Pier Damiani

Le disposizioni della sua congregazione. Al monaco Stefano

Opuscolo XV

(Testo estratto da: "S. Pierdamiano - Scritti monastici" Vol. 2, a cura del P. D. B. Ignesti Camaldolese O.S.B.

Edizioni Cantagalli - Siena 1959)

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LE ISTITUZIONI AVELLANITICHE

(De suae Congregationis Institutis - Opusc. XV)

 

E’ stato scritto circa il 1050-57 e diretto ad un monaco di nome Stefano, desideroso di conoscere il modo di vivere proprio degli eremiti.

Si può dividere in due parti: nella prima che va fino al cap. XV, dopo i primi cinque capitoli che dicono della vita eremitica in genere, si tratta delle osservanze in uso nell’Eremo di Fonte Avellana, che sono austerissime. Questo estremo rigore il Santo è deciso a mantenerlo finché vivrà; ma poiché comprende che non dappertutto sempre potrà esigersi tanto, nella seconda parte, prima traccia delle regole mitigate, possibili a tutti, poi, dopo sapientissimi insegnamenti per vivere e progredire in solitudine, parla del priore dell’eremo, dei suoi doveri, della sua dottrina.

Questo opuscolo si presenta davvero come una continuazione e uno svolgimento del precedente; ciò che in quello è detto in maniera schematica e ha carattere di ”notificazione” da consegnare ai posteri, qui è sviluppato e completato in forma di un vero trattatello da valere come risposta ad una domanda. Meritava quindi conoscerli ambedue.

 

A Stefano fratello carissimo, rinchiuso per amore di celeste carità, Pietro, l’ultimo servo della croce di Cristo, salute fraterna.

 

Ho ricevuto, o dilettissimo figlio, la tua onesta domanda con cui mi chiedi di essere informato mediante un mio scritto su le regole della vita eremitica. Hai lasciato infatti la via larga del monastero e ti sei chiuso con grande fervore nell’angusto carcere di una cella. Non è da disprezzare la tua domanda, e d’altra parte non si tratta di cosa oziosa o di poco momento; anzi chi sapesse farlo convenientemente, certo gioverebbe non poco anche ai posteri. Ma noi che, per la nostra vita, in questa professione siamo gli ultimi, non possiamo avere la temerità di farla da maestri con le parole, come fossimo giudici o guide. Sarebbe come mettere il carro innanzi ai bovi, se la lingua si arrogasse, per così dire, la ferula dottorale su gli altri; quando la vita è ancora sotto la bacchetta sui banchi della scuola.

Ma come si fa a non ubbidire ad uno che messasi la propria volontà sotto i piedi ha fatto proposito di ubbidire a Dio in ogni cosa? La carità fraterna mi obbliga, e mi trovo tra due fuochi: da una parte vorrei soddisfare ai tuoi desideri, dall’altra non oso oltrepassare i limiti della mia pochezza. La cosa più sicura sarà di non formulare delle regole eremitiche, ma di limitarci a esporre semplicemente quello che si pratica in questa nostra congregazione e che noi stessi conosciamo di nostra esperienza.

Cosi più che prescrivere quello che si deve osservare dagli eremiti, dirò quello che si usa praticare in quest’eremo, sia quanto al luogo che alle persone. Il che del resto non credo sarà senza frutto di chi vorrà leggere per amore di carità, perché è certo che a raggiungere l’apice della perfezione, se i precetti muovono, gli esempi spingono.

Capitolo I.

Elogio della vita solitaria

Tu, o fratello, hai colto bene nel segno, quando hai scelto di tornare a Dio non per una via qualunque, ma per la via aurea. A ciò non ti mosse la prudenza della carne, ma senza dubbio lo Spirito di Dio. Questa infatti è la via che tra quante menano alle cime, è la più nobile ed eccelsa: essa colloca già nella patria chi la percorre, essa in certo modo già ricrea e consola nel riposo colui che suda ancora nella fatica. Questa via a chi vi cammina non punge le piante con le spine delle ansietà e non infanga nelle brighe mondane. Ora questa via è larga e stretta al tempo stesso, in modo che chi vi cammina accompagnato da desideri di cielo non inciampica malamente per istrettezza e non si disvia per larghezza. Se ai principianti apparisce angusta e difficile, presto, con l’aiuto della grazia di Dio e della fede, si fa agevole, si abbandona per incostanza o pusillanimità. Per coloro poi che ci sono adusati e son già vicini alla perfezione o vi son giunti, la vita eremitica è non solo facile, ma sembra in certo modo una via larga. Tuttavia essi non smettono di portare la croce dietro a Gesù, perché da un lato seguitano a reprimere la loro volontà, dall’altro non cessano di combattere le tentazioni dei loro pensieri.

Insomma la donna che hai preso, o fratello, non è come le mogli di Giacobbe, una delle quali essendo sterile non generava figliuoli, l’altra avendo gli occhi cisposi era deforme: essa ha la fecondità di Lia e la venustà di Rachele; è tale insomma che i tuoi occhi saranno limpidi per contemplare l’eterno Principio, o al tempo stesso avrai imitatori in gran numero del tuo nobile esempio.

Questa è la donna di cui si dice che il suo abbigliamento è fortezza e decoro (Prov. 31, 25). E’ proprio infatti della vita eremitica lavorare al raggiungimento di un ideale sublimissimo, così da esser sempre pronti e solleciti a mostrare decoro e

nobiltà di animo. Questa è colei di cui anche è scritto che pose mano ad opere forti e che le sue dita strinsero il fuso (ivi); giacche il buon cultore di questa vita con fervido desiderio si slancia ogni giorno verso grandi cose, pur serbandosi sempre attento a non trascurare le minime. Questa può rivendicare per sè la dignità delle due sorelle di Lazzaro, perché con Maria sedendo ai piedi del Signore attende alle parole divine, e con Marta ricrea il Signore con i cibi molteplici delle sante virtù.

Ma perché trattenermi ancora a descrivere i meriti di questa santa vita? Per dire tutto in breve, molte sono le vie per le quali si va al Signore, diversi sono gli ordini nel popolo fedele, ma tra tutte nessuna come questa è tanto diritta, tanto sicura, tanto breve, tanto libera da inciampi e da precipizi, perché da un lato essa elimina quasi tutte le occasioni di peccato, dall’altro favorisce moltissimo le virtù che ci fanno accetti al Signore: essa in certo modo ci toglie la possibilità di peccare, e nel tendere al bene ci impone quasi una dolce necessità... Tutto questo chi si degnerà di cercarlo, lo troverà espresso anche più chiaramente in altri miei poveri opuscoli.

Insomma a questa santa vita, dirò meglio, a questa vita vivificante quadra a puntino ciò che è detto da Salomone : « molte figlie adunarono grandi ricchezze; tu le superasti tutte quante» (Prov. 31, 29).

Capitolo II.

Origine della vita eremitica

Prima di parlare dei rami, l’ordine richiede ch’io cerchi diligentemente la radice e l’origine di questa istituzione, facendo conoscere quali ne furono i fondatori. È’ bene veder prima la fonte per poi attingere più sicuramente ai rigagnoli.

Questa maniera di vita, per tacere dei più antichi, nel Vecchio Testamento fu iniziata da Elia; Eliseo, dopo, formatosi una scuola di discepoli, la propagò. Nel Nuovo Testamento Paolo ed Antonio stanno in eguale rapporto con i due anzidetto perché dalla storia sappiamo che Paolo visse solitario nell’eremo, e Antonio si associò in questa professione un gran numero di discepoli.

Del resto sappiamo che anche Mosè agli inizi della Legge condusse per quarantanni il popolo pel deserto, mentre per altrettanti giorni il nostro divin Redentore consacrò il deserto sui primi albori della grazia evangelica: testimone san Marco, il quale dopo narrato il battesimo, subito aggiunse : « e immediatamente lo Spirito lo spinse nel deserto, e vi rimase quaranta giorni e quaranta notti, tentato da satana; e viveva con le fiere» (Mc. 1, 13). Parimenti il Battista fu di questa vita non mediocre assertore, il quale non certo per virtù umana elesse di vivere nel deserto senza umano cibo o conforto.

Capitolo III.

Doppio genere di eremiti

Dall’origine e dal successivo svolgersi di questa istituzione si vede dunque che l’ordine degli eremiti è duplice: altri vivono nelle celle, altri vagando qua e là per le solitudini non hanno dimora fissa. Quei che si aggirano nella vastità dell’eremo comunemente si chiamano anacoreti, gli altri invece che hanno celle sono detti eremiti. 11 nome comune è divenuto loro proprio.

Però gli eremiti di oggi reputano superbia assumere tale denominazione e per amor di umiltà preferiscono chiamarsi penitenti. Degli anacoreti furono come le primizie fin dall’antichità i figli di Gionadab, che come attesta Geremia, non bevevano vino sicera (sidro), abitavano sotto le tende e dove la notte li coglieva si fermavano. Di costoro si dice nei salmi che per primi subirono la schiavitù, perché devastando i Caldei la Giudea, furono costretti a ritirarsi in città; e per essi le città erano carceri, mentre stimavano dolce dimora di riposo le solitudini del deserto.

Ma noi ai santi anacoreti che ai nostri tempi sono pochi, o nessuno, ci contentiamo di esibir riverenza, e ci rivolgiamo solo agli eremiti.

Capitolo IV.

Come si devono combattere le tentazioni
della carne e del diavolo

Chi entra nella cella eremitica per combattere il diavolo e scende nell’arena dell’agone spirituale col cuore pieno di fervida arditezza, deve drizzare tutto lo sforzo della mente a non sentire più, neppure per un attimo, le dilettazioni della carne, a vivere morto a se stesso e al mondo. Si prepari quindi a tollerar disagi e penuria, si voti a morire per Cristo, cinga i lombi della sua mente con gli strali delle virtù, si ponga davanti le cose dure ed aspre, affinché poi quando gli sopraggiungano non ceda vilmente scoraggiato per non averle previste, ma tutto sopporti con animo eguale.

Il fiume alla sua sorgente scaturisce piccolino, ma poi scendendo per lungo declivio e ricevendo di qua e di là altri ruscelli s’ingrossa; così il nostro uomo interiore incomincia piccolino e quasi arido il suo viaggio nella vita santa, ma a poco a poco col crescere delle virtù, come per l’afflusso di molti ruscelli, cresce e via via si irrobustisce.

Quando si vuole incanalare la corrente di un fiume, bisogna far argine vicino alla sorgente, facendogli la diga e ostacolandolo nel tratto dove ancora non è fiume ma solo rigagnolo. Chi s’incammina alla reggia compie il primo tratto di strada in compagnia di pochi; man mano poi si aggiungono altri compagni e la comitiva aumenta. Ora se un nemico vuol tendergli insidie, questi si pone in agguato non lontano dal punto di partenza, perché non sfugga al suo assalto improvviso essendo ancora poco numeroso il drappello. Anche noi ci mettiamo in cammino verso la reggia del nostro Re, quando ancora rozzi come nuove reclute giuriamo su le nostre armi spirituali; ma poiché ancora non siamo inquadrati nella schiera dei santi studi dell’anima e le molteplici virtù della perfezione non ci sostengono, ecco che proprio allora, quasi nel vestibolo di casa nostra, il nemico sornione ci prepara gli agguati. Quivi egli congegna e dispone i tranelli della sua astuzia, i suoi lacci e le sue arti maligne, quivi le macchine dei suoi inganni e le frodi della sua pestifera furbizia: vuol turbare il rigagnolo ancora tenue dell’opera buona, per estinguerlo prima che scenda al basso e gli vengano in aiuto i compagni.

Ma tra tutto cotesto grandinar di saette, tra co- testa tempesta di incalzanti battaglie, il campione di Cristo non deve impallidire, ma premunendosi con lo scudo dell’invitta fede, tanto più confidare nel conforto dell’aiuto di Dio, quanto più aspri sono gli impeti degli infestanti assalitori. Non dubiti punto, perché se riuscirà a superare incolume l’assalto della prima tentazione, ben presto i suoi nemici daranno volta e soccomberanno, ed egli fatto più gagliardo canterà vittoria.

Per questo lo spirito insidiatore vomita tutto il suo fiele contro i novizi, per questo spande contro di essi il veleno della sua astuta e seduttrice malizia: egli non ignora che se allora falliscono i suoi assalti non avrà più modo di nuocere; anzi non essendogli riuscito il gambetto, rimarrà vinto e scornato: non avendo prevalso coll’inesperto, soccomberà col provetto.

Capitolo V.

Tre cose soprattutto necessarie agli eremiti:
la quiete, il silenzio, il digiuno

E’ da avvertire che come chi si avvia verso gli eterni beni deve coltivare tutte le virtù interne dell’anima, così ve ne sono tre esterne che vanno tenute presenti a preferenza delle altre; e sono la quiete, il silenzio e il digiuno ([1]).

Le altre pratiche si devono avere ordinariamente in devozione o in abitudine ; queste tre invece vanno tenute con familiare assiduità in esercizio. Come è proprio del sacerdote celebrare la Messa, del dottore predicare; così è proprio dell’eremita starsene quieto in silenzio e in digiuno. Per questo troviamo detto dagli antichi maestri di questa vita: «Siedi in cella, raffrena il ventre e la lingua, e sarai salvo » ( Vite dei Padri).

Il ventre si tiene a freno perché riempiendosi di cibo non infetti con la sua corruttela il rimanente del corpo; la lingua perché se non è tenuta a disciplina svuota l’anima di tutto il vigore della divina grazia e la snerva della sua salutare rigidezza. Peraltro in queste cose devesi usare discrezione e modo, altrimenti gli animi deboli finiscono coll’abbandonar tutto come un peso insopportabile. Come dunque promisi dapprincipio, spiegherò in breve la vita che si pratica in questo eremo, affinché ponendotela come una certa qual norma davanti agli occhi e ricorrendovi con diligente attenzione tu non possa sbagliare oltrepassando tenendoti troppo al disotto.

Capitolo VI.

Regola dei digiuni e dei pasti

Dal quattordici settembre fino a Pasqua di resurrezione da noi si osserva il solito digiuno di cinque giorni alla settimana. Dall’ottava di Pasqua fino al venerdì dopo la Pentecoste i giorni di digiuno sono quattro; con questa regola, che si fanno due pasti anche il martedì e il giovedì, oltre la domenica che tutti rispettiamo; in quel periodo infatti possiamo cibarci un po’ più largamente, quantunque i sacri canoni non vietino ai monaci il digiuno.

Dall’ottava di Pentecoste fino alla natività di S. Giovanni Battista, il martedì si passa ai monaci la pietanza, ma a nona; il giovedì si fa pranzo e cena. Finalmente dalla festa di S. Giovanni fino al quattordici settembre, il martedì e il giovedì si mangia due volte, gli altri quattro giorni si fa digiuno come al solito, salvo sempre il caso se qualcuno sta poco bene, perché subito secondo la necessità gli si usa ogni carità e indulgenza. Nelle feste di dodici lezioni che ricorrono dal quattordici settembre a Pasqua, i fratelli mangiano una sola volta, eccettuate le seguenti solennità: Ognissanti, S. Martino, S. Andrea, la settimana di Natale e il giorno dell’Epifania e dell’Ipapante ([2]) nei quali giorni secondo l’uso si duplicano i pasti. Nelle altre feste i fratelli devono limitarsi a una sola refezione.

Si noti poi che non tutte le feste solite a celebrarsi nei monasteri si solennizzano nell’eremo, e per lo più qui si usa trasferirle al martedì o al giovedì, eccetto le principali che per la loro riverenza non si possono rimettere. Molte poi che non sono di prim’ordine, in quaresima e nel resto dell’anno, le celebrano con dodici lezioni il cellerario e quei che abitano con lui vicino alla chiesa; ad essi se il priore crede ma assai raramente concede qualche indulgenza nel cibo: gli altri che vivono nelle celle separate, non uscendo fuori, fanno tre lezioni e osservano il digiuno secondo l’uso. Per digiuno noi intendiamo pane, sale ed acqua soltanto; quando si aggiunge qualcos’altro, nell’eremo non si chiama digiuno. Nelle due quaresime precedenti il Natale del Signore e la Pasqua, vi sono dei fratelli che passano tutta la settimana in digiuno, vivendo ogni giorno a pane ed acqua fuorché le domeniche; alcuni non solo nelle feste di ambedue le quaresime ma anche le domeniche si astengono dai cibi cotti. Noi veramente da principio avevamo proibito questi digiuni nelle domeniche per riverenza alla santa resurrezione, ma fummo costretti a permetterli di nuovo dietro insistenza di questi buoni fratelli. Si cibano di pomi, di radici d’erbe, di legumi rinvenuti nell’acqua o lessi.

Neppur vogliamo tacere che nel principio di ambedue le quaresime, tutti, monaci e laici, osservano digiuno stretto, in modo che chi non può astenersi totalmente dal cibo si contenta di pane e d’acqua e nient’altro.

La consuetudine è che i fratelli la domenica abbiano due pietanze in tutti i tempi dell’anno, ad eccezione delle due quaresime : in queste e in tutte le feste dei santi ne basta loro una sola. Negli altri giorni nei quali il digiuno è temperato, se si fanno due pasti si danno due pietanze, una per pranzo e una per cena: se la refezione è unica, unica è anche la pietanza. L’uso di due pietanze fu permesso, contro la consuetudine eremitica, per il fatto che quassù è cosa molto rara avere offerte dai forestieri, ma dove il luogo è frequentato da fedeli devoti, questo duplicato di pietanze non ha più ragione e quindi cessa. Così nell’eremo da noi costruito sulle pendici del Suavicino non si conosce in tutti i tempi che una sola pietanza ([3]).

Dal vino per parecchio tempo ce ne astenemmo, tanto che qui neppure i secolari e gli ospiti, e nemmeno il giorno di Pasqua, bevevano altro fuor che acqua : il vino si teneva solo per il santo Sacrifizio. Ma poiché quelli che qui abitavano cominciarono a illanguidirsi e a venir meno ed altri che desideravano di entrare si spaventavano di una regola tanto rigida, condiscendendo alla fraterna o diciamo meglio alla comune debolezza, permettemmo che si facesse uso di vino, purché con moderazione e sobrietà. Non potendo lasciarlo interamente con Giovanni, cerchiamo con Timoteo di accordarne al nostro stomaco con sobrietà e umiliandoci; e poiché non possiamo essere astemi del lutto, non mancheremo almeno di essere sobri. Tuttavia nelle due quaresime si è conservata sempre la consuetudine di non dar vino ai monaci ai laici; come pure nelle stesse quaresime non si passa se non una sola pietanza, ad eccezione delle quattro solennità di S. Andrea, di S. Benedetto, della domenica delle Palme e del Giovedì santo, nei quali giorni solenni, ringraziando Iddio, i monaci ricevono pesce e vino.

Il sabato santo e la vigilia della Natività del Signore per sollievo dalle fatiche dei lunghi uffici chi vuole può mangiare l’intera porzione del pane; altro in più non ricevono i monaci i laici. Tre sole ottave si celebrano durante l’anno nelle quali in quest’eremo non si è obbligati al digiuno: l’ottava di Pasqua, di Pentecoste e di Natale. Alcuni però, siccome non sono abituati ed è loro grave mangiare due volte il giorno per tutta la settimana, se umilmente lo chiedono, si permette loro di digiunare alquanto anche in quei giorni; quantunque nell’ottava di Pentecoste anche la tradizione della Chiesa e dei padri comanda il digiuno. Nelle ottave di ogni altra festa seguiamo l’ufficio ecclesiastico come vuole l’ordine, ma non mutiamo il tenore del digiuno.

Capitolo VII.

Regole per i servi

Tutta la casa del Signore deve essere sotto la disciplina e l’ordine della regola, ed ogni membro agire nel corpo secondo l’ufficio che gli compete; perciò anche i domestici che servono nell’eremo non devono deviare dall’ordine loro assegnato. Essi in tutto l’anno osservano il digiuno di uso tre giorni la settimana; nelle quaresime, quattro, eccettuati quelli che sono mandati lontano in viaggio. Del resto dovunque vadano si astengono sempre dai cibi di grasso ed è loro proibito come ai monaci di posseder nulla di proprio. Alcuni si alzano pure di notte per assistere alla recita del salterio con quei fratelli che dimorano presso la chiesa.

Entrando al servizio dell’eremo fanno professione nel modo seguente : « lo N. N. prometto ubbidienza e perseveranza per tutto il tempo della mia vita in quest'eremo che fu edificato a onore di Dio e della santa Croce, per timore di nostro Signor Gesù Cristo e per rimedio dell’anima mia. Che se un giorno tentassi di fuggire di qui o di partirmi, possano i servi di Dio che qui dimorano con piena loro autorità e diritto ricercarmi e richiamarmi coattivamente e con la forza al loro servizio ».

A questa promessa sottoscritta essi appongono il segno di croce e facendosela leggere da qualcuno dei fratelli alla presenza di tutti, la depongono sull’altare.

I monaci non fanno altra professione che quella che si usa nei monasteri; soltanto mutano il nome di monastero con quello di eremo.

Del resto a chiunque vuole entrare, monaci o laici, non si omette di proporre omnia dura et aspera (Reg. c. 53): l’estremità e la nudità delle vesti, la penuria dei cibi, la rinunzia alla propria volontà, le durissime correzioni, le continue ingiurie, riprensioni, travagli e fatiche. Queste e molte altre le pratiche, che noi tralasciamo di proposito perché sappiamo esser praticate ugualmente nei monasteri per regolare tradizione.

Capitolo VIII.

La misura del pane. Gli esercizi spirituali

Nell’eremo la misura del pane è la stessa che nel monastero, con questo di particolare che, nei giorni di uno o di due pasti, se l’eremita vuol consumarlo tutto, libero lui; mentre nei giorni di digiuno, poiché ogni eremita tiene in cella la sua bilancia, deve sempre pesare il quantitativo da prendere per la refezione. Per misurarlo tiene questo modo: mette sulla bilancia metà della pagnotta più un mezzo quarto, e lascia da parte l’altro quarto e mezzo: ma per togliere ogni incertezza, si sappia che nove uova di anatra o tre di oca, messe su la bilancia, danno ugual peso. E per i digiuni e la misura del cibo facciamo che basti.

Per quello invece che si riferisce agli esercizi di devozione, quale ne sia il fervore continuo, quale la sollecitudine, quanto operosa e vigile la frequenza, io mi perito a scrivere, perché potrebbe sembrare ch’io faccia vana ostentazione di me che dimoro con questi santi fratelli ma non ne seguo gli esempi. Mi sia permesso di dire soltanto che qui sono molto in uso prostrazioni, discipline a colpi di verga e simili esercizi; ma poiché tu stesso, o fratello carissimo, puoi apprendere tutto ciò dalla viva voce di coloro che li praticano, non occorre che io ti descriva ogni cosa per minuto.

Capitolo IX.

La salmodia

L’uso della salmodia è che quando due stanno insieme nella stessa cella recitino due salteri il giorno, uno per i vivi e imo per i morti. Quello

dei vivi si dice con le aggiunte che vi faceva San Romualdo e che qui volentieri inserisco, acciocché l’eremita novizio non mi rimproveri di aver tralasciato delle cose troppo necessarie a sapersi.

Recitati dunque cinque salmi si aggiunge : Gloria tibi Trinitas aequalis, una Deitas, et ante omne saeculum et nunc et in perpetuum. Orate pro nobis, omnes sancti Dei, ut digni efficiamur promissionibus Domini nostri Jesu Christi - Pater noster. Appresso si dice: Adiutorium nostrum in nomine Domini, qui fecit coelum et terram; e dopo altri cinque salmi: Te Deum Patrem ingenitum, te Filium unigenitum, te Spiritum Sanctum Paraclitum, sanctam et individuam Trinitatem toto corde et ore confitemur, laudamus atque benedicimus. Tibi gloria in saecula: amen! - Domine Deus, in adiutorium meum intende; Domine ad adiuvandum me festina. Confundantur et revereantur inimici mei, qui quaerunt animam meam. - Adiutor et liberator meus esto, Domine, ne tardaveris. - Gloria Patri et Filio et Spiritui Sancto. Ciò detto si ripete: Adiutorium nostrum in nomine Domini. E così ogni cinque salmi si aggiungono sempre alternativamente queste invocazioni, fino al termine del salterio, compresi i tre cantici domenicali e gli altri della settimana, e senza omettere le aggiunte che si hanno in fondo al salterio, cioè il Te Deum, il Nunc dimittis, i due simboli, il Gloria in excelsis, il Pater noster con la Fede cattolica, e finalmente le litanie con le rispettive orazioni che sogliono concludere il tutto.

Il salterio dei morti si dice con nove lezioni, tre ogni cinquanta salmi.

L’eremita che dimora solo recita tutti i giorni il salterio dei vivi per intero; quello dei morti per metà o tutto secondo la possibilità. La salmodia delle ore Canoniche, come nel monastero, si celebra anche qui nel medesimo ordine.

Capitolo X.

Il silenzio

Nelle celle si osserva silenzio continuo come in chiesa: in esse non si permette di parlare l’uno con l’altro neppure per confessione, eccetto che il priore non conceda licenza per breve tempo ai novizi e ai loro maestri di parlare alquanto.

Se occorre, si dice ciò che è necessario nel recarsi alla chiesa. In verità abbiamo appreso per esperienza come è grande rovina di anime quando si permette di confabulare liberamente nelle celle, perché mentre i fratelli ancora deboli di spirito si fanno visite col pretesto di confessarsi, con quattro parole sbrigano la confessione, eppoi sciolto il freno alla lingua petulante passano subito ad altro e si dilungano in chiacchiere frivole e del tutto oziose. Dimenticato presto il motivo pel quale vennero, cominciano a sparlare dei confratelli e spesso anche dei superiori, mordendo con livido dente quelli che dovrebbero amare con grande sincerità e purità. Poi passano a cose secolaresche, e si disputa nella cella di ciò che si dice, di ciò che si fa nella città: la fama non l’ha ancora portalo alle orecchie del mondo, e spesso ne sono già pieni i recessi dei monti! Aggiungi che trovandosi soli, più sono sicuri di non esser ripresi, più sputano liberamente ciò che lor viene alla lingua. Così quelli che erano venuti per purgarsi, messo insieme contagio con contagio, tornano più sporchi di prima.

Capitolo XI.

Le osservanze monastiche

Penitenza non piccola è anche questa, che in ogni tempo sia d’estate che d’inverno nelle celle non si usano scarpe calze, ma si sta sempre coi piedi e con le gambe nude, eccettuati naturalmente quei che soffrono di qualche grave infermità.

E’ regola dei monasteri che quando si va in viaggio e si spera di poter tornare in giornata si aspetti a mangiare al ritorno ([4]): presso di noi si usa di rimaner digiuni anche se si torna il giorno seguente. Quanto alle altre osservanze della regola monastica, tutto ciò che si segue in un regolare e stretto monastero si osserva anche qui non meno scrupolosamente e fedelmente. L’ubbidienza è prontissima e si eseguisce con grande slancio, qualunque cosa venga comandata. Altrettanto si dica del non dare ricever nulla senza l’ordine del superiore; del non aver nulla di proprio, del silenzio nel chiostro vicino alla chiesa, nei giorni festivi e in tutte le ore proibite. In capitolo, nell’oratorio, in refettorio si segue l’ordine della regola; non si parla con gli ospiti, non si apre bocca nel venire e nel tornare dalla chiesa: e tante altre cose di questo genere che tralasciamo di proposito, per evitare lungaggine e fastidio.

Non parlo della viltà e asprezza delle vesti, della durezza e povertà dei letti, del rigor del silenzio, dello studio continuo del ritiro. Quello però che sopra tutto emerge, quello che giustamente prevale su tutte le virtù dei santi, è la grande carità che regna tra questi fratelli, la grande unione di volontà cementata dal fuoco dell’amore scambievole, la quale fa sì che ciascuno si ritenga nato non per se ma per tutti; che il bene altrui sia bene suo, e il suo per estensione di amore sia comune ad ognuno.

Capitolo XII.

Pietà verso i defunti

Quando muore qualche nostro fratello, ognuno digiuna per lui sette giorni, si infligge sette discipline di mille colpi l’una, fa settecento genuflessioni, recita trenta salteri e per trenta giorni consecutivi si celebrano in suo suffragio trenta messe. Tale è la regola pei defunti, che in questo non deve mai subire alterazioni; questa la consuetudine che si osserva sempre rigorosamente e inviolabilmente. Se poi qualcuno muore novizio o è prevenuto dalla morte senza aver potuto soddisfare la sua penitenza, appena la cosa perviene a notizia dei fratelli, questi dividendosi tra loro la penitenza stessa se l’assumono interamente e per molta che sia con varie mortificazioni la compiono in breve tempo con animo generoso e lietamente.

Felici ricchezze della carità che non solo si prodigano ai viventi, ma seguono altresì dopo la tomba! Felici, ripeto, perché attingono alle ricchezze della generosità fraterna e giungono in buon punto là dove non supplisce più l’opera nostra: quando a dei poveri peccatori che non hanno nulla e che devono ripagare fino al centesimo, la carità dei fratelli viene in aiuto e pareggia tutto il debito.

Non minor gioia mi cagiona il vedere che quando taluno nell’eremo apparisce un po’ sofferente, subito tutti a gara si fanno a domandargli come sta, che cosa si sente, e pregano e insistono che si abbia riguardo, si curi e rallenti un poco la rigidezza regolare; e non solo gli suggeriscono quello che ciascuno crede necessario, ma si offrono spontaneamente e di buon animo a servirlo in tutto.

E basti questo poco della vita che si fa adesso in quest’eremo, perché da queste brevi note si possa raccogliere quello che si deve pensare del resto.

Capitolo XIII.

Esortazione

Quanto ti ho esposto, o carissimo figlio, circa la vita dei nostri fratelli, tienilo davanti agli occhi e consideralo diligentemente. Pesa anche le tue forze con la bilancia di un rigoroso esame, affinché o che ti trovi scarso o che sopravanzi, mirando continuamente al traguardo non ti accada di sviarti per gli andirivieni dei viottoletti.

Il pittore traccia dapprima in piccolo l’immagine su di un foglio, ma poi riduce il disegno alla misura del quadro che sta dipingendo e a questo adatta e proporziona le singole parti; tu altrettanto secondo le forze che il Datore dei beni t’ha infuso prendi queste regole e praticale; così conoscerai quanto nel caso tuo dovrai diminuirle o aumentarle per sovrabbondanza di grazia. Taluni infatti possono passare tutta la settimana in digiuno senza difficoltà, mentre altri con difficoltà non piccola lo sopportano appena due giorni. Ma il merito che acquistano gli uni e gli altri non è differente, perché i forti compiono opere forti, e i deboli non lasciano il poco che possono. Per questo difficilmente si può fissare una regola comune di digiuno, perché si corre. rischio o di costringere i forti a languire, o i deboli a tentare prove superiori alle forze : « ciascuno ha un dono proprio, chi in un modo chi in un altro » (1 Cor. 7, 7).

Leggiamo anche dei nostri padri antichi che pur vivendo in comune non tennero tutti lo stesso metodo. Ognuno dunque consideri bene le sue forze e non s’inganni stoltamente sognando una debolezza immaginaria, ma come le forze permettono si sottometta generosamente alla disciplina della sobrietà e al rigore dell’astinenza.

Capitolo XIV.

Di quei che si danno a un genere più stretto di vita

Anche tra noi del resto ci sono alcuni che camminano per via ben diversa da quella qui descritta, stringendosi ad una regola di vita molto più rigida.

Alcuni non bevono mai vino in nessuna occasione, e nemmeno fanno uso di aceto; altri non prendono mai uova latte formaggio, e neppure strutto. I più ricusano i materassi come se si trattasse di molli strati di piume, contenti di semplici stuoie di giunco, aborrendo anche l’uso dei pagliericci. Altri rifiutano come molli e delicati persino gli asprissimi cilizi e indossano sulle carni loriche di ferro. C’è uno che, per tutto l’anno, anche nei giorni di festa e nelle domeniche, si contenta di un mezzo pane soltanto. Questo tale per circa un anno e mezzo, cinque giorni la settimana non toccò cibo di sorta, prendendo il vitto solo il giovedì e la domenica. Adesso la domenica e il giovedì si ristora dopo nona con una sola pietanza, senza voler sapere della seconda. Vi è pure chi per amore di sobrietà e di astinenza si è proposto di astenersi non solo dai frutti, ma perfino dalle cipolle, dai porri e da ogni specie di agrumi. Vi è chi nell’una e nell’altra quaresima si ciba ogni giorno di due pugni di ceci ; il giovedì poi sempre, e il martedì talvolta, di pane soltanto. Questi tien sempre cinta sui lombi una catena di ferro, perché mai gli accada di varcare i limiti di una refezione penitenziale.

Mi confessò uno dei nostri vecchi che quando mangiava da solo nella sua cella non si concedeva subito il cibo secondo lo stimolo della fame, ma prima aspettava e poi rattenendosi, piano piano e a pezzettini si metteva in bocca piuttosto minuzzoli che bocconi. Si tormentava col tenersi a stecchetto anche durante il pasto, sicché il cibo più che ricreare affliggeva, e la refezione doveva dirsi meglio defezione, perché non rifaceva dilettando ma piuttosto disfaceva affliggendo.

Ripresi un nostro giovane di età ancor troppo tenera e lo feci anche battere aspramente, perché si nutriva di un solo quarto di pan di crusca per giorno; e così a stento potei finalmente ottenere che se ne permettesse due quarti. Egli allora portava sulla carne una maglia di ferro e dalla domenica al giovedì non aveva preso alcun cibo; gli altri giorni aveva mangiato pan solo.

Abbiamo un fratello ancora giovinetto e di religione novizio che usa recitare tutto il salterio con le braccia stese in alto, deponendole, quando non ne può più, ogni cinquanta salmi; poi prima ancora di aver terminato un salmo le risolleva. Ne abbiamo un altro vecchio e curvo che canta due salteri tenendo le braccia stese continuamente: uno coi cantici, le litanie e molte orazioni, l’altro pei morti con nove lezioni.

Dirò, ma chi sa se si presterà fede alle mie parole che pure sono verissime: comunque poco importa se l’umana cattiveria ci taccia di falsi, quando ci giustifica la verità suprema. Vi è uno fra noi che talvolta in un giorno e una notte percorre mentalmente nove salteri, e nel frattempo si batte continuamente con ambe le mani armate di flagelli. Egli intanto non si abbandona al sonno mai la notte il giorno; solo qualche volta prostrandosi col corpo in terra, il sonno lo coglie all’improvviso sul pavimento, e quel poco gli basta.

Questi una volta si lagnò con me perché potendo recitare in tal modo nove salteri, non gli era mai riuscito di poter compiere il decimo.

Conosco un fratello il quale mi confessava che salmeggiando faceva tante genuflessioni quanti sono i versetti del salterio: e pensare che il salterio è composto di circa quattromila versetti, a quanto dicono quei che si presero la pena di contarli.

Di questo non voglio dir più, perché da una parte temo di offendere coloro di cui parlo, e dall’altra arrossisco, freddo qual sono, di convivere e descrivere il fervore degli altri mentre non ne condivido le opere. E però credo meglio lasciar tali prove agli uomini più perfetti e gagliardi; e le stesse regole sopra descritte sarà bene mitigarle ancora con modesto temperamento: così mentre i più validi si accalorano con celere remeggio a vogare per l’alto mare delle virtù, i deboli costeggiando la spiaggia non restino impigliati con la loro barchetta oscillante nelle sirti sabbiose della mediocrità.

Capitolo XV.

Del digiuno degli eremiti

Tuttavia perché le cose che scriviamo non siano lasciate al capriccio senza regola fissa, noi crediamo che chi dimora nell’eremo e non è ammalato da stare a letto, per tutto l’anno sia d’estate che d’inverno, con l’aiuto di Dio, può digiunare benissimo in pane ed acqua tre volte la settimana. E poiché per tradizione canonica si può digiunare anche il sabato, non gli sia grave ritardare anche il sabato la sua reiezione insino a nona, così da prendere un solo pasto, ma poter bere vino e avere una pietanza, conforme all’indulgenza di questa nostra regola. Ciò tuttavia nell’estate, perché dal quattordici settembre fino alle sante gioie di Pasqua devesi digiunare quattro volte la settimana. Se però si sentisse molto debole, anche d’inverno potrà temperare il digiuno del sabato o con dei legumi bagnati o con radici d’erbe o anche con della frutta, in modo però che prendendo degli uni non aggiunga gli altri, a meno che non glielo richieda una vera necessità. Insomma per riguardo dei pusillanimi e se veramente la necessità lo esige, si segua pure anche nell’inverno la disposizione permessa per l’estate.

Anche per le feste che si celebrano nell’inverno e nelle quali dicemmo che si usa fare un sol pasto, si possa duplicare la refezione come si fa nei cenobi. Nelle quaresime precedenti il Natale e la Pasqua, il martedì e il giovedì l’eremita abbia la pietanza, e la domenica e le principali feste, nonché il giovedì, beva anche vino; ma in tempo di quaresima gli eremiti si limitino a una sola pietanza quando fanno un sol pasto ; quando lo duplicano, ne prendano una a pranzo e una a cena. Negli altri tempi ne abbiano sempre due, e la domenica e le altre feste più solenni, concediamo anche la terza.

Capitolo XVI.

Discrezione del superiore nel governo dei sudditi

Ad ogni modo noi rimettiamo al giudizio del superiore qualsiasi moderazione a riguardo dei deboli. Egli consideri le possibilità di ciascuno e dispensi gli alimenti con carità come vedrà più espediente, poiché anche noi facciamo nostre le parole che ripeteva ai suoi discepoli San Romualdo: « Quando una necessità inevitabile lo richiede, si permetta di mangiare anche la carne, purché non si abbandoni la cella ».

Onde è necessario che chi governa la famiglia eremitica consideri diligentemente la validità di ciascuno e secondo la capacità e le forze somministri il necessario. Se tutti potranno vivere a una medesima regola, tanto meglio; ma se uno o più avranno bisogno di cosa che ai sani non serve, si somministri loro, ma di nascosto e ih segreto, in modo che i validi seguitino senza invidia la stretta osservanza.

Non occorre che l’eccezione fatta per uno diventi subito la regola di tutti, mentre il fratello stesso che oggi ha bisogno, forse la settimana prossima starà meglio e non chiederà dispensa. Anche San Romualdo, come spesso ricordano i suoi discepoli, alternava in modo le settimane della stagione estiva che una ne passava da una domenica all’altra digiunando ogni giorno a pane e acqua, l’altra prendendo una pietanza il giovedì.

Sta egualmente al priore determinare quando e come devono digiunare i conversi.

Capitolo XVII.

Quanto tempo si deve dare al riposo

Relativamente al sonno, almeno per alcuni, più che una rigida ristrettezza occorre una moderazione discreta. Infatti è meglio concedere al corpo il riposo con un po’ di larghezza per vegliare fervorosamente nelle lodi di Dio, anziché sfiorare sì e no il sonno, eppoi sbadigliare sconciamente l’intera giornata.

A dir vero tra i nostri antecessori anche ultimi non vi era l’uso di dormire il giorno in nessuna stagione; noi invece nell’estate ci riposiamo; ma come abbiamo conosciuto alla prova, quello che perdiamo dormendo il giorno lo riguadagnamo la notte levandoci più per tempo e attendendo più speditamente alle lodi divine. Va notato pure che si può ripetere il sonno prima dell’adunata vigiliare, se la notte è ancor alta e il vegliare fosse troppo scomodo, ma dopo il mattutino non è permesso assolutamente ([5]). Noi perciò, per osservar meglio questa regola, abbiamo fissato che ogni notte al mattutino si suoni un primo segno; poi terminato il salterio di uso o una parte di esso, dato un secondo segno, si celebri l’ufficio notturno, affinché sull’albeggiare, quando pesa più opprimente l’accidia, questa ci trovi in piedi intenti alle ore canoniche. Non sia mai che nell’ora in cui il nostro Redentore, distrutto l’impero della morte, risorse alla vita, noi cediamo all’assopimento e all’accidia! Al sorgere del sole corporeo anche il nostro uomo interiore deve essere in piedi con gli occhi fissi alla luce che non tramonta: se ci trovassimo a letto in quell’ora potrebbe applicarsi a noi l’amara beffa della frase evangelica: «i discepoli di lui son venuti di notte, e mentre noi dormivamo lo hanno rubato! » (Mt. 28, 13). Dio non voglia!

Guardiamoci pure dal prender sonno, anche per breve tempo, nelle ore incompetenti, poiché se sedendo o stando in piedi spesso si sonnecchia, poi quando si vorrà dormire, il sonno ci sfuggirà dagli occhi. Dal sonnecchiare nasce l’insonnia, e dal vegliare il sonno, mentre chi ha protratto la veglia si addormenta dipoi facilmente.

Il simile accade spesso a chi mangia senza regola: ci sono alcuni che a volte si lagnano di non poter cenare, e fanno ridere, per non dire che delirano: non si rammentano che a mezzogiorno hanno ingozzato in maniera sconcia. Se a pranzo non avessero ecceduto, non farebbero gli schifiltosi a cena. Se dunque si vuol cenare e dopo mettersi a letto e dormire, si faccia un pasto moderato a mezzogiorno e si fugga l’accidia del sonnecchiare Alcuni poi (e anche questo non va taciuto) per dormire indisturbati la notte e gonfiarsi fino alla sazietà di sbadigli, anticipano la salmodia: ai quali bisogna proibire assolutamente di incominciare i salmi prima di aver detto compieta al debito tempo.

Capitolo XVIII.

Salmodia pubblica e privata.

Altri esercizi degli eremiti

Ogni fratello deve cantare quotidianamente un salterio. Per i defunti si rimette alla sua libertà di recitarne un secondo o mezzo ; il terzo di lasciarlo del tutto, purché non ometta di compiere tutta la salmodia, sì dei vivi che dei morti, in uso anche nei monasteri.

Nei quattro giorni consacrati al digiuno osservino tutti silenzio, se la necessità non esige diversamente. Nelle celle non parlino con nessuno, eccetto che siano del tutto segregati o dimorino presso il monastero ([6]). Nessuno osi mangiare in compagnia di un altro della famiglia estraneo, o invitare altri a mangiare con sè nella propria cella: dove neppure è permessa la confessione in lingua volgare.

Se due fratelli stanno in una stessa cella, uno faccia da superiore e l’altro ubbidisca; sempre però sotto il comando del superiore comune. Se uno di loro è novizio, una volta o due la settimana dopo vespro abbiano facoltà di parlare tra loro, ma finito il noviziato, non più. Venendo dalla cella o tornando, come sopra abbiam detto, osservino sempre silenzio. Al segno dell’adunata comune non si potrà rimanere in cella per prepararsi oltre lo spazio di cinque salmi.

Si guardi bene ogni fratello dal guastare nell’adoperarle le cose ricevute in uso, come tutti gli altri utensili quali che siano: vestiti, arnesi, vasi e simili. Abbia cura sopra tutto dei sacri codici, evitando di tener le mani sopra le lettere, e specialmente che non si anneriscano di fumo o piglino odore di bruciato. Si tenga a portata di mano gli oggetti che gli possono occorrere, affinché dovendo usarli non sia costretto ad alzarsi continuamente per procurarseli. Si devono infatti evitare le divagazioni dovunque, così da non girovagare senza bisogno nemmeno nella cella.

Quanto a prostrazioni, discipline, flagelli, preghiere a braccia in croce e simili esercizi di devozione non prescriviamo leggi: crediamo meglio rimetterci alla libertà e alla prudenza di ciascuno. Vi sono di quelli ai quali non convengono queste pratiche, e perciò è più sicuro e più spicciativo lasciar libertà anziché prescrivere regole e leggi fisse.

Si radano il capo una volta al mese, fuorché nelle due quaresime, nelle quali non permettiamo bagni di testa. Di altri bagni non facciano uso se non per necessità di salute.

Abbiamo stabilito queste regole con la maggior ponderatezza e moderazione, cercando di evitare ogni eccessiva austerità. Il fratello che ha veramente a cuore la salute dell’anima non troverà di che spaventarsi in questa salubre legislazione; e d’altra parte, osservandola, sarà sicurissimo della misericordia di Dio.

Ma questa regola potrà seguirsi dopo che io sarò morto, perché finché vivrò io, se Dio mi aiuta, non lascerò mai menomare le osservanze praticate fino ad oggi.

Quello però che sopra tutto è necessario evitare, è che nessuno col pretesto della vita eremitica si sottragga al giogo dell’ubbidienza; anzi da questa legge dell’ubbidienza tanto più si senta legato, quanto conosce questa vita essere superiore alla regola dei cenobiti. E’ per questo che talora si ingiunge a un fratello di lasciare la sua cella e di trasferirsi in un’altra, non permettendogli di portar seco nessuno degli utensili di quella, neppure se eraseli procurati col proprio lavoro.

Spesso coloro che desiderano vivere in pace del tutto in disparte sono obbligati ad uscire al disbrigo degli affari; a volte si tolgono le chiavi delle celle e non si restituiscono se non la domenica. Talora si obbligano a cibarsi con una certa larghezza quelli che si erano astretti a rigida astinenza, e chi vorrebbe mangiare si costringe al digiuno. Spesso un fratello viene mandato lontano con le bestie da soma, oppure al mercato a vendere e a comprare. Eppure tutte queste cose e quanto altro è comandato dal priore si devono eseguire con pazienza e umiltà, più meno che se fossero comandate da Dio. L’ubbidienza commenda ogni nostra opera buona e scusa ogni imperfezione e mancanza. Dunque, affinché la nostra solitudine e la nostra penitenza siano fruttuose, sempre devono esser condite col sale dell’ubbidienza, e quali che siano i rami che si espandono in alto, la nostra vita deve sempre accestire sulla radice dell’ubbidienza.

Del resto noi non ci proponiamo di descrivere parte per parte tutte le norme della nostra istituzione, ma molte cose che man mano ci vengono in mente le tralasciamo di proposito. Noi riteniamo infatti che quanto si prescrive nella regola di S. Benedetto e negli istituti e collazioni dei Padri si addice perfettamente anche alla nostra vita eremitica; ma crediamo superfluo raccoglier qui tutto. Si aggiunga che la stessa cella per chi vi dimora a lungo è la miglior maestra, e in progresso di tempo insegna coll’opera quello che la lingua non potrà esprimere col suono delle parole. Perciò tra tante, noi abbiamo toccato solo alcune cose, e in succinto, riservando il più di questa disciplina alla cella stessa. Perseveri l’eremita in cella, e questa gli insegnerà bene la vita eremitica.

Capitolo XIX.

Come combattere i pensieri vani e nocivi

Seguitando a riassumere come fin qui, diremo in breve dei pensieri che sogliono venire pel capo, armando con pochi ma infallibili strali il campione che lotta contro le immaginazioni del cuore.

Innanzi tutto chiunque tu sei, o figlio, che ti apparecchi a venire alle prese col nemico invisibile, sforzati con cura vigile di difendere la tua mente dalle suggestioni importune; e come subito getti via le quisquiglie e le immondezze che ti capitano alle mani, così getta in Dio tutti i turbamenti dei tuoi pensieri. Dio è un fuoco che divora: daGli dunque ad abbruciare le superfluità del tuo cuore, ricordando le parole dell’Apostolo: «ogni vostra sollecitudine gettatela in Lui, perché Egli si prende cura di voi» «1 Petr. 5, 7). E il Profeta: « abbandona il tuo pensiero nel Signore, ed Egli ti nutrirà» (Salm. 54, 23).

Se combatterai generosamente, una delle due: o resisterai contro i pensieri perché non entrino; o entrati, farai presto a cacciarli. Ma è più facile romper gli assalti nemici nel vestibolo, che cacciarli quando hanno varcato la soglia; più sicuro cacciarli dalla porta che respingerli dopo ammessi in casa.

Riguarda la tentazione come un serpente: il serpente se si scaccia subito dalla porta, tutto è mondo e intatto, niente si corrompe, niente si contamina di ciò che è in casa; ma una volta ammesso, anche se dopo si cerca di farlo uscire, qualcosa del suo veleno o delle sue squame, anche poco, ci resta. In guardia dunque ad ogni istante: armati e fatti contro la tentazione subito che si affaccia; infrangi i piccoli moti dei nascenti pensieri contro la pietra Cristo. Credi a chi tante volte ha provato: spesso facciamo entrare la teii- tazione nella speranza di liberarcene presto; ma per quanto poi si cerchi di vomitarla, per quanto ci castighiamo con la penitenza, non so perché, ma per molto tempo non possiamo sbarazzarci completamente da certi residui della spurgata zozzura. Giusto giudizio, che per esserci dati prima di nostra volontà in balia dei vani fantasmi, poi siamo punzecchiati più aspramente dagli stimoli della mordace coscienza.

Capitolo XX.

Fuggire gli allettamenti della gola

La gola è la prima a spuntare le armi delle sue lusinghe contro i principianti: e tu scagliati con coraggio contro questa fiera, armandoti di sobrietà. Essa ti stimola ad oltrepassare i limiti, e tu reggendo forte il freno, tieni sempre il tuo stomaco al disotto della sazietà: ti suggerisce vivande più appetitose, e tu considera dove va a finire il cibo mangiato. Certo, se ben si considera, agognare cibi scelti e succulenti è quasi la stessa pazzia che ornar di pitture la carta igienica che insieme a quelli andrà a finire nel cesso : ambizione del pari ridicola, perché come una carta dipinta non terge meglio le immondezze, così il ventre non fa maggior distinzione tra un cibo delicato e uno grosso. Del resto la gola e il palato sentono bene la soavità dei cibi ma non la gustano a lungo, perché subito trasmettono allo stomaco quanto macinarono i denti; e così con alterna vicenda la gola che li gusta in un istante li lascia, e il ventre che li serba più a lungo non li assapora.

Il diavolo poi osserva bene la cosa che più ci gusta, ce l’offre, ci suggerisce di tenerla stretta, ce ne stuzzica l’appetito; e intanto, mentre ci proponiamo di non farne parte a nessuno e aspettiamo il momento buono per mangiarla, la nostra mente diventa un pensatoio di ghiottoneria, una specie di pentola male traboccante di cibo. Togli dunque l’esca dal fuoco, getta via la cosa mal serbata, e subito la tua mente si solleverà dal peso che l’opprime e rimarrà libera. Vi sono poi alcuni che quantunque non appetiscano cibi lauti, o con la scusa che il digiuno è finito o che bisogna rifarsi del digiuno patito, si abbandonano alla pazza baldoria e lasciano briglia sciolta alla gola. Ma tale smoderatezza non rifà le forze del corpo, lo appesantisce, produce ottusità, genera torpore e sonnolenza; e mentre si è costretti ad ora ad ora a ruttar flatulenze, quella gonfiezza o piuttosto languidezza impedisce di tenere il cuore fisso alla salmodia e all’orazione.

Se vuoi dunque che il cibo ti ristori, non eccedere mai la misura di una temperata sobrietà, perché quello che è salubre per l’anima è anche amico della sobrietà del corpo.

Capitolo XXI.

Amare le vesti povere e vili

Contentati di poche e povere vesti; abituati ad andar coperto di pochi indumenti e leggeri. In principio ti costerà un poco, ma poi ci farai l’abitudine e diventandoti naturale, il freddo non ti farà più paura e non lo curerai più che tanto.

Del resto la povertà delle vesti e la penuria dei cibi hanno anche il vantaggio di spazzare dal cuore del monaco ogni ingordigia di avarizia. A che prò agognare, se non ci serve il cibo il vestito? Certo l’andare a piedi scalzi, la pochezza dei panni, la durezza del letto, la grossolanità del cibo, la pietanza misurata e tutte queste cose, da principio fanno paura, quasi terrore, ma perseverando diventano facili e tollerabili. L’uso addolcisce l’asprezza, l’abitudine fa amare il rigore.

Capitolo XXII.

Non sentenziare in modo perentorio
ed esaminar bene i pensieri

Quando sei per intraprendere o far qualche cosa, abituati a non sentenziare in modo assoluto: di’ piuttosto: Se a Dio piacerà; e disponi sempre le tue cose in modo condizionato, sicché tu faccia dipendere ogni tua volontà dalla volontà di Dio. Studiati pertanto di operare all’esterno in modo che dalla tua mente non cada mai il pensiero della superna disposizione, cosicché, qualsiasi difficoltà si opponga ai tuoi sforzi, il tuo cuore subito si rimetta alla provvidenza divina. Tra il fluttuare dei tuoi tempestosi pensieri farai del tuo cuore come una rete, la quale tratterrà come pesci buoni i retti consigli, e lascerà sgusciare tutti i pensieri vani come rettili velenosi.

Distingui i pensieri e avverti non solo di che specie sono quelli che ti vengono, ma anche di dove vengono. Intendi bene: spesso il maligno ti richiama alla mente i peccati passati, ma per fattici compiacere di nuovo; spesso farà altrettanto lo Spirito divino, ma per eccitarti al pianto e alla contrizione: e la mente improvvida, poiché la stessa cosa tende a scopi così diversi, non sa e non capisce quello che avviene intorno a sé. Spesso dallo Spirito buono viene un buon pensiero, per esempio di fare qualche pio esercizio; e subito l’astuto nemico finge e fa credere che ne è lui l'autore: evidentemente perché non si metta in opera la cosa che la mente ingannata crede suggerita dal diavolo.

Spesso mentre si salmeggia il demonio ci assale violentemente coi pensieri dell’ufficio: la mente s’immagina di pensare a cose sante, e così in buona fede si svia dall’intelligenza del salmo. Ora quando noi salmeggiamo offriamo a Dio un sacrifizio di lode, ma intorno a questo sacrifizio svolazzano gli spiriti pestiferi, i quali insinuandoci brutti pensieri cercano di sporcarcelo come le arpie con gli schizzi dei loro escrementi; o anche ce le rapiscono interamente, quando infestandoci con le loro suggestioni ci inducono a lasciar la preghiera. Ma come i nostri sacrifici, se ci sono tolti, non placano Dio, così non possono piacere a lui che è l’autore della purezza, se sono contaminati. Quindi bisogna guardarsi del pari e dal cedere alla tentazione abbandonando tutto, e dal lasciar libero il nemico di saltare sul nostro sacrifizio sporcandolo col contagio dei brutti pensieri.

Ancora, sia che tu ti applichi alla meditazione delle Scritture, sia che lavori in altri campi, ricorri di frequente all’orazione e prostrandoti a terra col corpo solleva la mente al cielo. Con ciò si ottiene che la tentazione sloggi dal cuore e l’accidia che suole importunare assai i sedentari, fugga dagli occhi. Però prostrandoti in terra non vi rimanere a lungo, perché allora il diavolo, come se anche la mente stesse a terra, cerca di infestarci con più accanite tentazioni e c’insinua col sonno i laidi fantasmi. Ogniqualvolta il nemico si accorge che le palpebre ci battono dal sonno, subito ci vibra al cuore sonnecchiante lo strale di un pensiero laido, perché allora egli coglie il punto giusto per farci danno, quando si accorge dagli indizi esterni dell’occhio che la nostra mente languisce nella propria difesa.

Finalmente studiati spesso durante l’orazione di stendere le braccia in croce, affinché mentre esprimi il segno della nostra salute, più facilmente possa trovar grazia nel cospetto del Crocifisso.

Capitolo XXIII.

Contro tutte le tentazioni

giova moltissimo la memoria del sepolcro

In tutti gli assalti della seduzione procura di richiamarti alla mente l’immagine del sepolcro.

L’ira ti accende e ti sconvolge? Volgi gli occhi al sepolcro: quando la mente vedrà dove finiscono gli umani furori, subito cadrà ogni amarezza. Lo spirito di superbia ti gonfia? Ti torni alla memoria il sepolcro: lì per forza tutta la turgidezza della nostra cervice ha da rompersi, quando pensiamo che nel sepolcro noi non saremo che polvere e cenere: «perché insuperbisci, o terra e cenere ? ».

La face dell’invidia t’infiamma? E tu gira gli occhi al sepolcro, e impara che è inutile invidiare il bene altrui, quando così presto dovremo partire da questo mondo. Ti bruciano gli incentivi della lussuria? T’insegni il sepolcro quanto presto il verde del nostro corpo si secca, e quanto è vano procurare un pascolo di piacere a una carne corruttibile che fra poco dovrà posare in un’orrida dimora.

Il prurito della gola ti solletica: subito revocando la memoria della tomba considera che mentre stiriamo la nostra carne nutrendola delicatamente, teneramente, altro non facciamo che ingrassar cibo pei vermi e prepariamo grassi bocconi a dei commensali sgraditi.

Ti punge lo stimolo dell’avarizia: corri tosto al sepolcro. Apprendi che invano accumuliamo proventi per questa vita mortale, noi che così presto ne compiamo il viaggio. Ti opprime l’accidia e la sonnolenza: il sepolcro t’insegni a vegliare per un premio che non avrà mai fine. Considera che poi dovrai dormire per tanto tempo in quella tomba, e senza possibilità di farti alcun merito. E perciò vedi ora di combattere con breve fatica contro la tua indolenza, se davvero aspetti il riposo del gaudio eterno.

Ti alletta l’eleganza del vestire: ricorri al sepolcro e pondera quanto sono sciocchi e svaniti quei che smaniano di ornare un pugnello di polvere di abbigliamenti sfarzosi: essi indorano il fango, orpellano di bell’apparenza lo sterco, perché non intendono quali sono veramente gli ornamenti dell’uomo interiore.

Tenta forse di ingalluzzirti la vanagloria ? Guarda il sepolcro e considera qual è l’epilogo di tutte le glorie umane : « ogni carne è fieno e ogni sua gloria come fiore di fieno » (Is. 40, 6), Prude la lingua che vuole espandersi in ciarle ventose e in buffonate '( Ti torni alla mente il sepolcro e ti ritenga non solo dalla loquacità peccaminosa, ma anche dall’oziosa e giocosa.

Sul sepolcro capirai com’è necessario estraniarsi da tutte le vanità della presente vita; e per non menarti più in lungo, in ogni pericolo, in ogni battaglia che insorga, non ti sfugga di rivolgere gli occhi della mente ai sepolcri. Mentre in essi ti vedrai un pugno di polvere immonda e vile, non leverai la cresta contro il tuo Creatore e vedendoti condannato a morire, ti terrai già morto a tutte le lusinghe delle passioni.

Sta bene allerta, e quando ti accorgi che il pensiero cattivo è vicino, segnati subito il cuore col pollice, affinché imprimendoti il segno della santa croce sulla carne, istantaneamente l’uomo interiore si levi con slancio al contrattacco: la mente sollevando il trionfale vessillo avanzi animosa contro i nemici, e li cacci dalle loro postazioni finché sono ancora negli avamposti.

Capitolo XXIV.

Come devi confessarti

Se talvolta stando in cella ti accadrà di cadere in peccato o di pensiero o di opera, per cui la coscienza spaventata ti rimorda, non volere uscir subito di cella e rompere il silenzio per andare a confessarti: confessati intanto a nostro Signore Gesù Cristo, offrendogli per allora come un pegno della futura confessione.

Dirai dunque così: «Signore Gesù Cristo, Pontefice eterno, Ministro del santuario e Sacerdote del vero tabernacolo secondo l’ordine di Melchisedech; tu che offristi il santo ed immacolato Agnello del corpo tuo quale ostia salutare al Padre in odore soave per i nostri peccati, e non senza spargimento di sangue entrasti nel Sancta sanctorum, cioè nel cielo, per presentarti al cospetto del Padre; io ti confesso che sono caduto in questo peccato, che non potè sfuggire agli occhi della tua Maestà. Per questo, o Signore e per altri innumerevoli e gravissimi peccati io non son degno di sollevare al cielo i miei occhi infelici di entrare nella tua santa chiesa, e neppure di benedire con queste labbra contaminate il tuo santo nome.

Io perciò con le lacrime agli occhi scongiuro la tua infinita clemenza che come ti degnasti di morire per me peccatore e per ì miei pari, mi perdoni pietosamente questo peccato e mi conceda di pervenire a vera e fruttuosa penitenza. Amen ».

Se poi mi chiedi come devi fare la confessione a Prima o a Compieta quando le reciti da solo, tu dirai così : « Io miserabile e infelice confesso nel cospetto di Dio a te, santa e gloriosa Vergine Maria, e a voi o santi tutti di Dio, la mia colpa: ho peccato immensamente per superbia in suggestioni, dilettazioni, consensi, parole ed opere. Perciò io supplico te, o piissima Madre di Dio, e voi santi tutti ed eletti di Dio, che vi degniate di pregare per me misero peccatore. Per le vostre comuni intercessioni abbia pietà di me l’onnipotente Iddio, mi rimetta tutti i peccati, mi liberi da ogni male, mi conservi e corrobori in ogni opera buona ; e Dio mi sciolga da tutti i lacci dei miei mali, e Cristo Figlio di Dio mi conduca a vita eterna. Amen ».

Capitolo XXV.

Delle cose che valgono ad alleviare il peso
del
l’austerità eremitica

Innanzi tutto devi insistere col maggiore sforzo di raggiungere la grazia delle lacrime e della contemplazione. Ciò non solo giova ad acquistarci un grado superiore nel regno dei cieli, ma anche a dissipare ogni paura nella vita presente e far sì che quanto ci sapeva aspro ed amaro si converta in dolcezza.

Quando al timore subentra l’amore e alla servitù la libertà, allora la necessità si cambia in volontà e per ineffabile incendio di amore divien soave e giocondo quello che prima sembrava aspro e duro. Quando il popolo israelitico si trovò nelle pianure desolate del deserto, non potendo più ritornare in Egitto per i suoi peccati entrare nella terra promessa, dovette soffrire la fatica e il tedio del cammino e privazioni di ogni genere: così appunto chi lascia la piana tenebrosa del mondo, ma stretto dall’accidia non aspira ancora alla cima della perfezione evangelica deve sopportare molti travagli e pene. Egli si trova come tra due fuochi: da una parte non può avere alcun conforto di beni mondani, dall’altra non merita ancora il lume della consolazione celeste; dal mondo ha tolto gli occhi perché lo ha lasciato, ma non vede ancora il lume cui anela; non ha più di che godere dei diletti del secolo, e non può gustare le delizie spirituali che desidera senza averne diritto. Per conseguenza, o si cerca con tutto lo sforzo di conseguire la perfezione, o dobbiamo forzatamente soffrire un mondo di contradizioni e di tentazioni.

Certo è noioso montar la guardia alla porta della reggia, ma come sarai entrato nelle grazie del Re e avrai cominciato a stargli al fianco familiarmente, a rimanere alla sua presenza, a conversare con lui e a far parte dei suoi privati consigli, tosto il fastidio della disciplina militare diviene dolce ed allegro e quel continuo affaccendarsi si reputa più piacevole di qualsivoglia riposo. Si lavora senza fatica, ci si prodiga senza molestia, si va e si viene senza ansietà.

Sbrigati dunque a vincere le tue passioni, affinché ammesso all’intimità del Re tu aderisca a lui come un amico intimo, e l’occhio della tua mente si fissi nell’Autore della luce tanto più puro, quanto meno gli farà velo la caligine dei fantasmi e dei vani pensieri.

Spesso mentre ci stringono da ogni lato le tentazioni, un tratto repentino della divina bontà ci rapisce in contemplazione, e come fossimo già nel

vestibolo intravediamo quasi per occulte fessure la magnificenza della gloria del Re, mentre il corpo che si trova fuori è tuttavia sbattuto da furiosi venti e da turbini di pioggia dirotta: l’occhio solo si pasce delle regali delizie, mentre le altre membra sono esposte alla bufera e ai tormenti.

Se dunque vogliamo alleviar la fatica del viaggio, tendiamo gli occhi alla casa del nostro riposo: tutto diventa leggero, se teniamo sempre davanti agli occhi la meta a cui ci affrettiamo.

Un altro mezzo che ci alleggerirà il peso della regola sarà l’imporci di tanto in tanto maggior strettezza nel cibo, più ritenutezza nel bere e qualche altro esercizio contrario alla carne: quando dopo torneremo al nostro regime, la regola ci darà l’impressione di un vero sollievo; facendo il paragone il nostro corpo riterrà un guadagno l’aggiunger qualche cosuccia al poco che si concesse fino allora.

Capitolo XXVI.

Come acquisteremo la grazia delle lacrime

Abbiamo detto che bisogna insistere nelle lacrime; ora dobbiamo dire in che modo potremo raggiungere questa grazia, secondo che ce ne farà dono il Datore supremo.

Chiunque tu sia che cerchi non tanto di piangere a cuor duro, quanto d’immergerti nei profluvi delle lacrime, allontanati non solo dallo strepito degli affari mondani, ma spesso trattieniti anche dai colloqui e dalla fraterna conversazione. Recidi ogni cura e sollecitudine di brighe mondane e studiati di rimuoverle come si rimuovono le pietre che fanno intoppo alla bocca di ima sorgente. Come si raccoglie in una vasca l’acqua che sorge dalle viscere della terra, ma se trova degli ostacoli non sgorga, così dal meditare la profondità dei divini giudizi nasce nel cuore la tristezza; la quale però non può prorompere in lacrime se le fanno intoppo le occupazioni terrene.

La tristezza è come la materia delle lacrime, ma affinché la vena di questa fonte fluisca, devi allontanare tutti gli ostacoli terreni e secolareschi. Non voglio tacere quello che io stesso ho provato di frequente: anche lo zelo spirituale, il governo delle anime, la correzione degli erranti, la santa predicazione, queste insomma ed altre simili cose, quantunque sante e volute da Dio, pure praticamente dobbiamo dire che sono d’impedimento alle lacrime.

Perciò se desideri con pia intenzione di giungere a questa grazia delle lacrime, astieniti dai negozi mondani, e qualche volta anche da talune occupazioni spirituali. Vedi di cacciare dai nascondigli del tuo cuore la malignità, l’ira, l’odio e tutte le passioni, affinché la tua mente, se la coscienza accusatrice ti rimorda, non si trovi vuota dell’interna rugiada e intristisca nell’aridità del terrore, dicendo la Scrittura : « Gli uomini inaridiranno dallo spavento» (Le. 21, 25).

La fiducia che nasce da una vita santa e il sentimento della propria innocenza irrigano la mente pura coi rivi della grazia celeste e la sciolgono in lacrime; ammolliscono la durezza del cuore desolato ed aprono la via ai profluvi del pianto.

La tua coscienza sia pura, nitida, sincera senza malizia, e filtrata da ogni feccia; e quando la compunzione del cuore si affretta a prorompere, l’obice del rimorso non le si opponga il cuore impaurito si senta stringere dal gelo del meritato terrore, così da convertire in ghiaccio le lacrime e impedir loro di scorrere.

Anche il timore dei peccati commessi produce a volte la compunzione, ma altro è il timore servile, altro la grazia spirituale, con la quale sull’altare del cuore contrito offriamo a Dio olocausti sostanziosi e gli bruciamo a nostra salute sacrifizi di soave odore.

Se manca questa grazia dello Spirito Santo, si adoperi uno quanto vuole per sollevare la mente al paradiso, si riduca a memoria i tormenti dell’inferno e i peccati commessi, consideri anche i misteri della passione di Cristo; nonostante tutto, quando in pena dei peccati il cuore è indurito, le lacrime non prorompono.

Orbene, tu come agricoltore laborioso e prudente accingiti a lavorare da mattina a sera il tuo campo; rompi la terra del tuo cuore col ferro della santa disciplina, spezza minutamente le zolle della tua durezza, suda a estirpare i rovi delle passioni, e così occupandoti ogni giorno e con gli occhi fissi al cielo, aspetta l’abbondanza della pioggia celeste. Il supremo Arbitro, quell’osservatore nascosto che sta dietro la nostra parete osservando attraverso ai cancelli (Cant. 2, 9), sebbene con provvido consiglio trattenga temporaneamente la pioggia, se ti vedrà intento al lavoro e vigilante, presto irrigherà il tuo campo con le abbondanti piogge dei suoi doni; questo si vestirà dei fiori variopinti delle virtù e da desolato e sterile produrrà in abbondanza e si colmerà di messi.

Capitolo XXVII.

Perseverare nel metodo intrapreso

Preso che tu abbia un metodo di vita, tientici fermo, proseguilo costantemente, per non mostrarti in continua contradizione con te stesso come una marionetta da scena. Non voglio tu faccia come quello stordito di Icaro, che ora si spinge alle nuvole, ora abbassando le ali rasenta la terra, e. finalmente precipita in una voragine spalancata del mare. La tua oscillante volubilità non ti faccia un girella dai cento colori, ma al contrario la tua gravità ti dimostri sempre uniforme.

Persevera nei buoni propositi e tieni una linea diritta nella tua vita quotidiana: non ti rendano sempre nuovo i continui cambiamenti, ma una regola fissa ti fermi sul fondamento della santa perseveranza.

La consuetudine ti renderà dolce quello che l’umana debolezza aborrisce come aspro ed amaro.

Mostrati insigne da ogni lato per chiarezza di virtù e adorno di veste uniforme di santità, senza sovrapposizione di altri panni, perché starebbe male e sarebbe ridicolo se indossando tu una bella veste di porpora e calzando scarpe e calze dorate, tra tanti fiocchi di paludamenti, un berrettino di pelle di montone ti facesse apparire un capraio. Voglio dire che mentre ti mostri un Antonio nella mortificazione, nel silenzio, nella povertà del vestito, potresti poi apparire un Democrito nella leggerezza del ridere e nell’affettazione del parlare libero e spiritoso. « Come possono stare insieme il tempio di Dio e gli idoli? e che ci può essere di comune tra la luce e le tenebre, tra Dio e Belial? Un solo pezzettino di lievito altera tutta la massa » (2 Cor. 6, 14; 1 Cor. 5, 6).

Fiorisca il campo della tua anima delle messi delle virtù, e non vi inselvatichiscano nell’abbandono le spine e i pruni. Da un lato la tua rettitudine edifichi chi ti vede, ma bada che dal lato opposto non sporga qualche vizio che cozzi contro l’edifizio e faccia vacillare ogni cosa.

Sii dunque grave nell’incesso, posato nelle parole, tardo alla vendetta, facile a perdonar chi si pente. In tutte le cose mostrati esempio di consumata virtù, e come suol dirsi, un uomo diritto che non fa una grinza pende un capello; affinché sbozzato al martello della disciplina e levigato con la lima della penitenza tu possa esser collocato senza attrito rumore nei bei filaretti delle pietre sfolgoranti.

Capitolo XXVIII.

Chi deve essere eletto priore degli eremiti
e quale dev’essere

Abbiamo descritto in breve e come abbiamo potuto quale dev’essere la vita dell’eremita; ora prima di finire dobbiamo aggiungere quale deve essere il priore degli eremiti. si dica che invertiamo l’ordine mettendo per ultimo nella regola quello che per ufficio doveva essere il primo; perché il priore nell’ordine deve prima vivere che comandare, e perché chi è prelato nel regime deve mostrarsi tra tutti il più piccolo e l’ultimo.

In primo luogo si deve evitare di eleggere per priore dell’eremo un monaco cenobita, anche se sembra prudente e dotto e bene istruito nell’osservanza della regola: si deve eleggere uno della famiglia eremitica, che abbia fatto vita eremitica e imparato per esperienza a combattere contro i maligni spiriti; che conosca le battaglie altrui per esperienza propria, e che comprenda di propria coscienza, come bene addestrato alla lotta, quello che il suddito gli aprirà in confessione.

E per parlarti direttamente, studiati, o priore, per quanto ti sarà possibile, di precedere un poco con la vita coloro che precedi per l’ufficio.

Non vi è miglior predica più efficace pei cuori dei discepoli che provvedere agli altri gli alimenti e quanto a sè osservare il digiuno: predica ottimamente le vigilie chi dopo le lunghe salmodie corre a sonar la campana per svegliare i fratelli; si disputa con frutto della povertà del vestire, quando si va squallidi e con le vesti logore. Ma chi come un principe fa spicco di vestito elegante, è inutile che predichi con Giovanni i peli di cammello. Il vendicativo non persuaderà la pazienza, e chi si affanna ad accumulare danaro non spenge il fuoco dell’avarizia nel petto degli altri. Chi ogni poco è a zonzo, è uno sciocco predicatore di ritiro: al contrario, chi non esce di cella, ad encomio della stabilità fa lingua di tutto il suo corpo: tace la bocca, ma le membra mute perorano meglio, anche perché senza retorica.

Abbi sempre un testimone della tua vita: esso farà conoscere per edificazione dei fratelli le tue virtù nascoste e ti difenderà da sinistri sospetti. Conduci il tuo gregge per la via piana, ma da guida accorta non mancare intanto di additargli le alture. In tal modo, mentre attribuiranno alla tua condiscendenza le agevolezze loro concesse e all’autorità dei Padri la rigidezza che loro suggerisci, si accingeranno più speditamente a salire e arrossiranno di intisichire vilmente in fondo alla valle, udendo che i predecessori avanzarono tanto nobilmente per le cime.

Dà di braccio a chi cammina per la via diritta, ma con grande zelo usa rigore contro chi sbanda.

Non risparmiare la verga per timore di turbare la tranquillità della tua coscienza, ma i rimproveri escano in modo dai tuoi labbri che nel cuore si mantenga sempre la dolcezza dell’amore fraterno. Come dalla mano del cacciatore immobile vola il falcone a ghermire l’uccello, così esca da te la parola del risentimento senza turbare il tuo cuore. Lo strale fa piaga ove colpisce, ma colui che scocca l’arco non ne soffre. Tieni a mente che nell’eremo è più facile che un animo debole si avvilisca e abbatta, anche se l’offesa è piccola che appena lo sfiori. Quando le spalle dolgono non si esita troppo a deporre un fardello pesante; è facile quindi che uno sia tentato di lasciare la compagnia di coloro tra i quali tutti i giorni deve stare a stecchetto e solo rarissimamente soddisfar l’appetito.

Ci vuole dunque moderazione, perché una correzione scagliata alla peggio non abbatta del tutto una povera anima già affranta dalle proprie afflizioni.

Proponi gli esempi degli uomini forti, quali che siano: se tuoi, taci la persona; se altrui, di’ pure il suo nome. Certo hanno più efficacia gli esempi moderni che antichi, ed è vergogna vivere in una stessa epoca con uomini santi e rimaner loro indietro nello studio della santità. Gli antichi ci appariscono insigni per la grandezza d’animo; per i moderni non vale la scusa della debolezza o del cambiamento dei tempi.

Capitolo XXIX.

Di quelli che dal secolo passano all’eremo

Se uno dal secolo vorrà convertirsi all’eremo, non voler persuadergli i rudimenti del monastero secondo la regola dei Padri; ma se mostrerà devozione vera e sincera, aprigli pure la porta dell’eremo.

Debbo dirlo piangendo, ma la maggior parte dei monasteri è scesa sì in basso, che sono più viziosi quei che ci vengon dai chiostri che quelli sfuggiti or ora dal mondano naufragio ([7]).

Su di un metallo grezzo si può imprimere il conio senza difficoltà, ma quando la moneta è falsata non è facile ridurla di nuovo alla impronta esatta.

Si apra dunque la porta a chi viene dal mondo, a fine di foggiarlo, come metallo vergine, nella forma che si vuole. Ma introdotto nella cella eremitica non gli si conceda subito di praticare tutta la regola: egli cerchi prima a lungo quello che, trovato con difficoltà, conserverà poi più caro e prezioso. In progresso di tempo si abbandonino ai suoi santi slanci le redini, e allora tenti pure quanto di arduo cercava la sua anima. In tale disposizione di spirito si accinga ad avanzare per i sentieri più elevati, affinché poi arrossisca di declinare vilmente: tenga sempre davanti agli occhi i suoi primi entusiasmi, perché se non poggerà più in alto, almeno non scivoli dalla via incominciata.

Capitolo XXX.

Di quelli che passano alVeremo
dalla regola cenobitica

Con quei che passano all’eremo dalla regola cenobitica terrai questo modo: dapprima, per ciò che si riferisce ad alcune pratiche assai discutibili della disciplina monastica come sono quegli inutili scampami, quelle molteplici armonizzazioni di canti, quei fronzoli di paramenti e simili, ti studierai, sempre però con arte, di censurarle modestamente, di sminuirle convenientemente, di svalutarle, pur non condannandole, recando il detto dell’Apostolo : « in Cristo Gesù la circoncisione vai nulla, ma la nuova creatura» (Gal. 6, 15); e che « l’Altissimo non abita in templi manufatti » (Att. 7, 48); aggiungendo anche le parole a Timoteo: «che gli esercizi corporali servono a poco, ma utile a tutto è la pietà (1 Tim. 4, 8).

Con questi e simili insegnamenti cercherai di deprimere, sempre con ponderata e modesta censura, l’eccessiva stima dell’ordine cenobitico; affinché mentre nell’animo del discepolo si demolisce l’edificio della vita passata, si edifichi man mano quello preferibile della solitudine, ed egli di lì in poi si prepari virilmente ad elevarsi, vedendo come fino allora rimase per terra.

Quando poi dopo lunga lotta e fatica, domate le lusinghe della carne, comincerà ad avere in troppo dispregio la vita di prima e a vantar la presente, allora si tornerà agli elogi del monastero, notando che tutto quello che si usa nei chiostri si fa a gloria di Dio, e facendo rilevare i sacrifizi dell’ubbidienza, affinché esaltando la vita comune si reprima ogni boria della professione solitaria. Non sia mai che l’eremita si invanisca della sua professione come di un privilegio di santità, quando forse non eguaglia neanche tanti altri che pure in grado inferiore camminano per vie sublimi.

Si ricordi che qualsiasi affare urgente si presenti, egli non deve abborracciare la salmodia, come fanno alcuni monaci che s’affrettano con brutto rovesciamento a passare dal salterio al negozio come dal pelago alla riva. L’insidiatore ci insinua l’ansietà, mentre il Principe della pace cerca l’uomo quieto e l’umile di cuore su cui riposare.

Al nemico che durante i salmi gli suggerisce delle fole risponda così: Per ora, mentre sto facendo l’ufficio che fo, stattene zitto; dopo, se c’è qualche cosa d’importante, me la dirai. E se quegli seguita a far premura e ad insistere, maledica e mandi alla malora il messo e il mandato, e gli aggiunga anche minacce, come dire: Lasciami in pace, miserabile, e rappresentati davanti agli occhi il tremendo dì del giudizio, quando ti cadrà addosso la giusta condanna e sarai sprofondato nelle eterne fiamme vendicatrici. Queste minacce servono moltissimo a vincerlo e a sottrarsi ai suoi stratagemmi. Di qui l’uso della Chiesa di soggiungere agli esorcismi le parole : « per Cristo Signor nostro che verrà a giudicare i vivi e i morti ed il mondo, per mezzo del fuoco » ; acciocché il maligno, mentre è colpito in pieno da tanto terrore, sia cacciato dalle creature di Dio, atterrito e confuso. Con questi e simili strali armerai i tuoi commilitoni, precedendoli nella lotta campale contro i nemici di Dio.

Capitolo XXXI.

La pazienza necessaria principalmente
a chi governa

Sei posto sopra gli altri per essere esempio di virtù, e in ogni virtù devi fiorire; ma ce n’è una nella quale devi porre uno studio tutto particolare : la pazienza. Vinci ogni ostacolo con la pazienza; la pazienza ti faccia duro come una pietra, anzi inintaccabile come il diamante. Il sigillo di diamante incide la sua forma su tutte le pietre, ma non riceve l’impronta di nessuna, per quanto dura.

Così la tua mente, se non si turba muta per infuriar di contrasti, vuol dire che non cede all’impronta di nessuna pietra, ma al contrario incide la propria, traendo vantaggio dalle contrarietà con la dolcezza e la tranquillità del cuore. Mai o raramente terrai capitolo coi tuoi fratelli senza prostrarti per terra e accusarti dei tuoi difetti, chiedendo umilmente che non ti si risparmi la verga. Se l’animo tuo o di un tuo fratello sarà adirato contro di te, non andare a letto prima di aver risanato la piaga del tuo cuore, o col correggere, secondo il caso, o con l’abbonire; od anche, se occorra, col soddisfare.

Siamo convinti che con l’aiuto di Dio tutta la perfezione dei fratelli dipende dall’insegnamento del capo, e per questo ci siamo dilungati sull’ufficio del priore. Il priore in una congregazione di fratelli spirituali è pressapoco quello che lo stomaco nel corpo umano: come dal ricettacolo dello stomaco si diffonde in tutti i membri il calore e la forza, così dal buon governo del superiore tutto un corpo di individui uniti nel vincolo della carità prende vita.

Capitolo XXXII.

In questa regola non si contiene una osservanza
perfetta eremitica, ma solo alcuni principii più
semplici

Qui io supplico i miei fratelli che osservano delle norme più austere di quelle qui descritte, di non mi accusare di dissoluzione e di non mi riprendere di aver fiaccato l’austerezza dell’eremo. Se gli antichi Israeliti carnali ebbero compassione dei Beniaminiti sconfitti piangendo con tanto amaro cordoglio e lacrime la caduta di una delle tribù d’Israele, che faremo noi vedendo nel popolo cristiano tanto stremato il numero degli eremiti che in molte parti del mondo oramai sonò quasi interamente scomparsi?

Bisogna aver compassione di Beniamino, di quei campioni i più egregi e gagliardi di tutti gli Israeliti, nella speranza che una indulgente e moderata discrezione li faccia rifiorire e crescere, visto che una severità eccessiva, o meglio la fragilità umana li ha ridotti a nulla. Si ricomponga il numero delle tribù e si ristabilisca con un’austerità temperata quella che pareva perduta.

Ricordiamo ancora il modo usato dai santi Apostoli mandati a predicare al mondo la croce di Cristo e a insegnare tutte le virtù ai figli di adozione: essi imposero ai gentili di astenersi dalle carni immolate agl’idoli, dal sangue, dal soffocato e dalla fornicazione. Imponendo il meno non proibirono il più, ma intanto quei che potevano spaventarsi della durezza della nuova dottrina con quei precetti sì facili si fortificavano per cose maggiori: incominciando dal poco e semplice come bambini lattanti, nell’età matura avrebbero messo mano ai precetti più gravi.

Anch’io che vo tessendo per così dire dei trastulli per spiriti bambini e costruendo culle per eremiti lattanti, mentre conduco queste anime deboli come me per la via più piana, non voglio impedire la scalata dell’arduo monte ai coraggiosi succinti e spediti. Il latte è pei deboli, ma ai robusti e vivaci non deve ripugnare un cibo più duro e consistente.

Confido nella misericordia divina che chi si studierà di praticare quanto abbiamo scritto col proposito di progredire, non sarà offeso dalla morte seconda il suo nome cancellato dal libro della vita. L’Agnello che lo vedrà portare dietro a sè la sua croce lo farà coerede nella Gerusalemme celeste. Amen.



[1] E’ la regola classica dei Padri del deserto e dello stesso S. Romualdo : regula ieiunandi, silendi et in cellis permanendi. 

[2] Parola greca che significa « incontro » (occursus). E’ l’attuale festa del 2 febbraio. 

[3] Vuol dire: mancando le offerte in cibo dei forestieri, che abitualmente formano la cena quando è giorno di doppia refezione, la cucina deve supplire a questa mancanza con un’altra pietanza oltre quella del mezzogiorno : di qui le due pietanze. 

[4] Regola, c. LI.

[5] Dunque era permesso riposare dopo pranzo e la notte tra il primo e il secondo segnale del mattutino, quando cioè dopo la recita privata del salterio restava ancora del tempo prima che incominciasse l’ufficio notturno. 

[6] Nella propria cella gli eremiti « aperti » non possono parlare con nessuno, perchè possono parlare fuori, mentre è permesso agli eremiti « reclusi », perchè non possono uscire nè parlar fuori; così gli altri che dimorano presso il monastero, perchè essendo addetti agli uffici della casa: con questi si poteva parlare fuori e dentro alla cella. 

[7] Fu questa la ragione che indusse il Damiano a non imporre la prova del cenobio agli aspiranti eremiti provenienti dal mondo.

 


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8 aprile 2022        a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net