Abramo di Kashkar
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11. Da Abramo di Kaskar alla grande dispersione :
ripensamento e fioritura delle comunità monastiche
siro-orientali
(VI-VII
sec.)
Di
Vittorio Berti
Estratto dal capitolo sul “Monachesimo siriaco” che trovate a questo link
del volume: “Monachesimo orientale - Un’introduzione”
MORCELLIANA 2010
Avevamo lasciato la chiesa siro-orientale, alla fine del
V° secolo, in un periodo di crescente sospetto nei
confronti della vita ascetica e celibe. Sarà l’opera di riforma di Abramo di Kaskar a far uscire il monachesimo
persiano da questa
impasse
(Chialà, 2006). Abramo, originario di Dadwaran, una località della diocesi
mesopotamica del Kaskar, nacque all’epoca del Cattolico Babai I
(497-503). Dopo un primo periodo
di
formazione nella scuola del suo villaggio natio, il giovane si sarebbe recato
nella città di Hirta, forse per condurvi un primo periodo di vita solitaria,
forse per dedicarsi all’apostolato nei confronti dei pagani del luogo.
Successivamente avrebbe intrapreso un viaggio al monastero di Scete in Egitto,
al Sinai e a Gerusalemme. Nonostante il fatto
che il viaggio dei monaci siriaci verso le fonti del monachesimo
egiziano sia un
topos
molto ricorrente, alcuni elementi sembrano conferire un qualche grado di
attendibilità al caso di Abramo, non ultimo dei quali la forma - e la retorica -
egiziana che conferirà al suo monastero. Al termine di questo pellegrinaggio si
situa il periodo di studi presso la scuola teologica di Nisibi. In seguito ad
una serie di guarigioni da lui operate, la fama che lo circondò lo avrebbe
spinto a cercare riparo nella vita monastica. Si sarebbe a questo punto
installato sul monte Izla, dapprima abitando la grotta che la memoria indicava
come dimora della vita ascetica di Giacomo di Nisibi, poi, con l’arrivo di
altre persone, fondando un monastero con un corpo centrale ove svolgere tutti
insieme il servizio domenicale, e, a una certa distanza, le celle, nelle quali
ogni monaco pregava e lavorava.
Molte fonti concorrono a restituire la storia di questo monastero, ma sono le
Regole a essere il testo più rilevante per comprendere la cifra
del contributo che la comunità di Abramo di Kaskar diede al
monachesimo siro-orientale, essendo peraltro il primo
scritto del genere in questa letteratura monastica. Giunteci sotto il nome del
fondatore, esse si presentano in realtà come il frutto maturo di un’esperienza
comunitaria che parla e decide al plurale. Una comunità che, fin dall’esordio
della regola, si pone sotto la guida del vescovo metropolita di Nisibi,
significativo segnale di un cambiamento di rotta nei confronti del rapporto con
la gerarchia, rispetto alle tendenze anarchiche di cui si è detto. Le
Regole citano autori e testi propri della sapienza monastica
egiziana: i
Detti dei padri del deserto, Marco il monaco, Isaia di Scete.
Inoltre manca, ed è aspetto degno di nota, qualunque riferimento a padri
siriaci. Che la comunità guidata da Abramo volesse ripensare l’esperienza
monastica su basi «nuove» è provato dall’insistenza sul rapporto tra lavoro e
quiete, per nulla tradizionale in Mesopotamia; o sul legame tra preghiera,
lettura e officio delle ore, segno di una presa di distanza dall’orazione
entusiasta dei messaliani; o ancora sulla custodia della propria dimora, il
divieto di girovagare oziosamente tra celle e monasteri, di andare nei centri
abitati senza previa autorizzazione della comunità, o di frequentare case dei
semplici fedeli: persino in caso di malattia si invita il monaco, per non esser
di peso a nessuno, a recarsi nell’apposito ospizio (xenodochio), e non in casa
d’altri. La comunità si pensava come «cenobitica» e il modello, sotto il
profilo degli intenti, era quello pacomiano, anche se a ben vedere la comunità
era organizzata, come si è detto, come una laura.
Custodia dalla mormorazione, dalla sedizione e dal
disprezzo, attenzione alla mitezza, alle pratiche di digiuno, al silenzio, alla
solitudine: questi sono i parametri comportamentali che
vengono proposti come ossatura della regola della comunità. Nessuna parola,
significativamente, viene proferita sul ruolo del celibato. Esso era, come è
ovvio, praticato entro la comunità, tuttavia l’eccessiva enfasi con cui fino ad
allora questo elemento era stato vissuto nel
monachesimo mesopotamico,
deve aver suggerito ad Abramo un prudenziale silenzio.
La «riforma» monastica del monte
Izla non sembra essere stata inizialmente intesa come complessivo ripensamento
del
monachesimo siro-orientale,
bensì, più modestamente, come formula a cui era pervenuto un gruppo di monaci
che prendevano ad esempio in modo esplicito i padri del monachesimo
egiziano e che, al contempo, erano cresciuti nell’area di influenza della
scuola di Nisibi. Va evidenziato lo stretto legame che vediamo agire tra questo
monastero e il cuore teologico della chiesa siro-orientale costituito
dall’accademia cittadina. Lì Abramo aveva studiato l’opera di Teodoro di
Mopsuestia, e fu da questo incontro che la teologia difisita di stampo
antiocheno si ricavò uno spazio importante nella riflessione esegetica del
monachesimo persiano.
Tra i molti allievi di Abramo, si deve ricordare certamente Bar ‘Edta, il primo
e forse il più importante di loro, la cui
Vita
è uno dei testi fondamentali per comprendere i caratteri del
monachesimo siro-orientale di questa stagione. Nato a
Resafa dell’Eufrate nei primi decenni del VI°
secolo e morto, per le fonti, ultracentenario, Bar ‘Edta aveva trascorso
ventitré anni nel monastero di Abramo sul monte Izla, per poi uscirne e fondarne
uno proprio intorno ai primi anni sessanta del
VI°
secolo, probabilmente nella diocesi di Marga, a Nord-Est di Mossul. Solitario
dal carisma profetico, costui, a detta delle fonti, avrebbe predetto la grande
dispersione di monaci dal monastero della Santa Montagna, che sarebbe avvenuta
nella più tarda stagione di Babai il Grande.
La diffusione che il nuovo modello di vita monastica elaborato a Izla ebbe nel
resto della Mesopotamia, infatti, fu un fenomeno di doppia natura, in parte
voluto, con l’invio di alcuni discepoli nelle terre più orientali,
Abramo vivo, a introdurre questa formula nel resto della chiesa di Persia, come
nel caso di Bar ‘Edta, in parte dovuto alle crisi sorte dentro al monastero,
segnatamente a seguito della morte del fondatore (586), nel periodo dei suoi
successori, Dadišo‘ e Babai il Grande. Le
regole elaborate da questi due igumeni mostrano come sia emersa con una certa
urgenza la necessità di definire con maggiore dettaglio di quanto fatto nella
prima regola quali fossero i comportamenti consoni alla comunità di fronte a
precise questioni e ad alcuni amari dissensi, anche cristologici, cresciuti
dall’interno, che andavano incrinando la
comunione della laura e che minavano la sua stessa tenuta. Nelle Regole di Dadišo‘
(† 604), viene in particolare specificato il
ruolo del
Rabbaita, che sembra essere stato una figura a metà tra un
vice igumeno e l'economo del monastero, oltre che il visitatore mensile delle
celle. Si tratta dell’indizio della ricerca di una configurazione che
assicurasse il controllo interno della comunità. Dadišo‘
stesso, che era legato al monastero, ma che proveniva da fuori, pare essere
stato indicato da Abramo in punto di morte come nuovo igumeno,
forse perché entro la fraternità non si riusciva ad individuare una possibile
successione. Ma questa crisi si paleserà soprattutto nella difficile stagione
di Babai. Da qui inizierà una vera e propria diaspora di solitari da Izla verso
tutta la Mesopotamia: una disseminazione che porterà al suo acme storico la
vita monastica siro-orientale. Va detto che Babai, anni dopo, assumerà un ruolo
di primo piano più complessivamente nella vita della chiesa siro-orientale.
Negli anni di vacanza del seggio patriarcale (ca. 609-628) causati dal divieto
di Kosroe II di scegliere un nuovo Cattolico dopo la morte di Gregorio, Babai,
insieme all’arcidiacono Aba, guiderà spiritualmente e politicamente la chiesa.
Sarà allora visitatore dei monasteri del settentrione della Mesopotamia al fine
di rilevare e punire la presenza messaliana, e sarà lui, come si è detto, sia a
creare un'indebita, ancorché letterariamente fruttuosa, solidarietà dottrinale
tra Evagrio e Nestorio, sia a costruire l’altrettanto arrischiata connessione
ideologica tra messalianismo, origenismo e monofisismo (Guillaumont, 1978).
Nonostante il grande zelo con cui lo si può vedere svolgere questa attività di
governo nella maturità, se noi rivolgiamo lo sguardo a come egli gestì il
monastero di Abramo, l’immagine della sua opera si incrina, in particolare per
l’infelice gestione di un caso che diverrà paradigmatico: la vicenda del
solitario del monte Izla Giacomo di Lasom. Fu questo scontro, v’è da dire, a
produrre l’effetto involontario di maggiore portata per la storia monastica
successiva. Giacomo, accusato di aver taciuto il peccato di alcuni suoi vicini
confratelli che avevano condotto delle donne entro le proprie celle e con esse
costituito famiglie, dovette lasciare il monastero di Abramo anche e
soprattutto, pare, per la mancanza di capacità di governo di Babai (cfr.
Bettiolo, 2007). Giacomo, partito assieme ad altri monaci, fonderà nella diocesi
di Marga quello che diverrà il più importante monastero siro-orientale dei primi
secoli dell’Islam, Bet Awe («la casa dei padri») dove avranno il loro esordio
alla vita monastica protagonisti della vita della chiesa come Išo’yaw III
e Martirio/Sahdona, dove il grande mistico Isacco di Ninive riceverà la sua
ordinazione episcopale, e dove, ancora più tardi, il celebre Timoteo I vedrà,
ragazzo, profetizzata la sua ascesa al patriarcato (780), per fare solo alcuni
esempi.
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27 maggio 2015 a cura
di Alberto "da Cormano"
alberto@ora-et-labora.net