Pier Damiani
Della vita degli eremiti e delle facoltà dell’Eremo di Fonte Avellana
Opuscolo XIV
(Testo estratto da: "S. Pierdamiano - Scritti monastici" Vol. 2, a cura del P. D. B. Ignesti Camaldolese O.S.B.
Edizioni Cantagalli - Siena 1959)
TESTAMENTO SPIRITUALE
DI S. PIERDAMIANO
(Opuscolo
XIV)
Il titolo di questo opuscolo è un altro,
e cioè : "Della vita degli eremiti e delle facoltà dell’Eremo
di Fonte Avellana”.
Ma questo che gli ho dato mi è parso più giusto,
come potrà vedere chi legge.
Esso probabilmente rappresenta un sommario delle regole o consuetudini
avellanitiche,
mentre il seguente,
più esteso e diviso in capitoli, forma un vero trattatello teorico e pratico
di vita eremitica. Nei due scritti si hanno necessariamente delle
ripetizioni, alcune alla lettera; e noi potevamo sopprimere o fondere,
ma anche qui abbiamo preferito il metodo di tradurre interamente e
fedelmente. Il lettore che ha già letto in questo,
passerà oltre
—
se lo crede
—
nell’opuscolo seguente.
S. Pierdamiano lo scrisse tra il
1045-50
indirizzandolo ai suoi eremiti avellaniti.
Quando vedo il vostro fervore, o carissimi fratelli, quando considero la
vostra santa vita, io non posso attribuire tutto questo alle forze umane,
bensì a Colui che « produce in voi il volere e l’agire con buona volontà» (Filip.
2, 13).
E’ lui la fonte e l’origine di ogni virtù, lui l’ispiratore del buon
desiderio. E qual meraviglia se egli conforta i fragili vasi dei vostri
corpi a portar coraggiosamente la croce dietro i suoi passi, lui che sui
culmi delle fragili ariste tien sospesi i granai di tutta la terra? Al peso
di questi spesso le grandi costruzioni di pietra si sfiancano ; eppur non
cedono le volatili glume delle spighe sospese a tenui fili di paglia. Quale
meraviglia, ripeto, se alle deboli membra dei suoi servi dà forza chi dentro
i tenui chicchi dell’uva tiene sospesi i tini di tutte le cantine del mondo
e custodisce senza perderne goccia dentro sì esili bucce quel liquore che
spesso erompe dai grossi recipienti compatti e cerchiati di ferro? Non di
rado anzi da questi il mosto geme a goccia a goccia, mentre nell’acino si
conserva e ogni giorno per naturale incremento si accresce.
Chi potrà ridire insomma le meraviglie della potenza divina quando si vede
sospeso su gli steli delle paglie e nei grappoli delle uve quanto si ripone
nei magazzini dei potenti e nelle dispense dei re?
Vediamo al primo apparire delle brine invernali una tremula foglia che
consunto il verde dei tepori autunnali sta lì lì per cadere. E’ ancora
attaccata al ramo dal quale pende, ma da un momento all’altro, come ognun
vede, cadrà. L’aria s’è fatta gelida, da ogni parte venti furiosi
imperversano, orride brume e grosse nebbie si addensano: tutte le altre
foglie sono cadute e coprono torno torno il terreno; l’albero, deposto il
decoro di tutte le sue chiome, è nudo: pure quella foglia è ancor là, sola
superstite delle morte sorelle e quasi unica erede del patrimonio comune.
Ora che pensare di fronte a ciò, se non che neppure una foglia si stacca dal
ramo senza il comando di Dio?
Che meraviglia dunque se, mentre l’ordine monastico in massima parte è a
terra, l’onnipotente Iddio tra molte tentazioni tien saldi alcuni pochi suoi
servi, lui che al cadere di tutte le foglie trattiene sul ramo quelle poche
che vuole?
Giobbe, quel profondo scrutatore della divina sapienza, non a torto esclama:
«E’ lui che opera le cose grandi, le cose incomprensibili e mirabili che non
hanno numero» (Gb.
9, 10).
Per questo io rendo infinite grazie al mio Creatore che, indegno qual sono,
mi volle superiore in una famiglia non di molti ma di
buoni, cui devo antecedere nel ritorno in patria.
Ma pure io mi terrò pago se potrò seguir pari passo come uno di loro e se il
frutto che non mi è dato di cogliere da una terra spaziosa mi sarà
corrisposto da questo ubertoso campicello. Io dunque, fratelli, voglio
ricordar qualche tratto dell’ordine di vostra vita, affinché
quello che adesso non è dato di leggere che nelle vostre opere, consegnato
alle lettere, venga a notizia anche di coloro che in questo luogo ci
succederanno; e così se essi per avventura non potranno salire a più alte
cime, si studino almeno di osservare questa regola che conosceranno aver noi
tenuta e osservata. Succedendoci nell’abitazione, ereditino anche la nostra
maniera di vivere; per lo meno si vergognino se un giorno vedranno distrutto
per loro trascuratezza ciò che troveranno scritto della regolare osservanza
di questo loro eremo.
Si sappia dunque che in questo luogo denominato Fonte dell’Avellana viviamo
da una ventina di monaci, più o meno, tra quelli che abitano nelle celle e
gli altri addetti alle varie ubbidienze: così che in tutti, coi conversi e i
garzoni, si tocca o si passa di poco il numero di trentacinque.
La regola di vita ai dì nostri è questa:
Dall’ottava di Pasqua fino al santo giorno di Pentecoste, voi digiunate
quattro giorni la settimana. Il martedì e il giovedì, oltre la domenica (che
come si sa deve esser sempre rispettata) mangiate due volte. Infatti in quel
periodo, come
sapete,
i sacri Canoni non proibiscono ai monaci di digiunare.
Dall’ottava di Pentecoste fino alla natività di S. Giovanni si fa digiuno
cinque giorni alla settimana; il martedì si prende la refezione a nona, il
giovedì si fa un secondo pasto. Dalla festa di S. Giovanni al quattordici
settembre, il martedì e il giovedì si fanno due pasti, gli altri quattro
giorni si digiuna secondo il solito.
Dal quattordici settembre fino a Pasqua si digiuna sempre
cinque giorni la settimana, ma coi fratelli più deboli o sofferenti di
squilibrio di umori, si usa condiscendenza secondo il bisogno.
Nessuno oserà accusarmi di menzogna: consideri che non parlo ad estranei ma
a persone presenti che sanno benissimo come stanno le cose. Certo mi
vergognerei se proprio qui tra i discepoli della verità e sotto i loro occhi
patrocinassi la falsità e l’inganno; chè, sebbene io non debba defraudare i
posteri che un giorno leggeranno, di una esposizione completa dei fatti,
preferisco tuttavia, salva la carità, tralasciare qualche cosa piuttosto che
ostentare con vane parole ciò che non è.
Ecco infatti che se anche io non dirò nulla delle due quaresime antecedenti
il Natale e la Pasqua, voi sapete bene che qui vi sono alcuni che, tranne le
domeniche, in questi due periodi sogliono digiunare continuamente,
eccettuando solo le tre solennità di S. Andrea, di S. Benedetto e
dell’Annunciazione. Le altre feste grandi ma non principali, tanto in
quaresima che nel resto dell’anno, le celebrano i dispensieri insieme a
quelli che dimorano presso la chiesa; e ad essi, se il priore crede, vien
concessa carità di refezione. Gli altri che sono nelle celle, limitandosi
all’ufficio di tre lezioni e non uscendo, serbano secondo l’uso il digiuno.
Noi poi diciamo digiunare quando si prende acqua e pane soltanto; quando si
aggiunge qualcos’altro, non si chiama digiuno.
Alcuni qui erano soliti di astenersi dai cibi cotti pur nelle domeniche
delle due quaresime; noi però lo vietammo per riverenza del giorno santo. I
famigli che vivono con noi osservano il digiuno usuale tre volte la
settimana in tutto il giro dell’anno, e nelle quaresime, lodevolmente,
quattro: si eccettuano quelli che sono mandati in viaggi lontani.
Dal vino, come sapete, per un po’ di tempo ci siamo astenuti: qui si beveva
solo acqua anche nel giorno di Pasqua; ed era regola per tutti, anche pei
laici e per gli ospiti venuti di fuori. Il vino non si teneva se non per il
Sacrifizio della Messa. Ma poiché alcuni dei nostri cominciarono a
infermarsi e a venir meno, ed altri che desideravano di venire all’eremo si
spaventavano di tale rigore, noi indulgendo alla debolezza fraterna, o più
esattamente, alla debolezza comune, concedemmo qui di ber vino con sobrietà
e moderatamente, di modo che se non possiamo lasciarlo del tutto come il
Battista, cerchiamo almeno col discepolo di Paolo, Timoteo, di accordarlo
con umiltà e sobrietà allo stomaco infermo: non potendo essere astemi
interamente, studiamoci almeno di essere sobri. Tuttavia nelle due quaresime
rimane sempre la consuetudine di non dar vino o pesce
né ai monaci né
ai laici. Nelle quali quaresime non si confeziona che una pietanza,
eccettuate queste quattro feste: S. Andrea, S. Benedetto, la Domenica delle
Palme e la Cena del Signore. In questi sacratissimi giorni, con azioni di
grazie, si riceve vino e pesce.
Il Sabato Santo e la Vigilia di Natale, per le fatiche degli uffici
liturgici, chi vuole può consumare il suo pane intero, ma non si ammette
altro
cibo né pei
monaci né per i laici. Vi sono poi Ire
ottave sole durante l’anno, nelle quali qui nessuno è obbligato al digiuno:
di Pasqua cioè, di Pentecoste e di Natale. Ma siccome per alcuni che non
sono abituati il continuare questa duplice refezione tutta la settimana è
cosa grave, se lo domandano, per misericordia si concede loro di digiunare
alquanto.
In tutti i tempi poi, eccetto le due quaresime, è uso la domenica di
concedere ai fratelli due pietanze, negli altri giorni una. E dei digiuni
basti fin qui.
Quanto poi alle altre pratiche spirituali, qual sia l’insistenza e il
fervore continuo, quale la sollecitudine, quale l’assiduità vigile ed
operosa, non oso dire, per non apparire oneroso ai miei
simili, ai pigri cioè e negligenti miei pari, e per non eccitare in qualche
modo il loro malanimo contro di me. Solo mi sia permesso dir questo, che
tanta è la diligenza nelle genuflessioni, nelle discipline e simili, che se
a un penitente il quale si trovi in timore d’incerta morte vengano ingiunti
in soddisfazione simili rimedi, in breve tempo sconta la sua penitenza, per
quanto lunga, salvo sempre l’obbligo di osservare i digiuni, se campa.
Secondo l’uso con tremila colpi di disciplina, o con venti salteri o con
venticinque Messe si sconta un anno di penitenza ([1]).
Quanto alla salmodia è uso che se due fratelli abitano insieme in una
medesima cella recitino due salteri il giorno, uno pei vivi ed uno pei
morti. Quello dei vivi si dice con le aggiunte di S. Romualdo; quello dei
morti, con nove lezioni, tre ogni cinquanta salmi. Chi dimora solo dice
tutti
i giorni il salterio dei vivi; quello dei morti,
meta o tutto, secondo le forze. La salmodia delle ore canoniche anche qui si
eseguisce tutta per ordine al pari che nei monasteri.
Tra le altre cose non è da omettere che nelle celle si tiene continuo
silenzio non altrimenti che in chiesa,
né in esse è concesso di parlare a nessuno,
neppure per confessione, tranne che il priore non creda opportuno
temporaneamente di concedere qualche breve licenza ai novizi e ai loro
istitutori. Se occorre dire qualche cosa indispensabile, si fa quando si
esce per andare alla chiesa.
Penitenza non piccola, non usar mai nelle celle, tanto d’inverno che
d’estate,
né calze né
zoccoli, ma sempre secondo l’uso rimanere a piedi e gambe nude, eccetto chi
fosse molestato da grave infermità.
E’ regola dei monasteri che gli itineranti, se- prevedono di ritornare il
giorno stesso, non mangino fuori del monastero: tra noi non si può fare
neppure se si torna all’eremo il giorno appresso.
Circa le altre osservanze monastiche, anche tra noi si segue con tutta
cautela e solerzia quanto si pratica in ogni regolare e stretto monastero:
ubbidienza prontissima, in modo che qualunque cosa si comandi, si eseguisce
subito con lutto il fervore; e cosi dicasi del non dare o ricever cosa
alcuna senza ordine del superiore, del non posseder niente di proprio; tener
silenzio nel chiostro vicino alla chiesa nei giorni festivi e nelle altre
ore proibite; osservare la regolare consuetudine in capitolo, nell’oratorio,
in refettorio; non parlare con gli ospiti; conservare silenzio tanto
nell’andare dalle celle alla chiesa che nel tornare; e molte altre cose di
questo genere che noi tralasciamo di elencare, per non infastidire e
dilungarci troppo. Non parlo poi della spontanea viltà e rozzezza
degli abiti,
della durezza e dell’austerità dei letti, della stretta regola del silenzio,
dell’amore del continuo ritiro.
Ma quello che tutto supera, quello che per chi professa una vita santa
eccelle veramente su ogni virtù, è che tanta è la carità fraterna, tanta
l’unione delle volontà fuse nel fuoco dell’amore scambievole, che nessuno si
reputi nato a sè ma a tutti, che il bene altrui sia bene suo e il suo per
estensione di amore sia comune ad ognuno.
C’è pure una cosa, fratelli miei, che molto mi piace, ed è
che quando qualcuno tra voi apparisce un po’
debole o maliscente subito voi gli siete intorno a chiedergli che cosa si
senta, a insistere che rallenti il solito rigore della regola, a suggerirgli
ogni opportuno rimedio non solo, ma tutti a proferirvi pronti e felici di
assisterlo e di custodirlo.
Non è nemmeno da tacere che quando muore qualche nostro fratello, ognuno
digiuna per lui sette giorni, riceve sette discipline di mille colpi l’una,
fa settecento genuflessioni, dice trenta salteri e per trenta giorni di
seguito vengono celebrate per suo suffragio trenta Messe. Tale la regola di
questo luogo che non ammette deroghe; questa la consuetudine che si osserva
sempre rigorosamente e inviolabilmente. Se poi uno muore novizio, o
prevenuto dalla morte non ha potuto compiere la sua penitenza, appena la
cosa giunge a notizia dei confratelli, questi, fattane tra loro
ripartizione, si assumono la penitenza stessa e per molta che sia, con varie
mortificazioni la compiono in breve tempo generosamente.
Felici ricchezze della carità che non solo arricchiscono i vivi ma seguono
anche i defunti! Felici, ripeto,
perché attingendo ai tesori della benevolenza
degli altri, ci vengono in aiuto quando
non possiamo più aiutarci da noi: quando a noi poverelli che non abbiamo
nulla verrà richiesto il nostro debito, ecco che viene la carità fraterna e
fa pari. E basti questo poco della vita che oggi si mena in questo eremo,
perché da questo poco ognuno possa farsi
ragione di ciò che lasciamo sotto silenzio.
O cari fratelli, ecco però che mentre io descrivo
qualche cosa delle vostre virtù in vostra presenza, in verità mi sento
invadere da timore e da vergogna: timore di offender voi, vergogna di
apparire un adulatore. Ma pure mi è testimone la mia coscienza: io scrivo
per studio di retta intenzione; è l’amore della salvezza fraterna che mi
eccita. Io scrivendo queste cose desidero di procurare il vostro bene e al
tempo stesso quello dei vostri lontani posteri: il vostro, perché
leggendo vi studiate di perseverare nell’opera buona intrapresa; il loro,
perché da questo imparino ciò che debbano
ritenere a nostra imitazione. Infatti, poiché in questo luogo, se Dio non
disporrà diversamente, spero di avere tra non molto il sepolcro, mi sento
non men sollecito della futura religione di questo eremo, che pensoso del
suo stato presente ([2]).
Te dunque, o priore, chiunque e qualunque tu sia che mi succederai nel
governo di quest’eremo, te io supplico con le lacrime agli occhi per la
venuta del nostro Signore Gesù Cristo, pel terrore del divino giudizio : te
io scongiuro nel nome della Maestà di Dio: non ti dipartire
né te né quei
che saranno tuoi sudditi, dall’osservanza di queste regole: dal buon
sentiero pel quale adesso in questo luogo
si cammina, non deviare! Tolga Iddio che sotto di voi diminuisca quel
tributo di santità che prima solevasi rendere a Dio dal reddito di questo
luogo ([3]).
Dal nuovo colono non esige di meno il padrone che gli alloga un podere, il
cui reddito è già segnato nei vecchi registri.
Non vi alletti di camminare per la via larga e spaziosa, voi a’ quali si
comanda di entrare per la porta stretta che conduce alla vita : « chè
stretta è la via che conduce al cielo, mentre è larga quella che sprofonda
nel tartaro »
(Mt. 7, 13, 14). E perciò non vi alletti di scendere dalle
strettoie dell’eremo alla larghezza del monastero: non vi sia dolce lasciare
la legge dello spirito per acconciarvi agli allettamenti della carne. E che
altro è lasciare il meglio per scendere al buono, se non declinare da
nobiltà a viltà, se non voltare le spalle alla via diritta, se non cadere da
fervore di spirito in tiepidezza nociva e a poco a poco rovinare dall’alto
in un precipizio?
Tu dunque, o mio successore, vedi e leggi attentamente queste poche cose che
ho scritto, e conservale, e siano per te come un sigillo che informi la vita
tua e dei tuoi sudditi. Mai si sconci presso di te questa effigie; non sia
che sotto il tuo governo questa salutar forma si cancelli. Dio non voglia
che per buona moneta non si spacci e prenda corso mondiglia! Tu sai bene che
il falsario convinto di aver adulterato moneta è condannato ad aver tronche
le mani ([4]).
Finalmente, a toglier di mezzo ogni scusa di inosservanza, abbiamo cercato,
secondo la piccolezza e la povertà del luogo, di acquistare all’intorno
alcuni possessi, che se si procurerà di coltivarli, il predetto numero di
fratelli potrà viverci convenientemente.
Abbiamo anche lasciato una buona biblioteca, acciocché i nostri monaci
abbiano abbondante materia di meditazione, ricordandosi di pregare per noi.
Procurammo infatti l’intera collezione dei libri del Vecchio e del Nuovo
Testamento, e ne facemmo una recensione, sebbene di corsa e perciò non del
tutto esatta. Avete inoltre un buon numero di passionari di martiri, omilie
di santi Padri e commentari ed esposizioni sulla Sacra Scrittura di
Ambrogio, di Agostino, di Girolamo, di Prospero, di Beda, di Remigio e di
Amalario, nonché di Aimone e di Pascasio. Di tutti questi per grazia di Dio
avete oramai molti volumi, sui quali potrete studiare, in modo che le vostre
anime non solo vivano e crescano con l’orazione, ma anche si satollino con
la lezione. Di questi libri parecchi, secondo la nostra possibilità, ne
correggemmo, a fine di aprirvi la via nello studio e nell’intelligenza della
scienza divina. Costruimmo anche un chiostro di fianco alla chiesa; e ciò
allo scopo che se taluni si dilettano ancora della consuetudine in uso nei
monasteri, abbiano dove fare le processioni solenni usate nelle solennità
maggiori : al qual fine vi abbiamo anche procurato una croce d’argento assai
adatta ([5]).
Allo stesso fine e in considerazione dell’infermità dei deboli, abbiamo
comprato pure delle campane, bacili ed altri utensili di chiesa. Di più vi
abbiamo provveduto due calici d’argento con bellissima doratura,
affinché quando vi accostate ai sacri Misteri del
Corpo e del Sangue di Cristo non siate costretti a portarvi alla bocca
calici di stagno o di altro più vile metallo. E finalmente per la
celebrazione della Messa e per ornamento del sacro altare ho procurato
magnifici pallii e ornamenti preziosissimi.
Tutto questo, fratelli, vi ho provveduto non senza difficoltà, per toglierne
a voi il pensiero e
perché l’animo vostro si innalzasse tanto più
libero ai beni celesti, quanto meno sarete gravati dal bisogno di ricercare
i terreni ([6]).
Per questo io vi prego, o fratelli carissimi, chiunque voi siate che mi
succederete in questa santa dimora, che come io ho pensato a voi prima che
entraste in questa vita, così anche voi con pietoso contraccambio aiutiate
me, dopo che ne sarò partito, col suffragio delle vostre preghiere; e come
io vi ho preparato un luogo da vivere santamente, così voi mi procacciate il
modo di conseguire misericordia.
Ecco, o fratelli miei, io fui quello che voi siete, percorsi la via che voi
ora calcate: sta davanti a voi l’ideale al quale io servii; vicina è la meta
ov’io giunsi. Percorrete questo breve tratto di vostra vita mortale in modo
che, lasciate indietro le cose che passano, giungiate ai beni che restano
eternamente duraturi.
[1]
Vuol dire: in tre modi si poteva scontare un anno di penitenza o
flagellandosi con 3.000 colpi, o recitando 20 salteri ovvero col
celebrare 25 Messe.
[2]
Iddio dispose diversamente. Tornando da Ravenna a Fonte Avellana,
colto da grave malore a Faenza mori il 22 febbraio del 1072 in età
di 65 anni, e invece che nel suo Eremo ebbe li il suo sepolcro. La
città lo elesse patrono ed oggi le sue reliquie si venerano in
quella Cattedrale.
[3]
Dante evidentemente aveva sotto gli occhi queste parole, allorché
scriveva le note terzine : « Render solea quel chiostro a questi
cieli - fertilemente... ». Dove le lesse ? Certamente a Fonte
Avellana, dove allora si conservavano i manoscritti del Santo. Ve
n’erano anche a Montecassino, ma Dante non fu mai in quella Badia.
[4]
Era realmente la pena dei falsari, il taglio delle mani.
[5]
Parte di questi codici, ed altri acquistati dal Damiano o venuti in
seguito, trovansi oggi nella Biblioteca Vaticana. E fu ventura che
trovassero rifugio colà, che altrimenti sarebbero periti o dispersi,
come altri moltissimi. Il chiostro, modificato alquanto nel secolo
seguente, tuttora sussiste, ed è stato in questi ultimi anni
riportato all’originaria bellezza.
[6]
Questi pensieri accennano agli altri maggiormente sviluppati
dell’epitaffio metrico lasciato dal Santo stesso da porsi sul suo
sepolcro, il quale dice così : « Ciò che tu sei, io fui ; ciò che
sono, sarai : : — non prestar fede alle cose che vedi perire. Sono
vanità e sogni che precorrono la realtà: — agli anni brevi succedono
i secoli eterni. - Vivi memore della morte, se vuoi eternamente
vivere. - Ciò che si vede, passa ; ciò che rimane, si approssima. -
Deh come bene provvide chi ti lasciò, o mondo perverso! - Meglio che
lo spirito uccida la carne, anziché la carne uccida te stesso. - Ai
beni terreni anteponi i celesti, ai caduchi gli eterni. - Rifatta
libera, torni l’anima al suo Principio. - Lo spirito risalga in
alto, rimonti alla sua sorgente : - sprezzi sotto di sè tutto ciò
che lo aggrava al fondo. - Ricordati di me, ti prego: guarda pietoso
le ceneri di Pietro: prega, piangi e dì: Signore, perdonagli! ».
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8 aprile 2022 a cura
di Alberto "da Cormano"
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