate dall’Apostolo che afferma: «Egli è stato fatto per noi
Giustizia e Sapienza di Dio Padre» [1 Cor. 1, 30].
28. Ma se la legge dello spirito di vita in Gesù Cristo
ci ha liberato dalla legge del peccato e della morte [Rm. 8, 2], perché
dunque continuiamo a morire e non siamo stati immediatamente rivestiti
d’immortalità? Perché si compia la verità di Dio. Infatti, poiché Dio ama la
misericordia e la verità [Sai, 83, 12], è necessario – come Egli ha
stabilito – che l’uomo muoia; ma è altresì necessario che risorga da morte,
affinché Dio non dimentichi la misericordia. Dunque la morte, anche se non
dominerà in eterno, tuttavia rimane – sebbene temporaneamente – presso di
noi d’accordo con la verità di Dio, come il peccato, pur non dominando
completamente nel nostro corpo mortale, tuttavia non è del tutto venuto meno
in noi. Per questo Paolo, mentre gioisce da una parte per essere stato
liberato dalla legge del peccato e della morte, dall’altra si lamenta di
essere ancora oppresso in qualche modo da entrambe le leggi, sia quando
esclama miserevolmente contro il peccato: «Trovo una legge differente nelle
mie membra» [Rm. 7, 23], sia dunque schiacciato dalla legge della morte geme
aspettando la redenzione del suo corpo.
29. Tali considerazioni, o altre di questo genere,
vengono suggerite al sentimento cristiano dalla meditazione sul Santo
Sepolcro, secondo la ricchezza interiore di ciascuno nel percepire tali
sentimenti; penso comunque che una grande dolcezza di devozione venga in-
stillata dal contatto diretto in chi è capace di penetrare nel senso del
luogo santo, e che non sia di poca utilità guardare, sia pure con gli occhi
del corpo, il luogo del riposo del Signore. Esso, per quanto ormai vuoto
delle Sacre Membra, tuttavia è pieno dei nostri più lieti misteri. Nostri,
certamente, nostri, se solo con ardore e fermezza crediamo in quello che
l’Apostolo dice: «Noi siamo stati sepolti con il battesimo, nella morte,
affinché come il Cristo è resuscitato da morte per la gloriosa potenza del
Padre così anche noi camminiamo in una nuova vita» [Rm. 6, 43]. Infatti se
fummo innestati a Lui in una morte simile alla sua, ugualmente saremo in una
resurrezione simile alla sua. Quant’è soave per i pellegrini, dopo la grande
fatica del lungo viaggio, dopo i numerosi pericoli in terra e nel mare,
riposare infine lì dove sanno che ha riposato il loro Signore! Credo che per
la grande gioia essi non avvertano più nemmeno la fatica del viaggio né si
curino delle spese affrontate; ma come se avessero conseguito il premio del
travaglio e la ricompensa del cammino, secondo la sentenza della Scrittura:
«Si riempirono di intenso giubilo avendo trovato il Sepolcro» [Gb. 3,22].
Non è difatti per un caso imprevisto, né per un’effimera considerazione del
favore popolare che il Sepolcro raggiunse un nome tanto celebre, poi ché
Isaia aveva predetto di esso tanto palesemente e così tanto tempo addietro:
E vi sarà in quei tempi la radice di Jesse, eretta come insegna dei popoli,
ad essa le genti si volgeranno e il suo sepolcro sarà glorioso. [Is. 11,
10]. Ecco dunque perfettamente adempiuto ciò che abbiamo letto nei Profeti:
cosa nuova per chi osserva ma vecchia per chi legge. Così dalla novità
proviene gioia e dall’antichità [dalla tradizione profetica] discende
autorevolezza. E sul Sepolcro basti quanto si è detto.
XII. Betfage
30. Che dire di Betfage, piccolo villaggio di
sacerdoti, che quasi avevo dimenticato, dov’è racchiuso il mistero della
confessione e del ministero sacerdotale? Betfage significa infatti “casa
della bocca”. Sta scritto: «Presso di te è la parola, nella tua bocca e nel
tuo cuore» [Dt. 30, 14; Rm. 10, 8]. Ricordati pertanto di conservare la
parola non solo nel la bocca ma anche nel cuore. Certamente la parola opera
nel cuore del peccatore una contrizione salutare: la parola detta elimina il
pudore dannoso, affinché esso non sia d’ostacolo alla necessaria
confessione. Così dice la Scrittura: «Vi è un pudore che produce peccato e
un pudore che procura gloria» [Eccl. 4, 25]. Il giusto pudore è vergognarsi
di aver peccato o di star peccando e riverire – quand’anche sia assente
qualsiasi giudice umano – lo sguardo divino con tanta più vergogna di quello
umano quanto più, e a ragione, consideri Dio più vicino a te di qualunque
uomo e si sa che Egli viene offeso tanto più gravemente da chi pecca quanto
remotissimo è in Lui il peccato. Non v’è dubbio che un pudore di tal fatta
mette in fuga il peccato e procura la gloria: esso non permette che il
peccato s’insinui, oppure, essendo caduti in peccato, lo punisce con la
contrizione, e lo scaccia con la confessione. Purché si possegga quel merito
che è la testimonianza della nostra coscienza. Ma se qualcuno ha persino
vergogna di confessare la causa stessa della propria vergogna, tale pudore
produce peccato e il merito viene meno dalla coscienza, mentre la
contrizione si sforza di scaccia re il male dal profondo del cuore: questo
pudore inopportuno chiude l’uscio delle labbra e non ne permette l’uscita.
Piuttosto converrebbe dire, secondo l’esempio di David: «Non impedirò le mie
labbra, Signore, tu lo sai» [Sal. 39, 10]. Il Salmista rimproverando se
stesso per codesto pudore stolto e senza ragione, disse: Poiché ho taciuto
si consumarono le mie ossa [Sal. 31, 3]. Per questo egli desidera che un
uscio sia posto attorno alle sue labbra [cfr. Sal. 140, 3] affinché apprenda
ad aprire la bocca alla confessione e a tenerla chiusa per discolparsi.
Apertamente egli chiede ciò al Signore con la preghiera, sapendo che la
confessione e la magnificenza sono opera di Dio [Sal. 110,3]. E un gran bene
sarà questa duplice confessione, quando saremo capaci di proclamare
apertamente e la nostra malizia – logicamente – e parimenti la magnificenza
della bontà divina e della divina virtù. Ma tale confessione è un dono di
Dio. Infatti David dice: Non sviare il mio cuore in parole malvagie, a
cercare scuse per i miei peccati [Sal. 140,4]. Per questo è necessario che i
sacerdoti, ministri della Parola, siano vigili con sollecitudine ed
attenzione su entrambe le cose, cioè ad instillare parole di contrizione nel
cuore dei peccatori, ma stando attenti a non atterrirli affinché esprimano
la loro confessione. Aprano il cuore così da non ostruire la bocca, ma non
assolvano chi non giudicheranno completamente confessato dalla sua colpa,
anche se contrito: dal momento che con il cuore si crede per la giustizia,
ma con la bocca si professa la fede per avere salvezza [Rm. 10, 10]. Altri
menti la confessione viene meno, come quella d’un morto [cfr. Eccl. 17, 26].
Pertanto chi ha la parola sulla bocca e non nel cuore, o è colpevole o è
vuoto; chi l’ha solo nel cuore o è superbo o vile.
XIII. Betania
31. Sebbene stia procedendo molto celermente, non debbo
tuttavia passare sotto silenzio Betania, “la casa dell’obbedienza”,
villaggio di Maria e di Marta, là dove Lazzaro resuscitò: qui viene
raccomandata la riflessione sui due tipi di vita [attiva e contemplativa] la
mirabile clemenza di Dio verso i peccatori, la virtù dell’obbedienza
congiunta con quella della penitenza. Basti qui chiarire ciò che né la
diligenza nelle buone azioni, né la quiete delle sante contemplazioni, né le
lacrime di pentimento potranno essere accette fuori di “Betania” [cioè se
non siano accompagnate dall’obbedienza] da Colui che stimò così grandemente
l’obbedienza che, obbediente al Padre fino alla morte volle perdere la vita
piuttosto che l’obbedienza. E sono sicuramente queste le ricchezze che la
profezia promette secondo la parola di Dio dicendo: «Il Signore consolerà
Sion, consolerà le sue rovine; renderà delizioso il suo deserto e farà della
sua solitudine un giardino del Signore, e in essa si troveranno letizia,
gratitudine e voci di lode» [Is. 51, 3]. Queste delizie del mondo, questo
tesoro celeste, questa eredità dei popoli fedeli, sono state dunque
consegnate alla vostra fedeltà, o miei diletti, alla vostra prudenza, al
vostro coraggio. Sarete dunque in grado di custodire questi beni celesti a
voi affidati con fedeltà e sicurezza se non confiderete mai nella vostra
prudenza e nella vostra forza ma solo nell’aiuto del Signore, sapendo che
l’uomo non sarà mai sostenuto dalla propria forza [1 Re. 2, 9], e ripetendo
quindi col Profeta: «Signore, mio sostegno, mio rifugio mio liberatore»
[Sal. 17, 3]. Ed ancora: «Custodirò per te la mia forza perché tu, o Dio,
sei il mio difensore. Mio Dio, la tua misericordia mi verrà incontro» [Sal.
58, 10-1 1]. E infine: «Non a noi, Signore, non a noi, ma al tuo Nome dà
gloria» [Sal. 113, 1]; affinché in ogni opera sia benedetto Colui che
addestra le nostre mani alla battaglia, le nostre dita alla guerra [Sal.
143, 1].
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1 novembre 2021 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net