Regola di S. Benedetto

 

Capitolo LVIII - Norme per l'accettazione dei fratelli

1. Quando si presenta un aspirante alla vita monastica, non bisogna accettarlo con troppa facilità, 2. ma, come dice l'Apostolo: "Provate gli spiriti per vedere se vengono da Dio". 3. Quindi, se insiste per entrare e per tre o quattro giorni dimostra di saper sopportare con pazienza i rifiuti poco lusinghieri e tutte le altre difficoltà opposte al suo ingresso, perseverando nella sua richiesta, 4. sia pure accolto e ospitato per qualche giorno nella foresteria. 5. Ma poi si trasferisca nel locale destinato ai novizi, perché vi ricevano la loro formazione, vi mangino e vi dormano. 6. Ad essi venga inoltre preposto un monaco anziano, capace di conquistare le anime, con l'incarico di osservarli molto attentamente. 7. In primo luogo bisogna accertarsi se il novizio cerca veramente Dio, se ama l'Ufficio divino, l'obbedienza e persino le inevitabili contrarietà della vita comune. 8.Gli si prospetti tutta la durezza e l'asperità del cammino che conduce a Dio.

Capitolo II - L'Abate

33.Soprattutto si guardi dal perdere di vista o sottovalutare la salvezza delle anime, di cui è responsabile, per preoccuparsi eccessivamente delle realtà terrene, transitorie e caduche, 34.ma pensi sempre che si è assunto l'impegno di dirigere delle anime, di cui un giorno dovrà rendere conto 35.e non cerchi una scusante nelle eventuali difficoltà economiche, ricordandosi che sta scritto :"Cercate anzitutto il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date in soprappiù" 36.e anche: "Nulla manca a coloro che lo temono".


Gli spazi per la ricerca di Dio

Ghislain Lafont O.S.B.

Estratto da «Monaci e uomini nella Chiesa e nella società” – Cittadella Editrice 2016

(Ndr: In questo libro sono narrati i colloqui avuti durante una settimana nel 1975 da due giornalisti cattolici col monaco benedettino Ghislain Lafont nell’abbazia La Pierre-qui-Vire)


 

Venerdì sera

 

- Sebbene si parli volentieri di «deserto» quando si tratta della vocazione monastica, la comunità a cui lei appartiene fa parte di un Paese, di una società, di un insieme economico. Come si colloca rispetto a tutto questo?

 

-Abbiamo cominciato da poco a riflettere su questi problemi in maniera coerente. Nella prospettiva socio-politica ed ecclesiastica degli anni 1848-1958, i rapporti tra comunità cristiana e comunità politica erano spesso vissuti e concepiti in maniera polemica. L’idea di un inserimento o di un’interdipendenza non ci sfiorava nemmeno il pensiero, e la concezione che avevamo della «separazione dal mondo» non ci portava ad approfondire questo genere di problema.

Oggi la situazione è cambiata. Ho già espresso la mia convinzione riguardo al fatto che le strutture della comunità cristiana hanno per forza di cose uno stretto legame con le espressioni e le tendenze della società civile; nemmeno le riflessioni che facevo ieri sulla riconversione possibile di una grande comunità sono indipendenti da quello che si può osservare oggi riguardo ai desideri dei nostri contemporanei in materia di vita sociale. C’è dunque una serie di domande, che dobbiamo ancora affrontare in maniera approfondita, ma che cominciamo a porci e che alla lunga implicheranno senza dubbio profondi cambiamenti.

 

«Scegliere degli spazi in cui vivere, purché questi spazi siano aperti...»

 

La prima domanda da porsi riguarda la nostra predisposizione agricola in questo mondo industriale. In generale i monasteri si trovano in campagna; non so se durante le restaurazioni monastiche del XIX secolo la campagna fosse esplicitamente preferita alla città. Senza dubbio è stata una scelta su cui non si è molto riflettuto; tradizionalmente i monasteri sono stati rurali piuttosto che urbani, e si è continuato su questa via. Alcune città francesi sono nate per la moltiplicazione delle abitazioni attorno ad un monastero originariamente fondato in campagna.

Per noi, il fatto di stabilirsi in questo angolo del Morvan non era tanto una scelta della campagna e dell’attività agricola: per una parte padre Muard prevedeva un’ampia attività missionaria che avrebbe dovuto portare i religiosi ad uscire dal loro deserto; poi immaginava un utilizzo industriale del torrente che scorre ai piedi della proprietà. Se ci fosse un problema da porsi, non sarebbe tanto il problema «agricoltura o industria» (di fatto abbiamo entrambe), ma quello di sapere se un monastero situato in piena campagna ha oggi un senso. Considerata la tendenza attuale dell’umanità a preferire le città - si parla di una Grande Parigi che andrebbe da Rouen a Reims, o di una Grande New York che andrebbe da Boston a Washington! - che significa restare in campagna?

Non è sicuramente indispensabile che i monasteri rimangano rurali; ne esistono nelle città. Tuttavia un certo clima per la ricerca di Dio si può creare meglio nella solitudine che in piena città. Non direi mai che una soluzione è migliore e l’altra meno. Quando vado a Parigi so dove andare per trovare un ambiente spirituale dalla profondità equivalente a quella che Dio dona qui; ci sono delle case di Dio proprio nel centro di Parigi. Eppure l’aspetto del «deserto», della «distanza» ha sempre rappresentato un elemento della vita monastica. Si potrebbe sicuramente dire che le città, da certi punti di vista, sono desertiche. È la verità; anche le grandi città dell’antichità, Bisanzio o Alessandria, lo erano: erano degli autentici deserti spirituali. Però i monaci le hanno abbandonate (anche se poi ci sarebbero tornati). Forse esiste una certa affinità tra la vita monastica e gli spazi spogli. Il fatto di vivere in un luogo relativamente deserto, ed è il caso della Pierre-qui-Vire, porta con sé molti vantaggi; poiché la solitudine polarizza o fissa l’attenzione dei monaci sull’essenziale al quale sono votati. Sono colpito, io che vado a Parigi regolarmente da due anni, dall’osservare lo sviluppo dell’audio-visuale, della sollecitazione degli occhi e delle orecchie, e dal constatare fino a che punto la città è diventata dispersiva e divertente. Sicuramente ci si può difendere; basta scegliere. Ma si tratta anche di scegliere, di dirsi che si lascia tutto questo insieme di divertimenti, i quali hanno i loro pro e i loro contro. Ciascuno è perfettamente libero di scegliere gli spazi nei quali vuole vivere, purché questi spazi siano accoglienti per quelli che vogliono venire a condividere il tipo di vita che vi si conduce.

L’inserimento dei monasteri in un ambiente rurale dà un colore particolare alla nostra testimonianza su Dio. Questo è determinato da un certo contesto, in funzione di una determinata esperienza che si incarna in un territorio, nelle istituzioni, in una maniera di relazionarsi. Altri gruppi, di laici o di religiosi, rendono testimonianze di altro tipo; la nostra ha un carattere di pace, un po’ idealista per le persone che vengono in contatto con essa: ma non è un male essere usciti dal tragico e dal peso della vita quotidiana, e non si tratta necessariamente di un’evasione. Le persone che vengono da noi desiderano trovare degli spazi diversi da quelli in cui vivono abitualmente. Se hanno bisogno di una seconda casa per il riposo, può darsi che trovino delle case spirituali in un ambiente diverso dal loro. Si può dunque ammettere che i monasteri situati in luoghi rurali hanno ancora motivo d’esistere. Nella prospettiva «utopica» che delineavo ieri sera questo, d’altronde, non era esclusivo delle piccole comunità urbane legate ad un centro più solitario. Vedremo ciò che ci riserva l’avvenire.

 

«Guadagnarsi il pane e portare equilibrio nella propria vita in una società che si trasforma...»

 

La questione del nostro inserimento nel territorio non è indipendente da quella del guadagnarsi il pane. Poiché bisogna assolutamente che i monaci si guadagnino da vivere attraverso il proprio lavoro. L’agricoltura, oggi, non è cosa facile per nessuno: attualmente si può essere monaco vivendo di agricoltura (con tutto il tempo di attività non produttive che questa presuppone)? Già nel Medioevo la risposta era negativa e l’istituzione dei conversi rispondeva ad una necessità economica. Se ci si rivolge maggiormente verso l’industria, come si può avere un’impresa abbastanza redditizia per far vivere una comunità? Attualmente il nostro numero ci avvantaggia, visto che una comunità numerosa può arrivare ad essere una piccola o media impresa, ed è il nostro caso per la fattoria, la stamperia e la casa editrice. Abbiamo avuto periodi difficili, come abbiamo avuto periodi facili, ma per il momento le cose vanno relativamente bene. Ciò nondimeno questa organizzazione è legata al numero di uomini presenti qui (e che comunque non staranno qui per un tempo indefinito) e alla situazione socio-politica del nostro Paese, forse meno stabile di quanto possa sembrare.

Nella situazione presente della comunità e della società quello che facciamo qui mi sembra un successo. Il lavoro è serio, ci fornisce le entrate necessarie ed è per ognuno un reale mezzo di auto-espressione. L’equilibrio tra il lavoro, la preghiera e le attività culturali sembra ormai raggiunto.

Abbiamo cinque ore di lavoro senza contare i servizi (abbastanza onerosi) di pulizia, di lavaggio dei piatti etc., che sono svolti dai fratelli a turno. Ci si potrebbe scandalizzare per il fatto che lavoriamo solo cinque ore. Ma se nell’organizzazione attuale della nostra vita ciò ci permette di avere quello di cui abbiamo bisogno e aiutare, come possiamo, quelli che si rivolgono a noi, perché dovremmo metterci a lavorare di più? Se non dovessimo fare fronte ai nostri bisogni e ai nostri obblighi, si dovrebbe rivedere la questione. Ma non essendo questo il caso, difendo strenuamente questo orario che ci permette di vivere con ritmi umani e che contesta l’odierna psicosi del lavoro e della produttività. Produrre? Ma che cosa? E perché?

La vita che conduciamo è una vita faticosa ed equilibrata, entrambe le cose allo stesso tempo. Non c’è nulla di eccessivo, né nel sonno, né nel cibo, né nel riposo. Peraltro la vita spirituale - concentrarsi su Dio, pregare - è un’occupazione fisicamente faticosa. È molto più riposante e «rilassante» ascoltare un disco che cercare di raggiungere Dio. Certi insuccessi nella vita comune, ma anche le responsabilità che si accetta di prendersi per evitarli, sono anch’essi una causa di fatica. Ma qual è l’uomo che non deve prendersi le proprie responsabilità, nei rapporti professionali e familiari, per restare disponibile? Qual è l’uomo che non deve dominare la fatica del percorso fatto in comune? La nostra vita è equilibrata perché è molto regolare, molto ordinata. Si svolge, per il momento, in campagna, e si sviluppa in un ambiente di carità, di intesa fraterna, e tutto ciò è il contrario della fatica. Non amarsi, brontolare, inquietarsi è spossante. Mentre amarsi è costruttivo, anche fisicamente. In una comunità in cui ci si ama, si sta bene! La nostra vita mi sembra molto umana: nel senso negativo, piena di fatiche; nel senso positivo, piena di felicità.

È legittimo al giorno d’oggi creare una piccola cellula in cui il lavoro ha successo? Considerata la situazione attuale della società, direi di sì; in una certa misura si può addirittura pensare che l’esistenza di un’impresa giochi un ruolo in quello che si può chiamare «profetismo monastico». Qui lo colloco al livello di una serie di elementi interessanti: proprietà collettiva dell’impresa; uguaglianza totale dei lavoratori, che siano direttori o addetti alla manutenzione; ritmo del lavoro che non è organizzato in funzione del profitto, che si cerca sempre di aumentare, ma che viene gestito per guadagnarsi da vivere e per assicurarsi le basi necessarie per non fallire all’arrivo della prima crisi. Questa testimonianza richiede da parte dei fratelli un vero lavoro spirituale: la lotta di classe e il sentimento della dignità ferita sono presenti qui come altrove. Durante l’ufficio posso trovarmi al fianco di un fratello in particolare; a ufficio finito andiamo entrambi in cella a cambiarci: lui andrà in un ufficio in cui avrà a disposizione una macchina da scrivere e un telefono, e io andrò a sporcarmi le mani di grasso [1]. Se pensa che non riparo abbastanza velocemente una determinata macchina della stamperia e che ciò ritarda una pubblicazione, non sarà certo contento e probabilmente lo farà sapere. Un’opposizione tra lavoratore e direttore è dunque possibile; la si può superare perché si è insieme al servizio di una stessa comunità, e la stessa comunità al servizio di Dio può costituire una testimonianza che ha un certo valore politico.

Tuttavia, parlo al condizionale di questa idea di un «profetismo monastico» o di una testimonianza del monastero in materia di lavoro. In effetti mi sembra che almeno nel mondo dei lavoratori il problema sia molto più ampio. Non si tratta solo di realizzare le condizioni di giustizia sociale all’interno di un’impresa; occorre anche sapere come questa impresa si collega agli altri, come i lavoratori di questa impresa si sentono e come vogliono declinare la loro solidarietà verso gli altri lavoratori della professione e del mondo del lavoro in generale. Mi domando se per noi il vero profetismo, attualmente, non sia altro che prendere informazioni sull’organizzazione del lavoro (e quindi della vita nella sua totalità) nei monasteri che si trovano in paesi socialisti; non so come sia stata la situazione dei priorati benedettini in Cile al tempo di Allende; per essere davvero onesto con me stesso penso che dovrei saperlo. Dovremmo anche affacciarci alla riflessione teorica: teoria del lavoro, socio-economia, e avere a portata di mano un monaco competente in questo campo. Questo arricchirebbe la nostra esperienza nel modo stesso in cui affrontiamo i nostri problemi economici. Se le nostre imprese ci inseriscono in un circuito economico, sarebbe bene indirizzare la nostra attenzione alle nozioni e ai princìpi che sottendono il circuito. E - perché no? - anche elencare e verificare i concetti di Marx sul lavoro, sulla forza-lavoro, sul plus-valore, sul profitto... Che valore hanno? Se non hanno valore, lasciamoli stare. Ma se per caso valessero qualcosa, abbiamo il diritto di costruire il nostro lavoro senza tenerne conto e senza prendere in considerazione le realtà sociali che cercano di spiegare? È chiaro che per un cristiano l’uomo non si definisce esclusivamente a partire dalla produzione per la sua sussistenza né dall’autoproduzione per i suoi bisogni; ci sono anche altri settori, come quello della relazione con gli uomini e con Dio. Ma dicendo questo non si è «rifiutato il marxismo economico»; occorre analizzarlo; appartenendo al mondo del 1975 possiamo evitarlo? Non sarebbe profetico intraprenderlo?

Ciò mi porta - anche se il collegamento è un po’ debole - ad affrontare rapidamente la questione della povertà e della maniera concreta in cui vorrei che i monaci si rapportassero al denaro. Il riflesso spontaneo del religioso è: «Si è poveri, quindi non si spende». Ora, credo sia molto importante saper spendere, per non confondere l’avarizia - una passione per il possedere, per il trattenere - e la povertà. Ho scoperto questo problema quando ero negli Stati Uniti: guadagnandomi da vivere e disponendo di una piccola somma di denaro, avevo provato molta difficoltà a darne! Eppure sapevo che mi sarebbe bastato scrivere al monastero per riceverne - dunque all’inizio non mi facevo molti scrupoli. Ma volevo finanziarmi da solo più che potevo, per non pesare sulla mia comunità: occorreva dunque che conservassi denaro per pagare l’aereo di ritorno, la pensione, questo, quello. E dare un biglietto da cinquanta o cento dollari! Ho capito di essere più avaro di quanto credessi. Non sono così entusiasta del fatto che ognuno di noi sia rifornito dalla comunità, come prescrive la Regola di san Benedetto: sarei molto felice se si trovasse un sistema che permettesse ai monaci di ricevere una mensilità o nel caso che si vivesse in gruppo un sistema in grado di dare al gruppo delle mensilità, così da vivere con questa somma. Ciò comporterebbe un cambiamento di tutta la contabilità, in modo da permettere ai monaci - individualmente o in piccoli gruppi - di diventare responsabili del loro denaro, del loro guardaroba, della loro elemosina, dei loro libri, del loro carburante. II sistema attuale, il quale consiste nel ricevere tutto, presenta dei vantaggi, poiché crea una certa dipendenza; ma non sono convinto che sia la migliore soluzione per il giorno d’oggi; mi piacerebbe di più un vero sistema di finanziamento. Nell’epoca attuale, non dovrebbe ogni uomo - seppur religioso - saper gestire il poco denaro che ha, il suo S.M.I.G [2]? Ad ogni monaco sarebbe corrisposto uno S.M.I.G. o anche qualcosa di meno, visto che non ha famiglia. Si pretende di fare voto di povertà: che cosa riceve ciascuno? Che cosa riceve ogni gruppo di monaci? Come si fa a economizzare e dare, e allo stesso tempo a spendere, per esempio facendo dei regali?

A proposito di regali, l’altro giorno mi sono un po’ infastidito quando il padre abate ne ha parlato: «Qui al monastero c’è una fonte di regali molto semplice: per un medico che vi ha curato il regalo ideale è un’opera di Zodiaque [3]; (può un monaco chiedere di offrire un’opera di Zodiaque?»). Il padre abate ha aggiunto: «Fate attenzione, badate che nel mondo esterno il libro dovrebbe essere acquistato». Sono rimasto un po’ colpito: spero bene di guadagnarmi da vivere qui, e di non essere un parassita tenendo corsi ai miei fratelli e lavorando in garage etc. In nessun modo mi considero un povero nutrito dalla misericordia! Di conseguenza, una parte del mio salario dovrebbe permettermi di fare dei regali. Il voto e la pratica della povertà si basano sul fatto che io rinuncio a questo salario in favore della comunità, e che non posso più pretendere di spenderlo senza il suo permesso. Dunque è lei (la comunità) che farà il regalo al posto mio, come anche, lo spero bene, rinuncerà a parte di quello che possiede per darlo ai poveri.

Parlo di questa reazione interiore un po’ troppo vivace a causa di ciò che essa presuppone. Attualmente viviamo in un sistema in cui è lo stesso gruppo sociale a possedere le imprese, a fornire la manodopera e ad introiettare i guadagni; in più questo gruppo è una comunità religiosa i cui membri sono innanzi tutto uniti da una vocazione comune non legata allo statuto economico della comunità. Ma oggi credo si debba iniziare a fare delle distinzioni: la comunità, come proprietaria collettiva dei mezzi di produzione, si identifica di fatto con la comunità come associazione di uomini consacrati. Ma non si tratta di un’identità di diritto. Percepire questa non-identità può portare a grandi cambiamenti di mentalità per quanto riguarda il lavoro e il denaro.

 

- Gli aspetti economici e sociali che ha affrontato sono legati alla politica. Come si pone il monachesimo rispetto alla politica?

 

- Praticamente, il solo atto politico che un monaco può fare - come la maggior parte dei cittadini organizzati in qualunque altro Paese - è votare. Non so quando i monaci di La Pierre-qui-Vire hanno iniziato a votare a Saint-Léger-Vauban, ma quello che so è che dopo la guerra del ’45, quando il diritto di voto è stato esteso alle donne, si sono visti andare a votare dei gruppi di carmelitane, di visitandine e di altri ordini che non erano mai usciti dai loro conventi. Lo scopo dell’operazione era quello di assicurare il voto ai candidati del «partito buono»: avendo a disposizione molte schede elettorali femminili occorreva far trionfare la «buona causa». Penso che sia per questo motivo che i monaci hanno cominciato a votare ancora prima: per fare trionfare la buona causa, dunque tutto quello che poteva favorire l’ordine sociale cristiano. Mi pongo il problema del significato del voto per un monaco... votare per un candidato che non sosteneva la scuola libera voleva dire non votare per la «buona causa». Ma, dal momento che non siamo più nella prospettiva della «buona causa», bisognerebbe fare ancora una riflessione: data la vocazione monastica, la comunità monastica, il suo posto nel mondo, quale deve essere il nostro ruolo?

È certo che il rapporto politico al livello municipale o regionale sia molto più ampio e molto più efficace per noi rispetto a quello al livello nazionale. Abbiamo degli interessi simili a quelli del Comune e il Comune ha interessi simili ai nostri, e possiamo essere al servizio l’uno dell’altro. Nella dimensione di una piccola comunità occorre inevitabilmente mettersi d’accordo gli uni con gli altri. L’ho capito a Beuron, in Germania: il decano dei fratelli conversi, che sembrava il capo di tutti i fratelli, aveva un carattere forte: veniva chiamato Prefekt. Era membro del Consiglio comunale di Beuron e ho sempre trovato curioso il fatto che nel Consiglio comunale di Saint-Léger-Vauban non ci fossero stati monaci: ogni decisione comunale ci interessa direttamente e abbiamo il dovere di interessarci a ciascuna di esse. Il finanziamento del Comune dipende da noi per una parte, poiché paghiamo le tasse comunali, dato che le patenti d’impresa sono pagate ai Comuni. Sarebbe sicuramente un rapporto più impegnato, forse più difficile, che avere, come d’altronde succede, delle buone relazioni con il sindaco e con il Consiglio comunale, ed imporrebbe una riflessione di tutta la comunità; gli aspetti tecnici evidentemente sarebbero lasciati ai fratelli più competenti.

Sono molto felice che abbiamo potuto affrontare la discussione delle nostre rispettive opzioni politiche, all’interno del gruppo di comunità al quale appartengo, in occasione delle ultime elezioni presidenziali. Discutere di politica in maniera pacifica è certamente un segno di maturità umana.

Da parte mia non penso che l’attuale società neoliberale prenda i mezzi per ricostruirsi su basi che siano, se non giuste, almeno meno ingiuste di quelle che abbiamo oggi. Un’analisi economica precisa è difficile da fare, ma se si considera l’evoluzione della storia sociale in Francia dopo il 1880, tutti i miglioramenti della condizione dei più poveri sono stati sempre ottenuti dagli stessi poveri a forza di dure rivendicazioni. Sono cosciente dei rischi che il Programma comune [4] comporta, ma ad un certo punto non ci si deve dire: «Bisogna accettare questo rischio perché sarebbe ingiusto non accettarlo?» È in questo modo che mi pongo il problema. Faccio un esempio che mi ha molto colpito.

Per due o tre anni mi sono occupato dei Groupements de vie évangélique, la federazione di tutti i gruppi di vita spirituale legati a Ordini religiosi e che dopo il Concilio cercavano di rinnovarsi: Fraternità francescana, Fraternità dominicana, Fraternità carmelitana, Oblati benedettini, raggruppamenti di «Vita cristiana» dei gesuiti, tutti i gruppi dell’Unione di padre de Foucauld, etc. Ho avuto degli incontri con cristiani davvero meravigliosi, uomini e donne veramente votati a Gesù Cristo, e agli ambienti in cui vivono. Questa associazione dei Groupements de vie évangélique è stata, per un certo periodo, presieduta da un membro della Fraternità francescana che proveniva dal mondo operaio; era impiegato in un’amministrazione parigina, membro molto convinto dell’A.C.O. (Action Catholique Ouvrière) e uomo dalla profonda vita spirituale. Una sera mi ha invitato a cena da lui, con sua moglie e le sue figlie. Mi parlò di una piccola fabbrica del loro quartiere, una fabbrica che produceva ghiaccio che stava per essere venduta dal proprietario; oggi sembra comprensibile, dato che tutti hanno dei frigoriferi, considerata la riduzione del commercio del ghiaccio. Forse questa fabbrica è stata trasformata, questo non lo so; resta il fatto che è stata venduta, e questa coppia mi diceva: «Ma è proprio ingiusto che sia stata venduta dal proprietario senza consultare e avvisare i lavoratori; perché, in fin dei conti, eravamo “noi” quella fabbrica!».

Fatti come questo mi toccano molto. Si potrebbe dire (ma sarebbe da verificare) che i lavoratori di una fabbrica, per mancanza di formazione, di visione del mercato, etc., non abbiano gli elementi necessari per valutare la sua gestione. I loro delegati in ogni caso potrebbero averli. Ma non penso che sia normale che per un affare così importante come una cessione o una fusione non vengano date informazioni e non vengano fatte consultazioni preliminari.

Si può pensare che non sia stato il proprietario il responsabile di questa mancanza di comunicazione. Forse tutto deriva dal fatto che le istanze attuali di organizzazione della proprietà sono tali che il solo modo di sopravvivere per il proprietario e per gli operai, riqualificandosi prima che fosse troppo tardi, era quello di vendere senza fare consultazioni. Allora ci si può chiedere: non sarebbe il caso di lavorare per cambiare la società? Non sono di certo marxista. Lavorare per un’altra società non significa, perlomeno lo spero, fare una rivoluzione totale di tipo bolscevico. Non c’è una soluzione che permetta alla società attuale di cambiare senza che sia totalitaria, e in cui gli equilibri umani, collettivi e finanziari siano meglio adattati l’uno all’altro?

Non mi pongo questa domanda perché ricordo l’emozione che mi ha provocato il caso di cui vi ho parlato, proprio come me lo raccontavano gli operai che avevo incontrato. Ho letto qualcosa su questa questione e parlato con diverse persone; credo di saperne abbastanza perché quello che dico non sembri il frutto dell’incurabile ingenuità di un ecclesiastico sentimentale. E non ne so abbastanza per andare più a fondo nella mia analisi. Dico semplicemente: dato il fallimento sociale di una società come la nostra, forse sarebbe bene creare un’altra forma di società. Certamente il rischio sarebbe grande, ma forse oggi sarebbe ingiusto non correrlo.

Mi avete fatto la domanda «monachesimo e politica»; la mia risposta è in realtà molto più limitata, e in definitiva abbastanza personale. Come ogni cittadino, cerco di informarmi e di vederci chiaro; i miei fratelli fanno lo stesso. Su questo punto posso sbagliarmi, come su tanti altri che sono emersi durante questi colloqui. Almeno ho la fortuna di vivere in una comunità in cui è possibile pensare liberamente, e restare in armonia con coloro che la pensano diversamente. Forse anche questo aspetto è una testimonianza della «pace benedettina».

 


[1] L’onestà mi obbliga a dire che l’«io» detto qui è abbastanza impersonale! Se è vero che mi sporco le mani di grasso ogni giorno, potrei non essere in grado di riparare una macchina della stamperia e ciò potrebbe far arrabbiare il direttore. E passo molto più tempo con i libri e con la macchina da scrivere che sotto le macchine!

[2] Acronimo che sta per Salaire Minimum Interprofessionnel Garanti. Si tratta del salario minimo francese.

[3] «Zodiaque» è il titolo della collezione di arte romana pubblicata dal monastero.

[4] Negli anni 70 i comunisti, socialisti e radicali di sinistra avevano concordato un programma comune per le elezioni.

 


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25 ottobre 2024                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net