Capitolo LVIII - Norme per l'accettazione dei fratelli
1. Quando si presenta un aspirante alla vita monastica, non bisogna accettarlo con troppa facilità, 2. ma, come dice l'Apostolo: "Provate gli spiriti per vedere se vengono da Dio". 3. Quindi, se insiste per entrare e per tre o quattro giorni dimostra di saper sopportare con pazienza i rifiuti poco lusinghieri e tutte le altre difficoltà opposte al suo ingresso, perseverando nella sua richiesta, 4. sia pure accolto e ospitato per qualche giorno nella foresteria. 5. Ma poi si trasferisca nel locale destinato ai novizi, perché vi ricevano la loro formazione, vi mangino e vi dormano. 6. Ad essi venga inoltre preposto un monaco anziano, capace di conquistare le anime, con l'incarico di osservarli molto attentamente. 7. In primo luogo bisogna accertarsi se il novizio cerca veramente Dio, se ama l'Ufficio divino, l'obbedienza e persino le inevitabili contrarietà della vita comune. 8.Gli si prospetti tutta la durezza e l'asperità del cammino che conduce a Dio.
Capitolo II - L'Abate
33.Soprattutto si guardi dal perdere di vista o sottovalutare la salvezza delle anime, di cui è responsabile, per preoccuparsi eccessivamente delle realtà terrene, transitorie e caduche, 34.ma pensi sempre che si è assunto l'impegno di dirigere delle anime, di cui un giorno dovrà rendere conto 35.e non cerchi una scusante nelle eventuali difficoltà economiche, ricordandosi che sta scritto :"Cercate anzitutto il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date in soprappiù" 36.e anche: "Nulla manca a coloro che lo temono".
Incontrare Dio significa incontrare un fatto ragionevole
Papa Benedetto XVI (Joseph Ratzinger)
Estratto da “Con Dio non sei mai solo”
- Rizzoli, 2023
Parigi, 12 settembre 2008 Discorso durante l’incontro con il mondo della cultura
al Collège des Bernardins in occasione del viaggio apostolico in Francia per il
150° Anniversario delle apparizioni di Lourdes
(Ndr. Discorso presente con qualche piccola variante anche sul sito della Santa
Sede: vatican.va)
La ricerca di Dio dei monaci medievali
Vorrei parlarvi stasera delle origini della teologia occidentale e delle radici
della cultura europea. Ho ricordato all’inizio che il luogo in cui ci troviamo è
in qualche modo emblematico. È infatti legato alla cultura monastica, giacché
qui hanno vissuto giovani monaci, impegnati ad introdursi in una comprensione
più profonda della loro chiamata e a vivere meglio la loro missione. È questa
un’esperienza che interessa ancora noi oggi, o vi incontriamo soltanto un mondo
ormai passato? Per rispondere, dobbiamo riflettere un momento sulla natura dello
stesso monachesimo occidentale. Di che cosa si trattava allora? In base alla
storia degli effetti del monachesimo possiamo dire che, nel grande
sconvolgimento culturale prodotto dalla migrazione di popoli e dai nuovi ordini
statali che stavano formandosi, i monasteri erano i luoghi in cui sopravvivevano
i tesori della vecchia cultura e dove, in riferimento ad essi, veniva formata
passo passo una nuova cultura. Ma come avveniva questo? Quale era la motivazione
delle persone che in questi luoghi si riunivano? Che intenzioni avevano? Come
hanno vissuto?
Innanzitutto e per prima cosa si deve dire, con molto realismo, che non era loro
intenzione di creare una cultura e nemmeno di conservare una cultura del
passato. La loro motivazione era molto più elementare. Il loro obiettivo era:
quaerere Deum, cercare Dio. Nella confusione dei tempi in cui niente
sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per
trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa.
Erano alla ricerca di Dio. Dalle cose secondarie volevano passare a quelle
essenziali, a ciò che, solo, è veramente importante e affidabile. Si dice che
erano orientati in modo “escatologico”. Ma ciò non è da intendere in senso
cronologico, come se guardassero verso la fine del mondo o verso la propria
morte, ma in un senso esistenziale: dietro le cose provvisorie cercavano il
definitivo.
Quaerere Deum:
poiché erano cristiani, questa non era una spedizione in un deserto senza
strade, una ricerca verso il buio assoluto.
Dio stesso aveva piantato delle segnalazioni di percorso, anzi, aveva spianato
una via, e il compito consisteva nel trovarla e seguirla. Questa via era la sua
Parola che, nei libri delle Sacre Scritture, era aperta davanti agli uomini.
La ricerca di Dio richiede quindi per intrinseca esigenza una cultura della
parola o, come si esprime Jean Leclercq: nel monachesimo occidentale,
escatologia e grammatica sono interiormente connesse l’una con l’altra.
[1]
Il desiderio di Dio, le désir de Dieu, include l’amour des lettres,
l’amore per la parola, il penetrare in tutte le sue dimensioni. Poiché nella
Parola biblica Dio è in cammino verso di noi e noi verso di Lui, bisogna
imparare a penetrare nel segreto della lingua, a comprenderla nella sua
struttura e nel suo modo di esprimersi.
Così, proprio a causa della ricerca di Dio, diventano importanti le scienze
profane che ci indicano le vie verso la lingua.
Poiché la ricerca di Dio esigeva la cultura della parola, fa parte del monastero
la biblioteca che indica le vie verso la parola. Per lo stesso motivo ne fa
parte anche la scuola, nella quale le vie vengono aperte concretamente.
Benedetto chiama il monastero una Dominici servitii schola. Il monastero
serve alla eruditio, alla formazione e all’erudizione dell’uomo – una
formazione con l’obbiettivo ultimo che l’uomo impari a servire Dio. Ma questo
comporta proprio anche la formazione della ragione, l’erudizione, in base alla
quale l’uomo impara a percepire, in mezzo alle parole, la Parola.
La parola genera la comunità
Per avere la piena visione della cultura della parola, che appartiene
all’essenza della ricerca di Dio, dobbiamo fare un altro passo. La Parola che
apre la via della ricerca di Dio ed è essa stessa questa via, è una Parola che
riguarda la comunità. Certo, essa trafigge il cuore di ciascun singolo (cfr.
At 2, 37).
Gregorio Magno descrive questo come una fitta improvvisa che squarcia la nostra
anima sonnolenta e ci sveglia rendendoci attenti per la realtà essenziale, per
Dio.
[2]
Ma così ci rende attenti anche gli uni per gli altri.
La Parola non conduce a una via solo individuale di un’immersione mistica, ma
introduce nella comunione con quanti camminano nella fede. E per questo bisogna
non solo riflettere sulla Parola, ma anche leggerla in modo giusto. Come nella
scuola rabbinica, così anche tra i monaci il leggere stesso compiuto dal singolo
è al contempo un atto corporeo. «Ma abitualmente quando leggere e lectio
sono usati senza specificazioni, designano un’attività che, come il canto e la
scrittura, impegnano tutto il corpo e tutto lo spirito», dice al riguardo Jean
Leclercq.
[3]
E ancora c’è da fare un altro passo. La Parola di Dio introduce noi stessi nel
colloquio con Dio. Il Dio che parla nella Bibbia ci insegna come noi possiamo
parlare con Lui.
Specialmente nel Libro dei Salmi Egli ci dà le parole con cui possiamo
rivolgerci a Lui, portare la nostra vita con i suoi alti e bassi nel colloquio
davanti a Lui, trasformando così la vita stessa in un movimento verso di Lui. I
Salmi contengono ripetutamente delle istruzioni anche sul come devono
essere cantati ed accompagnati con strumenti musicali. Per pregare in base alla
Parola di Dio il solo pronunciare non basta, esso richiede la musica. Due canti
della liturgia cristiana derivano da testi biblici che li pongono sulle labbra
degli Angeli: il Gloria, che è cantato dagli Angeli alla nascita di Gesù,
e il Sanctus, che secondo Isaia 6 è l’acclamazione dei Serafini
che stanno nell’ immediata vicinanza di Dio.
Alla luce di ciò la Liturgia cristiana è invito a cantare insieme agli Angeli e
a portare così la parola alla sua destinazione più alta. Sentiamo in questo
contesto ancora una volta Jean Leclercq: «Bisogna trovare accenti che traducono
il consenso dell’uomo redento ai misteri che celebra e di cui riceve il
beneficio: i pochi capitelli di Cluny che ci sono stati conservati (…)
rappresentano simboli cristologici dei diversi toni del canto».
[4]
Benedetto, Agostino, Bernardo
In Benedetto, per la preghiera e per il canto dei monaci vale come regola
determinante la parola del Salmo: Coram angelis psallam Tibi, Domine
– davanti agli angeli voglio cantare a Te, Signore (cfr.
Sal 138,1
Vulg.).
Qui si esprime la consapevolezza di cantare nella preghiera comunitaria in
presenza di tutta la corte celeste e di essere quindi esposti al criterio
supremo: di pregare e di cantare in maniera da potersi unire alla musica degli
Spiriti sublimi, che erano considerati gli autori dell’armonia del cosmo, della
musica delle sfere.
Partendo da ciò, si può capire la serietà di una meditazione di san Bernardo di
Chiaravalle, che usa una parola di tradizione platonica trasmessa da Agostino
per giudicare il canto brutto dei monaci, che ovviamente per lui non era affatto
un piccolo incidente, in fondo secondario. Egli qualifica la confusione di un
canto mal eseguito come un precipitare nella “zona della dissimilitudine” –
nella regio dissimilitudinis.
Agostino aveva preso questa parola dalla filosofia platonica per caratterizzare
il suo stato interiore prima della conversione (cfr.
Confess. VII, 10.16): l’uomo, che è
creato a somiglianza di Dio, precipita in conseguenza del suo abbandono di Dio
nella “zona della dissimilitudine” – in una lontananza da Dio nella quale non Lo
rispecchia più e così diventa dissimile non solo da Dio, ma anche da sé stesso,
dal vero essere uomo. È certamente drastico se Bernardo, per qualificare i canti
mal eseguiti dei monaci, usa questa parola, che indica la caduta dell’uomo
lontano da sé stesso. Ma dimostra anche come egli prenda la cosa sul serio.
Dimostra che la cultura del canto è anche cultura dell’essere e che i monaci con
il loro pregare e cantare devono corrispondere alla grandezza della Parola loro
affidata, alla sua esigenza di vera bellezza.
Da questa esigenza intrinseca del parlare con Dio e del cantarLo con le parole
donate da Lui stesso è nata la grande musica occidentale. Non si trattava di una
“creatività” privata, in cui l’individuo erige un monumento a sé stesso,
prendendo come criterio essenzialmente la rappresentazione del proprio io. Si
trattava piuttosto di riconoscere attentamente con gli “orecchi del cuore” le
leggi intrinseche della musica della stessa creazione, le forme essenziali della
musica immesse dal Creatore nel suo mondo e nell’uomo, e trovare così la musica
degna di Dio, che allora al contempo è anche veramente degna dell’uomo e fa
risuonare in modo puro la sua dignità.
Dio ci parla attraverso parole umane
Per capire in qualche modo la cultura della parola, che nel monachesimo
occidentale si è sviluppata dalla ricerca di Dio, partendo dall’interno, occorre
finalmente fare almeno un breve cenno alla particolarità del Libro o dei Libri
in cui questa Parola è venuta incontro ai monaci.
La Bibbia, vista sotto l’aspetto puramente storico o letterario, non è
semplicemente un libro, ma una raccolta di testi letterari, la cui stesura si
estende lungo più di un millennio e i cui singoli libri non sono facilmente
riconoscibili come appartenenti ad un’unità interiore; esistono invece tensioni
visibili tra di essi. Ciò vale già all’interno della Bibbia di Israele, che noi
cristiani chiamiamo l’Antico Testamento. Vale tanto più quando noi, come
cristiani, colleghiamo il Nuovo Testamento e i suoi scritti, quasi come chiave
ermeneutica, con la Bibbia di Israele, interpretandola così come via verso
Cristo.
Nel Nuovo Testamento, con buona ragione, la Bibbia normalmente non viene
qualificata come “la Scrittura”, ma come “le Scritture” che, tuttavia, nel loro
insieme vengono poi considerate come l’unica Parola di Dio rivolta a noi. Ma già
questo plurale rende evidente che qui la Parola di Dio ci raggiunge soltanto
attraverso la parola umana, attraverso le parole umane, che cioè Dio parla a noi
solo attraverso gli uomini, mediante le loro parole e la loro storia.
Questo, a sua volta, significa che l’aspetto divino della Parola e delle parole
non è semplicemente ovvio. Detto in espressioni moderne: l’unità dei libri
biblici e il carattere divino delle loro parole non sono, da un punto di vista
puramente storico, afferrabili. L’elemento storico è la molteplicità e
l’umanità. Da qui si comprende la formulazione di un distico medioevale che, a
prima vista, sembra sconcertante: «Littera gesta docet – quid credas
allegoria…».
[5] La lettera mostra i fatti; ciò che devi
credere lo dice l’allegoria, cioè l’interpretazione cristologica e pneumatica.
Possiamo esprimere tutto ciò anche in modo più semplice: la Scrittura ha bisogno
dell’interpretazione, e ha bisogno della comunità in cui si è formata e in cui
viene vissuta. In essa ha la sua unità e in essa si dischiude il senso che tiene
unito il tutto. Detto ancora in un altro modo: esistono dimensioni del
significato della Parola e delle parole, che si dischiudono soltanto nella
comunione vissuta di questa Parola che crea la storia.
Mediante la crescente percezione delle diverse dimensioni del senso, la Parola
non viene svalutata, ma appare, anzi, in tutta la sua grandezza e dignità. Per
questo il Catechismo della Chiesa Cattolica con buona ragione può dire
che il cristianesimo non è semplicemente una religione del libro nel senso
classico (cfr. n. 108). Il cristianesimo percepisce nelle parole la
Parola, il Logos stesso, che estende il suo mistero attraverso tale
molteplicità e la realtà di una storia umana. Questa struttura particolare della
Bibbia è una sfida sempre nuova per ogni generazione. Secondo la sua natura essa
esclude tutto ciò che oggi viene chiamato fondamentalismo.
La Parola di Dio stesso, infatti, non è mai presente già nella semplice
letteralità del testo. Per raggiungerla occorre un trascendimento e un processo
di comprensione, che si lascia guidare dal movimento interiore dell’insieme e
perciò deve diventare anche un processo di vita. Sempre e solo nell’unità
dinamica dell’insieme i molti libri formano un Libro, si rivelano nella
parola e nella storia umane la Parola di Dio e l’agire di Dio nel mondo.
Spirito, lettera e libertà
Tutta la drammaticità di questo tema viene illuminata negli scritti di san
Paolo. Che cosa significhi il trascendimento della lettera e la sua comprensione
unicamente a partire dall’insieme, egli l’ha espresso in modo drastico nella
frase: «La lettera uccide, lo Spirito dà vita» (2 Cor 3,6). E ancora:
«Dove c’è lo Spirito … c’è libertà» (2 Cor 3,17). La grandezza e la
vastità di tale visione della Parola biblica, tuttavia, si può comprendere solo
se si ascolta Paolo fino in fondo e si apprende allora che questo Spirito
liberatore ha un nome e che la libertà ha quindi una misura interiore: «Il
Signore è lo Spirito, e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà» (2 Cor
3,17). Lo Spirito liberatore non è semplicemente la propria idea, la visione
personale di chi interpreta. Lo Spirito è Cristo, e Cristo è il Signore che ci
indica la strada. Con la parola sullo Spirito e sulla libertà si schiude un
vasto orizzonte, ma allo stesso tempo si pone un chiaro limite all’arbitrio e
alla soggettività, un limite che obbliga in maniera inequivocabile il singolo
come la comunità e crea un legame superiore a quello della lettera: il legame
dell’intelletto e dell’amore.
Questa tensione tra legame e libertà, che va ben oltre il problema letterario
dell’interpretazione della Scrittura, ha determinato anche il pensiero e
l’operare del monachesimo e ha profondamente plasmato la cultura occidentale.
Essa si pone nuovamente anche alla nostra generazione come sfida di fronte ai
poli dell’arbitrio soggettivo, da una parte, e del fanatismo fondamentalista,
dall’altra.
Sarebbe fatale, se la cultura europea di oggi potesse comprendere la libertà
ormai solo come la mancanza totale di legami e con ciò favorisse inevitabilmente
il fanatismo e l’arbitrio.
Mancanza di legame e arbitrio non sono la libertà, ma la sua distruzione.
Non solo
ora, ma anche labora
Nella considerazione sulla “scuola del servizio divino” – come Benedetto
chiamava il monachesimo – abbiamo fino a questo punto rivolto la nostra
attenzione solo al suo orientamento verso la parola, verso l’“ora”. E di
fatto è a partire da ciò che viene determinata la direzione dell’insieme della
vita monastica. Ma la nostra riflessione rimarrebbe incompleta, se non
fissassimo il nostro sguardo almeno brevemente anche sulla seconda componente
del monachesimo, quella descritta col “labora”.
Nel mondo greco il lavoro fisico era considerato l’impegno dei servi. Il saggio,
l’uomo veramente libero si dedicava unicamente alle cose spirituali; lasciava il
lavoro fisico come qualcosa di inferiore a quegli uomini che non sono capaci di
questa esistenza superiore nel mondo dello spirito. Assolutamente diversa era la
tradizione giudaica: tutti i grandi rabbi esercitavano allo stesso tempo anche
una professione artigianale. Paolo che, come rabbi e poi come annunciatore del
Vangelo ai gentili, era anche tessitore di tende e si guadagnava la vita con il
lavoro delle proprie mani, non costituisce un’eccezione, ma sta nella comune
tradizione del rabbinismo.
Il monachesimo ha accolto questa tradizione; il lavoro manuale è parte
costitutiva del monachesimo cristiano.
San Benedetto parla nella sua Regola non propriamente della scuola, anche
se l’insegnamento e l’apprendimento – come abbiamo visto – in essa erano cose
praticamente scontate. Parla però esplicitamente, in un capitolo della sua
Regola, del lavoro (cfr. cap. 48). Altrettanto fa Agostino che al lavoro dei
monaci ha dedicato un libro particolare.
I cristiani, che con ciò continuavano nella tradizione da tempo praticata dal
giudaismo, dovevano inoltre sentirsi chiamati in causa dalla parola di Gesù nel
Vangelo di Giovanni, con la quale Egli difendeva il suo operare in giorno
di sabato: «Il Padre mio opera sempre e anch’io opero» (5, 17).
Il mondo greco-romano non conosceva alcun Dio Creatore; la divinità suprema,
secondo la loro visione, non poteva, per così dire, sporcarsi le mani con la
creazione della materia.
Il “costruire” il mondo era riservato al demiurgo, una deità subordinata. Ben
diverso il Dio cristiano: Egli, l’Uno, il vero e unico Dio, è anche il Creatore.
Dio lavora; continua a lavorare nella e sulla storia degli uomini. In Cristo
Egli entra come Persona nel lavoro faticoso della storia. «Il Padre mio opera
sempre e anch’io opero». Dio stesso è il Creatore del mondo, e la creazione non
è ancora finita.
Dio lavora, ergázetai. Così il lavorare degli uomini doveva apparire come
un’espressione particolare della loro somiglianza con Dio e l’uomo, in questo
modo, ha facoltà e può partecipare all’operare di Dio nella creazione del mondo.
Del monachesimo fa parte, insieme con la cultura della parola, una cultura del
lavoro, senza la quale lo sviluppo dell’Europa, il suo ethos e la sua
formazione del mondo sono impensabili. Questo ethos dovrebbe però
includere la volontà di far sì che il lavoro e la determinazione della storia da
parte dell’uomo siano un collaborare con il Creatore, prendendo da Lui la
misura. Dove questa misura viene a mancare e l’uomo eleva sé stesso a creatore
deiforme, la formazione del mondo può facilmente trasformarsi nella sua
distruzione.
Filosofia è cercare le cose ultime
Siamo partiti dall’osservazione che, nel crollo di vecchi ordini e sicurezze,
l’atteggiamento di fondo dei monaci era il quaerere Deum – mettersi alla
ricerca di Dio. Potremmo dire che questo è l’atteggiamento veramente filosofico:
guardare oltre le cose penultime e mettersi in ricerca di quelle ultime, vere.
Chi si faceva monaco, s’incamminava su una via lunga e alta, aveva tuttavia già
trovato la direzione: la Parola della Bibbia nella quale sentiva parlare Dio
stesso. Ora doveva cercare di comprenderLo, per poter andare verso di Lui.
Così il cammino dei monaci, pur rimanendo non misurabile nella lunghezza, si
svolge ormai all’interno della Parola accolta.
Il cercare dei monaci, sotto certi aspetti, porta in sé stesso già un trovare.
Occorre dunque, affinché questo cercare sia reso possibile, che in precedenza
esista già un primo movimento che non solo susciti la volontà di cercare, ma
renda anche credibile che in questa Parola sia nascosta la via – o meglio: che
in questa Parola Dio stesso si faccia incontro agli uomini e perciò gli uomini
attraverso di essa possano raggiungere Dio.
Con altre parole: deve esserci l’annuncio che si rivolge all’uomo creando così
in lui una convinzione che può trasformarsi in vita. Affinché si apra una via
verso il cuore della Parola biblica quale Parola di Dio, questa stessa Parola
deve prima essere annunciata verso l’esterno.
L’espressione classica di questa necessità della fede cristiana di rendersi
comunicabile agli altri è una frase della
Prima Lettera di Pietro, che nella teologia medievale era considerata la
ragione biblica per il lavoro dei teologi: «Siate sempre pronti a rispondere a
chiunque vi domandi ragione (logos)
della speranza che è in voi» (3, 15) (Il
Logos, la ragione della speranza, deve diventare
apo-logia, deve diventare risposta).
Di fatto, i cristiani della Chiesa nascente non hanno considerato il loro
annuncio missionario come una propaganda, che doveva servire ad aumentare il
proprio gruppo, ma come una necessità intrinseca che derivava dalla natura della
loro fede: il Dio nel quale credevano era il Dio di tutti, il Dio uno e vero che
si era mostrato nella storia d’Israele e infine nel suo Figlio, dando con ciò la
risposta che riguardava tutti e che, nel loro intimo, tutti gli uomini
attendono.
L’universalità di Dio e l’universalità della ragione aperta verso di Lui
costituivano per loro la motivazione e insieme il dovere dell’annuncio. Per loro
la fede non apparteneva alla consuetudine culturale, che a seconda dei popoli è
diversa, ma all’ambito della verità che riguarda ugualmente tutti.
L’uomo sa che Dio deve esistere
Lo schema fondamentale dell’annuncio cristiano “verso l’esterno” – agli uomini
che, con le loro domande, sono in ricerca – si trova nel discorso di san Paolo
all’Areopago.
Teniamo presente, in questo contesto, che l’Areopago non era una specie di
accademia, dove gli ingegni più illustri s’incontravano per la discussione sulle
cose sublimi, ma un tribunale che aveva la competenza in materia di religione e
doveva opporsi all’importazione di religioni straniere.
È proprio questa l’accusa contro Paolo: «Sembra essere un annunziatore di
divinità straniere» (At 17, 18).
A ciò Paolo replica: «Ho trovato presso di voi un’ara con l’iscrizione: Al Dio
ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio» (cfr. 17,
23).
Paolo non annuncia déi ignoti. Egli annuncia Colui che gli uomini ignorano,
eppure conoscono: l’Ignoto-Conosciuto; Colui che cercano, di cui, in fondo,
hanno conoscenza e che, tuttavia, è l’Ignoto e l’Inconoscibile. Il più profondo
del pensiero e del sentimento umani sa in qualche modo che Egli deve esistere.
Che all’origine di tutte le cose deve esserci non l’irrazionalità, ma la Ragione
creativa; non il cieco caso, ma la libertà.
Tuttavia, malgrado che tutti gli uomini in qualche modo sappiano questo – come
Paolo sottolinea nella
Lettera ai Romani
(1, 21) – questo sapere rimane irreale: un Dio soltanto pensato e inventato non
è un Dio. Se Egli non si mostra, noi comunque non giungiamo fino a Lui.
La cosa nuova dell’annuncio cristiano è la possibilità di dire ora a tutti i
popoli: Egli si è mostrato. Egli personalmente. E adesso è aperta la via verso
di Lui.
La novità dell’annuncio cristiano non consiste in un pensiero ma in un fatto:
Egli si è mostrato. Ma questo non è un fatto cieco, ma un fatto che, esso
stesso, è Logos
– presenza della Ragione eterna nella nostra carne.
«Verbum caro
factum est»
(Gv 1,14):
proprio così nel fatto ora c’è il
Logos, il
Logos
presente in mezzo a noi. Il fatto è ragionevole. Certamente occorre sempre
l’umiltà della ragione per poter accoglierlo; occorre l’umiltà dell’uomo che
risponde all’umiltà di Dio.
La nostra situazione di oggi, sotto molti aspetti, è diversa da quella che Paolo
incontrò ad Atene, ma, pur nella differenza, tuttavia, in molte cose anche assai
analoga. Le nostre città non sono più piene di are ed immagini di molteplici
divinità. Per molti, Dio è diventato veramente il grande Sconosciuto.
Ma come allora dietro le numerose immagini degli dèi era nascosta e presente la
domanda circa il Dio ignoto, così anche l’attuale assenza di Dio è tacitamente
assillata dalla domanda che riguarda Lui.
Quaerere Deum
– cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui: questo oggi non è meno necessario che
in tempi passati.
Una cultura meramente positivista, che rimuovesse nel campo soggettivo come non
scientifica la domanda circa Dio, sarebbe la capitolazione della ragione, la
rinuncia alle sue possibilità più alte e quindi un tracollo dell’umanesimo, le
cui conseguenze non potrebbero essere che gravi.
Ciò che ha fondato la cultura dell’Europa, la ricerca di Dio e la disponibilità
ad ascoltarLo, rimane anche oggi il fondamento di ogni vera cultura.
[1]
Cfr J. Leclerc, Cultura
umanistica e desiderio di Dio, Sansoni editore, Firenze 1965, pp.
7-8.
[2]
Cfr. Leclercq, ibid., p. 36.
[3]
Ibid., p. 1.
[4]
Ibid., p. 321.
[5]
Cfr. Augustinus de Dacia (Ndr. Religioso danese, domenicano, morto nel
1285), Rotulus pugillaris, I.
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19
febbraio 2023
a cura di
Alberto
"da Cormano"
alberto@ora-et-labora.net