Regola di S. Benedetto

 

INIZIA IL TESTO DELLA REGOLA

Regola è chiamata perchè dirige la vita di quelli che obbediscono.

Capitolo I: Le varie categorie di monaci: 1 E' noto che ci sono quattro categorie di monaci. 2 La prima è quella dei cenobiti, che vivono in un monastero, militando sotto una regola e un abate.

Capitolo III - La consultazione della comunità: 7 Dunque in ogni cosa tutti seguano come maestra la Regola e nessuno osi allontanarsene. 8 Nessun membro della comunità segua la volontà propria,

Capitolo LXIV - L'elezione dell'abate: 20 E soprattutto osservi e faccia osservare integramente la presente Regola 21 per potersi sentir dire dal Signore, al termine della sua onesta gestione, le parole udite dal servo fedele, che a tempo debito distribuì il frumento ai suoi compagni: 22 "In verità vi dico: - dichiara Gesù - gli diede potere su tutti i suoi beni".

Capitolo LXXIII - La modesta portata di questa regola: 1 Abbiamo abbozzato questa Regola con l'intenzione che, mediante la sua osservanza nei nostri monasteri, riusciamo almeno a dar prova di possedere una certa rettitudine di costumi e di essere ai primordi della vita monastica... 8 Chiunque tu sia, dunque, che con sollecitudine e ardore ti dirigi verso la patria celeste, metti in pratica con l'aiuto di Cristo questa modestissima Regola, abbozzata come una semplice introduzione, 9 e con la grazia di Dio giungerai finalmente a quelle più alte cime di scienza e di virtù, di cui abbiamo parlato sopra.


Capitolo I

La casa sulla roccia

Isacco Tacconi

Estratto da “Il chiostro e il focolare: La Regola di San Benedetto: una traccia di vita familiare” – Fede & Cultura - 2019. (Edizione Kindle)


 

“Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa non cadde, perché era fondata sopra la roccia” (Mt 7,25)

 

1.a. Fede e realismo della vita cristiana

 

Per edificare una casa è indispensabile cominciare dalle fondamenta. Anzi, prima ancora di cominciare a costruire, è necessario avere un progetto chiaro e concretamente realizzabile. Ma, ancor prima, è necessario che ci sia un architetto che prepari il progetto e diriga i lavori degli operai.

La famiglia cristiana è realmente paragonabile a una casa da edificare e, per restare nella metafora evangelica, gli “operai” non potranno che essere gli sposi, cioè il marito e la moglie, il padre e la madre. Le “fondamenta” saranno i principi morali e spirituali che sorreggeranno la vita familiare già dai suoi albori e durante tutto lo scorrere del tempo fino al suo tramonto. Il “progetto” altro non è che il fine che gli sposi cristiani si prefiggono di raggiungere che è la propria santificazione e la maggior gloria di Dio. L’Architetto con la maiuscola è Dio stesso, Cristo Gesù nostro Signore il quale ha dato alla Chiesa il modello della famiglia che, in quanto “cristiana”, ricalca e imita la vita, le opere e i sentimenti del Cristo.

Il terreno su cui devono poggiare le fondamenta deve essere solido, stabile, immutabile, non fangoso o paludoso, la casa perciò deve poggiare sulla Roccia. “Chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica”, dice il Signore, “sarà paragonato all’uomo saggio, che si è fabbricato la casa sulla roccia. E cadde la pioggia e strariparono i fiumi e i venti soffiarono e infuriarono contro quella casa, ma essa non è crollata, perché era piantata sulla roccia” (Mt 7,24-25).

Dice san Gregorio di Nissa nella sua Vita di Mosè che colui che

 

ha stabilito i suoi passi sulla roccia (la roccia è Cristo, virtù perfetta), quanto più diventa saldo e immobile nel possesso del bene, secondo il consiglio di Paolo, tanto più velocemente compie la corsa. […] Chi avrà conservato la fede per aver collocato i piedi sulla roccia, sarà premiato dalla mano di chi presiede la corsa con la corona di giustizia. [1]

 

 Dunque, Cristo è la Roccia indefettibile, invincibile, immutabile che sorregge l’intera struttura. Allo stesso tempo, Nostro Signore non è solo un attore “passivo” che funge da semplice sostegno inattivo nell’impresa matrimoniale/familiare. Egli, nella misura in cui glielo permettiamo, ne è l’autentico Autore e Fattore è il “Factorem coeli et terrae, visibilium omnium et invisibilium”, ossia Colui che solo può creare e realizzare ogni opera tanto nell’ordine naturale quanto nell’ordine soprannaturale. È di vitale importanza, perciò, credere intimamente e comprendere che Nostro Signore, in quanto Pantocrator cioè Governatore dell’universo, è veramente l’Architetto e il finalizzatore anche dell’edificio familiare: “Nisi Dominum aedificavit domum, in vanum laborant qui aedificat eam” (Sal 126,1). Perciò, in tutti gli sforzi umani, materiali, quotidiani che gli sposi sono chiamati a compiere per parte loro, non devono mai dimenticare che la buona riuscita del loro lavoro dipende unicamente dalla loro fiducia filiale nell’azione soprannaturale della Grazia la quale agisce attraverso e oltre il semplice e frenetico agire umano.

 

Mentre le imprese di questo mondo e tutte le istituzioni terrene, siccome sono solo sostenute dalla prudenza e dalla forza umana, l’una dopo l’altra col passare degli anni crescono, salgono al culmine della prosperità e poi per il loro stesso peso declinano, cadono e svaniscono; al contrario la società che il nostro divin Redentore ha stabilita ha il dono dal suo Fondatore di una vita soprannaturale e di una forza indefettibile col cui appoggio e nutrimento essa se ne esce vincitrice dagli assalti del tempo, degli eventi e degli uomini in modo tale, da potere far sorgere una età nuova e più felice dalle loro stesse perdite e rovine, da poter formare ed educare nella dottrina e nello spirito cristiano una nuova società di cittadini, di popoli e di nazioni. [2]

 

 Questo vale per la Chiesa in generale, presa nella sua integralità di Corpo Mistico di Cristo, ma vale anche per tutte quelle strutture interne che in essa e da essa prendono vita. Di questi “mattoni” dell’edificio ecclesiale brilla in tutti i tempi l’esempio luminoso della famiglia cristiana giustamente definita fin dagli albori una piccola e autentica “chiesa domestica”. Anch’essa, infatti, essendo fondata sulla grazia sacramentale del matrimonio, gode di quella protezione e quella stabilità di cui il Figlio di Dio ha fornito la sua Chiesa ed essendo il matrimonio un’opera “della Chiesa” partecipa dei medesimi presidi per i quali anch’essa, nonostante l’odierna guerra che il mondo ha ingaggiato contro il focolare domestico, uscirà “vincitrice dagli assalti del tempo, degli eventi e degli uomini”.

Gli sposi cristiani sono consapevoli che sono tenuti a fare “la loro parte” per mantenere l’unità spirituale della famiglia e la sua sopravvivenza materiale, ma nutrono anche nell’intimo quella Speranza teologale per la quale sono certi che Dio farà, poi, “la Sua parte” che è in definitiva quella determinante, come ha detto Egli stesso: “Senza di me non potete fare nulla”. È questo, a ben pensarci, un pensiero senza dubbio incoraggiante perché ci sostiene nella speranza e ci alimenta nella fortezza di dover affrontare le inevitabili difficoltà che la vita, specialmente quella cristiana, riserva a coloro che ne divengono partecipi: “Militia est vita hominis super terram et sicut dies mercenarii dies eius” (Gb 7,1).

Importante, dunque, nel concepire l’istituto matrimoniale, e nel difenderlo dai feroci attacchi del liberalismo odierno, non presentarlo attraverso illusioni sentimentalistiche che lo raffigurino come una favola di principi e principesse, allo scopo di renderlo appetibile all’egoismo consumistico-sessuale contemporaneo. La verità va sempre salvata e affermata integralmente, specie quando vengono spacciate delle “caricature” del matrimonio e della famiglia che trovano la loro ragion d’essere in gravi compromessi politici. Oltretutto, la rappresentazione del matrimonio e dell’amore in genere come un’esperienza sostanzialmente romantica è un qualcosa di profondamente non-cristiano e che, come una bolla di sapone, bella quanto fatua, presto andrà in frantumi.

La vita matrimoniale, ne fanno esperienza gli sposi, comporta lotta, sacrificio e mortificazione, in una parola “ascesi”. Non c’è pessimismo in questo giudizio, ma un oggettivo sguardo sulla realtà, giacché una tale ascesi non esaurisce la natura del matrimonio ma ne descrive principalmente il cammino, come la via petrosa e scoscesa per la quale si giunge alle vette paradisiache della beatitudine eterna. La mortificazione personale, che gli sposi cristiani accettano con coraggio di intraprendere nell’atto di sposarsi, è certamente unita, poi, a quei piaceri puri che il calore di una famiglia cristiana fa sperimentare e, ancor più, alla gioia profonda che la carità vissuta riversa nelle anime generose. Ma bisogna essere estremamente realisti, ossia guardare la realtà per quello che è senza zuccherosi infingimenti né distorsioni che impediscano di vederne l’intima bellezza. Il realismo appare, dunque, il giusto atteggiamento in tutte le cose, situato a metà tra l’ottimismo spensierato e il pessimismo paralizzante. Il realismo, infatti, riconosce le fatiche e gli ostacoli e li affronta. A questa lotta ci addestra oggi, come in ogni epoca, la Regola di San Benedetto impregnata di quel sano realismo filosofico-pratico che è alla base della società cristiana. Dico “ci” addestra riferendomi a tutti i cristiani qualunque sia lo stato di vita a cui appartengono, non perché i laici debbano diventare o vivere come i consacrati in una sorta di “confusione egualitaria”, tutt’altro. San Benedetto ha pensato e scritto la Regola principalmente per coloro che intraprendono la via monastica e non per i secolari, cioè i laici. Principalmente ma non esclusivamente, tant’è vero che nel concludere la Regola dichiara:

 

Chiunque tu sia, dunque, che con sollecitudine e ardore ti dirigi verso la patria celeste, metti in pratica con l’aiuto di Cristo questa modestissima Regola, abbozzata come una semplice introduzione, e con la grazia di Dio giungerai finalmente a quelle più alte cime di scienza e di virtù, di cui abbiamo parlato sopra (RB 73,8-9).

 

Dal che si comprende che ogni cristiano “si dirige verso la patria celeste” e di conseguenza aspira allo stesso premio “perché dappertutto si serve il medesimo Signore e si milita sotto lo stesso Re” [3]. Pertanto, lungi dall’essere un testo riservato a “pochi perfetti” la Regola è un vero patrimonio della Chiesa nella sua totalità e la sua traccia appare uno scrigno di sapienza pratica contenente delle massime e degli insegnamenti che possono essere, in una certa misura, declinati in ogni vocazione e in maniera particolarmente appropriata nel matrimonio e nella vita familiare.

 

1.b. Una via di santificazione familiare

 

La storia della Chiesa ci mostra un fiorire fecondo di terz’ordini, di confraternite di laici e di oblati nati al preciso scopo di far partecipare i cristiani immersi negli impegni del secolo dello stesso carisma o spiritualità dell’ordine religioso di riferimento. Questa trasposizione dei principi di un determinato ordine religioso alla vita dei laici deriva dall’esigenza che ogni cristiano ha di avere un modello di riferimento concreto e stabile che lo aiuti nell’osservanza del Vangelo nel contesto della quotidianità. Alcuni grandi apostoli della santificazione dei laici furono senza dubbio San Francesco d’Assisi, San Francesco di Sales, San Luigi Grignon de Monfort, Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, Dom Chautard, San Pio X, padre Matteo Crawley, San Josè Maria Escrivà e molti altri. Tuttavia, non capita spesso di vedere annoverato tra questi anche San Benedetto per il fatto che egli non si occupò di predicare, se non in minima parte, quanto di edificare. Il santo patriarca, infatti, dopo essere stato formato da anni di dura disciplina come anacoreta, si dedicò a organizzare e disciplinare la vita di coloro che volevano vivere come lui un radicale distacco dal mondo e dedicarsi totalmente e unicamente al servizio di Dio. Non fu lui a cercare le genti per evangelizzarle, ma furono le genti ad andare alla sua ricerca per ricevere “parole di vita eterna”. Perché, dunque, intraprendere un discorso prettamente “familiare” facendo riferimento al monachesimo benedettino? Quale analogia sussiste tra il monastero e la famiglia, tra il chiostro e il focolare?

A questo proposito, è bene ribadire che l’intento della presente opera non è applicare la Regola tout court così com’è alla vita familiare o farle dire ciò che in essa non è contenuto attraverso una forzata interpretazione, bensì accostarci semplicemente, con umiltà e riconoscenza a uno degli scrigni della sapienza cristiana “vissuta” che è la sua santa Regola, al fine di trarne insegnamenti pratici utili ai fedeli tutti per una progressiva riedificazione della christianitas. D’altra parte, lo stesso San Benedetto più volte nella sua Regola utilizza i termini “padre, figli, fratelli, famiglia” per definire lo statuto e la natura intima della vita monastica cenobitica. Inoltre, l’immagine per così dire “domestica” che San Benedetto concepì del monachesimo trova conferma nel giudizio che il venerabile papa Pio XII diede dell’opera e dell’eredità benedettina: “La comunità monastica”, scrisse papa Pacelli, “è costituita e regolata in modo tale da rassomigliarsi a una famiglia cristiana, sulla quale l’abate, o cenobiarca; come padre di famiglia, governa e dalla cui paterna autorità tutti devono dipendere” [4].

Tuttavia, appare piuttosto difficile se non addirittura impossibile parlare di una “regola” per la famiglia in generale, per il motivo che ogni famiglia è particolare e per questo caratterizzata da peculiarità di cultura, tempo, luogo e mansioni a volte radicalmente differenti l’una dall’altra. Si può dire che ogni famiglia, come ogni comunità monastica, è realmente sui iuris. Tra l’altro, non sarebbe neanche giusto pretendere di uniformare la prassi familiare a una disciplina restrittiva universale di tipo monastico-convenutale. La differenza e distinzione tra la realtà monastica e quella familiare deve rimanere tale. Sembrerebbe più giusto allora proporre qualche esempio di famiglia santa, come modello pratico da imitare nella propria realtà familiare. Ma anche in questo caso si riscontra la difficoltà e il limite dell’imitazione letterale delle vite dei santi derivante dall’impossibilità di prendere in blocco un’icona familiare storicamente esistita come quella dei santi Eleazaro e Delfina, o come i coniugi Martin o come le famiglie di San Basilio e di San Bernardo per riprodurla pedissequamente tale quale ci appare. In questo caso, potrebbe esserci il rischio di voler riprodurre atteggiamenti che inseriti nella nostra realtà non risulterebbero santi o virtuosi ma avventati e dannosi. Invece, quello che di solito ci sforziamo di fare leggendo le vite dei santi non è annullare la nostra personalità per identificarci con il santo operando una sorta di sostituzione di personalità, quanto piuttosto tentare di estrapolare gli atteggiamenti di fondo che ne hanno regolato l’agire e applicarli, caso per caso, alle nostre situazioni concrete e personali. In fondo, è questa la modalità più proficua di imitare Cristo, visto e considerato anche che la santità non è un qualcosa di “ideale”, nel senso di astratto e aleatorio, ma consiste nell’umanità, elevata dalla Grazia, di quella particolare persona, unica e irripetibile. Essa è, perciò, un quid totalmente “reale” e “concreto” incarnato nell’esistenza individuale di questa o quella persona in virtù della Grazia che non annulla la natura umana o le peculiarità caratteriali, bensì le perfeziona. Potremmo paragonare la santità alla ricetta di un dolce, per realizzare il quale c’è una traccia, un’indicazione sulla preparazione, cioè una linea guida oggettiva, la ricetta appunto, ma il modo in cui amalgamare i vari ingredienti, le variabili frutto della creatività di ciascuno oltreché le circostanze di tempo e di luogo possono dar vita a una pluralità impressionante di varianti di quello stesso dolce, tutte buone e tutte diverse. Così sono i santi, tutti hanno attinto all’unico modello che è Cristo, ma lo hanno riprodotto in loro stessi attraverso la propria particolare umanità in maniere così belle e al contempo così diverse e variegate che a volte ci stupiamo dei diversi atteggiamenti da loro assunti dinanzi a realtà e contesti così simili tra loro. Un Sant’Ignazio, a causa del suo temperamento collerico, poteva esprimersi santamente in impeti irascibili senza lasciarsi, però, sopraffare dal peccato, mentre un temperamento nervoso come Santa Teresina del Bambino Gesù poteva essere così distaccata dai disordini passionali da non sentirne le vampe che tanto tormentano i temperamenti sanguigni tra i quali figurò Sant’Agostino, San Francesco Saverio e molti altri [5]. Eppure, in questa varietà, non c’è contraddizione alcuna ma la manifestazione concreta e “reale” della multiforme Grazia dello Spirito Santo.

Tuttavia, se pensiamo alla famiglia di santa Teresina di Lisieux, come a quella di San Pio X o dei pastorelli di Fatima, non possiamo fare a meno di rilevare come quelle famiglie vivessero in una società ancora sostanzialmente e nel suo insieme cristiana che, nonostante gli stravolgimenti delle varie rivoluzioni, aveva conservato la religione e la fede ma non solo. La società occidentale di fine Ottocento e di inizio Novecento manteneva, tutto sommato, ancora gli usi e i costumi di una comune moralità. Non così per coloro che si trovano a vivere nei tempi in cui noi viviamo. Oggi noi non abbiamo tutti quegli aiuti “esterni” alla famiglia che però le sono indispensabili per strutturarsi e consolidarsi come tale, anzi, abbiamo contro di noi le leggi, la cultura e la società tutta. Assistiamo oggi a un’aggressione senza precedenti all’istituto familiare che è la prima e irriducibile cellula della società umana in genere, e di quella cristiana in specie. Di fatto ci troviamo in uno stato di imbarbarimento radicalizzato e diffuso. Una situazione analoga a quella in cui si trovò il giovane Benedetto, quando fuggì dalla corruzione e dai vizi della Roma del V secolo. In questo senso, il valore dell’opera di San Benedetto risiede nel suo esempio veramente “reazionario” da cui noi pure, nel contesto storico attuale, possiamo attingere.

Ciò che sembra mancare oggi alle famiglie cristiane è quindi un modello e una traccia oggettiva, potremmo dire un “progetto” ispiratore che le permetta di gettare le fondamenta della struttura matrimoniale, di costruire le mura di difesa attorno alla famiglia e ordinarne i ruoli e le attività interne. Tutto questo è contenuto in nuce nella santa Regola che viene in soccorso oggi, come quindici secoli fa, all’uomo, alla famiglia e alla Chiesa offrendo una via per dare ordine e armonia alla vita cristiana in ogni suo ambito.

 

1.c. L’esempio di San Benedetto

 

Dinanzi alla desolazione di un mondo che assisteva impotente al declino degli antichi valori della civitas romana cedente il passo al caos delle invasioni barbariche, alla rovina dei costumi e all’impoverimento dei mezzi di sussistenza, Benedetto fece opera di “conservazione” e di “restaurazione”. La sua prima reazione fu però quella di fuggire, fuggire il mondo e le sue contraddizioni. Nella solitudine e nella macerazione del Sacro Speco di Subiaco crebbe un’anima totalmente rinnovata, spogliata dell’uomo vecchio, mentre andava gradualmente rivestendosi di Cristo. Infatti, la riedificazione della società deve ripartire anzitutto dalla riedificazione di Cristo in noi, ovvero dalla costruzione di una solida vita interiore: la “casa dell’anima”. “Solo quando avremo formato Gesù Cristo in noi”, disse San Pio X, “potremo più facilmente ridonarlo alle famiglie e alla società” [6]. E fu precisamente questa la gloriosa opera edificatrice di San Benedetto da cui emerse splendente, sulle rovine della romanitas, la novella christianitas destinata a durare per quasi 1.500 anni fino all’avvento di ben peggiori invasioni barbariche a opera dei liberi muratori.

San Benedetto non attraversò le strade d’Europa, non solcò i mari per predicare a popoli lontani, non ha lasciato trattati di teologia o di ascetica, non è noto per essere un padre apologeta, non ha subito un martirio cruento né l’esilio coatto come San Giovanni Crisostomo o Sant’Atanasio, eppure è il “padre dell’Europa”. Egli è realmente il patriarca d’Occidente perché ha gettato le fondamenta della società cristiana, ha portato ordine laddove regnava il caos; ha portato Cristo dove c’era Apollo; ha illuminato l’oscurità dell’errore con la luce della Verità; ha incendiato i boschi sacri agli idoli per accendere la lucerna della Vera fede; ha tagliato l’albero idolatrico per piantare l’Albero della Vita che è la Croce di Cristo. San Benedetto, per utilizzare le parole della Scrittura, ha sradicato e piantato (Cfr. Mt 15,13; 1Cor 3,6). Il cardinal John Henry Newman lo paragona al patriarca Abramo, il quale fu il “padre di molte nazioni” per il fatto che  non solo fu il primo a fondare un ordine perpetuo di regolari nella Cristianità occidentale;

 

non solo, in quanto primo, ha avuto una serie di secoli più lunga per la moltiplicazione dei suoi figli; ma la sua Regola, Regola, come quella di san Basilio in Oriente, è la regola normale della prima età della Chiesa, e nel corso del tempo fu generalmente accolta anche in comunità che in nessun modo dovevano a lui le proprie origini. [7]

 

Benedetto (Baruc in ebraico) apparve nella storia della Chiesa come la scintilla di una stoppia che, al principio, è appena visibile, ma che una volta comunicata alla paglia morta e disseccata del mondo in decadenza divampa impetuosa accendendolo dell’amore di Dio. Nel nascondimento di Subiaco, egli fu quella candela che nella liturgia delle tenebre della Settimana Santa viene nascosta dietro l’altare, simbolo della fede conservata nascostamente, mentre si faceva buio su tutta la terra. Non a caso, la veglia pasquale incomincia nell’oscurità e nel silenzio, tra le tenebre “esteriori”, dissolte e messe in fuga da un grido che si leva nel cuore della notte: “Lumen Christi!”. San Benedetto è stato quel germe di lievito che, nel nascondimento, nel silenzio e nella contemplazione, ha fatto lievitare la pasta della cristianità inaugurando quella gloriosa porzione di tempo che fu il Medioevo Cristiano. Poiché “l’ozio è nemico dell’anima” (RB 48,1), il santo Legislatore, premettendo l’esempio alle parole, insegnò ai discepoli a dissodare la terra e i cuori. Unì il lavoro manuale a una predicazione incessante fatta ai popoli pagani di Monte Cassino [8]. Quaranta giorni dopo la morte di sua sorella Santa Scolastica, San Benedetto ritto ai piedi dell’altare, dove aveva partecipato con la comunione al santo sacrificio della messa sostenuto dai discepoli che lo circondavano, rese a Dio, verso l’anno del Signore 543, la sua anima trasfigurata da molti anni di austera penitenza e di fedeltà alla legge divina [9]. Come Mosè sul Monte Sinai, Benedetto si staglia sulla montagna di Cassino come il Legislatore dei suoi monaci e, tramite essi, della cristianità nascente. La santa Regola che, come nel Medioevo giustamente si diceva, è stata ispirata dallo stesso Spirito che ha dettato i Sacri Canoni, ha santificato migliaia d’anime che abbandonavano ogni cosa dietro l’esempio del glorioso Patriarca d’Occidente “per arruolarsi nella milizia del Cristo” (RB, Prol., 3). Non a caso, il primo precetto della Regola è di non preferire nulla al culto liturgico, nel quale l’adorazione trova la più perfetta espressione. San Benedetto, considerato il “Dottore dell’umiltà” (doctor humilitatis) [10], fu profeta, taumaturgo (la sua autorità sul demonio si esercita ancora ai nostri giorni con la medaglia di San Benedetto che, soprattutto nei paesi dove Satana è più potente, opera prodigi) e fu “davvero ripieno dello spirito di tutti i giusti” [11]. Conta tra i suoi figli più di venti papi, un numero considerevole di vescovi, dottori, missionari, sapienti, educatori che hanno lasciato una traccia indelebile nella Chiesa e nel mondo. Egli cooperò, dunque, efficacemente con la sua vita all’opera della Redenzione, e il suo glorioso trapasso lo ha fatto patrono della buona morte [12].

La cosa più sorprendente della sua opera è che nessuno dei frutti straordinari che da essa scaturirono, come un fiume furono da lui previsti o pianificati. Benedetto fu il docile strumento nelle mani della divina Provvidenza attraverso il quale la “benedizione” si riversò sull’Occidente e sul mondo intero. A proposito della sua Regola, Dom Prosper Gueranger scrive:

 

Questo codice meraviglioso di perfezione cristiana e di moderazione disciplinò legioni di monaci, tramite i quali il santo patriarca compì tutti quei prodigi che abbiamo enumerati. Prima della promulgazione di questo libretto, l’elemento monastico, in Occidente, serviva solo alla santificazione di poche anime; chi poteva immaginarsi che sarebbe diventato il principale strumento della rinascita cristiana e della civiltà di tanti popoli? Pubblicata tale Regola, tutte le altre a poco a poco scomparvero davanti a lei, come le stelle che impallidiscono in cielo all’apparir del sole. L’Occidente rigurgita di monasteri, e di lì si diffondono per tutta l’Europa tutti quegli aiuti che ne fanno la parte più eletta del globo [13].

 

Tutto questo incominciò dalla santificazione personale di Benedetto, tutto ebbe inizio dal “quaerere Deum”. E, se tendessimo l’orecchio al silenzio, potremo anche noi udire le parole che spinsero come un sussurro il giovane Benedetto a ritirarsi sul Monte: “Di te ha detto il mio cuore: ‘cercate il Suo volto’: il tuo volto, Signore, io cerco” (Sal 26,8).

Pertanto, l’esempio benedettino che ogni cristiano per sopravvivere tra i miasmi asfissianti di questo mondo, dovrebbe sforzarsi di imitare è quello di ritornare in se stesso, riappropriarsi della propria interiorità, vale a dire, della propria anima. A pochi è richiesto di ritirarsi al Sacro Speco di Subiaco, o nel deserto della Tebaide come Sant’Antonio, o sul monte della Verna come San Francesco ma a tutti i cristiani, senza eccezioni, è richiesto di recarsi nel “deserto” come Nostro Signore. Ciò significa che per il cristiano è necessario, anzi, è questione di vita o di morte (dell’anima), coltivare la “vita interiore”, senza la quale non esiste autentica vita cristiana. Racconta San Gregorio che dopo aver tentato, senza successo, di riformare la vita dei monaci dissipati, Benedetto “se ne tornò alla grotta solitaria che tanto amava, ed abitava lì, solo con se stesso, sotto gli occhi di Colui che dall’alto vede ogni cosa” [14]. Tuttavia, l’“habitare secum”, cioè con se stesso, di Benedetto consiste nel vivere costantemente alla presenza di Dio, intrattenendosi volentieri in dolci colloqui con il Signore. Ecco la condizione per recuperare e conservare la pace perduta nelle dissipazioni delle attività quotidiane: riporre il nostro cuore nel forziere sicuro dell’amor di Dio nella contemplazione quotidiana del Dio crocifisso per noi. Perché, laddove avremo accumulato il nostro tesoro, ossia le nostre sicurezze, gioie, attese e speranze, là sarà anche il nostro cuore (Cfr. Mt 6, 21).

 

1.d. La strada da seguire

 

Vediamo, perciò, che la caratteristica che rende l’opera e l’insegnamento di San Benedetto imitabile e riproducibile in ogni stato di vita cristiana (vita religiosa, matrimonio, sacerdozio) è la sua estrema “praticità” che si esprime nell’osservanza di poche e semplici, ma chiare e inderogabili, “regole” per la quotidianità. Da tali regole pratiche siamo poi in grado di estrarre dei principi facilmente applicabili ognuno nella propria realtà esistenziale. San Benedetto non parte da un sistema di pensiero aprioristico, egli parte dalla “realtà”, e su quella interviene. Dalla Regola, per esempio, apprendiamo, anzitutto, che l’ordine esteriore educa l’ordine interiore e al contempo ne è l’espressione visibile e, in un certo senso, quasi “sacramentale”. Come i sacramenti, infatti, sono segno efficace e visibile, cioè esterno e tangibile, della Grazia similmente un’esistenza radicata e vissuta nella Grazia (in Superni spectatoris oculis) non può non esprimersi esternamente con la santificazione del focolare domestico e del lavoro, delle relazioni umane e delle piccole gioie come delle interiori sofferenze.

Inoltre, il motto dell’ordine benedettino è “ut in omnibus glorificetur Deus” che, credo, possa e debba essere il lievito dell’agire, del pensare e del desiderare di ogni cristiano. La Compagnia di Gesù, ordine fondato da Sant’Ignazio di Loyola, possiede un motto simile: “ad Maiorem Dei gloriam”. Ma credo che, in definitiva, a fondamento e cornice di tutta la realtà della Chiesa complessivamente presa stia proprio il motto scelto dal papa San Pio X: “Instaurare omnia in Christo”. Citando San Paolo, infatti, papa Sarto volle indicare l’antidoto alla secolarizzazione e all’ateismo pratico di molti cattolici intiepiditi dalle mode liberali. Bisogna ricondurre tutto, ossia ogni realtà umana, sotto il dominio di Dio per l’instaurazione del suo Regno invisibile, sulle anime, e visibile nella società come dice l’apostolo: “Oportet autem illum regnare donec ponat omnes inimicos sub pedibus ejus [15].

Parlando della sua conversione dal protestantesimo anglicano al cattolicesimo romano, Newman confessava: “I Padri [della Chiesa] mi fecero cattolico, ed io non intendo buttare a terra la scala con la quale sono salito per entrare nella Chiesa” [16]. Il pio cardinale dell’oratorio inglese non aveva dubbi che quegli stessi Padri della Chiesa vissuti in un’epoca antecedente al Grande Scisma d’Oriente, se si fossero, per così dire, “reincarnati” all’epoca in cui Newman scriveva (XIX secolo) sarebbero entrati nella Chiesa cattolica romana. “Se Sant’Ambrogio e Sant’Atanasio”, diceva, “tornassero all’improvviso in vita, non vi ha dubbio quale confessione riconoscerebbero come la loro” [17]. Ovvero, avrebbero fatto la sua stessa scelta, andare a Roma. Personalmente non so se quegli stessi Padri oggi riuscirebbero a fare così “agevolmente” la stessa scelta, e questo non perché la vera Chiesa si trovi altrove, o perché la Chiesa cattolica romana sia venuta meno, quanto, piuttosto, perché nella confusione dottrinale, liturgica e morale, in cui la gerarchia contemporanea sembra essere piombata auspicando sempre maggiori e devastanti “innovazioni”, non risulta così facile distinguerla con la chiarezza che si poteva avere all’epoca di Newman quando sul soglio pontificio sedeva papa Mastai Ferretti. Per questo è di vitale importanza, oggi più che in passato, recuperare la tradizione trasmessaci fin dai primi secoli ridiscendendo alle radici della Fede perché, come disse un altro grande inglese J.R.R. Tolkien, “le radici profonde non gelano” [18].

Dal groviglio labirintico delle opinioni e delle sentenze sofistiche, troppo spesso relativistiche, di certo cristianesimo umanitario contemporaneo più interessato alla terra che al Cielo diviene sempre più indispensabile ritirarsi in un luogo appartato, come fece San Benedetto, per cercare Dio – quaerere Deum. In questa solitudine del cuore in Dio, dovremo lasciarci riplasmare dalla Grazia per poi farla brillare nelle nostre famiglie e nel mondo, come la lucerna posta in alto e la città sulla cima del monte. Infatti, solo trovando Dio potremmo ritrovare noi stessi: “Tacciano tutti i maestri”, dice l’Imitazione di Cristo, “tacciano tutte le creature, dinanzi a Te [o Dio]: Tu solo parlami” [19].

A tal fine, nello strutturare l’ordine di questo sintetico “manuale” non ho scelto di commentare, passo per passo, la Regola di San Benedetto, proprio per sottolineare ancora una volta che suo scopo non è quello di fornire una ricetta per trasformare la famiglia cristiana in un monastero. Giungere a questo equivarrebbe ad aver completamente mancato il bersaglio stravolgendo la stessa natura e missione della famiglia. Piuttosto, seguirò un criterio tematico cercando di rivolgere il focus sui fondamenti e i principi regolatori della morale domestica mutuati dalla prudentia di San Benedetto da Norcia. Ma, per gettare il primo pilastro della nostra casa sulla roccia è utile, anzitutto, prendere in considerazione quello che può essere considerato un autentico manifesto del matrimonio cristiano. Il testo del Salmo, che segue costituisce infatti un programma, una promessa e un sostegno che il buon Dio, ancora oggi ci offre come un rimedio al clima di paura, di dubbio e incredulità che rischia di soffocare lo slancio generoso dei giovani verso la via della santificazione del e nel focolare domestico:

 

Se il Signore non costruisce la casa,

invano si affaticano i costruttori.

Se il Signore non custodisce la città,

invano veglia il custode.

Invano vi alzate presto al mattino,

tardi andate a riposare

e mangiate pane di sudore:

il Signore ne darà ai suoi amici nel sonno.

Ecco, dono del Signore sono i figli,

è sua ricompensa il frutto del seno.

Come frecce in mano a un eroe sono i figli [avuti] in gioventù.

Beato l’uomo che ha appagato la sua brama con essi:

non resterà confuso quando verrà a trattare

alla porta con i propri nemici.

(Salmo 126).

 


[1] San Gregorio Di Nissa, De vita Moysis, II, pp. 243244, 246248. Sc 1, p. 274276.

[2] Pio XII, Lettera enciclica Fulgens Radiatur (21 marzo 1947), in AAS 39 (1947), pp. 138-139.

[3] Ivi, cap. 61, v. 10.

[4] Pio XII, Lettera enciclica Fulgens Radiatur (21 marzo 1947), in AAS 39 (1947), p. 145.

[5] Cfr. Royo Marin, Teologia della perfezione cristiana, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 1994, p. 958 ss.

[6] Pio X, Lettera enciclica Il fermo proposito, 11 giugno 1905, ASS 37 (1905), p. 750.

[7] J.H. Newman, Benedetto, Crisostomo, Teodoreto. Profili storici, Jaca Book, Milano, 2009, p. 145.

[8] Cfr. San Gregorio Magno, Vita di San Benedetto e la Regola, Città Nuova, Roma, 2009, p. 72.

[9] La data è incerta, ma la tradizione più accreditata fissa la sua morte nell’anno 547, n.d.a.

[10] San Benedetto, nel capitolo VII della Regola, presenta una scala che, per dodici gradi di umiltà e di amore di Dio, conduce le anime al cielo.

[11] Vita di San Benedetto e la Regola, cit., p. 71.

[12] Cfr. Messale Romano quotidiano, Testo latino completo e traduzione italiana di Stefano Bertola e Gaspare Destefani; commento di Dom Gaspar Lefebvre; disegni di R. De Cramer, Centro liturgico di Torino, ed. italiana 1957, Poligrafiche Riunite, Torino, 1958, p. 1218.

[13] Dom Prosper Guéranger, L’anno liturgico, Vol. II, Fede & Cultura, Lavis (TN), 2017, titolo originale L'Année liturgique, Le Mans, 1841-1866, p. 419.

[14] Vita di San Benedetto e la Regola, op. cit., p. 62.

[15] 1 Cor 15,25: “È necessario infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi”.

[16] Lettera a John William Bowden del 21 febbraio 1840, in The Letters and Diaries of John Henry Newman, Clarendon Press, Oxford, 1995, p. 241.

[17] Lo sviluppo della dottrina cristiana, Jaca Book, Milano, 2003, p. 124.

[18] J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli, Rusconi, Milano, 1999, p. 226.

[19] Tommaso da Kempis, L’Imitazione di Cristo, Libro I, cap. III, Ugo Nicolini (a cura di), Editrice Paoline, Lavis (TN), 2004, p. 32.


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26 ottobre 2024                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net