La Vita del beato Romualdo

di Pier Damiani


A cura di Umberto Longo - dal sito dell'Università di Roma 2018 (lettere.uniroma1.it)

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I capitoli indicati in grassetto sono completi.

- Prologo della vita del beato Romualdo

 

Iniziano i capitoli della vita del beato Romualdo

I.       La causa della conversione di Romualdo.

II.    La conversione stessa e perché il corpo del beato Apollinare si trovi senza dubbio nel monastero di Classe.

III.   Come i monaci, rimproverati, decisero di far precipitare Romualdo dal solaio.

IV.   Quando Romualdo si recò all’eremo.

V.      Il modo in cui Pietro Orseolo prima è diventato doge e poi si è convertito.

VI.   Il fatto che Romualdo per un anno visse con un pugno di ceci il giorno e per tre anni del suo lavoro nei campi.

VII.  Le molteplici lotte che sostenne con il diavolo.

VIII. Un primo genere di vita di Romualdo, la pazienza del doge Pietro e la sua profezia.

IX.        Un secondo modo di vivere di Romualdo.

X.       Il conte che rapinò una mucca, e mangiandola ne morì.

XI.    Olibano che promette di convertirsi.

XII.   Sergio che vuole tornare nel mondo.

XIII.  La saggezza di Romualdo, la fatica del viaggio e i rimproveri al padre.

XIV.   Quando Sergio vide lo Spirito Santo.

XV.      La gamba di Giovanni fratturata a causa della disobbedienza.

XVI.   Romualdo percosso dai demoni.

XVII.  Gli spiriti maligni che gli apparivano come uccelli spaventosi.

XVIII. I monaci che prendono a botte Romualdo e sono colpiti dall’ira divina.

XIX.        L'ordine a Romualdo di sant'Apollinare.

XX.       Il suo soggiorno a Origario.

XXI.    L'incendio della cella è spento con la preghiera.

XXII.   Il re è ospite di Romualdo e perché questi accettò l’abbaziato.

XXIII.  L’abbandono dell’abbazia e la pace stipulata tra il re e gli abitanti di Tivoli.

XXIV.  San Venerio.

XXV.     Tammo e la religiosità del re Ottone.

XXVI.  Come Romualdo si ammalò presso Cassino e in seguito giunse al Pereo.

XXVII.  Il martire Bonifacio.

XXVIII. I martiri Giovanni e Benedetto.

XXIX.        Il monaco liberato dal carcere per intervento dell’angelo.

XXX.      La costruzione del monastero di S. Adalberto e la profezia che Romualdo proferì contro il re.

XXXI.   Il luogo dove fu divinamente concessa a Romualdo la grazia della perfezione.

XXXII.  La profezia con cui Romualdo previde l’arrivo di alcuni discepoli.

XXXIII.  Il suo ritorno da Parenzo e i marinai liberati dal pericolo per i suoi meriti.

XXXIV.  L’arrivo di Romualdo a Biforco.

XXXV.     L’arrivo dello stesso a Val di Castro e l’abbondante messe di anime operata per mezzo suo.

XXXVI.  Come vide in spirito un ladro che irrompeva nella cella di Gregorio e lo lasciò libero.

XXXVII. Il monastero costruito a Orvieto.

XXXVIII.       Il figlio del conte che dopo la morte diede la vista a un cieco.

XXXIX.       I tre monasteri costruiti da Romualdo e la sua partenza per l’Ungheria.

XL. Il marchese Rainerio.

XLI. L’abate di Classe che tentò di strangolare Romualdo.

XLII. La sua partenza e di nuovo il ritorno da Parenzo.

XLIII. Il miracolo del ladro, compiuto sul monte Petrano.

XLIV. Ancora un miracolo che riguarda altri ladri.

XLV. Romualdo, perché e in che modo fu espulso Val di Castro.

XLVI. Il miracolo operato ad Acquabella curando un presbitero.

XLVII. Un altro miracolo, del faggio che fu abbattuto vicino alla sua cella.

XLVIII. Il leccio caduto su un contadino senza fargli male.

XLIX. L’affronto che subì da parte dei suoi discepoli in Sitria.

L. L’ordine divino impartito a Romualdo di celebrare la messa e di commentare i salmi.

LI. L’anima di Romualdo che fu presentata a Dio candida come la neve.

LII. La il duro regime di ascesi con cui visse in Sitria.

LIII. Il miracolo con il quale guarì Gregorio soffiandogli sopra.

LIV. Il folle che curò con un bacio.

LV. Ancora su Gregorio, che egli guarì da una grave malattia con l’acqua gelida.

LVI. Apprende in spirito che un discepolo se ne sta andando a Roma, e un altro, venendo meno all’impegno, rompe la clausura.

LVII. Gaudenzio, Berardo e il monaco guarito.

LVIII. Il discepolo percosso dai demoni nel letto di Romualdo.

LIX. La donna presa dalla follia e guarita dalla benedizione di Romualdo.

LX. L’indemoniato che egli curò.

LXI. Il diavolo che, dopo aver minacciato Romualdo di morte, sfondò la parete della cella. LXII. Ancora il diavolo che, spaventando il cavallo, cercò di far cadere Romualdo.

LXIII. Ancora il diavolo che, a seguito di una controversia nata tra i discepoli di Romualdo, percuoteva una botte.

LXIV. La vita di ascesi che allora conduceva in Sitria.

LXV. La profezia di Romualdo e il suo colloquio con il re Enrico.

LXVI. Come il diavolo aveva incominciato a strangolare un monaco, Romualdo riuscì a strapparglielo.

LXVII. Come Romualdo, circondato dall’acqua, apprese dall’alto che gli sarebbe stato portato del cibo.

LXVIII. Il pesce che fu trovato in un ruscello prosciugato, per i meriti di Romualdo.

LXIX. Morte di Romualdo.

LXX. L’indemoniato guarito con un frammento del suo cilicio.

LXXI. Il contadino che rubò una mucca e subito morì.

LXXII. Il corpo di Romualdo trovato intatto dopo cinque anni.

 

Prologo della vita del beato Romualdo.

Proprio contro di te noi protestiamo, o mondo immondo [1], che contieni una massa insopportabile di sciocchi sapienti, loquace con te, muta con Dio. Hai gente che con vana eleganza e vuota filosofia riesce ad innalzarsi alle vette della superbia in maniera arrogante; ma non hai chi voglia documentare, a memoria dei posteri, qualcosa che è utile all’edificazione dei contemporanei. Tu hai, lo ripeto, gente che nei tribunali giudiziari è in grado di perorare con arringhe senza fine le controversie degli affari secolari e le procedure delle cause; ma non hai chi, nella santa chiesa, possa illustrare le virtù e gli esempi luminosi anche di un solo santo. Se pure sono sapienti nel fare il male, non sanno fare il bene. Ecco, infatti, sono giusto ormai trascorsi tre lustri da quando il beato Romualdo, deposto il gravame della carne, è migrato al regno celeste, e finora nessuno di tali sapienti s’è visto che di tanti fatti encomiabili della sua mirabile vita ne abbia esposti almeno alcuni nello stile storiografico e, soddisfacendo l’ardente devozione dei fedeli, li abbia tramandati in modo da poter essere declamati dal pulpito della santa Chiesa per l’utilità comune. Per noi, invece, ritirati nell'angolo appartato di una cella, era più utile, secondo quanto ci eravamo prefissi, richiamare di continuo agli occhi della mente i nostri peccati che intessere la storia della virtù di un altro; converrebbe di più piangere le tenebre della colpa commessa che offuscare con discorsi da dilettante le splendide insegne della santità. In ogni modo, poiché una moltitudine di fedeli, giunta da terre lontane, si raduna presso il suo sepolcro durante tutto il corso dell’anno, e in particolare nel giorno della sua festa, vede i miracoli operati divinamente per sua intercessione, e chiede ardentemente di ascoltare la storia della sua vita, ma non le è possibile ascoltarla per il semplice fatto che non c’è, abbiamo giusto motivo di temere che la sua notissima fama, che finora è trasmessa dalla bocca di tutto il popolo, sia cancellata completamente, con il passare del tempo, dalla memoria degli uomini.

Pertanto, spinto da questo timore e vinto dalle sollecitazioni di molti fratelli e dalla carità fraterna, mi accingo a narrare, con il sostegno di Dio, ciò che ho appreso del suddetto mirabile uomo da parte dei suoi egregi discepoli e cercherò di scrivere l’inizio, il corso e il termine della sua vita, non ricostruendo la storia, uomo inesperto quale io sono, ma stendendo una specie di promemoria, quale che sia lo stile che riuscirò ad utilizzare. E desidero che il mio lettore solo questo sappia in primo luogo: che in questa succinta descrizione non passerò in rassegna i molti miracoli operati per sua intercessione, ma mi sforzerò piuttosto di riferire ciò che in ogni modo attiene all’edificazione, vale a dire l'evoluzione della sua vita monastica. E davvero il beato uomo si riparò con lo scudo dell’umiltà dal vento della vanagloria, al punto che eliminò celandolo con grande attenzione ciò che in qualche modo poteva apparire mirabile agli occhi umani. Tuttavia, se pure non avesse per niente compiuto quei miracoli, non sarebbe degno di minore venerazione per la mirabile vita che condusse. Ora, neppure del precursore del Signore è detto che abbia fatto miracoli, eppure la Verità in persona testimonia che tra i nati di donna nessuno sorse più grande di lui. Alcuni, infatti, credono di piacere a Dio se propinano il falso nell’esaltare le virtù dei santi. Costoro, ignorando completamente che Dio non ha bisogno del nostro falso, messa da parte la verità che è Egli stesso, sono convinti di potergli piacere con l’invenzione della menzogna. Bene li smentisce Geremia quando dice: Ammaestrarono le loro lingue a dire il falso, si industriarono ad agire in modo malvagio . Coloro, infatti, che avrebbero potuto facilmente riferire la semplice verità di fatto, sprecano fatiche con un lavoro fasullo, scrivendo di cose che ignorano e, nel momento in cui affermano di stare dalla parte di Dio in qualità di aiutanti, proprio allora lottano contro Dio imperterriti quali falsi testimoni, come attesta l’Apostolo ai Corinzi quando dice: Se Cristo non è risorto, la nostra predicazione è vana, vana è la nostra fede; e poi aggiunge:” Siamo risultati falsi testimoni di Dio poiché abbiamo testimoniato contro Dio in quanto avrebbe risuscitato Cristo, mentre non l’avrebbe risuscitato ”. In ogni modo, poiché siamo stati spinti a premettere queste cose per lo stesso motivo per cui ci siamo sentiti costretti a scrivere, veniamo ormai allo svolgimento della narrazione, sorretti dalle preghiere di colui di cui parliamo e con l’aiuto di Dio.

 

 

INIZIO DELLA VITA DEL BEATO ROMUALDO ABATE ED EREMITA

 

I. La causa della conversione di Romualdo

1. Romualdo, originario della città di Ravenna, era discendente da un illustre casato ducale. Egli, quando era ormai giunto all’adolescenza, incominciò a sentirsi attrarre dal peccato della carne, in altre parole da quel vizio con il quale quell’età è solita attaccare gli uomini con più veemenza, in particolare i ricchi. Egli, tuttavia, che nell'animo era devoto a Dio, sovente si sforzava di superare se stesso e si proponeva di fare qualcosa di grande. Così, anche quando dava spazio alla passione della caccia, ovunque gli capitava di trovare un luogo ameno tra i boschi, subito il suo animo s’infiammava del desiderio dell’eremo, esclamando tra sé: “Oh, quanto starebbero bene degli eremiti in questi recessi silvestri, quanto qui potrebbero trovare pace da tutti i turbamenti del frastuono mondano!”. Così, il suo pensiero ispirato dal cielo già intuiva nel desiderio amoroso ciò che avrebbe realizzato nelle opere.

2. Aveva un padre, di nome Sergio, tutto immerso con passione nel mondo e completamente coinvolto negli affari mondani. Questi, dato che si trovava in lotta con un suo parente a motivo di conflitti sorti per il possesso di una proprietà, vedendo che suo figlio non era interessato alla controversia e che aborriva profondamente la prospettiva che si commettesse un fratricidio, incominciò a minacciare di diseredarlo se avesse persistito ancora a lungo in quell’atteggiamento. In breve: infine le due fazioni in lotta si recano sul fondo contestato, fuori città, prendono le armi, danno inizio ad un combattimento tra parenti e, mentre si combatte a corpo a corpo, d'un colpo l'avversario resta ucciso per mano di Sergio. Ora Romualdo che, per quanto non avesse inflitto alcuna ferita all’ucciso, era pur sempre stato presente, si assunse l'onere della penitenza per una colpa così grave e si recò subito al monastero di sant'Apollinare in Classe per rimanervi in lamento di espiazione per quaranta giorni, secondo la prassi riservata agli omicidi.

 

II. La conversione stessa e perché il corpo del beato Apollinare si trovi senza dubbio nel monastero di Classe.

1. Là dunque, macerandosi ininterrottamente con il severo esercizio della penitenza, incominciò a intrattenere un colloquio quotidiano con un converso, dal quale, per quanto costui non fosse particolarmente sagace, spesso ascoltava anche il consiglio con cui amichevolmente lo esortava. Il converso sovente lo ammoniva ad abbandonare del tutto la vita secolare e ad abbracciare la santa vita monastica, ma non riusciva a far sì che il suo pensiero vi si piegasse; perciò una volta, tra altre ammonizioni, quasi scherzando, prese a dire: “Se ti mostrerò il beato Apollinare in carne e ossa in modo che tu possa vederlo chiaramente, quale premio avrò?” A queste parole Romualdo rispose: “Io m’impegno fermamente e con decisione irrevocabile, se vedrò il beato martire, di non rimanere più oltre nella vita mondana”. Allora, il converso esorta Romualdo a sospendere il sonno per quella notte e a vegliare assieme a lui in preghiera all’interno della chiesa. Nel mentre i due perseveravano pazientemente in preghiera nel silenzio della notte, ecco che, verso il canto del gallo, il beato Apollinare (i due lo videro chiaramente) si fece avanti da sotto l’altare che si può vedere collocato in mezzo alla chiesa, eretto in onore della beata vergine Maria. Fu, dunque, visto uscire dal lato orientale, vale a dire da dove si trova una lastra di porfido. Subito riempì l’intera chiesa un tale splendore, come se il sole racchiudesse tra le pareti proprio i raggi stessi del suo fulgore. A quel punto il beatissimo martire, rivestito splendidamente delle insegne sacerdotali, tenendo in mano un turibolo d’oro, incensò tutti gli altari della chiesa e, subito dopo, ritornò da dove era venuto e tutto quello splendore che lo avvolgeva scomparve immediatamente.

 2. Allora, il converso, proprio come un esattore inflessibile, incominciò a sollecitare con insistenza Romualdo e ad assillarlo perché adempisse quanto aveva promesso di sua spontanea volontà. E poiché Romualdo resisteva ancora e pretendeva di vedere una seconda volta la medesima visione, per un’altra notte vegliano in preghiera allo stesso modo e scorgono il beato martire in tutto e per tutto come la prima volta. Da questo fatto, anche in seguito, ogni volta che si presentava il problema di dove si trovi il corpo del suddetto martire, Romualdo affermava convinto che era sepolto in quella chiesa e, per quanto visse, il sant’uomo non cessò di offrire questa testimonianza.

3. Romualdo aveva pure l’abitudine di inginocchiarsi frequentemente in orazione davanti all’altare maggiore della chiesa e qui, dopo che i fratelli si erano ritirati, si metteva ad implorare Dio con molti gemiti. Un giorno, dopo che aveva avuto la visione, mentre pregava con più attenzione, lo Spirito Santo infiammò all’improvviso il suo animo di un fuoco d’amore divino così intenso che egli proruppe immediatamente in pianto: tanto che non riusciva a frenare gli abbondanti rivoli di lacrime, si aggrappava prostrato ai piedi dei monaci, chiedeva con insistenza e con indicibile desiderio che gli fosse consegnato l’abito monastico. I monaci però, temendo la durezza di suo padre, non osano incoraggiare il suo accesso alla vita monastica. Ora, Onesto, che a quel tempo deteneva la cattedra arcivescovile di Ravenna, era stato in precedenza abate del cenobio di Classe. Romualdo, quindi, si presentò a lui senza indugio, e manifestò tutto ciò che il suo cuore desiderava. Quest’ultimo ne restò entusiasta, accompagnò quel puro desiderio con parole d’incitamento e di esortazione, e ordinò ai fratelli di accoglierlo senza frapporre ostacoli nella loro comunità. Allora i cenobiti, sostenuti dalla sua garanzia, accolgono Romualdo in tutta tranquillità senza più temere e gli consegnano l’abito della santa vita monastica. Egli rimase poi in quel monastero per circa tre anni.

III. Come i monaci, rimproverati, decisero di far precipitare Romualdo dal solaio.

1. Ma quando si accorse che lì qualcuno viveva troppo liberamente, percorrendo la via più larga, e che non gli era permesso di intraprendere l’arduo sentiero della perfezione che la ragione gli indicava, incominciò prontamente a riflettere tre sé e sé su cosa dovesse fare, e si sentiva sballottato dall'accavallarsi continuo dei pensieri. Egli presumeva di correggere severamente la vita leggera dei monaci e, di sovente, invocava a loro discredito la testimonianza dei precetti della Regola. Egli poiché insisteva con forza a redarguire i loro vizi, mentre essi non tenevano in alcuna considerazione le parole del più giovane, e per giunta ancora novizio, alla lunga non sopportando una simile offesa, dato che si rifiutavano di emendare la propria vita, iniziarono a tramare per la morte di chi li fustigava. Romualdo era solito alzarsi di notte più presto degli altri fratelli e, se la porta dell’oratorio era ancora chiusa, vegliare in preghiera all’interno del dormitorio stesso. Ora, la suddetta costruzione era stata ricavata in alto, a mo’ di solaio. Pertanto, i figli di Caino trovarono questa soluzione: appena Romualdo, secondo il suo solito, si fosse alzato prima degli altri, loro stessi l’avrebbero scaraventato a capofitto dalla finestra del solaio. Romualdo quando venne a conoscenza del progetto, tramite qualcuno che era al corrente della cospirazione, da quel momento in poi prese a pregare il Padre suo nella cella del suo cuore, chiudendo la porta della bocca, e riuscì ad evitare l’incombente pericolo. In questo modo, dunque, evitando che il suo corpo precipitasse dall’alto, allo stesso tempo chiuse il baratro dell’iniquità ai fratelli in modo che non incorressero nella morte dell’anima.

 

IV. Quando Romualdo si recò all’eremo.

1. E dal momento che nel suo animo il desiderio della perfezione aumentava sempre più di giorno in giorno e il suo pensiero non trovava pace alcuna, venne a sapere che nelle regioni di Venezia viveva un uomo spirituale, di nome Marino, che conduceva vita eremitica. Con il consenso dell’abate e dei fratelli, che ottenne con estrema facilità, egli, con una veloce imbarcazione, si recò presso il venerabile saggio e decise di vivere sotto la sua guida con umilissima devozione di spirito. Ora, Marino tra le altre virtù aveva quella di essere un uomo d’animo semplice e di candore assolutamente schietto, e non era stato edotto nella vita eremitica da nessun tipo di dottrina, ma vi era stato spinto dal solo impulso della buona volontà. Aveva, per di più, un modo di vivere tale che per tutto il corso dell’anno, per tre giorni la settimana mangiava una mezza pagnotta di pane e un pugno di fave e, per altri tre giorni prendeva vino e carne con misurata sobrietà. Cantava, naturalmente, l’intero salterio ogni giorno. Ma rozzo com’era e per nulla preparato al genere di vita solitaria, come in seguito lo stesso beato Romualdo riferiva sorridendo, il più delle volte, quando usciva dalla cella assieme al suo discepolo, s’aggirava qua e là salmodiando per gli spazi dell’eremo, ora cantando venti salmi sotto un albero, ora trenta o quaranta sotto un altro/ Romualdo però, che aveva lasciato il mondo da persona non istruita, aperto il salterio, a fatica riusciva a sillabare le parole dei suoi versetti, e il dover tenere gli occhi abbassati gli causava un insopportabile senso di svogliatezza;  Marino, da parte sua, tenendo nella mano destra una verga, colpiva con frequenza la parte sinistra del capo di Romualdo che gli sedeva di fronte. Pertanto, Romualdo, dopo aver ricevuto molti colpi, spinto da profondo bisogno chiese umilmente: “Maestro, per favore, d’ora in avanti colpiscimi la tempia destra, perché dall’orecchio sinistro sto quasi perdendo completamente l’udito”. Quegli, allora, ammirato per questa pazienza tanto grande, attenua il rigore di questa eccessiva severità.

 

V. Il modo in cui Pietro Orseolo prima è diventato doge e poi si è convertito.

1. Proprio nel medesimo tempo, Pietro, soprannominato Orseolo, teneva le redini del ducato di Dalmazia. Egli era riuscito ad innalzarsi al rango più alto del ducato, fuor di dubbio, perché aveva appoggiato gli assassini del suo predecessore, vale a dire Vitale Candiano. Ritengo non sia fuor di luogo esporre brevemente per sommi capi perché quest'ultimo sia stato eliminato dai suoi. Ora, egli aveva preso come moglie la sorella di quel marchese Ugo il grande -, e, deciso a emulare suo cognato, assoldava molti soldati dai territori longobardi e tusci, allettati dagli stipendi in denaro. Gli abitanti di Venezia, non sopportando questa politica, prepararono, di nascosto, un piano per assaltare con le armi e all’improvviso il palazzo del doge e passare a filo di spada lui e tutta la sua famiglia senza esitazione. Alla fine, scoperta la congiura di questa consorteria, il doge Vitale, facendosi proteggere da guardie giorno e notte, rendeva vani i pericoli dei nemici. Essi, tuttavia, tentavano in ogni modo, ma non riuscivano a raggiungere lo scopo del progetto iniziale; alla fine si decide di incendiare prima la casa di Pietro, che era adiacente il palazzo del doge, e in questo modo di catturare il doge e ridurre in cenere tutto quanto possedeva. Per portare a termine un tale progetto, sollecitarono il consenso di Pietro, che era stato uno dei fautori dell’uccisione, e si accordarono su questo compenso: in cambio di quella sola casa, che avrebbero sacrificato al fuoco, avrebbero sottomesso alla sua giurisdizione tutta Venezia e, una volta eliminato colui che avevano in odio, avrebbero fatto eleggere immediatamente doge lui al posto dell’altro. Pietro, dunque, in questo modo ottenne la sovranità sul regno dalmata, cosa di cui, in seguito, per egli essersene impadronito mosso dalla passione sfrenata della sua ambizione, si pentì di cuore per intervento della grazia divina.

2. Ora, un venerabile abate, di nome Guarino, era solito andare peregrinando, a motivo della preghiera, dalle regioni della Gallia superiore ai più diversi territori del mondo. Giunto anche presso il doge, questi subito gli richiese un consiglio su come allontanare da sé il pericolo in cui si trovava a motivo di un delitto così grande. Furono convocati, pertanto, Marino e Romualdo, e di comune accordo gli si prescrive che egli abbandoni il mondo e lo stesso ducato di cui si era impadronito illegalmente, e poiché ha occupato ingiustamente il ruolo di potere che apparteneva ad altri, egli stesso si sottometta alla sovranità di un altro potere. Egli dunque, proprio per la posizione d’autorità che aveva, non volendo rendere pubblica la sua conversione, ritenne saggio seguire questo consiglio. Nell’imminenza della festa del santo martire cui era dedicata la basilica, che fino a quel momento deteneva come sua privata proprietà, il giorno precedente la festa v’inviò sua moglie, come se lui la dovesse seguire subito dopo, raccomandandole di occuparsi con cura degli addobbi della chiesa e di provvedere in fretta, per il giorno seguente, a un sontuoso banchetto per i suoi invitati. Rimasto solo, dopo che la moglie fu partita, prese dal suo tesoro quanto gli sembrava utile, e con un suo famiglio, cioè Giovanni Gradenigo, che era al corrente della suddetta congiura e con i tre beati uomini che abbiamo nominato, s’imbarcò su una nave; e così l’illustre convertito fuggì in Gallia presso il monastero dell’abate Guarino. Pietro e Giovanni diventarono monaci nel cenobio di san Michele; Marino e Romualdo, che vivevano non lontano dal monastero, tornarono alla vita solitaria alla quale si erano abituati. Trascorso però appena l’arco di un anno, si aggregarono a loro anche i fratelli testé nominati per sostenere fino in fondo le medesime asprezze della vita solitaria.

 

VI. Il fatto che Romualdo per un anno visse con un pugno di ceci il giorno e per tre anni del suo lavoro nei campi.

1. Romualdo, frattanto, infiammato nello spirito, incominciò a crescere di virtù in virtù in modo mirabile e a sopravanzare di gran lunga gli altri fratelli nel cammino della santa vita monastica, tanto che, su qualunque cosa, di spirituale o di materiale, egli avesse a esprimere il suo giudizio, la sua opinione prevaleva sempre, con il sostegno unanime dei fratelli. Perfino lo stesso Marino si rallegrava di essere devoto a Romualdo, cui in precedenza aveva fatto da maestro. Per un anno intero, così, Romualdo non prese altro cibo che un pugno di ceci lessati al giorno. Inoltre, per tre anni lui e Giovanni Gradenigo vissero del lavoro delle proprie mani, zappando la terra e seminando il frumento. E proprio mentre si dedicavano all’agricoltura, raddoppiavano il peso del digiuno.

 

VII. Le molteplici lotte che sostenne con il diavolo.

1. Ma il diavolo, in particolare all’inizio della sua vita monastica, assaliva Romualdo con molte e varie istigazioni alla tentazione e devastava la sua mente con molti stimoli ai vizi, ora ricordandogli quali e quante cose, per esempio, un uomo nel pieno delle sue forze potrebbe acquisire nel mondo, ora quali cose lui, senza essere ancora morto, avesse lasciato in eredità a parenti avidi e ingrati; ora gli faceva considerare come fossero assai piccole e di nessun valor le cose che faceva e, ora, suscitandogli orrore per l’enorme fatica da affrontare, gli garantiva per parte sua una lunga vita. Oh! Quante volte, percuotendo la sua piccola cella lo destò mentre stava quasi per addormentarsi e lo tenne sveglio tutta la notte come se l’alba fosse già imminente! Per quasi cinque anni di seguito, il diavolo, di notte, se ne stette adagiato sui suoi piedi e sulle gambe e, affinché non potesse facilmente girarsi su di un lato o sull'altro, egli lo teneva schiacciato sotto il peso che la sua figura dava l'impressione di avere. Chi sarebbe in grado di spiegare quante bestie frementi di vizi egli sopportò, quanto spesso mise in fuga, con rimproveri durissimi, gli spiriti cattivi che gli si presentavano davanti? Per questo motivo, anche se qualcuno dei fratelli fosse andato alla sua cella durante il tempo del silenzio, spinto da una necessità qualsiasi, subito, come soldato di Cristo pronto alla battaglia, pensando che fosse, come al solito, il diavolo in persona, inveiva a chiare lettere, dicendo: “Dove vai, ora, o essere vergognoso? Quale cosa vai cercando nell’eremo, tu, che sei rifiuto del cielo? Sta’ indietro, cane immondo; vattene, antico serpente”. Con queste invettive e simili dava a vedere di essere sempre in guerra con gli spiriti maligni e, rivestitosi con le armi della fede, di opporsi in campo prontamente agli assalti nemici

 

VIII. Un primo genere di vita di Romualdo, la pazienza del doge Pietro e la sua profezia.

1. E accadde una volta che, mentre leggeva un libro sulla vita dei Padri, egli s’imbatté in un passo dove è detto che alcuni fratelli, dopo un’intera settimana che digiunavano ciascuno per conto proprio, si ritrovavano insieme il sabato e quel giorno e la domenica interrompevano il rigore del digiuno e si nutrivano più liberamente. Romualdo assunse subito come suo quel regime di vita e vi rimase fedele per circa quindici anni o più, con immutata austerità. Il doge Pietro, invece, abituato a nutrirsi di numerose prelibatezze, stava quasi per soccombere sotto il peso di un digiuno tanto rigido. Per questo motivo, si gettò umilmente ai piedi del beato Romualdo e, quando gli fu ingiunto di rialzarsi, fu costretto a fare presente con vergogna le sue necessità: “Padre, disse, dal momento che io possiedo una corporatura robusta, questo mezzo pane seccato non basta a sostentarmi, a causa dei miei peccati.” Allora Romualdo, mossosi pietosamente a compassione della sua fragilità, fece aggiungere alla solita quantità di pane un quarto in più, e così tese la mano della misericordia al fratello, prossimo a cadere, affinché non venisse meno del tutto, e lo confermò nel proseguire sulla strada che aveva intrapreso di ricerca di santità. Una volta gli fece visita il figlio, suo omonimo, uomo assai avveduto nelle cose del mondo. Il padre, non so se per intuito profetico o per altra rivelazione, gli predisse ciò che gli sarebbe accaduto: "Figlio mio, disse, ho saputo con certezza che ti faranno doge e che farai fortuna. Soltanto fa’ in modo di conservare alle chiese di Cristo i loro diritti e di non deviare dalla giustizia per amore o odio verso qualcuno."

 

IX. Un secondo modo di vivere di Romualdo

1. Dopo questi fatti Romualdo, avendo nuovamente letto che san Silvestro, vescovo di Roma, aveva stabilito che si dovesse digiunare in giorno di sabato, come si digiunava le vigilie di Pasqua, spostò subito la pausa del sabato al giovedì e così, prendendo in considerazione la debolezza dei malati, egli rese più sopportabile, con il dovuto senso della misura, il lungo digiuno, imponendo questa regola a tutti gli adepti della vita solitaria, in modo che in questo modo ciascuno fosse in grado di osservare il digiuno che è proprio della vita eremitica se, digiunando i primi tre giorni della settimana e poi altri due, poteva poi assumere verdure o qualsiasi genere di zuppa di verdure il giovedì e la domenica, escluse, ovviamente le due quaresime annuali, in cui sia lui che la maggior parte dei suoi discepoli erano soliti protrarre il digiuno per l’intera settimana. Era certamente un fatto molto opportuno che chi si studiava di lodare sempre Dio nel coro e con il timpano, facesse risuonare gli specifici accordi della scala cromatica (diatonica), vale a dire di ottava (diapason), di quinta (diapente) e di quarta (diatesseron), alle orecchie della Luce infinita. Digiunare completamente, invece, vale a dire trascorrere il giorno intero senza cibo alcuno, benché egli stesso l’abbia fatto molto spesso, agli altri lo proibiva nel modo più assoluto. A chi tendeva alla perfezione, infatti, diceva che era sommamente conveniente che egli mangiasse ogni giorno e avesse sempre fame, fintanto che la carne rendesse leggero ciò che ai novizi sembra pesante all’inizio della loro vita monastica. Al contrario, non aveva molta considerazione di qualcuno che ad un dato momento avesse iniziato qualcosa di grande e in tale impegno non fosse stato anche in grado di perseverare con fedeltà paziente.

2. Esortava molto, in particolare, a vivere le veglie con moderazione e con molto senso della misura, perché a qualcuno non capitasse che, una volta terminato l’ufficio notturno, cedesse al sonno. Il sant’uomo giustamente detestava a tal punto questo genere di sonno, che, se qualcuno gli avesse confessato di essersi addormentato dopo la recita dei dodici salmi o, soprattutto, verso l’alba, quel giorno non avrebbe potuto in alcun modo celebrare i sacri riti della messa con il suo permesso. Diceva pure che era meglio, se possibile, cantare un solo salmo con il cuore e con compunzione, piuttosto che sciorinarne cento divagando con la mente. Se a qualcuno, invece, non era data compiutamente questa grazia, lo esortava, in ogni caso, a non disperare mai, o a non lasciarsi intiepidire nell'esercitare il corpo, finché colui che ha donato la volontà, concedesse, quanto prima, anche la capacità adeguata. L’intenzione della mente, una volta fissata in Dio, deve soltanto custodire l’incenso della preghiera, che è invece turbato dall'affollarsi di pensieri provenienti dal di fuori. Dove c’è la retta intenzione, infatti, non c'è troppo da temere dei pensieri che sono contrari alla volontà.

X. Il conte che rapinò una mucca, e mangiandola ne morì.

1. Ora, un tempo, quando dimorava ancora nei territori della Gallia, aveva familiarità con un contadino il quale, di quando in quando, gli costruiva degli utensili di cui c’era bisogno nella cella, e se qualcuno gli veniva utile, egli, più ricco di carità che di beni, vi provvedeva gioiosamente con la pochezza della sua povertà. Un conte, arrogante e superbo, inviò degli uomini al suo servizio che, con un colpo di mano, trafugarono una mucca del contadino, e ordinò che con le sue carni gli si preparasse un pranzo, pregustandone già il sapore. Allora, ecco, che il contadino raggiunge in fretta la cella di Romualdo, urlando gli strilla il caso della sua disgrazia, si lamenta che gli è stata sottratta la speranza sua e della casa. Allora, san Romualdo, di gran carriera, invia un messaggio al conte in persona e chiede con preghiera umilissima che egli restituisca al povero il suo animale. Lo spudorato conte respinse con sfrontatezza le sue suppliche e affermò che quello stesso giorno avrebbe assaporato i grassi lombi della mucca. All’approssimarsi dell’ora del pranzo, la mensa già imbandita, ecco che sono servite le carni della mucca: e, quando ormai incombeva la sentenza della punizione divina, proprio all’inizio del pranzo, il conte, ritagliatosi un pezzetto di coscia, se lo mise in bocca. All’improvviso quel boccone gli restò bloccato in gola a tal punto che non poteva inghiottirlo nello stomaco, né in alcun modo vomitarlo. Così, occluse le vie respiratorie, egli soffocò, tra le braccia dei suoi, di una morte orribile: e poiché aveva voluto saziare con ingordigia la bramosia della carne contro il servo di Dio, con giusto giudizio di Dio egli perse la sua vita carnale senza poter nemmeno

 

XI. Olibano promette di convertirsi.

1. Viveva nelle stesse regioni della Gallia un altro conte, di nome Olibano, la cui giurisdizione includeva anche il monastero dell’abate Guarino, già menzionato. Egli era stato elevato al sommo vertice del potere terreno, ma era gravato da una gran quantità di peccati. Una volta, egli si recò a far visita a Romualdo e, a tu per tu, mentre il suo seguito restava fuori della cella, incominciò a raccontargli, come in confessione, la serie dei suoi misfatti. Il venerabile uomo, udite le cose che gli erano riferite da lui, gli rispose che non aveva alcuna possibilità di essere salvato, a meno che, lasciato il mondo, si rifugiasse in monastero. Il conte, con la coscienza subitamente turbata, rispose che di sicuro i suoi consiglieri spirituali, che conoscevano i suoi trascorsi, non avrebbero mai pensato a questo modo, né mai sarebbero giunti a consigliargli una decisione così onerosa. Pertanto, chiamati a sé vescovi e abati che erano al suo seguito, prese a informarsi da tutti se la cosa stava nei termini in cui aveva dichiarato il servo di Dio. Ora, essi, a una sola voce, confermano il giudizio del beato Romualdo e si scusano di non averlo mai detto fino ad allora al conte, perché frenati dalla paura. A questo punto, il conte, allontanati tutti, concordò in gran segreto con il beato Romualdo questa risoluzione: sarebbe partito per Montecassino col pretesto di andarvi a pregare, e nel monastero di San Benedetto si sarebbe dedicato in modo irrevocabile al servizio divino.

 

XII. Sergio vuole tornare nel mondo.

1. Frattanto Sergio, padre di Romualdo, diventa monaco, ma qualche tempo dopo, su istigazione del diavolo, tenta di tornare in Egitto. I monaci, intendo quelli del cenobio di San Severo, che si trova non lontano dalla città di Ravenna (laddove Sergio abitava con il corpo, ma non con il cuore), subito attraverso un messaggero si preoccuparono di far pervenire la notizia al beato Romualdo. Egli, colpito dall’infausta notizia, giudicò necessario che l’abate Guarino e Giovanni Gradenigo, assieme al conte, partissero per la sua conversione; lui stesso, inoltre, sarebbe arrivato quanto prima presso il padre che era in procinto di perdersi. Il doge Pietro, invece, aveva già felicemente chiuso l’estremo suo giorno. Affidò, quindi, a questi due il conte, fidando in loro; ad ambedue certo, ma in particolare a Giovanni che gli doveva obbedienza, ordinandogli espressamente che, anche se Guarino se ne fosse andato, lui non avrebbe mai dovuto separarsi dal conte.

 

XIII. La saggezza di Romualdo, la fatica del viaggio e i rimproveri al padre

1. Ora, i contadini di quella regione, udendo che Romualdo si apprestava a partire, furono presi da profonda tristezza, e, ragionando tra loro in quale modo dissuaderlo dalla sua intenzione, alla fine parve loro preferibile questa soluzione: assoldare dei sicari che lo uccidessero, come per una empia forma di devozione, di modo che, non avendo potuto trattenerlo vivo, l'avessero almeno come patrocinio della loro terra, per quanto ormai cadavere senza vita. Romualdo, venuto a sapere queste cose, si rase completamente la testa e, quando gli esecutori del progetto già si avvicinavano alla sua cella, allo spuntare dell’alba si mise a mangiare come con ingordigia. Quelli, allora, presero per follia ciò che vedevano e, ritenendo ormai distrutta del tutto la sua mente, ritennero vergognoso distruggere anche il corpo. Fu proprio questo il modo in cui l’accorta follia del mistico Davide vinse la sciocca furbizia dei sapienti secondo la carne. Da un lato, infatti, riuscì a bloccare coloro che volevano peccare; dall’altro, a coronamento dei suoi meriti, poté evitare il pericolo di morte pur senza temerla. Poi, ormai libero di disporre di sé, dalle regioni più interne della Gallia fece ritorno verso le parti di Ravenna, senza l’aiuto di un cavallo o di un mezzo di trasporto, ma a piedi nudi, e qui, ritrovato il padre che voleva ritornare nel mondo, gli serrò ben stretti i piedi nei ceppi di legno, lo legò con pesanti catene, lo tormentò con dure frustate e soggiogò a lungo il suo corpo con misericordiosa severità, fino a che riuscì a fargli rimettere la testa a posto grazie al medico divino.

 

XVIII. I monaci prendono a botte Romualdo e sono colpiti dall’ira divina.

1. Un giorno poi arrivò in una località chiamata Bagno, che si trova nel territorio di Sarsina, dove si fermò per un certo tempo e costruì un monastero dedicato a san Michele arcangelo^ non lontano dal quale si stabilì in una cella per abitarvi. Qui, il marchese Ugo gli inviò per le sue necessità sette libbre di monete; lui le accettò per poterle, da buon prodigo, dispensare con misericordia. Ora, egli, venuto a sapere che il monastero di Palazzolo era stato distrutto da un incendio, mandò in aiuto ai fratelli sessanta soldi della suddetta somma e riservò il resto per poterlo spendere in un’opera simile. I monaci di San Michele, venuti a conoscenza del fatto, furono presi da un furore selvaggio contro di lui, sia perché egli aveva già avversato in molti modi i loro costumi corrotti, sia perché quanto gli era stato accordato lo spendeva non tutto per loro, ma in parte anche per altri. Ordirono, quindi, una congiura ed ecco che insieme irrompono nella cella con bastoni e spranghe, lo riempiono di botte e, saccheggiata ogni cosa, lo espellono dai loro territori con vergognosi insulti. Ordunque, mentre scacciato in tal modo se n’andava e un gran senso di tristezza gli scendeva nell’intimo del cuore, egli decide tra sé che per il futuro, limitandosi alla propria salvezza, avrebbe messo completamente in secondo piano la preoccupazione per la salvezza altrui. Ma naturalmente, dopo questa riflessione, s’impadronì del suo animo una tale paura da essere ben certo che, se avesse insistito a oltranza in ciò che egli aveva concepito nel suo pensiero, avrebbe meritato la morte e la condanna secondo il giudizio divino. I monaci, invece, consumata la vendetta a lungo covata e quasi sollevati nell’essersi tolti un peso insopportabile, si compiacciono e si congratulano molto di quanto avevano compiuto a danno del servo di Dio, e, tra lazzi e risa smodate, si lasciano andare ad una gioia contagiosa; e poi, per festeggiare, come se fosse una ricorrenza solenne, l’occasione di tanta gioia, si preparano un banchetto di costose e raffinate vivande. Si era, allora, d’inverno, e ciò conveniva non solo con l’avvicendarsi delle stagioni, ma, in modo tanto più consono, con i loro animi freddi. Uno di loro, che era stato particolarmente spietato contro il beatissimo soldato di Cristo, stava dandosi da fare per procurarsi del miele, con cui preparare il vino aromatizzato per i convitati. A questo scopo, mentre egli attraversava il fiume Savio, inciampò nelle tavole di legno e improvvisamente cadde giù dal ponte e annegò, trascinato sul fondo dai gorghi del fiume: fu, senza dubbio, giusto giudizio di Dio che la torbida acqua abbia saziato fino a morirne chi, per soddisfare i piaceri della vita, aveva bramato la dolcezza del miele, mentre avrebbe dovuto piangere. Inoltre, durante la notte, mentre tutti, come al solito, dormivano, a causa di un’abbondante nevicata l’intero tetto dell’edificio comunitario crollò improvvisamente su di loro, e ad uno schiacciò la testa, ad un altro le braccia, e ad un altro le gambe o qualche altro arto. Ad uno di loro fu cavato anche un occhio, e a ragione soffrì la privazione della vista corporea chi, privatosi del prossimo, aveva ormai perso di vista la luce della duplice carità, se anche avesse conservato il secondo occhio.

XXXI. Il luogo dove fu divinamente concessa a Romualdo la grazia della perfezione.

1. Romualdo, vivendo per tre anni nei dintorni di Parenzo, durante il primo costruì il monastero e negli altri due vi rimase come recluso. Qui, in verità, la misericordia di Dio lo portò a raggiungere una tale perfezione che, toccato dal soffio dello Spirito Santo, riuscì a prevedere alcuni fatti che sarebbero accaduti e a penetrare, con la luce dell’intelligenza, molti misteri nascosti dell’Antico e del Nuovo Testamento. Talvolta, ancora in questa località, egli era ansioso di scoppiare in lacrime, ma non riusciva in alcun modo a raggiungere la compunzione del cuore contrito. Avvenne che un giorno, mentre stava salmodiando in cella, s’imbattesse in questo versetto del salmo: Io ti darò intelligenza e t’istruirò sulla via che dovrai percorrere, io fisserò su di te i miei occhi. Ed ecco che all’improvviso gli sgorgò un abbondante effluvio di lacrime e il suo spirito fu a tal punto illuminato da comprendere gli insegnamenti della Sacra Scrittura, che lo stesso giorno, e in seguito per tutta la vita, copiose lacrime gli fluirono con facilità ogni qualvolta egli lo volesse e non gli rimasero nascosti numerosi sensi mistici delle scritture. Spesso la contemplazione della divinità lo rapiva al punto che, come completamente sciolto in lacrime, egli esclamava con il fervore indicibilmente traboccante dell’amore divino: “Caro, mio caro Gesù, dolce mio miele, desiderio ineffabile, dolcezza dei santi, soavità degli angeli”, e altre espressioni simili. Ciò che egli pronunciava con esaltazione sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, noi non siamo in grado di riportarlo nel linguaggio umano. L’Apostolo in proposito dice: Noi non sappiamo come si debba pregare, ma lo Spirito stesso prega per noi con gemiti inenarrabili. Romualdo, per questo motivo, non voleva mai celebrare la messa davanti a molte persone, perché non riusciva a trattenersi dal versare profluvi di lacrime. Uomo d’animo semplice, anche in seguito, ormai segnato da lunga consuetudine, giudicando che la grazia concessagli divinamente fosse alla portata di tutti, diceva sovente ai discepoli: “State attenti a non versare troppe lacrime perché sciupano il volto e indeboliscono il corpo”. Il sant’uomo ovunque decideva di fermarsi, prima costruiva un oratorio con altare all’interno della cella, poi ci si richiudeva dentro e ne vietava l’accesso.

 


[1] L'evidente gioco della paranomasia (La paranomasia (o paronomasia) è una figura retorica che consiste nell'accostamento di due parole il cui suono è simile ma che hanno significato differente.) contiene in sé anche un valore di ossimoro, e tutto l'andamento di questo incipit è giocato su ossimori e antitesi. In questa prospettiva si potrebbe anche intendere: mondo stravolto, alla rovescia. Oppure, meglio, si dovrebbe dare conto di una voluta polisemia dell'espressione, improducibile tuttavia in italiano.

 


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15 gennaio 2022        a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net