Regola di S. Benedetto
Capitolo XVIII - L'ordine dei salmi nelle ore del giorno: 22. Ci teniamo però ad avvertire che, se qualcuno non trovasse conveniente tale distribuzione dei salmi, li disponga pure come meglio crede, 23. purché badi bene di fare in modo che in tutta la settimana si reciti l'intero salterio di centocinquanta salmi e con l'Ufficio vigiliare della domenica si ricominci sempre da capo. 24. Infatti i monaci, che in una settimana salmeggiano meno dell'intero salterio con i cantici consueti, danno prova di grande indolenza e fiacchezza nel servizio a cui sono consacrati, 25. dato che dei nostri padri si legge che in un sol giorno adempivano con slancio e fervore quanto è augurabile che noi tiepidi riusciamo a eseguire in una settimana.
Capitolo XIX - La partecipazione interiore all'Ufficio divino: 1. Sappiamo per fede che Dio è presente dappertutto e che "gli occhi del Signore guardano in ogni luogo i buoni e i cattivi", 2. ma dobbiamo crederlo con assoluta certezza e senza la minima esitazione, quando prendiamo parte all'Ufficio divino. 3. Perciò ricordiamoci sempre di quello che dice il profeta: "Servite il Signore nel timore" 4. e ancora: "Lodatelo degnamente" 5. e ancora: " Ti canterò alla presenza degli angeli". 6.Consideriamo dunque come bisogna comportarsi alla presenza di Dio e dei suoi Angeli 7. e partecipiamo alla salmodia in modo tale che l'intima disposizione dell'animo si armonizzi con la nostra voce.
Capitolo XLVIII - Il lavoro quotidiano: 13. Dopo il pranzo si dedichino alla lettura personale o allo studio dei salmi.
Donne e salterio: riflessioni di una monaca benedettina
Le Salmodianti ieri e oggi
Maria Ignazia Angelini O.S.B.
Estratto da “L’Osservatore Romano” - 06 aprile 2024
La prima parola di una donna, registrata nel testo delle Sacre Scritture, è
l’ingenua risposta di Eva al serpente; la seconda, è la risposta a Dio in cui la
donna confessa di essere stata ingannata. La terza parola riferita dalla Bibbia
– ed è un simbolo – è l’azione di grazie rivolta a Dio che scaturisce
dall’esperienza della maternità. Quella maternità che dà concreto volto al nome
ricevuto da Adam dopo il drammatico evento in Eden:
«chiamò sua moglie Eva, perché fu la madre di tutti i viventi» (Gn 3,20).
Questa terza parola è un grido – non si sa se di stupore, o di vittoria - come
una preghiera: «Grazie a Dio, ho acquistato un figlio!» (Gn 4,1). Il
riscatto dalla morte, dai dolori del parto (Gn 3,16; Gv 16,21), da ogni
soggezione.
All’altro capo della storia di salvezza, sta una donna Maria di Nazaret. Lei –
nella sacra Scrittura - parla solo con parola di preghiera (anche la domanda
all’angelo, anche il rimprovero al figlio adolescente, anche la costatazione
della mancanza di vino per le nozze, escono come una supplica). E proprio
attraverso questo suo “stare” in preghiera ella sarà riconosciuta da Gesù come
donna (Gv 19,27).
Ebbene, quell’unica volta che Maria esplicita in canto di preghiera la sua
esperienza di maternità - ancora a tutti nascosta -, parla con parole di salmi.
Il Magnificat è stupendo tappeto di preghiera nel cui retro è riconoscibile la
trama e l’ordito: tutte espressioni salmiche. Così tra lo stupito grido di
vittoria della madre di tutti i viventi e l’esultante canto della ragazzina di
Nazaret danzante per i colli di Galilea e i monti della Giudea, tutta la storia
della salvezza nella quale le donne - per legge - “tacciono” (1 Cor 14,34),
è percorsa dal fremito di preghiera di donne che in canto chiamano vicino
l’Altissimo.
Nelle vicende più dure e contrarianti a quelle più aperte al sogno e
all’impossibile, le donne in preghiera cantano. Considerando che il Tu più vero
al loro soffrire e godere, all’angoscia e alla speranza, alla “carne” del loro
umano vivere è lui, l’Altissimo, “mio Go’el” (Lc 1,46).
Un’esperienza profondamente sintonica a queste oranti, è – dopo sessant’anni di
vita monastica, giorno dopo giorno, ne sono certa - quella che sta alla radice
del monachesimo femminile. È l’esperienza di preghiera che si scopre e si fa
sempre più ospitale di tutto l’umano, dimorando stabilmente – tra stanchezza e
sopori – immersa in parole di salmi, nel ritmo dei giorni in monastero.
Quotidianamente, entrando in coro e sedendo al mio posto, ogni volta mi trovo
dinanzi l’affresco trecentesco della preghiera di Gesù al Getsemani, e lì
accanto i tre discepoli dormienti. E lascio echeggiare in me il loro silenzioso
smarrimento, l’imbarazzo di non saper vegliare – che rimbalza di generazione in
generazione e trafigge anche me. E la domanda insistente, grembo di ogni vera
preghiera: “Insegnami!”( Lc 11,1).
Fu un giorno unico, epocale anche se non risulta scritto, quello in cui le
raccolte di salmi di epoche, circoli spirituali, e generazioni diverse furono
riconosciute dalla Comunità credente – inizialmente forse da piccoli nuclei di
deportati - opera dello Spirito di Dio. E il Salterio fu inserito nel canone.
Ecco la radice del pregare nella fede. Che come parte di una comunità di donne
monache, cerco, lascio affondare nella mia vita. Sessant’anni di “battesimo”
nelle Parole dei salmi non affievoliscono ma rendono profondamente radicata
questa evidenza: nel salmodiare insieme – soprattutto insieme, anche quando in
solitudine -, Dio prega Dio. Agostino tra i tanti ha commentato con parole
intramontabili questa esperienza, ce ne ha aperto la porta.
Più vicino a noi nel tempo, ho trovato, a tal proposito, molto espressiva di un
vissuto che tutti ci accomuna, l’espressione di una donna - un passo di una
Lettera di Cristina Campo all’amica Mita -, ove descrive la sua esperienza della
salmodia, a partire dalla frequentazione della celebrazione monastica, lei donna
sola, poetessa di fine sensibilità:
«Nei Salmi troverà tutto, la storia mia e la sua, e tutto gettato
meravigliosamente in grembo a Dio, un enorme diario di tutto l'uomo scritto per
i soli occhi di Dio. E, poco oltre, scrive: «Vorrei tanto che lei scoprisse nel
Salterio un segreto che solo in questi giorni mi si è fatto chiaro nella mente:
come sia la preghiera a far tutto, e l’uomo non sia, come sempre, che un vaso
en ypoméne. È la preghiera a impadronirsi lentamente dell’uomo, non l’uomo
della preghiera, è lei a bere l’umo e a dissetarsene, e solo in seconda istanza
la cosa è reciproca. L’espressione “assorbito dalla preghiera” è letteralmente
esatta. Il metodo, la costanza necessaria, hanno il solo scopo di produrre il
vuoto che renda possibile questo assorbimento. È come nella Cena: “Desiderio
desideravi...”. È lui, [Dio], per primo ad aver fame di noi. È la preghiera a
voler essere pregata, cioè nutrita da noi». «[...il Salterio] il quale
forse non è un libro da leggere solo di sera e nel silenzio. Credo anzi sia il
libro che dovrebbe crearci ovunque, a seconda della nostra fedeltà, sera e
silenzio. Questo s’impara lentamente».
Sul versante opposto del fiume della preghiera dei Salmi - fiume che spesso, di
età in età, affonda in percorsi carsici per riaffiorare attraverso il cuore di
chi vi s’immerge -, una donna di estrazione ebrea, approdata al Salterio
attraverso la mistica cabalistica, così offre la sua scoperta sul sapore
“ecumenico” di questo pregare: « Mi sono ammalata di salmi ormai una decina di
anni fa. Lo confesso, non posso più farne a meno! [...] Il loro linguaggio e la
loro inquietante bellezza accompagnano i miei risvegli e le mie notti. Cerco
dietro il velo delle loro parole comprensioni e amori sempre nuovi. [...]
Veniamo lanciati così, a nostra insaputa, dentro parole che di noi fanno
qualcosa [...] una nuova capacità di vedere e di sentire [...]. I salmi: una
delle trame che hanno sostenuto le più profonde metamorfosi di cui gli uomini e
le donne sono stati capaci» (Olivia Flaim, La danza di Davide. Dalla lettura
dei salmi alle lettere del cosmo, Edizioni Ghibli).
E la sua intuizione appare persuasiva, anche a confrontarla con l’umile
esperienza monastica: pregare i Salmi con tutte le loro parole senza escluderne
nessuna, dirli, leggerli, commentarli, recitarli a memoria, cantarli, suonarli,
è un modo della trasformazione personale che acuisce il senso della vita. E
della vita nella fede.
Tutto - nel pregare i salmi - parte dalla disponibilità a immergersi, a
rinunciare a uno spiritualismo narcisista; a scoprire la dimensione
“battesimale” della preghiera. La preghiera è sempre una resa del proprio
controllo sulla propria vita.
Ma non è una resa comunque: è resa a quel Tu riconosciuto come «l’Altissimo, mio
salvatore» (Lc 1,47). La perdita di controllo ha il colore, il suono, il
profumo dell’affidamento: “c’est la confiance” (Teresa di Lisieux). Sulle orme
di Gesù. E – alla radice dell’affidamento – la pratica spirituale della salmodia
conduce a maturare il consenso ad ospitare in grembo la vicenda che ci accomuna
fino al segno ultimo all’umana ventura - “porto nelle viscere l’abiezione di
molti popoli” (Sal 89,51). È la vocazione dell’Eletto, il Messia.
La pratica del salmodiare insieme, nei giorni, nelle ore, negli istanti,
riconsiderata alla luce di anni, decenni di vissuto corale, fa comprendere in
tutta la sua pregnanza l’espressione di Isacco il siro, monaco del
VII secolo. «Non ti tediare per
la lunghezza dell’ufficio divino e l’estensione delle nostre preghiere e per le
molte ripetizioni che sono in esse. Solo, dobbiamo fare attenzione a non
ritenere e non pensare che esse siano il frutto, bensì la radice» (Centurie,
IV
. 70). Il che vuol dire: assimilare la preghiera che vive nel
fiume dei salmi richiede lunga pazienza (en hypomonè come dice Cristina
Campo, cfr Lc 8,15): la pazienza che consente di «salvare la propria
anima» perdendola. La pazienza – insegna il patriarca del monachesimo - di
«aderire con la mente alla voce» (Regola ai monasteri, San Benedetto da
Norcia, c. 19,7) attraverso l’attenzione del cuore.
Il passaggio dalla radice al frutto è arte squisitamente femminile: come a
Filippi, ove in mezzo a una storia frantumata, disperse in altra terra, a un
cambio d’epoca, le donne timorate di Dio lungo le rive del fiume, con Lidia,
aprivano le soglie d’Europa, lo spazio vitale di una cultura, gloriosa ma in
declino, alla novità rigenerante del Vangelo. E riannodavano legami spezzati,
spalancavano la porta a ingiuste carcerazioni. Guidate dall’intuito spirituale
generato da quelle radici, le preghiere in riva al fiume (Sal 137,1).
Il passaggio “dalla radice al frutto” è il luogo corporeo-spirituale per
maturare la sapienza del cuore filtrata da quelle rugose radici che sono i
salmi: ove l’umano pulsa in tutte le sue passioni, notti e aurore, morti e
rinascite. Gesù non ha forse iniziato e compiuto la sua esistenza imparando,
lui, il suo essere figlio dalle cose patite, e pregando con parole di salmi? La
diuturna consuetudine corale col salterio, accompagnato alla studio amoroso dei
testi, fa maturare nella comunità monastica femminile – priva di ministeri
ordinati e ricca del sacerdozio battesimale - una famigliarità liberante, e
circolare – un vero e proprio “abitare insieme” .
Ma, certo, il dinamismo spirituale della mente che concorda con la voce impegna
la libertà del cuore in un’avventura spirituale alternativa, del tutto
sconosciuta alla cultura che respiriamo in questa faticosa e complessa svolta
d’epoca: la cultura del farsi da sé. Sta comunque, applicabile ai salmi,
l’assioma della sapienza spirituale monastica che sfida tutte le facili ricette
dei vari spiritualismi:
«Colui che in modo superficiale legge sillabe preziose, rende superficiale il
suo cuore e lo priva di quella santa potenza che dà al cuore il dolce gusto di
quegli insegnamenti, che sono capaci di provocare nell’anima la meraviglia» (Isacco
di Ninive).
La meraviglia, l’agilità generata dalla frequentazione assidua del salterio
richiede la competenza tipica di una umanità “materna”, capace di farsi «grembo
della desolazione di popoli» (Sal 89,51), come anche viscere empatiche a
custodia di ogni germoglio di speranza (Sal 131,3) da portare a
maturazione.
In sintesi, possiamo condensare l’abbozzo di un processo lungo e paziente di
vita dicendo che la postura del coro di monache salmodiante bene si riconosce
attratto e proteso verso la piena verità di quel rivelante versetto salmico che
ritorna due uniche volte (ma dense di simbolo) in tutto il salterio (Sal
42,9; Sal 109,4) e indica l’aspirazione di ogni versetto mormorato o cantato
insieme:
“... e io sono preghiera”.
di Maria Ignazia Angelini
Monaca benedettina dell'Abbazia di Viboldone,
Milano
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4 maggio 2024 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net