Regola
Pastorale
di
san
Gregorio Magno, Pontefice romano,
a Giovanni Vescovo della Città
di Ravenna
PARTE PRIMA - REQUISITI DEL PASTORE D’ANIME
PARTE SECONDA - LA VITA DEL PASTORE
PARTE TERZA - COME DEVE INSEGNARE E AMMONIRE I SUDDITI UNA GUIDA DELLE ANIME CHE HA BUONA CONDOTTA DI VITA
PARTE QUARTA - COME IL PREDICATORE, COMPIUTA OGNI COSA NEL MODO DOVUTO, DEVE RITORNARE IN SE STESSO, PERCHÉ LA VITA O LA PREDICAZIONE NON LO ESALTI
Gregorio al
reverendissimo e santissimo Giovanni,
fratello
nell’episcopato
Carissimo fratello, con intenzione umile e benevola tu mi rimproveri di aver voluto sottrarmi al peso della cura pastorale cercando di nascondermi, ma perché non sembri a certuni che tale peso sia leggero, intendo scrivere in questo libro tutto quello che penso della sua gravità, affinché chi è libero da esso non vi aspiri con leggerezza, e chi vi ha aspirato con leggerezza abbia gran timore di averlo ottenuto.
La materia trattata in questo libro si divide in quattro parti, per accostare
l’animo del lettore con ordinate argomentazioni, come i passi successivi di un
cammino. Infatti occorre che chiunque sia chiamato al più alto grado del governo
pastorale — quando gli eventi storici lo richiedono — valuti seriamente come vi
giunge; e se vi giunge legittimamente consideri qual è la sua vita; e se la sua
vita è buona, qual è il suo insegnamento; e se il suo insegnamento è corretto,
egli deve essere quotidianamente consapevole, con ogni possibile considerazione,
della propria debolezza; e
così non avvenga che o la sua umiltà lo sottragga
dall’accedere alla dignità o la sua condotta di vita
contrasti con essa; la sua dottrina si allontani da una buona condotta di vita o
la presunzione gli faccia esaltare la propria dottrina. Quindi innanzitutto sia
il timore a moderare il desiderio; poi sia la condotta di vita a confermare un
magistero che viene assunto da chi non lo cercava; quindi è necessario che
quanto di bene si manifesta nel modo di vivere del Pastore si diffonda anche
attraverso la sua parola. Resta infine che la considerazione della propria
debolezza abbassi ai suoi occhi il valore di ogni opera buona che egli compie,
affinché la gonfiezza dell’esaltazione non la cancelli agli occhi del Giudice
occulto.
Molti però, che sono simili a me
per ignoranza, mentre non sanno misurare se stessi, bramano di insegnare ciò che
non hanno imparato e tanto più giudicano leggero il peso del magistero, quanto
meno sanno valutarne la grandezza. Costoro si sentano biasimati fin dal
principio di questo libro e poiché, indotti e precipitosi come sono, mirano ad
occupare la rocca della dottrina, siano respinti dalla temerarietà della loro
precipitazione fin dalla soglia del nostro discorso.
REQUISITI DEL
PASTORE D’ANIME
1 — Gli ignoranti non osino accostarsi
al magistero
Non c’è arte che uno possa
presumere di insegnare se non dopo averla appresa attraverso uno studio attento
e meditato. Quanta è dunque la temerarietà con cui gli ignoranti assumono il
magistero pastorale, dal momento che il governo delle anime è l’arte delle arti.
Chi non sa che le ferite dei pensieri sono più nascoste di quelle delle viscere?
E tuttavia si dà spesso il caso di persone che non conoscono neppure le regole
della vita spirituale ma non temono di professarsi medici dell’anima, mentre chi
ignora la virtù terapeutica delle medicine si vergognerebbe di passare per
medico del corpo. Ma poiché ormai per volontà di Dio ogni autorità del secolo
presente si inchina con riverenza di fronte alla religione, non sono pochi
coloro che dentro la Santa Chiesa aspirano alla gloria di una dignità dietro
l’apparenza del governo delle anime. Aspirano a passare per maestri, bramano di
superare gli altri e — come afferma la Verità — amano i primi saluti in piazza,
i primi posti nelle cene, e le prime sedie nelle riunioni (cf. Mt. 23, 6-7). Essi sono tanto più incapaci di
assolvere
degnamente all’ufficio della cura pastorale che hanno assunto in quanto sono
pervenuti al magistero dell’umiltà solo con l’orgoglio; giacché
nell’insegnamento perfino la lingua si confonde quando si insegna qualcosa di
diverso da ciò che si è imparato. Contro costoro il Signore si lamenta per mezzo
del profeta dicendo: Da sé hanno regnato,
non designati da me; sono divenuti principi ed io non l’ho saputo (Os.
8, 4). Infatti, coloro
che, senza il sostegno di alcuna virtù, non chiamati per vocazione divina ma
accesi dalla propria cupidigia non conseguono ma rapiscono il più alto grado del
governo delle anime, regnano di proprio arbitrio, non per decisione del sommo
reggitore. Tuttavia, il Giudice delle coscienze mentre li eleva non li
riconosce, poiché certo nel suo giudizio di condanna egli ignora coloro che
pure, nella sua permissione, tollera. Perciò egli dice a certuni che vanno da
lui dopo aver compiuto addirittura dei miracoli: Allontanatevi da me
operatori di iniquità, non so
chi siete (Lc. 13, 27).
E così viene aspramente rimproverata dalla voce della Verità la
ignoranza dei Pastori, quando essa dice per mezzo del profeta: Perfino i
pastori non hanno saputo comprendere
(Is. 56, 11).
E ancora il Signore li respinge dicendo: Pur avendo in mano la
legge non mi hanno conosciuto (Ger.
2, 8). Dunque, la Verità si lamenta di non essere conosciuta
da costoro e dichiara di non riconoscere il primato di chi non la conosce,
giacché è certo che quanti non conoscono le cose del Signore, non sono
conosciuti da lui, secondo la testimonianza di Paolo che dice: Se qualcuno
poi ignora sarà ignorato (1
Cor. 14, 38). Naturalmente poi, a questa ignoranza dei Pastori corrispondono spesso i demeriti
dei sudditi, perché quantunque sia tutto a loro proprio carico se i Pastori non
possiedono il lume della conoscenza, tuttavia per un rigoroso giudizio accade
che a causa della loro ignoranza inciampino anche coloro che li seguono. Di qui
la Verità stessa dice nell’Evangelo: Se un cieco presta la sua guida a un
altro cieco, cadono ambedue
nella fossa (Mt. 15, 14).
E il salmista, non esprimendo un desiderio del suo animo, ma
nell’esercizio del suo ministero profetico, dichiara: Si oscurino i loro
occhi perché non vedano, e piega
sempre di più il loro dorso (Sal. 68, 24).
Gli occhi sono chiaramente coloro che posti innanzi a tutti al grado
sommo della dignità, hanno assunto il compito di fare da guide nel cammino; e
quelli che al loro seguito aderiscono ad essi sono giustamente chiamati dorsi.
Dunque, se gli occhi si oscurano, il dorso si piega: così quando coloro che
guidano perdono la luce della conoscenza, quelli che seguono si curvano
inevitabilmente sotto il peso dei peccati.
2 — Non occupino il
posto del governo delle anime coloro che nel loro modo di vivere non adempiono a
quanto hanno appreso con lo studio
Ci sono poi alcuni che
investigano le regole della vita spirituale con esperta cura, ma poi calpestano
con la loro condotta di vita ciò che riescono a comprendere con l’intelligenza:
subito si mettono a insegnare ciò che hanno imparato con lo studio ma non con la
pratica; e combattono con i loro costumi ciò che predicano con le loro parole.
Così avviene che quanto il pastore cammina per terreni scoscesi il
gregge che lo segue cade nel precipizio.
Perciò il Signore si lamenta per mezzo del profeta contro la spregevole scienza
dei Pastori, dicendo: Mentre voi bevevate acqua limpidissima,
intorbidavate l’altra con i vostri piedi e le mie pecore si nutrivano di quanto
voi avevate calpestato con i vostri piedi e bevevano l’acqua che i vostri piedi
avevano intorbidato (Ez. 34, 18-19). I Pastori bevono acqua limpidissima quando attingono
alle acque correnti della verità con retta intelligenza, ma è come intorbidare
quella stessa acqua con i propri piedi il corrompere gli studi di una
meditazione santa con una cattiva condotta di vita. Sono poi pecore che bevono
l’acqua intorbidata dai piedi di quelli, i sudditi che non seguono le parole che
ascoltano, ma imitano solo ciò che vedono, cioè gli esempi di una vita
depravata. Infatti essi hanno sete di quanto viene loro detto con le parole, ma
poi sono pervertiti dalle opere e allora è
come se nei loro bicchieri bevessero
fango perché le sorgenti si sono inquinate. Perciò è pure scritto per mezzo del
profeta: I cattivi sacerdoti sono laccio di rovina per il mio popolo (cf. Os. 5,1; 9,8). E sempre dei sacerdoti dice ancora il Signore:
Sono divenuti per la casa di Israele pietra di inciampo per l’iniquità
(Ez. 44, 12). In verità nessuno nuoce di più nella Chiesa di chi portando un titolo o un ordine
sacro conduce una vita corrotta, giacché nessuno osa confutare un tale peccatore
e la colpa si estende irresistibilmente con la forza dell’esempio quando, a
causa della riverenza dovuta all’ordine sacro, il peccatore viene onorato. Ma
pur essendo indegnissimi, fuggirebbero la responsabilità di una colpa così grave
se valutassero con attento orecchio del cuore la sentenza della Verità che
afferma: Chi avrà scandalizzato uno solo di questi piccoli che credono in me
è
meglio per lui che gli si appenda una macina d’asino al collo e lo si
getti nel profondo del mare
(Mt. 18, 6).
Dove la macina d’asino significa quel faticoso
ritornare su se stessi della vita del secolo, e il profondo del mare indica la
condanna eterna. Pertanto, chi rivestitosi dell’apparenza della santità rovina
gli altri con la parola e con l’esempio, sarebbe certo stato meglio per lui che
lo avessero trascinato a morte
le sue azioni terrestri quand’era nello stato laicale, piuttosto che le sue
funzioni sacre lo avessero indicato agli altri — nella sua colpa — come esempio
da imitare. Giacché se almeno fosse caduto da solo lo avrebbe tormentato una
pena infernale comunque più tollerabile.
3 — Il peso del
governo delle anime.
Bisogna disprezzare le avversità e temere la prosperità
Abbiamo voluto dimostrare in breve, con quel che
abbiamo detto sopra, quanto sia grave il peso del governo delle anime, perché
nessuno che non sia in grado di sostenerlo osi accostarsi temerariamente ai
ministeri sacri e, per la bramosia di raggiungere il luogo della massima
dignità, si assuma invece la guida della perdizione. Per questo Giacomo mette
piamente in guardia dicendo: Non vogliate, fratelli miei, divenire maestri in molti (Giac.
3, 1). E perciò lo stesso
Mediatore fra Dio e gli uomini rifuggi dall’assumere il regno sulla terra, lui
che superando la scienza e la conoscenza anche degli spiriti celesti regna nei
cieli prima dei secoli. Difatti
è scritto: Gesù, dunque,
sapendo che sarebbero venuti per rapirlo e farlo re, fuggì di nuovo sul
monte, lui
solo
(Gv.
6, 15).
Eppure chi avrebbe potuto regnare senza colpa sugli uomini come colui che
avrebbe regnato, così., sulle sue creature? Ma poiché era venuto nella carne
proprio per questo, non solo per redimerci con la sua passione ma anche per
ammaestrarci con la sua vita e offrirsi come esempio per quelli che lo
seguivano, perciò non volle divenire re, ma si avviò spontaneamente al patibolo
della croce, fuggi la gloria della somma dignità che gli veniva offerta, ricercò
la pena di una morte obbrobriosa. Ciò evidentemente perché noi sue membra
imparassimo a fuggire i favori del mondo, a non temere affatto i terrori della
morte, ad amare le avversità per difendere la verità, a evitare con timore la
prosperità, perché questa con la gonfiezza che l’accompagna corrompe il cuore,
mentre le avversità lo purificano attraverso la sofferenza. Nella prosperità
l’animo si innalza, ma nell’avversità, anche se prima si fosse innalzato, si
prostra. Nella prosperità l’uomo dimentica ciò che è, ma nell’avversità anche
non volendolo è richiamato quasi per costrizione a ricordarsene. Nella
prosperità spesso anche il bene compiuto prima si corrompe, ma nell’avversità
viene cancellato ciò che di male si è commesso anche nel corso di un lungo
tempo. Infatti, per lo più sotto il magistero dell’avversità il cuore è come
costretto dalla disciplina, ma se poi si innalza fino al più alto grado di
governo, per l’esperienza della gloria si muta ben presto fino all’esaltazione.
Così Saul, che in un primo tempo era fuggito per non essere fatto re
considerandosene indegno (cf. 1 Sam. 10, 22),
poi come ebbe assunto la guida del regno si
gonfiò, e bramoso di
essere onorato davanti al popolo, per non essere rimproverato pubblicamente,
rinnegò perfino colui che l’aveva unto re (cf. 1 Sam. 15, 17-30). Così David,
approvato quasi in ogni sua azione dal giudizio di Dio, appena non si senti più
oppresso dalla persecuzione ruppe nella superba ferita del peccato (cf. 2 Sam.
11, 3 ss.) e divenne rigido e crudele nel volere la morte di un uomo nobile,
mentre era stato molle e senza forza nel desiderio dissoluto di una donna. Lui
che prima aveva saputo salvare piamente i malvagi imparò poi a desiderare
l’uccisione anche dei buoni con fredda determinazione (cf.
2 Sam. 11, 15). Infatti una volta pur trovandosi nelle mani
il suo persecutore non volle colpirlo, ma in seguito uccise un soldato devoto,
con danno, inoltre, dell’esercito che già si trovava in difficoltà. E la colpa
lo avrebbe certamente strappato e portato ben lontano dal numero degli eletti,
se il castigo divino non lo avesse richiamato al perdono (cf.
2 Sam. 12).
4 — L’occupazione
del governo delle anime per lo più dissipa l’unità dello spirito
Spesso le cure assunte
col governo delle anime disperdono il cuore in diverse direzioni così che ci si
ritrova incapaci di affrontare problemi singoli perché la mente confusa è divisa
in molte occupazioni. Perciò un sapiente avvertito ammonisce: Figlio non
applicarti a molte attività (Sir.
11, 10). E ciò per dire che la
mente divisa in diverse operazioni non può raccogliersi pienamente nella
considerazione esigente di ciascuna; e mentre è trascinata al di fuori da una
cura prepotente, si svuota di quella unità dello spirito prodotta dall’intimo
timore: diviene sollecita nella disposizione di cose esteriori, e ignara
solamente di sé, sa pensare a molte cose ma non conosce se stessa. Infatti,
quando si immerge più del necessario in occupazioni esterne è come se, distratta
lungo un viaggio, si dimenticasse della meta cui era diretta e così, noncurante
di attendere all’esame di se stessa, non considera neppure quali danni riceve da
ciò e ignora l’entità del suo peccato. In effetti Ezechia non credette di
peccare quando mostrò agli ospiti stranieri i depositi dei profumi (cf. 2 Re 20, 13),
ma per questa azione che egli aveva stimato lecita dovette portare l’ira del
Giudice nella condanna per i suoi discendenti (cf.
Is. 39, 4-8). Accade spesso che molte azioni per sé lecite e
tali che, quando sono compiute, riscuotono l’ammirazione dei sudditi, provochino
però una esaltazione dell’animo anche nel solo pensiero, e questa, quantunque
non si manifesti all’esterno con azioni inique, attira su di sé l’ira senza
riserve del Giudice. Poiché è nell’intimo colui che giudica ed è l’intimo che è
giudicato; e quando pecchiamo nel cuore ciò che compiamo in noi resta nascosto
agli uomini ma il Giudice stesso è testimone del nostro peccato. Infatti il re
di Babilonia non peccò di superbia solamente quando giunse a pronunciare parole
superbe, poiché egli udì dalla bocca del profeta la sentenza della sua condanna
quando ancora non si era esaltato con le sue parole (cf.
Dan. 4, 16 ss.). Egli poi, in precedenza, aveva lavato la
sua colpa quando aveva riconosciuto onnipotente il Dio che aveva offeso,
predicandolo a tutte le genti che aveva sottomesse (cf. Dan. 3, 98-100);
ma in seguito esaltato per l’affermazione del suo potere, compiaciuto di aver
compiuto grandi cose, si antepose a tutti nel suo pensiero, e quindi si
inorgoglì al punto di esclamare: Non è questa la grande Babilonia che io ho
edificato come cosa del mio regno,
merito della mia forza, gloria della mia maestà?
(Dan.
4, 27)
Furono certamente queste parole che dovettero sostenere apertamente la vendetta
di quell’ira che l’intima esaltazione aveva acceso. Infatti il severo Giudice
aveva veduto già da prima ciò che invisibilmente era in lui e che rimproverò poi
pubblicamente con la punizione: lo trasformò in animale irrazionale, lo separò
dal consorzio umano, lo associò per la sua mente sconvolta alle bestie della
campagna, affinché per un giudizio evidentemente severo e tuttavia giusto,
finisse col non essere più un uomo colui che si era stimato grande al di sopra
degli uomini (cf.
Dan. 4, 28-30). Così, proponendo questi esempi, non intendiamo
disapprovare il potere in sé, ma difendere la debolezza del cuore dalla brama di
raggiungerlo, affinché gli imperfetti non osino impadronirsi della massima
dignità del governo delle anime, né coloro che vacillano sul terreno piano si
arrischino a porre il piede sul precipizio.
5 — Alcuni chiamati
alla massima dignità del governo delle anime potrebbero giovare col loro esempio,
ma rifiutano cercando la propria quiete
Ci sono in effetti
alcuni che ricevono doti eccellenti di virtù e vengono esaltati per i loro
grandi doni capaci di sostenere gli altri nell’esercizio della vita ascetica.
Costoro sono puri per l’amore della castità, forti di quel vigore che è frutto
dell’astinenza, sazi del delizioso nutrimento della dottrina, umili nella loro
paziente longanimità, saldi della forza dell’autorità, benigni a motivo della
loro pietà, rigorosi di quella severità che è propria della giustizia. Costoro
però escludono per lo più anche se stessi da questi doni che non hanno ricevuto
per sé soli ma anche per gli altri, se quando siano chiamati alla massima
dignità del governo delle anime rifiutano di accettarla. E poiché pensano al
loro guadagno e non a quello altrui, si privano proprio di quei doni che
desiderano possedere a uso privato. Perciò infatti la Verità dice ai discepoli:
Non può restare nascosta una città posta su un monte,
né si accende una lampada e la si pone sotto un moggio, ma sopra il
candelabro perché faccia luce per tutti coloro che sono in casa (Mt.
5, 15). Perciò dice a Pietro:
Simone di Giovanni, mi ami?
(Gv.
21, 17)
E lui che subito aveva risposto che lo amava si sentì dire:
Se mi ami, pasci le mie pecore
(Gv. 21, 17).
Se dunque la cura pastorale è testimonianza d’amore,
chiunque ricco di virtù rifiuta di pascere il gregge di Dio ha in ciò stesso la
prova che egli non ama il Pastore sommo. Perciò Paolo dice: Se Cristo è morto
per tutti, dunque tutti sono
morti, e se è morto per tutti resta che coloro che vivono non vivano pia
per sé ma per colui che è morto per loro ed è risorto (2 Cor. 14, 15). Perciò ancora Mosé dice
che un fratello che sopravvive al fratello morto senza figli ne sposi la moglie
e generi figli a nome del fratello; e se rifiuterà di prenderla la donna gli
sputi in faccia e il parente più prossimo di lei gli
tolga un sandalo, e la
sua abitazione sia detta casa dello scalzato
(cf.
Deut. 25, 5).
Ora, il fratello morto è certamente colui che apparendo dopo la sua gloriosa
risurrezione disse: Andate,
dite ai miei fratelli
(Mt. 28, 10).
Egli è come morto senza figli, poiché non ha completato il numero dei suoi
eletti, e allora al fratello superstite viene ordinato di ricevere la sua sposa.
Poiché è certamente
cosa degna che la cura della Santa Chiesa venga imposta a chi più di ogni altro
è in grado di governarla. E se egli non vuole, la donna gli sputa in faccia,
giacché chiunque non ha cura di giovare agli altri coi doni che ha ricevuto, la
Santa Chiesa gli rimprovera anche ciò che egli fa di buono ed è come se gli
gettasse saliva in faccia. Ma egli è anche colui a cui viene tolto il sandalo da
un piede così che la sua casa sia detta dello scalzato, poiché è scritto:
Calzati i piedi per prepararsi al annunciare l’Evangelo della pace
(Ef. 6, 15).
Dunque proteggiamo ambedue i piedi coi sandali se ci
prendiamo cura degli altri come di noi stessi; ma è come se perdesse con
vergogna il sandalo da un piede colui che pensando alla propria utilità trascura
quella del prossimo. Così, come abbiamo detto, ci sono alcuni ricchi di grandi
doni i quali ardono dal desiderio della sola contemplazione e rifiutano di
assoggettarsi all’utilità del prossimo attraverso il servizio della
predicazione, perché amano la quiete appartata e aspirano alla meditazione in
solitudine. Se si dovesse giudicarli con rigore sotto questo aspetto, essi sono
responsabili nei confronti di tante anime, quante sono quelle cui avrebbero
potuto giovare venendo a stare fra gli uomini. In effetti con quale pensiero
colui che avrebbe potuto brillare nella sua dedizione a vantaggio del prossimo
prepone il proprio ritiro alla utilità degli altri, quando lo stesso Unigenito
del Sommo Padre, per giovare a molti, è uscito dal seno del Padre (cf. Gv. 1,
18; 8, 42; ecc.) per venire fra
gente come noi?
6 — Coloro che
fuggono il peso del governo delle anime per umiltà sono veramente umili quando
non resistono al decreto divino
Ci sono poi alcuni che
rifiutano solo per umiltà, per non essere cioè preferiti a coloro ai quali si
stimano inferiori. La loro umiltà, se si circonda anche delle altre virtù, è
certamente vera agli occhi di Dio, perché essa non si ostina a respingere ciò
cui le viene ordinato di sottomettersi come cosa utile. Non è veramente umile
cioè colui che capisce di dovere stare alla guida degli altri per decreto della
volontà divina e tuttavia disprezza questa preminenza. Se invece è sottomesso
alle divine disposizioni e alieno dal vizio dell’ostinazione ed è già prevenuto
con quei doni coi quali può giovare agli altri, quando gli viene imposta la
massima dignità del governo delle anime, egli deve rifuggire da essa col cuore,
ma pur contro voglia deve obbedire.
7 — Si dà spesso il
caso che alcuni aspirino lodevolmente all’ufficio della predicazione,
e altri lodevolmente vi si lascino attirare costretti
Sebbene non di rado ci
sia chi lodevolmente aspira all’ufficio della predicazione, c’è anche chi
lodevolmente vi si lascia attirare se è costretto. Possiamo renderci conto
facilmente di ciò se pensiamo all’opposto atteggiamento di due profeti: uno si
offrì spontaneamente per essere mandato a predicare, l’altro pieno di timore si
rifiutò. Isaia infatti si offri di propria iniziativa al Signore che chiedeva
chi mandare, dicendo: Eccomi, manda me (Is.
6, 8). Geremia
invece è mandato
e tuttavia resiste umilmente per non esserlo, dicendo: Ah,
ah, ah, Signore Dio, ecco non so parlare perché sono un
ragazzo (Ger. 1, 6).
Ecco, usci fuori una parola diversa dall’uno e
dall’altro, ma essa non sgorgò da una diversa sorgente d’amore, giacché due sono
i precetti della carità, cioè l’amore di Dio e l’amore del prossimo. Isaia
bramando di giovare al prossimo con la vita attiva aspira all’ufficio della
predicazione; mentre Geremia desiderando di aderire sinceramente all’amore del
Creatore attraverso la contemplazione oppone che egli non deve essere mandato a
predicare. Pertanto l’uno aspirò lodevolmente a ciò di cui l’altro lodevolmente
ebbe terrore: questo non voleva guastare, parlando, i frutti di una tacita
contemplazione, quello non volle sentire, tacendo, i danni di un’attività
nutrita solo di desiderio. Tuttavia bisogna penetrare sottilmente l’animo di
ambedue e capire che chi rifiutò non resistette fino all’ultimo; e colui che
volle essere mandato, prima si vide purificato dal carbone acceso dell’altare
(cf.
Is. 6, 6-7)
a significare che nessuno osi accostarsi ai ministeri sacri senza essere stato
purificato, o anche che colui che la grazia celeste ha scelto non contraddica
superbamente sotto il pretesto dell’umiltà.
Dunque, poiché è molto difficile che una persona qualsiasi possa
riconoscere di essere stata purificata, è più che
sicuro declinare
l’ufficio della predicazione; tuttavia, come s’è detto, non bisogna insistere
con ostinazione nel rifiutarlo quando si riconosce che è volontà celeste
l’assumerlo. Si tratta di due disposizioni dell’animo a cui Mosé aderì
mirabilmente poiché, dovendo essere guida di una moltitudine tanto grande, non
volle ma obbedì (cf.
Es. 3, 10 – 4, 18).
Forse sarebbe stato superbo se avesse assunto la guida di una popolazione
numerosissima senza trepidazione, e sarebbe ancora risultato superbo se avesse
rifiutato di obbedire all’ordine del Creatore. Così, in ambedue i casi, egli fu
insieme umile e soggetto, poiché misurando se stesso non volle essere capo del
popolo e tuttavia acconsenti fidando sulle forze di colui che glielo ordinava.
Da questo esempio si rendano conto certe persone irriflessive, di quanto
è grande la loro colpa, se per
il proprio desiderio non temono di essere preposti ad altri, quando — pur dietro
l’ordine di Dio — uomini santi temettero di assumere la guida del popolo. Mosé
trepida dietro l’invito del Signore, e un inetto qualunque anela ad un ufficio
d’onore. Così, chi è spinto a cadere con forza sotto i propri pesi offre
volentieri le sue spalle per caricarsi di quelli altrui: non ha la forza di
sopportare il peso di cui è già carico e aumenta quel che porta.
8 — Alcuni bramano
il potere e si appropriano di una affermazione dell’Apostolo ai fini della
propria concupiscenza
Per lo più coloro che
bramano il potere si appropriano della parola con cui l’Apostolo dice: Se
qualcuno desidera l’episcopato desidera un buon ufficio
(1
Tim. 3, 1),
e l’adoperano ai fini della propria concupiscenza.
Egli tuttavia pur lodando il desiderio volge subito in motivo di timore ciò che
ha lodato, perché immediatamente aggiunge: Occorre però che il vescovo sia
irreprensibile (1
Tim. 3, 2); e continuando poi a
enumerare le virtù necessarie, chiarisce in che cosa consiste questa
irreprensibilità. Incoraggia quanto al desiderio, ma incute timore col precetto
come se dicesse apertamente: Lodo ciò che voi cercate, ma prima imparate bene
che cos’è che cercate, perché se trascurate di misurare voi stessi, la vostra
consapevolezza non appaia tanto più disonorevole, in quanto ha fretta
di mostrarsi a tutti rivestita della dignità episcopale. Così, colui che fu
grande maestro del ministero pastorale, da un lato spinge i suoi ascoltatori e
incoraggia, dall’altro li trattiene col timore, per difenderli dalla superbia,
con la descrizione della perfetta irreprensibilità, e per disporli alla vita che
li attende lodando l’ufficio da loro richiesto. È da notare però che egli
parlava così in un tempo in cui chiunque fosse a capo del popolo veniva condotto
per primo ai supplizi del martirio. Allora sì era cosa lodevole aspirare
all’episcopato, quando si sapeva con certezza che attraverso di esso si sarebbe
giunti alle più gravi torture. Anche per questo il ministero dell’episcopato
viene definito con l’espressione buon ufficio, quando è detto: Se qualcuno desidera l’episcopato,
desidera un buon ufficio (1
Tim. 3, 1). Pertanto, colui che
cerca l’episcopato per la gloria di quell’onore e non per il buon ufficio di
questo ministero, testimonia da sé, per se stesso, che non è l’episcopato ciò a
cui egli aspira. In effetti, non solo egli non ama affatto l’ufficio sacro, ma
non sa neppure che cosa sia, lui che anelando alla
massima dignità del
governo pastorale, nei pensieri nascosti della sua mente si pasce della
sottomissione altrui, gode della lode rivolta a sé, esalta il suo cuore al
pensiero dell’onore, esulta per l’abbondanza dei beni affluenti da ogni parte.
Così si cerca il guadagno del mondo, proprio sotto l’apparenza di quella dignità
attraverso la quale i guadagni del mondo si sarebbero dovuti distruggere. E
quando la mente medita di impadronirsi del sommo grado dell’umiltà avendo di
mira la propria esaltazione, muta e deforma nell’intimo ciò a cui aspira
esteriormente.
9 — La mente di
coloro che vogliono dominare spesso si lusinga con il finto proposito di
compiere opere buone
Ma per lo più coloro
che bramano di ricevere il magistero pastorale si pongono in animo anche il
proposito di qualche opera buona, e quantunque nella loro aspirazione a quel
magistero abbiano di mira la propria esaltazione, tuttavia considerano a lungo
col pensiero le grandi cose che faranno e avviene che in essi tutt’altra cosa è
ciò che la loro intenzione soffoca nel profondo, da ciò che la considerazione
superficiale rappresenta al loro animo. Infatti, non di rado il pensiero mente a
se stesso riguardo a sé e si immagina — quanto al bene operare — di amare ciò
che di fatto non ama, e — quanto alla gloria del mondo — di non amare ciò che
ama. E bramando il potere del primato, mentre lo cerca diviene timoroso verso di
esso, ma quando l’ha ottenuto si fa audace. Infatti, finché è proteso ad esso,
trepida di non arrivarci, ma una volta arrivato, immediatamente giudica che
quanto ha ottenuto gli fosse dovuto di pieno diritto. E quando
incomincia a godere mondanamente
del primato ottenuto, si dimentica volentieri di tutto quanto aveva meditato di
compiere con spirito religioso. Perciò è necessario che quando l’immaginazione
va oltre i limiti di ciò che è praticamente realizzabile, subito l’attenzione
della mente sia richiamata alle opere compiute in precedenza, perché ciascuno
valuti quanto è stato capace di compiere da suddito e così si renda
immediatamente conto se può, come prelato, compiere le opere buone che si è
proposto. Perché colui che stando all’ultimo posto non ha cessato di insuperbire
non è per nulla in grado di apprendere l’umiltà quando sia salito al luogo più
alto. Non sa fuggire la lode che gli viene ampiamente tributata, colui che ha
imparato a bramarla quando ne era privo. Né può vincere la cupidigia colui che
si dispone a provvedere a molti, mentre prima per sé solo non gli bastavano i
propri beni. Pertanto ciascuno scopra se stesso dall’esame della sua vita
passata perché nella sua brama di potere l’immaginazione non lo illuda. Del
resto, per lo più al posto di governo si perde perfino l’uso del bene operare
che si osservava in una vita tranquilla, giacché sul mare calmo anche un
inesperto sa guidare diritta una nave, ma se il mare è mosso da ondate
tempestose anche un marinaio esperto ci si trova in difficoltà. E che cosa è il
culmine del potere se non una tempesta per la mente? In essa la navicella del
cuore è agitata dal fluttuare dei pensieri, spinta incessantemente qua e là fino
ad infrangersi per gli improvvisi eccessi nel parlare e nell’agire, come contro
degli scogli. E così tra questi frangenti, quale via occorre seguire e quale
linea tenere se non questa: che chi è ricco di virtù venga costretto ad accedere
al governo delle anime, e chi è privo di virtù sia costretto a non accostarvisi?
Se il primo resiste in modo assoluto, veda di non dover essere giudicato come
colui che ha nascosto il denaro ricevuto dopo averlo avvolto in un fazzoletto (cf.
Lc. 19, 20). Perché avvolgere il denaro nel fazzoletto
significa nascondere i doni ricevuti, nell’ozio di una molle rilassatezza.
D’altra parte, chi brama il governo delle anime badi che attraverso l’esempio di
un agire perverso non si trovi ad essere di inciampo per coloro che vogliono
entrare nel Regno; alla maniera dei farisei, i quali — secondo la parola del
Maestro — non ci entrano loro né permettono che ci entrino gli altri (cf.
Mt. 23, 13). Costui deve poi anche considerare che,
quando il presule eletto assume la cura del popolo, è come un medico che si
accosta ad un malato. Dunque, se nel suo agire sono ancora vive le passioni, con
quale presunzione si affretta a medicare chi è stato percosso, colui che porta
la propria ferita sul volto?
10 —
Come deve essere
chi si accosta al governo delle anime
Pertanto, in tutti i
modi deve essere trascinato, a divenire esempio di vita, colui che morendo a
tutte le passioni della carne vive ormai spiritualmente; ha posposto a tutto il
successo mondano; non teme alcuna avversità; desidera solamente i beni
interiori. Pienamente conformi alla sua intima disposizione, non lo contrastano
né il corpo con la sua debolezza né lo spirito col suo orgoglio. Egli non è
condotto a desiderare i beni altrui, ma è largo dei propri. Per le sue viscere
di misericordia si piega ben presto al perdono ma non
deflette dalla più alta
rettitudine, passando sopra più di quanto conviene. Non commette nulla di
illecito, ma piange come proprio il male commesso dagli altri. Compatisce la
debolezza altrui con tutto l’affetto del cuore, gioisce dei beni del prossimo
come di successi suoi. In tutto ciò che fa si mostra imitabile agli altri, così
che con loro non gli avviene di dover arrossire nemmeno per fatti passati. Si
studia di vivere in modo tale da essere in grado di irrigare, con le acque della
dottrina, gli aridi cuori del suo prossimo. Attraverso la pratica della
preghiera, ha imparato per esperienza che può ottenere da Dio ciò che chiede,
lui cui in modo speciale è detto dalla parola profetica: Mentre ancora tu
parli, io dirò: Eccomi,
sono
qui
(Is.
58, 9).
Infatti, se venisse qualcuno a prenderci per condurci come suoi intercessori
presso un potente adirato con lui e che, per altro, non conosciamo, noi
risponderemmo subito: non possiamo venire ad intercedere perché non sappiamo
niente di lui. Dunque, se un uomo si vergogna di farsi intercessore presso un
altro uomo che non conosce, con quale animo può attribuirsi la funzione di
intercedere per il popolo presso Dio, chi non sa di godere la familiarità della
sua grazia con la sua condotta di vita? O come può chiedergli perdono per gli
altri uno che non sa se egli è placato verso di lui?
A questo proposito, un’altra cosa occorre temere con maggiore
sollecitudine, cioè che colui che si crede possa placare l’ira, non la meriti a
sua volta a causa del proprio peccato. Giacché sappiamo tutti molto bene che se
chi viene mandato a intercedere è già sgradito per se stesso, l’animo di chi è
irato viene provocato a cose peggiori. Pertanto, chi è ancora stretto dai
desideri terreni veda di non accendere più gravemente l’ira
del Giudice severo e mentre gode del suo luogo di gloria, non divenga autore di
rovina per i sudditi.
11 — Com’è colui che non deve accostarsi al
ministero
Ciascuno dunque misuri
saggiamente se stesso, perché non osi assumere la funzione di governo a sua
condanna se in lui regna ancora il vizio; e non aspiri a divenire intercessore
per le colpe degli altri colui in cui permane la depravazione del suo peccato.
Perciò viene detto a Mosé dalla voce celeste: Parla ad Aronne:
chiunque appartenente a famiglie della tua discendenza avrà un difetto,
non offrirà pani al Signore Dio suo né si accosterà per servirlo
(Lev.
21, 17). Poi prosegue
immediatamente: Se sarà cieco,
zoppo, col naso troppo piccolo o troppo grande e storto, con una
frattura a un piede o a una mano, sia gobbo o cisposo, con
albugine nell’occhio, la scabbia, l’erpete nel corpo,
l’ernia (Lev. 21, 18).
È cieco chi non conosce la luce della contemplazione celeste,
e avvolto dalle tenebre della vita presente, incapace di guardare con amore alla
luce che deve venire, non sa dove dirigere i passi del suo operare. Perciò è
detto nella profezia di Anna: Custodirà i passi dei suoi santi,
e gli empi taceranno nelle tenebre (1 Sam. 2, 9). Zoppo, invece, è colui che vede con certezza dove deve
dirigersi, ma per debolezza d’animo non sa mantenersi perfettamente sulla via
della vita, che pure vede; e ciò perché i passi del suo operare non seguono
efficacemente gli sforzi del suo desiderio, là dove esso mira, cioè a una
condizione virtuosa a cui non sa innalzarsi la sua molle consuetudine di vita.
Perciò infatti Paolo dice:
Rinfrancate le mani cadenti e le ginocchia infiacchite e raddrizzate le vie per
i vostri passi, perché qualcuno zoppicando non erri ma piuttosto sia
guarito (cf. Ebr. 12, 12-13).
Ha il naso piccolo colui che non è adatto a osservare la misura della
discrezione. In effetti, col naso distinguiamo odori gradevoli e sgradevoli,
dunque è giusto rappresentare col naso la discrezione con la quale scegliamo le
virtù e riproviamo i peccati. È perciò che si dice, in lode della sposa: Il
tuo naso è come torre sul Libano (Cant.
7, 4), poiché è evidentemente
con la discrezione che la Santa Chiesa scorge quali tentazioni procedono da
singole cause e, come chi osserva dall’alto, riconosce le guerre dei vizi che
stanno per sopravvenire. Ma ci sono alcuni che per non essere stimati troppo
poco intelligenti si impegnano spesso più del necessario in certe analisi
ricercate in cui poi falliscono per l’eccessiva sottigliezza. Perciò è detto
anche: o col naso grande e storto.
Questo infatti rappresenta la sottigliezza eccessiva del
discernimento che, per essere cresciuto oltre il conveniente, confonde da se stesso il retto
procedere della sua attività. Ha il piede o la mano fratturata colui che non sa
percorrere in alcun modo la via di Dio ed è completamente escluso dalle buone
opere, perché non ne partecipa neppure imperfettamente come lo zoppo, ma è del
tutto estraneo ad esse. Gobbo, poi, è colui cui il peso delle sollecitudini
terrene fa abbassare il capo affinché non si volga mai a guardare verso l’alto,
ma sia attento solamente a ciò che viene calpestato nei luoghi più bassi. E se
qualche volta gli avviene di sentire parlare dei beni della patria celeste,
gravato com’è dal peso di una consuetudine perversa, non volge ad essi gli occhi
del cuore, poiché colui che è tenuto curvo
a terra dalla consuetudine delle cure terrene, non è capace di drizzare
verso l’alto la sua meditazione. È di costoro che il salmista dice: Sono
incurvato e umiliato in ogni tempo (Sal. 37, 7). Anche la Verità in persona rimprovera la loro colpa, dicendo: Il seme caduto
fra le spine sono coloro che dopo avere udito la parola, se ne vanno e vengono soffocati dalle sollecitudini, dalle
ricchezze e dai piaceri della vita e non portano frutto (Lc. 8, 14).
Il cisposo è colui il
cui ingegno è lucido e acuto per la conoscenza della verità, e tuttavia le sue
azioni carnali lo oscurano. In effetti, negli occhi cisposi le pupille sono
sane, ma le palpebre, malate per la continua secrezione di umore si gonfiano, e
per la frequenza di questo deflusso si indeboliscono così che anche la acutezza
della pupilla ne resta menomata. E ci sono alcuni la cui sensibilità resta
ferita da una vita dedita ad attività carnali: la sottigliezza d’ingegno
consentirebbe loro di scorgere ciò che è retto, ma essi sono oscurati dalla
pratica di un agire depravato. Così è cisposo colui a cui la natura ha fatto
acuta la sensibilità ma il suo comportamento corrotto la confonde. Ben vien
detto loro, per mezzo dell’angelo: Ungi col collirio i tuoi occhi per vedere
(Ap. 3, 18).
Allora ungiamoci gli occhi col collirio per vedere e aiutiamo con la
medicina di un buon operare l’acutezza del nostro intelletto, per conoscere lo
splendore della vera luce. Ha l’albugine nell’occhio colui al quale
l’accecamento, prodotto dalla sua presunzione di sapienza e di giustizia, non
permette di vedere la luce della verità. Infatti, se la pupilla dell’occhio è
nera, vede, ma se porta una macchia bianca, non vede nulla. Poiché è chiaro che,
se l’uomo nella sua meditazione si riconosce stolto e peccatore, giunge
all’esperienza della chiarezza interiore. Se invece egli si attribuisce la
candida lucentezza della sapienza e della giustizia, si esclude da sé dalla
conoscenza della luce divina; e tanto meno riesce a penetrare la chiarezza della
vera luce, quanto più per la sua presunzione si esalta ai propri occhi. Come è
detto di certuni: Dicendo di essere sapienti sono divenuti stolti
(Rom.
1, 22).
È poi affetto da scabbia persistente colui che è dominato da una incessante
richiesta della carne. Infatti, nella scabbia è come se l’ardore delle viscere
affiorasse sulla pelle, e con essa giustamente si designa la lussuria poiché se
la tentazione del cuore si affretta a esprimersi negli atti, è appunto un ardore
intimo che prorompe come scabbia della pelle, e ormai esteriormente copre il
corpo di piaghe; poiché il piacere che non si sa reprimere nel pensiero, domina
poi anche nell’azione. E Paolo si preoccupava di come togliere il prurito dalla
pelle quando diceva: Non vi colga alcuna tentazione se non umana
(1
Cor. 10, 13); come a dire: è
certamente umano che il cuore sopporti una tentazione, ma è demoniaco, nella
lotta con la tentazione, lasciarsi vincere da essa mettendola in opera.
Similmente è come chi ha l’erpete nel corpo chiunque ha l’animo devastato
dall’avidità, che se non è contenuta nelle piccole cose è inevitabile che si
espanda oltre misura. L’erpete in effetti ricopre il corpo in modo indolore e,
senza alcun fastidio di colui che ne è colpito, si ingrandisce deturpando il
decoro delle membra; allo stesso modo l’avidità, mentre dà quasi l’impressione
di procurare piacere a colui che ne è preso, di fatto gli piaga l’anima e mentre
gli rappresenta al pensiero quanto può ancora giungere a possedere, lo accende
alla discordia senza provocargli però dolore alla ferita, perché promette,
all’animo che arde per essi, abbondanza di beni derivanti dalla colpa stessa. Ma
il decoro deturpato delle membra significa che la bellezza delle altre virtù è
corrotta a causa dell’avidità, e come l’erpete devasta tutto il corpo, così
l’avidità distrugge l’animo con tutti gli altri vizi, secondo l’insegnamento di
Paolo che dice: La cupidigia è radice di tutti i mali
(cf. 1 Tim. 6, 10).
E il malato di ernia è chi non pratica il vizio e tuttavia ne ha la mente
gravata dal pensiero continuo e smodato; e se di fatto non è trascinato fino
all’atto del peccato, tuttavia il suo animo gode del piacere della lussuria
senza alcuno stimolo a resistergli. Si ha, come è noto, la malattia dell’ernia
quando l’umore viscerale scende nelle parti virili che si gonfiano in modo certo
molesto e indecoroso. Pertanto, con malato d’ernia, si intende colui che
trascorrendo alla lascivia con ogni suo pensiero, porta nel cuore un peso
vergognoso, e quantunque non esprima nell’atto questa depravazione, non riesce
però a strapparsene con la mente; e non
è capace di innalzarsi decisamente alla pratica delle buone opere
perché è gravato di nascosto da questo peso turpe. Perciò, a chiunque sia
gravato di qualcuno di questi vizi è proibito offrire pani al Signore, perché
non possa in alcun modo sciogliere i peccati degli altri lui che è ancora preda
dei propri. Dunque, poiché abbiamo indicato in breve in qual modo uno può
accostarsi degnamente al magistero pastorale, e come lo debba temere chi ne è
indegno, ora intendiamo mostrare in che modo, colui che vi sia pervenuto in modo
degno, debba vivere in esso.
LA
VITA DEL PASTORE
1 — Come si deve
mostrare nell’esercizio del governo delle anime colui che vi sia giunto
legittimamente
Il comportamento del
presule deve essere di tanto superiore a quello del popolo, quanto la vita del
pastore differisce, ordinariamente, da quella del gregge. Infatti è opportuno
che egli si dia cura di misurare con sollecitudine quale necessità lo costringa
ad una rigorosa rettitudine, perché è per lui che il popolo è chiamato gregge.
Bisogna allora che egli sia puro nel pensiero, esemplare nell’agire, discreto
nel suo silenzio, utile con la sua parola; sia vicino a ciascuno con la sua
compassione e sia,
più di tutti, dedito alla contemplazione; sia umile
alleato di chi fa il bene, ma per il suo zelo della giustizia sia inflessibile
contro i vizi dei peccatori; non attenui la cura della vita interiore nelle
occupazioni esterne, né tralasci di provvedere alle necessità esteriori per la
sollecitudine del bene interiore. Ma ora vogliamo riprendere in una trattazione
più estesa queste qualità che abbiamo ristrette brevemente nell’enunciazione.
2 — La guida delle
anime sia pura nel pensiero
La guida delle anime
sia sempre pura nel suo pensiero, affinché nessuna immondezza contamini colui
che ha assunto questo ufficio ed egli sia in grado di lavare anche i cuori
altrui dalle macchie dell’impurità; perché bisogna che abbia cura di essere
pulita la mano che si adopera a pulire ciò che è sudicio, e non renda ancora più
sporco ciò che va toccando mentre è ancora infangata. Perciò è detto per mezzo
del profeta: Purificatevi voi, che portate i vasi del Signore (Is. 52, 12).
Infatti portano i vasi del Signore coloro che si assumono di condurre
le anime ai santuari eterni, con la fedeltà della propria condotta di vita.
Dunque, vedano in se stessi quanto debbano essere purificati, quelli che dentro
la promessa che hanno fatto di sé portano vasi viventi al tempio eterno. Perciò
viene prescritto dalla parola divina che sul petto di Aronne aderisca, legato
con nastri, il razionale del giudizio (cf.
Es. 28, 15), affinché il cuore
del sacerdote non sia posseduto da pensieri oscillanti ma sia tenuto stretto
solo dalla sapienza dello spirito: e non pensi a nulla di incerto o di inutile
colui che, stabilito come esempio per gli altri, deve sempre mostrare, con
l’austerità della vita, quanta sapienza abbia nel cuore. E si ha cura di
aggiungere che in questo razionale si scrivano i nomi dei dodici patriarchi;
infatti, portare di continuo i padri scritti sul petto significa meditare senza
interruzione la vita degli antichi, e il sacerdote procede in modo
irreprensibile quando fissa il suo sguardo senza posa sugli esempi dei padri che
l’hanno preceduto, considera incessantemente le orme dei santi e reprime
pensieri illeciti per non oltrepassare il limite di un agire ordinato. Ed è
anche appropriato il nome di razionale del giudizio, poiché il sacerdote deve
sempre discernere con esame sottile e retto il bene e il male e studiare
attentamente come si accordino gli oggetti e i mezzi, il tempo e il modo; e non
cercare mai nulla per sé ma considerare vantaggio proprio il bene altrui. Perciò
là è scritto: Porrai sul razionale del giudizio la dottrina e la verità, che staranno sul petto di Aronne quando entrerà davanti al Signore,
e porterà il giudizio dei figli di Israele sul suo petto, davanti al
Signore, sempre (Es.
28, 30). Per il sacerdote,
portare il giudizio dei figli di Israele sul petto davanti al Signore, significa
trattare le cause dei sudditi avendo di mira solo la volontà del Giudice
interiore, perché ad essa nulla si mescoli di umano in ciò che egli dispensa
come rappresentante di Dio né alcun risentimento personale inasprisca l’ardore
della correzione. E quando si mostra pieno di zelo contro i vizi altrui,
persegua innanzitutto i propri perché una invidia nascosta non contamini la
pacatezza del giudizio, o non la turbi un’ira precipitosa. Ma considerando il
sacro terrore che si deve a colui che sta sopra a tutto, cioè l’intimo Giudice,
non si devono governare i sudditi senza grande timore: quel timore che mentre
umilia l’animo di chi governa lo purifica, perché la presunzione spirituale non
lo esalti né lo contamini il piacere carnale o non lo oscurino sconvenienti
pensieri terrestri, frutto della cupidigia di cose mondane. Tutte queste
tentazioni non possono non assalire l’anima di chi governa, ma è necessario
affrettarsi a lottare contro di esse per
vincerle affinché, per il
fatto che
l’anima tarda a respingerle, il vizio che la tenta con la suggestione non la sottometta con la mollezza del
piacere e
non la uccida con la spada del
consenso.
3 —
La guida delle anime sia sempre esemplare nel suo
agire
La guida delle anime sia esemplare nel suo agire per
potere annunciare ai sudditi, col suo modo di vivere, la via della vita; e il
gregge che va dietro alla voce e ai costumi del Pastore, proceda più con l’aiuto
dei suoi esempi che delle sue parole. Infatti, chi per dovere indeclinabile del
suo ministero è tenuto a dire cose elevate, dal medesimo dovere è costretto a
mostrare cose elevate nei fatti; giacché il cuore degli ascoltatori è più
facilmente penetrato dalle parole che trovano conferma nella vita di chi parla,
il quale con l’esempio aiuta ad eseguire ciò che comanda a parole. Perciò è
detto per mezzo del profeta:
Sali su un monte eccelso, tu che
evangelizzi Sion (Is. 40, 9). Cioè, chi pratica la divina predicazione deve
mostrare che, abbandonando le più basse attività terrestri, sta saldo al di
sopra delle cose; e tanto più facilmente può attirare i sudditi verso il meglio,
quanto è con il merito della sua vita che egli grida le verità celesti. Per
questo, per la legge divina, nel sacrificio il sacerdote riceve la spalla destra
separata dal resto
(cf. Es. 29,
22), perché la sua condotta non sia solo utile ma anche
esemplare, il suo agire sia retto non solo tra i cattivi ma egli superi per le
virtù della sua vita anche i sudditi che operano il bene come è superiore a
loro, per la dignità dell’Ordine. A lui, poi, viene assegnata, come cibo, oltre alla spalla, anche la parte tenera
del petto, perché quanto gli è prescritto di prendere dal sacrificio impari ad
immolarlo in se stesso al Creatore. Ed egli non deve solamente meditare retti
pensieri nel suo petto, ma invitare quanti lo osservano ad azioni elevate,
indicate dalle spalle: non aspiri alla prosperità della vita presente, non tema
le avversità, disprezzi le lusinghe del mondo come per un intimo senso di
terrore, ma poi, ai terrori che esse suscitano, non badi, volgendosi al conforto
della dolcezza interiore. E per questo la parola divina ordina pure che le
spalle del sacerdote siano avvolte dal velo omerale (cf.
Es. 29, 5), perché egli sia sempre difeso
dall’ornamento delle virtù contro l’avversità e contro la prosperità affinché,
secondo la parola di Paolo, avanzando con le armi della giustizia a destra e a
sinistra (cf. 2
Cor. 6, 7) e indirizzando ogni sforzo solo verso i beni interiori,
non pieghi né da un lato né dall’altro verso alcun basso piacere.
Non lo esalti la prosperità, non l’abbatta
l’avversità, nessuna lusinga lo alletti fino a fargli ricercare il piacere;
l’asprezza delle difficoltà non lo spinga alla dispersione, e così, senza che
alcuna passione trascini verso il basso la tensione del suo spirito, egli possa
mostrare di quanta bellezza il velo omerale ricopra le sue spalle. Ed è anche
giustamente prescritto che il velo omerale sia d’oro, di violaceo, di porpora,
di scarlatto tinto due volte e di bisso ritorto (cf. Es. 28,
8), per dimostrare di quante
virtù debba risplendere il sacerdote. Ora, nell’abito del sacerdote, soprattutto
rifulge l’oro poiché in lui deve brillare principalmente una intelligenza
sapiente. Ad
esso si aggiunge il violaceo che risplende di riflessi d’oro, affinché attraverso ogni
conoscenza a cui perviene, egli non ricerchi basse soddisfazioni, ma si innalzi
all’amore delle cose celesti; e non avvenga che mentre si lascia prendere
incautamente dalle lodi che gli vengono rivolte, resti privo proprio
dell’intelligenza della verità. All’oro e al violaceo si mescola pure la
porpora, per indicare cioè che il cuore sacerdotale, mentre spera le cose somme
che predica, deve reprimere anche in se stesso le suggestioni dei vizi e
contraddire ad essi come in virtù di un potere regale, poiché egli deve avere
sempre di mira la nobiltà di una continua intima rigenerazione e difendere, coi
suoi costumi, l’abito del regno celeste.
Di questa nobiltà dello spirito, per mezzo di Pietro è detto: Ma voi
siete stirpe eletta, sacerdozio
regale (1 Pt. 2, 9). E anche riguardo a
questo potere di sottomettere i vizi, siamo confortati dalla parola di Giovanni
che dice: Ma a quanti lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di
Dio
(Gv. 1, 12). Ed è considerando la
dignità di questa potenza che il salmista dice: Per me sono stati molto
onorati i tuoi amici, o Dio,
quanto è stato rafforzato il loro principato (Sal.
138, 17).
Poiché è certo che
l’animo dei santi si leva verso le più grandi altezze principalmente quando,
all’esterno, essi sono visibilmente sottoposti all’abiezione. Inoltre, all’oro,
al violaceo e alla porpora si aggiunge lo scarlatto tinto due volte, a
significare che agli occhi del Giudice interiore ogni bene di virtù deve
adornarsi della carità, e tutto quanto risplende davanti agli uomini, alla
presenza del Giudice occulto deve essere acceso dalla fiamma dell’amore intimo.
Ed è evidente che la carità, in quanto ama Dio e il prossimo, rifulge quasi di
una doppia tintura. Pertanto, colui che anela alla bellezza del Creatore, ma
trascura di occuparsi del prossimo, oppure si occupa del prossimo ma è torpido
nell’amore di Dio, per avere trascurato uno di questi due precetti, non sa
portare lo scarlatto tinto due volte, sul velo omerale. Resta ancora però, senza
dubbio, che quando lo spirito è teso verso i comandamenti della carità, la carne
deve macerarsi nell’astinenza. Perciò si aggiunge allo scarlatto il bisso
ritorto. Infatti il bisso nasce dalla terra con un aspetto splendente, e che
cosa può essere designata dal bisso se non la castità luminosa per la dignità di
un corpo puro? Ed essa si intreccia, ritorta, alla bellezza del velo omerale
perché la castità è portata al candore perfetto della purezza quando la carne
si affatica nell’astinenza. E quando, tra le altre virtù progredisce anche il
merito di una carne
umiliata, è come bisso ritorto che risplende nella varia bellezza del velo
omerale.
4 — La guida delle
anime sia discreta nel suo silenzio,
utile con la sua parola
La guida delle anime
sia discreta nel suo silenzio e utile con la sua parola affinché non dica ciò
che bisogna tacere e non taccia ciò che occorre dire. Giacché come un parlare
incauto trascina nell’errore, così un silenzio senza discrezione lascia
nell’errore coloro che avrebbero potuto essere ammaestrati. Infatti, spesso,
guide d’anime improvvide e paurose di perdere il favore degli uomini hanno gran
timore di dire liberamente la verità; e, secondo la parola della Verità, non
servono più alla custodia del gregge con lo zelo dei pastori ma fanno la parte dei
mercenari (cf. Gv. 10, 13),
poiché, quando si nascondono dietro il silenzio, è come se fuggissero all’arrivo
del lupo. Per questo infatti, per mezzo del profeta, il Signore li rimprovera
dicendo: Cani muti che non sanno abbaiare (Is. 56, 10).
Per questo ancora, si lamenta dicendo: Non siete saliti contro, non avete opposto un muro in difesa della casa d’Israele,
per stare saldi in combattimento nel giorno del Signore (Ez. 13, 5).
Salire contro è contrastare i poteri di questo mondo con libera
parola in difesa del gregge; e stare saldi in combattimento nel giorno del
Signore è resistere per amore della giustizia agli attacchi dei malvagi.
Infatti, che cos’è di diverso, per
un Pastore, l’avere temuto di dire la verità dall’avere offerto le spalle
col proprio silenzio? Ma chi si espone in difesa del gregge, oppone ai nemici un
muro in difesa della casa di Israele. Perciò di nuovo viene detto al popolo che
pecca: I tuoi profeti videro per te cose false e stolte e non ti
manifestavano la tua iniquità per spingerti alla penitenza (Lam.
2, 14).
È noto che nella lingua sacra spesso vengono chiamati profeti i maestri
che, mentre mostrano che le cose presenti passano, insieme rivelano quelle che
stanno per venire. Ora, la parola divina rimprovera costoro di vedere cose
false, perché mentre temono di scagliarsi contro le colpe, invano blandiscono i
peccatori con promesse di sicurezza: essi non svelano le iniquità dei peccatori
perché si astengono col silenzio dalle parole
di rimprovero. In effetti le parole di correzione sono la chiave che apre,
poiché col rimprovero lavano la colpa che, non di rado, la persona stessa che
l’ha compiuta ignora.
Perciò Paolo dice: (Il
vescovo) sia in grado di esortare nella sana dottrina e di confutare i
contraddittori (Tit. 1, 9).
Perciò viene detto per mezzo di Malachia: Le labbra del sacerdote
custodiscano la scienza e cerchino la legge dalla sua bocca,
perché è angelo del Signore degli eserciti (Mal. 2, 7).
Perciò per mezzo di
Isaia il Signore ammonisce dicendo: Grida,
non cessare, leva la tua voce come una tromba (Is. 58, 1).
E invero chiunque si accosta al sacerdozio assume l’ufficio del
banditore perché, prima dell’avvento del Giudice che lo segue con terribile
aspetto, egli lo preceda col suo grido. Se dunque il sacerdote non sa predicare,
quale sarà il grido di un banditore muto? Ed è perciò che lo Spirito Santo, la
prima volta, si posò sui Pastori in forma di lingue
(Atti, 2, 3), poiché rende subito capaci di parlare di Lui, coloro che ha
riempiti. Perciò viene ordinato a Mosé che il sommo sacerdote entrando nel
tabernacolo si accosti con tintinnio di campanelli, abbia cioè le parole della
predicazione, per non andare con un colpevole silenzio incontro al giudizio di
colui che lo osserva dall’alto. È scritto infatti: Perché si oda il suono
quando entra e quando esce dal santuario in cospetto del Signore,
e non muoia (Es. 28, 35).
Così il sacerdote, che entra o che esce, muore se da lui non
si ode suono, poiché attira su di sé l’ira del Giudice occulto se cammina senza
il suono della predicazione. Inoltre, quei campanelli sono descritti come
opportunamente inseriti nelle sue vesti, perché le vesti del sacerdote non
dobbiamo intenderle altrimenti che come le sue buone opere, per testimonianza
del profeta che dice: I tuoi sacerdoti si rivestano di giustizia
(Sal.
131, 9). Pertanto, i campanelli
sono inseriti nelle sue vesti, perché insieme al suono della parola, anche le
opere stesse del sacerdote proclamino la via della vita. Ma quando la guida
delle anime si prepara a parlare, ponga ogni attenzione e ogni studio a farlo
con grande precauzione, perché se si lascia trascinare a un parlare non
meditato, i cuori degli ascoltatori non restino colpiti dalla ferita
dell’errore; e mentre forse egli desidera di mostrarsi sapiente non spezzi
stoltamente la compagine dell’unità. Perciò infatti la Verità dice: Abbiate
sale in voi e abbiate pace tra voi (Mc. 9, 49). Col
sale è indicata la sapienza del Verbo. Pertanto chi si sforza di parlare
sapientemente, tema molto che il suo discorso non confonda l’unità degli
ascoltatori. Perciò Paolo dice: Non sapienti più di quanto è opportuno,
ma sapienti nei limiti della sobrietà (Rom.
12, 3). Perciò nella veste del
sacerdote, secondo la parola divina, ai campanelli si uniscono le melagrane
(Es.
28, 34).
E che cosa viene designato con le melagrane se non l’unità della fede? Infatti,
come nelle melagrane i molti grani dell’interno sono protetti da un’unica buccia
esterna, così l’unità della fede protegge tutti insieme gli innumerevoli popoli
che costituiscono la Santa Chiesa e che si distinguono all’interno per la
diversità dei meriti. Così, affinché la guida delle anime non si butti a parlare
da incauto, come già si è detto, la Verità stessa grida ai suoi discepoli:
Abbiate sale in voi e abbiate pace tra voi,
come se attraverso la figura della veste del sacerdote dicesse:
Aggiungete melagrane ai campanelli affinché, in tutto ciò che dite abbiate a
conservare con attenta considerazione l’unità della fede. Inoltre, le guide
delle anime debbono provvedere con sollecita cura, non solo a non fare
assolutamente discorsi perversi e falsi, ma a non dire neppure la verità in modo
prolisso e disordinato, perché spesso il valore delle cose dette si perde quando
viene svigorito, nel cuore di chi ascolta, da una loquacità inconsiderata e
inopportuna. Questa medesima loquacità, poi, che è certamente incapace di
servire utilmente gli ascoltatori, contamina anche colui che la esercita. Per
cui è ben detto per mezzo di Mosé: L’uomo che soffre di flusso di seme,
sarà immondo (Lev.
15, 2). Di fatto, la qualità
del discorso udito è seme di quel pensiero che gli terrà dietro nella mente
degli ascoltatori, poiché la parola, ricevuta attraverso l’orecchio, nella mente
genera il pensiero. È per questo che, dai sapienti di questo mondo, il bravo
predicatore è chiamato seminatore di parole
(cf.
Atti, 17, 18).
Dunque, chi patisce flusso di seme è dichiarato impuro, perché chi è soggetto a
una eccessiva loquacità si macchia con quel seme da cui — se l’avesse effuso in
modo ordinato — avrebbe potuto generare nei cuori degli ascoltatori la prole del
retto pensiero; ma se lo sparge con una loquacità inconsiderata, è come chi
emette il seme, non al fine di generare ma per l’impurità. Perciò anche Paolo,
quando esorta il discepolo ad insistere nella predicazione dicendo: Ti
scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù che giudicherà i vivi e i morti, per il suo avvento e il suo regno, predica la parola,
insisti opportunamente, importunamente (2
Tim. 4, 1-2);
prima di dire importunamente premise opportunamente,
perché è chiaro che nella considerazione di chi ascolta,
l’importunità appare in tutta la sua qualità spregevole se non sa esprimersi in
modo opportuno.
5 — La guida delle anime
sia vicino
a ciascuno
con la compassione e sia
più di tutti
dedito alla contemplazione
La guida delle anime
sia vicino a ciascuno con la compassione e sia più di tutti dedito alla
contemplazione, per assumere in sé, con le sue viscere di misericordia, la
debolezza degli altri, e insieme, per andare oltre se stesso nell’aspirazione
delle realtà invisibili, con l’altezza della contemplazione. E così, se guarda
con desiderio verso l’alto non disprezzi le debolezze del prossimo o se
viceversa, si accosta ad esse, non trascuri di aspirare all’alto. Perciò infatti
Paolo è condotto in Paradiso e vi scruta i segreti del terzo cielo (cf. 2 Cor. 12, 2 ss.),
e tuttavia, pur assorto in quella contemplazione delle cose invisibili, richiama
l’acutezza della sua mente al letto dell’unione carnale e definisce come questa
debba essere vissuta nella sua intimità, dicendo:
A causa della fornicazione,
ciascun uomo abbia la propria moglie e ciascuna donna abbia il proprio marito.
Il marito dia alla moglie quanto le deve; e similmente, la moglie
al marito (1 Cor. 7, 2).
E poco dopo: Non privatevi l’uno dell’altro se non temporaneamente e
d’accordo, per attendere alla
preghiera, e di nuovo ritornate insieme perché Satana non vi tenti (1 Cor. 7, 5).
Ecco, egli viene già introdotto ai segreti celesti e
tuttavia per la sua accondiscendente misericordia investiga il letto dell’unione
carnale, e quello sguardo del cuore che egli, già innalzato, rivolge alle cose
invisibili lo piega pieno di compassione verso i segreti di creature inferme.
Oltrepassa il cielo con la contemplazione e tuttavia non tralascia, nella sua
sollecitudine, di occuparsi del giaciglio dell’unione carnale; poiché, congiunto
strettamente alle realtà più alte e insieme alle infime dall’intimo abbraccio
della carità, egli è rapito potentemente verso l’alto per virtù del suo spirito,
ma per la sua misericordia, nella mitezza del suo animo, si fa debole negli
altri. Perciò infatti dice: Chi è debole e io non sono debole? Chi patisce
scandalo e io non brucio? (2 Cor. 11, 29). E perciò ancora dice:
Con i Giudei sono divenuto come Giudeo
(1 Cor. 9, 20). Evidentemente mostrava
ciò non con la perdita della fede, bensì con l’estendere la sua misericordia,
così che trasferendo in sé la persona degli infedeli potesse imparare da se
stesso come avrebbe dovuto avere compassione degli altri e fare a loro il bene
che — nella medesima condizione — avrebbe rettamente voluto fosse fatto a lui. E
di nuovo perciò dice: Se usciamo di mente è per Dio;
se siamo sobri è per voi (2 Cor. 5, 13), poiché nella
contemplazione egli sapeva salire oltre se stesso, ma sapeva ugualmente moderare
se stesso per condiscendenza verso i suoi ascoltatori. Per questo Giacobbe,
quando il Signore risplendeva su di lui in alto ed egli in basso unse la pietra,
vide angeli che salivano e scendevano (cf. Gen. 28, 12):
a significare, cioè, che i veri predicatori non solo anelano verso l’alto con la
contemplazione, al Capo santo della Chiesa, cioè al Signore, ma nella loro
misericordia scendono pure in basso, alle sue membra. Ugualmente
Mosé entra ed esce tanto frequentemente dal Tabernacolo: dentro, è rapito dalla
contemplazione; fuori, è pressato dalle necessità di creature inferme. Dentro,
medita i misteri di Dio; fuori, porta i pesi delle realtà carnali. Ma pure,
quando si tratta di casi dubbi egli ricorre sempre al Tabernacolo e davanti
all’arca del testamento consulta il Signore: certo per offrire un esempio alle
guide delle anime perché, quando nelle decisioni di carattere esterno si trovano
nell’incertezza, ritornino sempre al proprio cuore come . al Tabernacolo; sarà
come se fossero davanti all’arca del testamento a consultare il Signore, se
riguardo a ciò per cui dentro di sé sono in dubbio, ricercheranno nel loro
intimo le pagine della parola sacra. Perciò la Verità stessa che ci si è
mostrata nell’assunzione della nostra umanità, sul monte si immerge nella
preghiera, ma nelle città opera i miracoli (cf.
Lc. 6, 12):
evidentemente per appianare la via dell’imitazione alle buone guide delle anime,
perché se anche sono già protese alle somme altezze della contemplazione,
sappiano tuttavia mescolarsi compatendo alle necessità di creature inferme.
Poiché la carità si eleva a meravigliosa altezza quando si trascina con
misericordia fino alle bassezze del prossimo; e con quanto maggior benevolenza
si piega verso le infermità tanto più potentemente risale verso l’alto. Coloro
che presiedono si mostrino tali che quanti sono loro soggetti non arrossiscano
di affidar loro i propri segreti, affinché, quando si sentono come bambini nella
lotta contro i flutti delle passioni, ricorrano al cuore del Pastore come al
seno di una madre; e col sollievo della sua esortazione e le lacrime della sua
preghiera lavino le impurità della colpa che preme e minaccia di contaminarli.
Per questo davanti alla porta del tempio c’è il mare di bronzo, cioè il bacino
per la purificazione delle mani di chi entra, ed è sostenuto da dodici buoi i
quali sporgono con la parte anteriore mentre la posteriore resta nascosta (cf. 1 Re 7, 23-25).
Che cosa significano i dodici buoi se non tutto l’ordine dei Pastori, dei quali,
secondo il commento che ne fa Paolo, la Scrittura dice: Non mettere la
museruola al bue che trebbia (1
Cor. 9, 9)?
Di essi non vediamo le opere compiute apertamente, ma ignoriamo ciò che
li attende nella segreta retribuzione del severo Giudice. Tuttavia quando essi
con la loro paziente accondiscendenza dispongono il prossimo alla confessione
purificatrice è come se portassero su di sé il bacino davanti alle porte del
tempio, affinché chiunque si sforza di entrare per la porta dell’eternità,
manifesti al cuore del Pastore le sue tentazioni e — per così dire — lavi il suo
pensiero e le sue azioni nel bacino dei buoi. Accade pure spesso che il Pastore
nell’ascoltare benevolmente le tentazioni altrui ne diviene vittima egli stesso
come senza dubbio resta inquinata quella medesima acqua del bacino, nella quale
si purifica la moltitudine del popolo. Infatti mentre riceve l’impurità di
coloro che si lavano, l’acqua viene come a perdere la sua limpida purezza, ma
non si deve temere che avvenga lo stesso del Pastore, poiché Dio che pensa a
tutto con cura minuziosa lo strappa alla sua tentazione tanto più facilmente
quanto maggiore è la misericordia con cui egli si carica della tentazione
altrui.
6 — La guida delle
anime sia umile alleato di chi fa il bene;
e per il suo zelo della giustizia sia inflessibile contro i vizi dei peccatori
La guida delle anime
sia umile alleato di chi fa il bene e per il suo zelo della giustizia sia
inflessibile contro i vizi dei peccatori; così non si anteponga in nulla ai
buoni, e quando la colpa dei malvagi lo esige, non esiti a riconoscere il potere
del suo primato. In tal modo, lasciando da parte la dignità che riveste, si
consideri uguale ai sudditi che vivono operando il bene, e verso i malvagi non
tema di affermare i diritti della verità e della giustizia. Infatti, come
ricordo di avere scritto nei libri morali (Moralia,
lib. 21, cap. 10),
è certo che gli uomini sono tutti uguali per natura ma, variando l’ordine dei
meriti, la colpa pospone gli uni agli altri. Però, anche la diversità che
procede dal peccato è regolata dalla disposizione divina affinché, siccome non
ogni uomo è in grado di mantenersi in questa condizione di eguaglianza, ci siano
alcuni uomini governati da altri. Perciò tutti coloro che presiedono, in se
stessi non debbono considerare il potere del proprio grado ma l’eguaglianza
secondo natura; non godano dunque di governare sugli uomini ma di giovare loro.
I nostri antichi padri, del resto, furono pastori di pecore, non re di uomini; e
quando il Signore disse a Noè e ai suoi figli: Crescete e moltiplicatevi e
riempite la terra, subito aggiunse: E terrore di voi e tremore sia su tutti gli animali della terra
(Gen.
9, 1).
Evidentemente, se viene prescritto che debba esserci questo terrore e tremore
sugli animali della terra, viene senz’altro proibito che esso possa esercitarsi
sugli uomini. L’uomo è stato preposto per natura agli animali bruti, non agli
altri uomini; e perciò gli viene detto che gli animali e non gli uomini lo
devono temere; quindi voler essere temuto da un eguale corrisponde ad una
esaltazione contro natura. E tuttavia è necessario che le guide delle anime
incutano timore ai sudditi quando esse si accorgono che quelli non hanno alcun
timore di Dio, affinché coloro che non hanno paura dei giudizi divini temano di
peccare almeno per una paura umana. Infatti, coloro che sono preposti ad altri
non insuperbiscono nella ricerca di questo timore, poiché con essa non cercano
la propria gloria ma la giustizia dei sudditi: nell’esigere timore per sé da
coloro che conducono una vita malvagia è come se governassero animali e non
uomini, perché è per quella parte di loro con cui si comportano da bestie che i
sudditi debbono giacere persino prostrati dalla paura. Ma spesso chi guida delle
anime, per il fatto stesso di essere preposto ad altri si gonfia
nell’esaltazione del suo pensiero: tutto è a sua disposizione, i suoi ordini
vengono prontamente eseguiti secondo il suo desiderio, tutti i sudditi sono
pronti a lodarlo ampiamente se fa qualcosa di buono e sono privi di autorità per
contraddirlo per quello che fa di male, anzi, per lo più sono disposti a lodarlo
anche quando dovrebbero disapprovarlo; allora il suo animo si innalza al di
sopra di sé sedotto da
tutto ciò che gli viene elargito dal basso. Così, circondato all’esterno da
grandissimo favore, si svuota interiormente della verità e dimentico della sua
realtà profonda si disperde compiacendosi dell’apprezzamento altrui e si crede
tale quale è la sua fama al di fuori, non quale dovrebbe riconoscersi nel
proprio intimo. Disprezza i sudditi, non li riconosce uguali a sé secondo
l’ordine naturale e si immagina di avere superato, anche per i meriti della
propria vita, coloro che gli stanno sottoposti a motivo di un potere datogli in
sorte. Si giudica più sapiente di tutti coloro dei quali si vede più potente.
Nella stima che ha di se stesso si è come stabilito su una cima e sdegna di
guardare agli altri come a uguali, lui che pure è legato a loro dalla condizione
di una, uguale natura. E così diviene simile a colui di cui è scritto: Vede
ogni sublime altezza ed egli stesso è re sopra tutti i figli della superbia
(Giob. 41, 25), a colui cioè che
aspirando a un luogo più elevato e disprezzando la comune vita degli angeli
dice: Porrò la mia dimora presso l’Aquilone e sarò simile all’Altissimo (cf.
Is. 14, 13-14). Pertanto egli scoprì dentro di sé, per
mirabile giudizio divino, un abisso di abiezione poiché al di fuori si era
innalzato al culmine del potere. E così diviene simile all’angelo apostata
l’uomo che sdegna di essere simile agli altri uomini. Similmente Saul, dopo
avere ben meritato per la sua umiltà, si gonfiò di superbia per l’altezza del
suo potere; per l’umiltà fu scelto ma fu riprovato per la superbia, secondo la
testimonianza del Signore che dice: Non ti costituii forse capo tra le tribù
di Israele quando eri piccolo ai tuoi occhi?
(1
Sam. 15, 17). Prima si era visto
piccolo coi suoi occhi ma poi, sostenuto dalla sua potenza mondana, non si
vedeva più piccolo. Infatti, preferendo se stesso a paragone degli altri poiché
aveva un potere superiore a tutti, si stimava più
grande di tutti. Ma come — mirabilmente — per essere piccolo davanti a se stesso
fu grande davanti a Dio, quando appari grande davanti a se stesso divenne
piccolo davanti a Dio. Dunque accade spesso che l’animo si gonfia perché è
grande il numero di coloro che gli sono
soggetti e, adulato dalla sola altezza della sua potenza, esso si
corrompe effondendosi nella superbia. Ma questa potenza, evidentemente, la regge
bene chi sa tenerla in pugno e insieme combatterla; la regge bene chi sa, con
essa, erigersi sopra le colpe, e con essa sa essere uguale agli altri. Infatti
la mente umana spesso si esalta anche quando non si sostiene su alcun potere;
quanto più si leverà in alto se le si aggiunge anche il potere. Però il potere
può essere ben esercitato da chi sa trarre da esso ciò che giova e sa vincere le
tentazioni che esso ispira e, pur possedendolo, sa vedersi uguale agli altri e
insieme sa anteporsi ai peccatori per lo zelo della punizione. E se consideriamo
l’esempio del primo Pastore, possiamo riconoscere più pienamente in che cosa
consiste questa discrezione. Infatti Pietro che pure teneva il primato nella
Santa Chiesa, per volontà di Dio, ricusò di accogliere i segni di una
venerazione fuor di misura da Cornelio, uomo buono che faceva il bene, il quale
gli si era umilmente prostrato; ma riconoscendosi invece simile a lui gli disse:
Alzati, non farlo,
sono un uomo anch’io
(Atti,
10, 26).
Quando però scopri la colpa di Anania e di Saffira (cf.
Atti, 5, 5), mostrò subito per quale potenza egli fosse divenuto preminente
sugli altri. Infatti con una sola parola colpi la loro vita che egli aveva
conosciuto col discernimento spirituale e si ricordò di essere la somma autorità
nella Chiesa contro i peccati; cosa che non volle riconoscere di fronte a
fratelli buoni e attivi nel bene, per un onore che gli veniva tributato con
trasporto. E in questo caso, la santità delle opere meritò di essere accolta in
una comunione tra uguali; nell’altro, lo zelo della punizione provocò
l’esercizio del potere. Paolo non si considerava preposto ai fratelli attivi nel
bene quando diceva: Non facciamo da padroni della vostra fede,
ma siamo cooperatori della vostra gioia (2 Cor.
1, 23).
E aggiunge subito: infatti voi state saldi nella fede
(ibid.), come per spiegare
quello che aveva premesso dicendo: Perciò, non facciamo da padroni sulla vostra
fede, perché voi state saldi nella fede; infatti noi siamo uguali a voi in ciò
in cui riconosciamo che restate fermi. Ed era come non considerarsi preposto ai
fratelli quando diceva: Siamo divenuti un bambino piccolo in mezzo a voi
(1 Tess. 2, 7); e ancora: E noi
vostri servi per Cristo
(2
Cor. 4, 5).
Ma quando scopri la
colpa che avrebbe dovuto essere corretta, subito si ricordò di essere maestro,
dicendo: Che cosa volete? Devo venire da voi con la verga?
(1
Cor. 4, 21).
Colui che presiede
regge bene il sommo potere quando domina sui vizi piuttosto che sui fratelli; ma
quando i superiori correggono i sudditi peccatori è necessario che in virtù del
loro potere attendano con sollecitudine a punire le colpe, per il dovere cui
sono tenuti di conservare la disciplina. Tuttavia, per conservare l’umiltà, si
riconoscano nello stesso tempo uguali a quegli stessi fratelli che vengono
corretti da loro, anzi sarebbe spesso cosa degna che nella nostra tacita
considerazione anteponessimo a noi stessi le medesime persone che correggiamo.
Infatti i loro vizi vengono puniti per mezzo nostro col rigore della disciplina,
mentre in ciò che noi stessi commettiamo di male non siamo scalfiti neppure da
una parola di rimprovero da parte di alcuno. Siamo dunque tanto più obbligati
presso il Signore quanto più impunemente pecchiamo presso gli uomini. D’altra
parte, la nostra correzione fa tanto più liberi i sudditi davanti al giudizio
divino in quanto Egli non lascia impunite qui le loro colpe. Così bisogna
conservare l’umiltà nel cuore e la disciplina nelle opere. Ma detto questo,
bisogna anche guardare saggiamente che le esigenze del governo non restino
vanificate da una custodia impropria dell’umiltà e se un superiore si abbassa
più del conveniente non possa più trattenere poi la vita dei sudditi sotto il
vincolo della disciplina. Dunque, le guide delle anime restino ferme a
quell’atteggiamento esteriore che assumono in vista dell’utilità degli altri e
conservino nell’intimo quella disposizione che le fa temere grandemente quanto
alla stima di sé. Tuttavia i sudditi devono poter percepire, da certi segni di
sobria spontaneità, che esse sono umili e vedere così ciò che devono temere
dalla loro autorità e conoscere ciò che devono imitare della loro umiltà.
Pertanto, i superiori, quanto maggiore appare all’esterno la loro potenza tanto più
non cessino di provvedere a deprimerla interiormente ai propri occhi, evitando
che il pensiero ne sia tutto preso, l’animo sia rapito dal compiacimento di sé e
non sia più in grado di tenere sottomessa quella potenza, alla quale si
sottomette per libidine di dominio. Infatti, affinché l’animo del superiore non
venga rapito dal compiacimento del suo potere fino all’esaltazione, un sapiente
ha giustamente detto: Ti hanno stabilito guida,
non ti esaltare ma sii tra di loro come uno di loro
(Sir.
32, 1).
Perciò anche Pietro
dice: Non come padroni delle persone a voi toccate in sorte, ma fatti a forma del gregge (1 Pt. 5, 3).
Perciò la Verità stessa invitandoci ai più alti meriti della virtù
dice: Sapete che i capi delle nazioni le dominano e i grandi esercitano il
potere su di loro. Non così sarà
tra voi, ma chiunque vorrà essere maggiore fra voi sarà vostro servo, e chi vorrà
essere primo tra voi sarà vostro schiavo, come il Figlio dell’uomo non è
venuto a essere servito ma a servire
(Mt. 20, 25).
Di qui il senso delle
parole che si riferiscono a quel servo esaltato per il potere ricevuto, ma poi
lo attenderanno i supplizi: Che se quel servo malvagio dirà in cuor suo: Il mio padrone tarda a venire; e
incomincerà a battere i suoi conservi e mangerà e berrà con gli ubriachi;
verrà il padrone di quel servo nel giorno in cui non l’aspetta e in un’ora che
non sa, e lo separerà e la sua parte sarà con gli ipocriti
(Mt.
24, 48 ss.).
Ed è giustamente considerato ipocrita colui che col pretesto della disciplina
muta il ministero del governo in esercizio di dominio. E tuttavia spesso si
pecca gravemente se nei confronti dei malvagi si custodisce più l’eguaglianza
che la disciplina. Infatti, Eli che, vinto da una falsa pietà, non volle punire
i figli peccatori, colpi se stesso insieme ai figli con una crudele condanna
presso il severo Giudice (cf.
1 Sam. 4, 17-18);
e perciò egli si sente dire dalla parola divina: Hai onorato i tuoi figli pia
di
me
(1 Sam. 2, 29).
E Dio rimprovera i Pastori per mezzo dei profeti dicendo: Non avete fasciato
ciò che si era fratturato, non
avete ricondotto ciò che era rigettato
(Ez. 34, 4).
Si riconduce chi è
rigettato quando col vigore della sollecitudine pastorale si richiama alla
condizione di giustizia chiunque è caduto nella colpa. E la fasciatura stringe
la frattura quando la disciplina reprime la colpa, affinché la piaga non
degeneri fino alla morte se non la stringe la severità del castigo. Ma spesso la
frattura si fa più grave se viene fasciata senza precauzione e la ferita duole
maggiormente se le bende la stringono in modo eccessivo. Perciò è necessario
che, quando per porvi rimedio si comprime nei sudditi la ferita del peccato, si
abbia grande sollecitudine di moderare la stessa correzione perché, mentre si
esercita verso i peccatori il dovere della disciplina, non si venga meno ai
sentimenti di pietà. Bisogna cioè avere cura che la pietà faccia apparire ai
sudditi madre colui che li guida, e la disciplina glielo mostri padre. E
pertanto bisogna provvedere con pronta e avvertita prudenza che la correzione
non sia troppo rigida o la misericordia troppo permissiva. Infatti, come abbiamo
già detto nei Libri Morali (Moralia,
lib. 20, cap. 8),
sia la disciplina che la misericordia vengono meno se si esercita l’una
senza l’altra; invece, nelle guide delle anime, devono trovarsi verso i sudditi
una misericordia che provvede secondo giustizia insieme a una disciplina rigida
secondo pietà. Ed è perciò che nell’insegnamento della Verità quell’uomo
semivivo viene condotto all’albergo dalla sollecitudine del Samaritano (cf. Lc.
10, 34) e gli vengono somministrati vino e olio nelle sue ferite, chiaramente
perché, per esse, egli sperimenti la pungente disinfezione del vino e il
conforto dell’olio che lenisce. È assolutamente necessario che chi ha l’ufficio
di curare le ferite somministri attraverso il vino il morso pungente del dolore
e attraverso l’olio la tenerezza della pietà, giacché col vino si purifica il
putridume e con l’olio si nutre e si ristora per la guarigione. Così, bisogna
mescolare la dolcezza con la severità; bisogna fare come
un giusto contemperamento dell’una e dell’altra affinché i sudditi non restino
esasperati da troppa asprezza e neppure infiacchiti da una eccessiva
benevolenza. Ciò è ben rappresentato dall’arca del Tabernacolo — secondo la
parola di Paolo — nella quale si trovano insieme alle tavole la verga e la manna
(cf.
Ebr. 9, 4);
cioè, se nell’anima della buona guida spirituale, insieme alla scienza della
Sacra Scrittura c’è la verga della correzione, ci sia anche la manna della
dolcezza. Perciò dice David: La tua verga e il tuo bastone mi hanno consolato
(Sal. 22, 4),
perché la verga ci colpisce e il bastone ci sostiene e se c’è la
correzione della verga che ferisce ci sia anche la consolazione del bastone che
sostiene. E così ci sia l’amore, non tale però che renda molli; ci sia il rigore
non tale però che esasperi; ci sia lo zelo che tuttavia non infierisce oltre
misura; ci sia la pietà che risparmia ma non più di quanto conviene; affinché
nell’esercizio del governo, conciliando giustizia e clemenza, il superiore muova
il cuore dei sudditi col timore ma usi con loro dolcezza, e con questa dolcezza
li costringa al rispetto che il timore ispira.
7 — La guida delle
anime non attenui la cura della vita interiore nelle occupazioni esterne,
né tralasci di provvedere alle necessità esteriori per la sollecitudine del bene
interiore
La guida delle anime
non attenui la cura della vita interiore nelle occupazioni esterne, né tralasci
di provvedere alle necessità esteriori per la sollecitudine del bene interiore,
affinché, dedito alle attività esterne
non venga meno alla vita spirituale oppure occupato solo in essa manchi di
rendere quel che deve al prossimo nell’attività esterna. Accade spesso infatti
che alcuni, dimentichi di essere stati preposti ai fratelli per le loro anime,
si dedicano con ogni sforzo del cuore al servizio degli interessi secolari, e
l’essere presenti a questi li fa esultare di gioia, e anche quando sono assenti
anelano ad essi, giorno e notte, nell’agitazione di un pensiero inquieto. Quando
poi, forse per una interruzione occasionale, sono quieti da essi, questa stessa
quiete li affatica ancor peggio; infatti giudicano un piacere essere oppressi
dall’attività e considerano una fatica non faticare in occupazioni terrestri.
Così accade che, mentre godono di essere incalzati da inquietudini mondane,
ignorano i beni interiori che avrebbero dovuto insegnare agli altri. Per cui
sicuramente anche la vita dei sudditi intorpidisce poiché, mentre essi aspirano
al progresso spirituale, inciampano contro l’esempio del superiore come contro
un ostacolo che si trova lungo il cammino. Infatti quando la testa è malata
anche le membra perdono vigore, e nella ricerca del nemico non serve che
l’esercito segua con prestezza se la stessa guida del cammino perde la strada.
Nessuna esortazione innalza gli animi dei sudditi e nessun rimprovero è castigo
efficace contro le loro colpe, poiché sebbene colui che è preposto alle anime
eserciti l’ufficio di giudice terreno, la cura del Pastore non è rivolta alla
custodia del gregge e i sudditi non possono cogliere la luce della verità
perché, quando interessi terreni occupano i sensi del Pastore, la polvere spinta
dal vento della tentazione acceca gli occhi della Chiesa. Perciò il Redentore
del genere umano, volendoci trattenere dalla ingordigia del ventre, dopo aver
detto: Fate attenzione che i vostri cuori non siano gravati dalla gozzoviglia
e dall’ubriachezza, subito aggiunse: o nelle preoccupazioni di questa vita; e poi ancora introduce il timore proseguendo con forza:
che non vi sopravvenga improvviso quel giorno (Lc.
21, 34).
E di quale venuta si tratti lo manifesta dicendo: Verrà infatti come
un laccio su tutti coloro che siedono sulla faccia di tutta la terra
(Lc.
21, 35).
Quindi ancora dice: Nessuno può servire a due padroni
(Lc.
16, 13).
Perciò Paolo interdice le anime religiose dal commercio col mondo dichiarando o
piuttosto consigliando pressantemente: Nessuno che militi per Dio si immischi
in affari secolari per potere piacere a colui che l’ha arruolato
(2
Tim. 2, 4).
Perciò prescrive alle guide della Chiesa di essere liberi da altri interessi e
mostra loro come provvedere quando si tratti di cercare consigli, dicendo:
Pertanto, se avrete delle liti
riguardo a interessi secolari stabilite come giudici persone da niente nella
Chiesa (1
Cor. 6, 4),
perché all’amministrazione dei beni terreni servano quelli che sono non
dotati di alcun dono spirituale. Come se dicesse apertamente: poiché non sanno
penetrare le realtà interiori, operino almeno per le necessità esterne. Perciò
Mosé, che parla con Dio (cf.
Es. 18, 17-18), viene giudicato dal rimprovero di Ietro, uno
straniero, perché serve con una fatica inutile alle faccende terrene del popolo,
e riceve subito il consiglio di stabilire altri al posto suo a dirimere le liti,
per potere lui stesso più liberamente conoscere i misteri spirituali e
insegnarli al popolo. Pertanto tocca ai sudditi svolgere le attività di grado
inferiore, e alle guide delle anime meditare le verità somme affinché il darsi
cura della polvere non oscuri l’occhio preposto a fare da guida nel cammino
Infatti, tutti coloro che presiedono sono capo dei sudditi e senza alcun dubbio
è il capo che deve provvedere dall’alto a che i piedi siano in grado di
percorrere la via diritta e non si intorpidiscano nel procedere del viaggio,
quando il corpo si incurva e il capo si piega verso terra. Ma con quale
disposizione interiore colui che è preposto alle anime esercita sugli altri la
dignità pastorale se lui stesso è preso dalle attività terrene che dovrebbe
rimproverare negli altri? È chiaramente questo che il Signore, dall’ira della
giusta retribuzione, minaccia per mezzo del profeta dicendo: E come il popolo
così sarà il sacerdote (Os. 4, 9).
E il sacerdote è come il popolo quando colui che esplica un ufficio
spirituale compie esattamente le stesse cose di coloro che vengono ancora
designati dai loro interessi carnali. Vedendo questo, il profeta Geremia piange,
con grande dolore ispirato dalla sua carità, e lo raffigura nella distruzione
del tempio dicendo: Come si è annerito l’oro e si è mutata la sua splendida
lucentezza, le pietre del
santuario sono state disperse in capo a tutte le piazze (Lam. 4, 1). Che
cosa si intende infatti con oro,
che è il metallo più prezioso di tutti, se non l’eccellenza della
santità? Che cosa si esprime con splendida lucentezza se non la riverenza
che ispira la dignità religiosa amabile a tutti? Che cosa significano le
pietre del santuario,
se non le persone insignite di ordini sacri? Che cosa si raffigura col
nome di piazze, se
non la larghezza della vita presente? Infatti nella lingua greca la larghezza è
detta platos ed è certo per la larghezza che le piazze sono chiamate
così. Ma la Verità in persona dice: Larga e spaziosa è la via che porta alla
perdizione (Mt. 7, 13).
L’oro pertanto annerisce quando una vita che deve essere
santa si contamina con attività terrestri. La splendida lucentezza si muta
quando diminuisce la stima che si era fatta di certuni i quali si credeva
vivessero religiosamente. Infatti quando qualcuno, chiunque sia, lascia il
costume di una vita santa per immischiarsi in attività terrestri, la riverenza
che egli ispirava, divenuta oggetto di disgusto, impallidisce agli occhi degli
uomini come la vivezza di un colore alterato. E anche le pietre del santuario
vengono sparse nelle piazze quando coloro, che per il decoro della Chiesa
avrebbero dovuto attendere solo ai misteri dello spirito, come nel segreto del
Tabernacolo, vagano invece fuori, sulle larghe vie degli affari mondani. In
effetti, le pietre del santuario erano fatte per comparire nell’interno del
Santo dei Santi sulla veste del sommo sacerdote; ma quando i ministri della
religione non sanno esigere, coi meriti della loro condotta di vita, l’onore
dovuto dai sudditi al loro Redentore, allora le pietre del santuario non sono
ornamento del pontefice. Esse giacciono sparse sulle piazze perché coloro che
portano gli ordini sacri, dediti alla larghezza dei loro piaceri, sono tutti
presi dagli affari terreni. E occorre notare che non dice che sono sparsi
nelle piazze, ma in capo alle piazze, poiché mentre si occupano delle
cose del mondo aspirano ad apparire in alto, per mantenersi sulle larghe vie,
per l’allettamento del piacere, e insieme in capo alle piazze, per l’onore che
viene attribuito alla santità. Del resto possiamo anche intendere senza
difficoltà che le pietre del santuario siano invece quelle medesime con cui il
santuario era stato costruito; in questo caso quelle pietre giacciono in capo
alle piazze quando gli uomini insigniti degli ordini sacri si pongono con
desiderio al servizio di affari mondani mentre prima sembrava che la loro gloria
consistesse nel servizio delle cose sante. Così, gli affari mondani si devono
assumere talvolta per esigenze di carità, ma non si devono mai ricercare con
passione, per evitare che esse, gravando l’animo di chi le predilige, lo
trascinino avvinto al proprio peso, dalle regioni celesti giù nel profondo. Ma
si dà anche il caso che alcuni assumano effettivamente la cura del gregge, ma
aspirano tanto per sé di essere liberi di dedicarsi alle cose spirituali che non
si occupano per nulla affatto di cose esterne. Allora, poiché essi trascurano
totalmente le cure
materiali, non soccorrono in nulla le necessità dei sudditi e per lo più la loro
predicazione viene sdegnata e non vengono ascoltati volentieri poiché
rimproverano l’agire dei peccatori, ma poi non amministrano loro quanto è
necessario alla vita presente. Infatti la parola della dottrina non penetra
nella mente del bisognoso se una mano misericordiosa non la raccomanda al suo
cuore. E invece, il seme della parola germina facilmente quando la pietà di chi
predica lo irriga nel petto di colui che ascolta. Perciò è necessario che la
guida delle anime possa infondere le verità spirituali e anche provvedere alle
necessità esteriori con una attenzione del pensiero che però non gli danneggi.
Così, i Pastori siano ferventi degli interessi spirituali dei loro sudditi,
purché in questo non tralascino di provvedere pure alla loro vita esteriore.
Infatti, come abbiamo detto, è comprensibile che l’animo del gregge non creda
alla predicazione che dovrebbe accogliere, se il Pastore tralascia la cura
dell’aiuto esterno. Perciò il primo Pastore ammonisce con sollecitudine
dicendo: Scongiuro gli anziani che sono tra voi, io anziano come loro e testimone dei patimenti di Cristo e fatto partecipe della sua gloria che deve essere rivelata in futuro, pascete il gregge di Dio che è tra voi.
Ed egli stesso spiega a questo punto quale pascolo
intenda, se del cuore o del corpo, poiché aggiunge subito: Governandolo non
per costrizione ma spontaneamente,
secondo Dio, non per turpe guadagno ma volontariamente (1 Pt. 5, 1). E certo, con queste
parole, previene piamente i Pastori perché, mentre soddisfano l’indigenza dei
sudditi, non uccidano se stessi con la spada dell’ambizione, e se per loro mezzo
il prossimo riceve il sollievo di aiuti materiali, loro stessi poi non rimangano
digiuni del pane della giustizia. Paolo eccita questa sollecitudine dei Pastori
dicendo: Chi non ha cura dei suoi,
soprattutto dei familiari, ha rinnegato la fede ed è peggiore di un
infedele
(1 Tim. 5, 8).
E così, tra queste
cose, bisogna però sempre temere e prestare vigile attenzione che mentre si
trattano affari esterni non se ne venga sommersi, privati dell’intimo fervore;
poiché spesso, come abbiamo già detto, le guide delle anime piegano
improvvisamente il loro cuore a servire le cure temporali, e così si raffredda
l’amore nel loro intimo, ed espandendosi al di fuori non temono di vivere
nell’oblio, col pretesto di doversi occupare delle anime. Pertanto, la cura che
pure si deve avere nei confronti dei bisogni materiali dei sudditi deve essere
necessariamente contenuta entro certi limiti. Perciò si dice bene in Ezechiele:
I sacerdoti non si radano il capo,
né si tacciano crescere i capelli, ma li accorcino tagliandoli (Ez. 44, 20). Infatti sono
giustamente chiamati sacerdoti coloro che presiedono ai fedeli per offrire loro
una guida sacra. I capelli del capo sono i pensieri della mente volti a cure
esteriori e finché nascono insensibilmente sul capo designano le cure della vita
presente, le quali crescono, senza quasi che ce ne accorgiamo, da una
sensibilità trascurata poiché nascono talvolta in modo inopportuno. Dunque,
poiché tutti quelli che presiedono devono avere di fatto delle sollecitudini
esteriori, senza d’altra parte dedicarsi ad esse con eccessiva passione,
giustamente si proibisce ai sacerdoti di radersi il capo e di farsi crescere i
capelli, affinché non taglino radicalmente da sé i pensieri che riguardano la
vita materiale dei sudditi, né d’altra parte diano loro troppo spazio in modo da
farli crescere. Perciò è ben detto: Accorcino i capelli tagliandoli,
evidentemente nel senso che se pure, per quel che è inevitabile,
possono nascere preoccupazioni di cure materiali, tuttavia esse devono essere
tagliate ben presto perché non crescano smodatamente. Pertanto, quando la vita
materiale viene protetta attraverso la pratica di una previdenza esteriore — e
in più non è ostacolata dalla tensione spirituale, quando questa è illuminata —
è allora che i capelli sul capo del sacerdote vengono conservati perché coprano
la pelle, ma vengono tagliati perché non chiudano gli occhi.
8 — La guida delle
anime, col suo zelo, non
abbia di mira il favore degli uomini; e tuttavia sia attento a ciò che ad
essi deve piacere.
Oltre a ciò, è pure
necessario che la guida delle anime esplichi una vigile cura perché non la
spinga la bramosia di piacere agli uomini, e quando si dedica assiduamente ad
approfondire le realtà interiori o distribuisce provvidamente i beni esteriori,
non cerchi di più l’amore dei sudditi che la verità; e quando sostenuto dalle
sue buone azioni sembra, estraneo al mondo, il suo amore di sé non lo renda
estraneo al Creatore. Infatti è nemico del Redentore colui che, attraverso le
opere giuste che compie, brama di essere amato dalla Chiesa in luogo di Lui; ed
è così reo di pensiero adultero, come il servo per mezzo del quale lo sposo
manda doni alla sposa ed egli brama di piacere agli occhi di lei. Poiché quando
l’amor proprio si impadronisce della guida delle anime, talvolta la trascina a
una mollezza disordinata, talvolta al contrario ad un aspro rigore. Il suo
spirito è portato alla mollezza dall’amor proprio quando, pur vedendo i sudditi
peccare, non trova opportuno castigarli per non indebolire il loro amore verso
di lui, e non di rado accarezza con le adulazioni quegli errori dei sudditi che
avrebbe dovuto rimproverare. Perciò è detto bene, per mezzo del profeta: Guai
a coloro che cuciono cuscinetti per ogni gomito e fanno guanciali per teste di
ogni età, per rapire anime (Ez. 13, 18). Porre cuscinetti sotto
ogni gomito è confortare con blanda adulazione le anime che vengono meno alla
propria rettitudine e si ripiegano nei piaceri di questo mondo. Ed è come
accogliere su un cuscino o su un guanciale il gomito o il capo di uno che giace,
quando si sottrae il peccatore alla durezza della punizione e gli si offrono le
mollezze del favore, così che chi non è colpito da alcuna aspra contraddizione
giaccia mollemente nell’errore. E le guide delle anime che amano sé stesse,
senza alcun dubbio offrono di queste cose a coloro che temono gli possano
nuocere nella loro ricerca della gloria mondana. Infatti esse opprimono con
l’asprezza di un rimprovero sempre duro e violento quelli che vedono non avere
alcuna forza contro di loro, e non li ammoniscono mai benignamente ma,
dimentiche della mitezza del Pastore li terrorizzano in forza del loro potere.
La parola di Dio li rimprovera giustamente dicendo per mezzo del profeta: Voi
comandavate su di loro con austerità e con prepotenza (Ez. 34, 4).
Infatti, amando più se stessi che il loro Creatore, si ergono contro i sudditi
con tracotanza e non guardano a quello che hanno dovere di fare ma a ciò per cui
hanno la forza; senza alcun timore del giudizio che seguirà, si gloriano
sfrontatamente del loro potere temporale purché possano compiere con ogni
licenza anche cose illecite e nessuno dei sudditi li contraddica. Pertanto,
colui che desidera vivere perversamente, e che gli altri tuttavia ne tacciano,
testimonia contro se stesso di desiderare che si ami lui più della verità, che
non vuole venga difesa contro di lui. E non esiste certamente nessuno che viva
in questo modo e, almeno entro un certo ambito, non pecchi. Vuole invece che si
ami la verità più di lui, chi non vuol essere risparmiato da nessuno ai danni
della verità. Perciò infatti Pietro riceve volentieri il rimprovero di Paolo (cf. Gal. 2, 11 ss.);
perciò David ascoltò umilmente la correzione di un suddito (cf. 2 Sam. 11, 7 ss.);
poiché le buone guide di anime non sanno amare se stessi di un amore particolare
e considerano un umile ossequio, da parte dei sudditi, una parola ispirata da
una libera purezza d’animo. Ma è soprattutto necessario che la cura del governo
delle anime sia temperata da tanta sapiente moderazione che i sudditi possano
esprimere con libera parola quanto hanno rettamente avvertito, anche se poi
questa libertà non deve essere tale da erompere in superbia; perché non accada
che se si concede ai sudditi una eccessiva libertà di parola, essi abbiano poi a
perdere l’umiltà della vita. Bisogna pure sapere che è opportuno che le buone
guide delle anime desiderino di piacere agli uomini, ma solo per attirare il
prossimo all’amore della verità attraverso la dolcezza della stima che esse
ispirano; non per desiderare di essere amate, ma per fare dell’amore di cui sono
oggetto come una via attraverso la quale introdurre all’amore del Creatore i
cuori di coloro che ascoltano. Poiché è difficile che, per quanto dica la
verità, sia ascoltato volentieri, un predicatore che non è amato. Dunque, chi
presiede deve applicarsi a farsi amare per potere essere ascoltato; e tuttavia
non deve cercare amore per se stesso, per non essere trovato come chi,
nell’occulta tirannide del suo pensiero, si oppone a colui che per via del suo
ufficio sembra servire. Ciò suggerisce bene Paolo quando ci manifesta gli
aspetti nascosti della sua dedizione, dicendo: Come anch’io piaccio a tutti
in ogni cosa
(1
Cor. 10, 33).
E tuttavia dice di
nuovo altrove: Se piacessi ancora agli uomini non sarei servo di Cristo
(Gal. 1, 10). Dunque, Paolo piace e
non piace perché, nel suo desiderio di piacere, non cerca di piacere lui, ma che
agli uomini piaccia la verità attraverso di lui.
9 — La guida delle
anime deve essere attenta nella consapevolezza che non di rado i vizi si
travestono da virtù
La guida delle anime
deve anche sapere che non di rado i vizi si travestono da virtù Infatti spesso
l’avarizia si nasconde sotto il nome di parsimonia e, al contrario, la
prodigalità sotto l’appellativo di generosità. Spesso una accondiscendenza senza
discrezione è considerata pietà, e un’ira sfrenata zelo virtuoso; spesso
un’azione precipitosa passa per rapidità efficiente e la lentezza dell’agire per
prudenza deliberata. Perciò è necessario che la guida delle anime discerna con
vigile cura virtù da vizi, perché l’avarizia non si impadronisca del suo cuore
ed egli si compiaccia di apparire parco nella sua amministrazione; oppure si
vanti, magari con l’aria di commiserare la propria liberalità, quando c’è stato
qualche sperpero per la sua prodigalità; o trascini all’eterno supplizio i
sudditi rimettendo il peccato che avrebbe dovuto colpire; o colpendo con
crudeltà il peccato, pecchi egli stesso più gravemente; o, tratti con
leggerezza, con una fretta troppo anticipata, ciò che si sarebbe potuto trattare
correttamente e con ponderazione o, differendo il compimento di una buona
azione, ne converta in peggio il risultato.
10 — Quale debba
essere la discrezione della guida delle anime nel correggere e nel dissimulare;
nello zelo e nella mansuetudine
Bisogna pure sapere che
occorre talvolta dissimulare con prudenza i vizi dei sudditi ma che pur
dissimulandoli bisogna mostrare di conoscerli. Talvolta,
colpe manifeste
bisognerà tollerarle per un certo tempo, talvolta invece, quando sono nascoste,
esaminarle diligentemente; talvolta riprenderle con dolcezza; talvolta al
contrario rimproverarle con forza. Alcune in effetti, come abbiamo detto,
bisogna dissimularle con prudenza e tuttavia mostrare di conoscerle, affinché il
peccatore sapendo di essere noto come tale, e di essere tuttavia sopportato,
arrossisca di aumentare quelle colpe che vede tollerate in silenzio nei suoi
confronti, e fattosi giudice di se stesso si punisca, lui che la clemente
pazienza della sua guida, per parte sua, scusa. È chiaro che con questa
dissimulazione il Signore corregge la Giudea, quando dice per mezzo del profeta:
Hai mentito e non ti sei ricordata di me né hai meditato in cuor tuo;
perché io tacevo quasi come uno che non vede (Is. 57, 11).
Dunque dissimulò le colpe e lo fece notare, in quanto
tacque contro il peccatore ma non tacque il fatto stesso di avere taciuto.
Alcune colpe manifeste, invece, bisogna tollerarle per un certo tempo; finché
cioè l’opportunità della situazione non sia tale da consigliare un’aperta
correzione. Infatti le ferite operate troppo presto si infiammano maggiormente,
e se i medicamenti non vengono graduati in modo conveniente nel tempo, è chiaro
che non rendono al medico la loro utilità. Ma quando il superiore deve cercare
tempo per infliggere la correzione ai sudditi, è proprio sotto il peso di quelle
colpe che si esercita la sua pazienza. Perciò dice bene il salmista: Sul mio
dorso hanno fabbricato i peccatori
(Sal.
128, 3). Poiché è sul dorso che
portiamo i pesi, egli si lamenta che sul suo dorso i peccatori hanno fabbricato,
come se dicesse apertamente:
Porto addosso come un peso coloro che non posso correggere. Alcune colpe invece,
che sono nascoste, vanno esaminate diligentemente perché, se se ne manifestano
alcuni segni, la guida delle anime possa scoprire tutto ciò che si nasconde,
chiuso, nell’animo dei sudditi e, presentandosi il momento della correzione,
possa conoscere dai più piccoli segni di vizio le colpe maggiori. Perciò
giustamente viene detto ad Ezechiele: Figlio dell’uomo,
fora la parete. E subito il profeta prosegue: E quando ebbi
forato la parete mi apparve una porta.
E mi disse: Entra e vedi le orribili abominazioni che costoro commettono
qui. Ed entrato vidi; ed ecco ogni tipo di rettili e di animali
abominevoli e tutti gli idoli della casa di Israele erano dipinti sulla parete
(Ez.
8, 8-10). È chiaro che Ezechiele
rappresenta le persone dei superiori, e la parete la durezza dei sudditi. E che
cosa significa forare la parete se non aprire la durezza del cuore con
penetranti indagini? Quando ebbe forato la parete apparve una porta, perché
quando la durezza del cuore si spacca cedendo alle attente indagini o alle
sapienti correzioni, è come se si mostrasse una porta dalla quale si vedono
tutte le profondità dei pensieri in colui che viene ammonito. Per cui è ben
detto ciò che segue quel punto: Entra e vedi le orribili abominazioni che
costoro commettono. Ed è uno che entra per vedere delle abominazioni, colui che, andando oltre certi
segni che appaiono all’esterno, penetra i cuori dei sudditi in modo che gli
risultino chiari tutti i loro pensieri illeciti. E quindi prosegue: Ed
entrato vidi; ed ecco ogni tipo
di rettili e animali abominevoli. Nei rettili sono indicati i
pensieri del tutto terreni, negli animali i pensieri già un poco sollevati da
terra ma ancora alla ricerca di un compenso terreno.
Infatti i rettili
aderiscono alla terra con tutto il corpo, mentre gli animali con gran parte
del corpo sono sospesi da terra e tuttavia continuano a essere inclinati verso
di essa per l’appetito della gola. Così i rettili sono oltre la parete, quando
nella mente si rivolgono pensieri che non si innalzano mai dai desideri terreni.
E ci sono pure animali oltre la parete, quando pensieri e meditazioni, sia pure
giusti e onesti, sono tuttavia ancora asserviti a mire di guadagni e onori
temporali: per sé, in effetti, sono già quasi elevati da terra ma si
sottomettono ancora alle realtà più basse per la loro ambizione che è
paragonabile a un desiderio di gola. Perciò ancora prosegue giustamente: E
tutti gli idoli della casa di Israele erano dipinti sulla parete.
In effetti è scritto: E l’avarizia, che è schiavitù agli idoli (Col. 3, 5).
Dunque è giusto che dopo gli animali si descrivano gli idoli, poiché
sebbene alcuni si drizzino già da terra per l’agire onesto, tuttavia per la loro
disonesta ambizione si riadagiano per terra. Ed è ben detto: Erano dipinti,
perché, quando gli aspetti delle cose esterne vengono assorbiti
interiormente, viene come dipinto nel cuore quello che si pensa e si delibera
sulla base di quelle false immagini. Pertanto, occorre sottolineare che prima
c’è il foro nella parete, quindi si vede la porta e infine viene manifestata la
occulta abominazione. Ciò evidentemente perché in ciascuno si danno prima i
segni esterni del peccato, quindi si mostra la porta dell’iniquità manifesta e
infine si spalanca ogni male che si nasconde nell’intimo. Alcuni peccati però
vanno ripresi con dolcezza; infatti, quando non si pecca per malizia ma solo per
ignoranza o per debolezza, è assolutamente necessario che la stessa correzione
del peccato sia temperata da grande moderazione: tutti, finché siamo in questa
carne
mortale, soggiacciamo alla debolezza della nostra natura corrotta, così ciascuno
deve apprendere da se stesso come si debba essere misericordiosi nei confronti
della debolezza altrui affinché, se si lascia trasportare a pronunciare parole
di rimprovero troppo accese contro la debolezza del prossimo, non gli accada di
apparire uno che si è dimenticato di sé. Perciò Paolo ammonisce giustamente:
Se qualcuno sarà colto in qualche peccato,
voi che siete spirituali istruite questo tale in spirito di mansuetudine,
considerando te stesso perché anche tu non sia tentato (Gal. 6, 1);
come se dicesse apertamente: Quando vedi qualcosa di spiacevole
dovuto alla debolezza altrui, pensa a ciò che sei; perché nello zelo del
rimprovero lo spirito si moderi, se teme anche per se stesso ciò che rimprovera
ad altri. Altri peccati invece si devono rimproverare con forza, affinché chi ha
commesso la colpa e non ne conosce l’entità la apprenda dalla bocca di colui che
lo rimprovera. E se qualcuno è portato a considerare con leggerezza il male
commesso, lo tema molto, al contrario, per la severità di chi glielo rimprovera
aspramente. Ed è certamente dovere della guida delle anime mostrare con la
predicazione la gloria della patria celeste, manifestare quanto son grandi le
tentazioni dell’antico nemico, che si nascondono nel cammino di questa vita, e
correggere con zelo grande e severo i peccati dei sudditi che non devono essere
tollerati con leggerezza, perché non sia considerato lui stesso reo di tutte le
colpe se il suo sdegno non si accende contro quelle. Perciò è ben detto in
Ezechiele: Prenditi un mattone e lo porrai davanti a te e disegnerai su di
esso la città di Gerusalemme.
E subito prosegue: E disporrai l’assedio contro di essa,
edificherai le opere di difesa, costruirai un terrapieno, e porrai
contro di essa gli accampamenti e metterai intorno gli arieti.
E subito per sua protezione gli viene suggerito: E tu prenditi una
teglia di ferro e la porrai come un muro di ferro fra te e la città
(Ez. 4, 1-3). E di chi è figura il
profeta Ezechiele se non dei maestri? Giacché gli vien detto: Prenditi un
mattone e lo porrai davanti a te e disegnerai su di esso la città di Gerusalemme.
E in realtà i santi dottori si prendono un mattone quanto attirano a
sé il cuore di terra degli ascoltatori per istruirli. E pongono davanti a sé
quel mattone evidentemente nel senso di custodirlo con tutta la tensione dello
spirito. E ricevono l’ordine di disegnare su di esso la città di Gerusalemme,
perché predicando a cuori di terra pongono ogni loro cura a dimostrare quale sia
la visione della pace celeste. Ma poiché invano si cerca di conoscere la gloria
della patria celeste se non si conosce la grandezza delle tentazioni dell’astuto
nemico che vi fanno irruzione, si prosegue opportunamente: Disporrai
l’assedio contro di essa e edificherai le opere di difesa. E i santi predicatori indubbiamente dispongono un
assedio intorno al mattone su cui è disegnata la città di Gerusalemme, quando
dimostrano a un cuore terreno ma già in ricerca della patria celeste quanto essa
sia soggetta nel tempo di questa vita agli assalti ostili dei vizi. Infatti
quando si mostra in qual modo ciascun peccato insidia coloro che avanzano [nel
cammino spirituale] è come se dalla voce del predicatore si disponesse un
assedio intorno alla città di Gerusalemme. Ma poiché non solo devono risultare
chiari gli assalti dei vizi ma anche come ci fortifichi la custodia delle virtù,
giustamente si prosegue: Edificherai le opere di difesa.
Queste difese, il predicatore santo le edifica quando dimostra quali
virtù si oppongono a quei vizi. E poiché quando aumenta la virtù per lo più
crescono le guerre della tentazione, si aggiunge giustamente ancora: E
costruirai un terrapieno e porrai contro di essa gli accampamenti e metterai
intorno gli arieti. Infatti costruisce un terrapieno, il predicatore, quando annuncia l’entità della
tentazione crescente. Ed erige accampamenti contro Gerusalemme, quando predice
le caute e quasi inavvertibili insidie dell’astuto nemico, alla onesta
intenzione degli ascoltatori. E pone arieti intorno, quando fa conoscere gli
aculei delle tentazioni, che ci circondano da ogni parte in questa vita e sono
capaci di perforare il muro delle virtù. Ma quantunque la guida delle anime
riesca a suggerire sottilmente tutte queste consapevolezze, se egli non arde di
uno spirito di gelosia contro i peccati dei singoli, non si procura assoluzione
in eterno; perciò, in quel luogo, ancora giustamente si prosegue: E tu
prenditi una teglia di ferro e la porrai come un muro di ferro tra te e la città.
Con teglia si intende l’ardore dello spirito, e con ferro
la forza del rimprovero. Che cosa infatti fa ardere e tormenta il maestro
con più acutezza che lo zelo di Dio? E Paolo, che bruciava per l’ardore di
questa teglia diceva: Chi è infermo e io non sono infermo? Chi è
scandalizzato e io non brucio? (2 Cor. 11,29)
E poiché chiunque è acceso dallo zelo di Dio è custodito in eterno da una forte
custodia, per non dovere essere condannato per la negligenza, è detto
giustamente: La porrai come muro di ferro fra te e la città.
Infatti, la teglia di ferro è posta come muro di ferro fra il profeta
e la città, nel senso che, quando le guide delle anime manifestano un forte
zelo, questo stesso zelo essi lo conservano come forte difesa fra sé e gli ascoltatori,
affinché se saranno troppo indulgenti nella correzione non siano poi abbandonati
alla vendetta [divina]. Soprattutto però bisogna sapere, che se l’animo del
maestro si esaspera nel rimprovero, è molto difficile che egli una volta o
l’altra non prorompa a dire qualcosa che non deve dire. E per lo più accade che,
quando si corregge la colpa di sudditi con grande impeto, la lingua del maestro
è trascinata ad eccedere nelle parole; e, quando il rimprovero è acceso oltre
misura, il cuore dei peccatori si deprime fino alla disperazione. Perciò è
necessario che quando il superiore si rende conto di avere colpito l’animo dei
sudditi con eccessiva durezza, nella sua esasperazione, ricorra alla penitenza
dentro di sé per ottenere perdono, col suo pianto, di fronte alla Verità, anche
per ciò in cui pecca per eccessivo zelo. A ciò corrisponde, in figura, il
precetto del Signore che per mezzo di Mosé dice: Se uno andrà con un suo
amico nel bosco, semplicemente a
tagliar legna, e gli sfuggirà di mano il manico della scure, e il
ferro caduto dal manico colpirà l’amico e l’ucciderà; egli fuggirà in una
delle città sopraddette e vivrà; perché non accada che il parente
prossimo di colui di cui è stato sparso il sangue, spinto dal dolore,
lo insegua, lo prenda e colpisca la sua vita
(Deut.
19, 5-6).
Dunque, noi andiamo nel
bosco con l’amico ogni volta che ci disponiamo a ricercare i peccati dei
sudditi, e tagliamo semplicemente legna quando recidiamo, con disposizione
d’animo pietosa, i vizi dei peccatori. Ma quando il rimprovero si trascina fino
a divenire più aspro del necessario, è allora che la scure sfugge di mano; e
quando le parole della correzione si fanno troppo dure il ferro cade dal manico,
per cui colpisce e uccide l’amico colui che, proferendo parole ingiuriose,
spegne nel suo ascoltatore lo spirito di carità. Infatti l’animo di colui che
subisce la correzione immediatamente precipita nell’odio se questo rimprovero va
oltre i limiti. Ma è necessario che, chi colpisce incautamente la legna e uccide
il prossimo, fugga verso tre città per vivere protetto in una di esse; perché
colui che, voltosi a lacrime di penitenza, si nasconde sotto la speranza la fede
e la carità nell’unità del sacramento non è considerato reo dell’omicidio
commesso. E il parente prossimo dell’ucciso, quando lo troverà non lo ucciderà;
perché quando verrà il severo Giudice, che si è unito a noi facendosi consorte
della nostra natura, senza dubbio non perseguirà il reato della sua colpa col
castigo poiché fede speranza e carità lo nascondono sotto il suo perdono.
11 —
Quando
la guida delle anime debba essere dedita
alla meditazione
della legge sacra
Ma tutto ciò si compie
debitamente dalla guida delle anime se, animato dallo spirito del timore e
dell’amore, ogni giorno con diligenza, medita i precetti della Parola sacra,
affinché le parole della divina ammonizione ricostruiscano in lui la forza della
sollecitudine e della previdente attenzione verso la vita celeste, che viene
distrutta incessantemente dalla pratica della vita tra gli uomini. E chi,
attraverso la comunione con le persone del mondo, è ricondotto alla vita
dell’uomo vecchio, con il desiderio della comunione si rinnova a un amore
incessante della patria spirituale. Infatti, nel parlare con gli uomini il cuore
si disperde, e constatando con certezza che, spinto dal tumulto delle
occupazioni esteriori, decade dalla sua condizione, deve avere una cura
incessante di rialzarsi attraverso la dedizione allo studio [sacro]. Perciò
Paolo ammonisce il discepolo preposto al gregge, dicendo: Fino alla mia
venuta attendi alla lettura (1
Tim. 4, 13). Perciò David dice:
Come amo la tua legge, Signore,
tutto il giorno è la mia meditazione
(Sal.
118, 97).
Perciò il Signore dà ordine a Mosé a proposito
del trasporto dell’arca, dicendo: Farai quattro anelli d’oro che porrai ai
quattro angoli dell’arca, e
farai delle stanghe di legno di acacia e le coprirai d’oro e le infilerai negli
anelli ai lati dell’arca così che sia portata con quelle, che saranno
sempre infilate negli anelli e non ne verranno mai estratte
(Es.
25, 12 ss.).
Che cosa è
rappresentato dall’arca se non la Santa Chiesa? Si ordina poi che ad essa
vengano aggiunti quattro anelli agli angoli, e ciò senza dubbio significa che
essa, per il fatto che si estende dilatandosi nelle quattro parti del mondo, è
annunciata cinta dei quattro libri del Santo Evangelo. E si fanno stanghe di
legno di acacia da infilarsi nei medesimi anelli per il trasporto, pérché
bisogna cercare maestri forti e perseveranti come legno che non imputridisce, i
quali, sempre intenti allo studio dei libri sacri, annuncino l’unità della Santa
Chiesa portando l’arca come inseriti in quegli anelli, poiché portare l’arca con
le stanghe significa, per i buoni maestri, condurre la Santa Chiesa alle rozze
menti degli infedeli attraverso la predicazione. E le stanghe devono essere pure
ricoperte d’oro, cioè i maestri mentre con i loro discorsi predicano agli altri
devono risplendere anche loro per la luminosità della vita. E giustamente,
riferendosi a loro si aggiunge: Le quali saranno sempre dentro gli anelli e
non saranno mai
estratte da essi,
perché evidentemente è
necessario che chi veglia all’ufficio della predicazione non cessi dall’amoroso
studio della lettura sacra. E l’ordine che le stanghe siano sempre negli anelli
è in vista dell’opportunità indeclinabile di trasportare l’arca senza che si
generi alcun ritardo nell’inserimento delle stanghe; ciò significa che quando un
Pastore viene interrogato dai sudditi riguardo a un qualche contenuto
spirituale, è veramente vergognoso se egli si mette a cercare la risposta
proprio quando deve risolvere una questione. Ma le stanghe sono inserite negli
anelli perché i maestri che meditano sempre nel loro cuore la Parola sacra
alzino l’arca del testamento senza indugi, e insegnino senza incertezze in
qualunque necessità. Perciò dice bene il primo Pastore della Chiesa ammonendo
gli altri Pastori: Pronti sempre a rispondere a chiunque vi chiede ragione
della speranza che è in voi (1 Pt. 3, 15).
Come se dicesse apertamente: Le stanghe non siano mai tolte dagli anelli
affinché nessun indugio intralci il trasporto dell’arca.
COME DEVE INSEGNARE E
AMMONIRE I SUDDITI
UNA GUIDA DELLE ANIME
CHE HA BUONA CONDOTTA
DI VITA
Prologo
Poiché abbiamo indicato
come deve essere il Pastore, ora intendiamo dimostrare quale debba essere il suo
insegnamento. Infatti, come insegnò molti anni prima di noi Gregorio di Nazianzo
di venerabile memoria, non a tutti si adatta un unico e medesimo genere di
esortazione poiché sono diversi la natura e il comportamento di ciascuno, e
spesso ciò che giova agli uni nuoce agli altri. Così accade non di rado che
certe erbe adatte a nutrire alcuni animali ne uccidono altri o che un leggero
fischio che acquieta i cavalli eccita i cagnolini; e una medicina che fa passare
una malattia ne aggrava un’altra; e il pane che rinvigorisce le persone forti
uccide i bambini piccoli. Dunque, il discorso di chi insegna deve essere fatto
tenendo conto del genere degli ascoltatori per essere adeguato a quella che è la
condizione propria dei singoli e tuttavia non decadere dal suo proprio genere
che è di servire alla comune edificazione. Infatti che cosa sono le menti degli
ascoltatori se non, per così dire, corde ben tese di una cetra che l’artista
tocca con diversa intensità per produrre un’armonia che si accordi col canto?
E le corde danno
un’armonia ben modulata, perché sono toccate da un unico plettro ma con
vibrazioni diverse. Perciò il maestro per edificare tutti nell’unica virtù della
carità deve toccare il cuore degli ascoltatori con una sola dottrina ma con un
diverso genere di esortazione.
1 — Nell’arte della
predicazione bisogna osservare una grande diversità di modi
Infatti deve essere
diverso il modo con cui si ammoniscono gli uomini e le donne. Diversa
l’ammonizione per i giovani e per i vecchi; per i poveri e per i ricchi; per gli
allegri e per i tristi; per i sudditi e per i prelati; per i servi e per i
padroni; per i sapienti di questo mondo e per gli incolti; per gli sfrontati e
per i timidi; i presuntuosi e i pusillanimi; gli impazienti e i pazienti; i
benevoli e gli invidiosi; i semplici e gli insinceri; i sani e i malati; coloro
che temono i castighi e perciò conducono una vita innocente e quelli tanto
induriti nell’iniquità che neppure i castighi li correggono; i taciturni e i
chiacchieroni; i pigri e i precipitosi; i mansueti e gli iracondi; gli umili e
gli orgogliosi; gli ostinati e gli incostanti; i golosi e i temperanti; quelli
che distribuiscono per misericordia i propri beni, e coloro che fanno di tutto
per rapire quelli degli altri; quelli che né rapiscono i beni altrui né
elargiscono i propri, e coloro che distribuiscono ciò che hanno e tuttavia non
desistono dal rapire i beni altrui; i litigiosi e i pacifici; i seminatori di
discordia e gli operatori di pace; coloro che non intendono rettamente le parole
della legge divina, e coloro che, invece, le intendono certo rettamente ma non
ne parlano umilmente; coloro che sono in grado di predicare degnamente ma temono
di farlo per eccessiva umiltà e quelli a cui sarebbe proibito da qualche difetto
o dall’età e tuttavia l’irruenza li spinge a farlo; quelli che prosperano in
tutto quel che desiderano nei beni temporali, e quelli che, pur accesi di
desiderio delle cose mondane, durano la fatica di una pesante fortuna avversa;
quelli che sono vincolati dal matrimonio, e quelli che sono liberi dal vincolo
matrimoniale; quelli che hanno esperienza di unione carnale, e quelli che non
l’hanno; quelli che piangono peccati di opere, e quelli che piangono peccati di
pensiero; quelli che piangono i peccati e tuttavia non se ne staccano, e quelli
che se ne staccano e tuttavia non li piangono; quelli che addirittura lodano le
azioni illecite che compiono, e quelli che accusano le loro depravazioni ma non
le evitano; quelli che sono vinti da una improvvisa concupiscenza, e quelli che
restano prigionieri della colpa con deliberazione; quelli che commettono
frequentemente peccati, sia pure minimi, e quelli che si custodiscono dai
piccoli ma talvolta’affondano nei più gravi; quelli che non incominciano neppure
a fare il bene, e quelli che dopo averlo incominciato non lo portano a termine;
coloro che fanno il male di nascosto e il bene in pubblico, e quelli che
nascondono il bene che fanno e tuttavia lasciano che si pensi male di loro per
certe loro azioni pubbliche. Ma non ci sarebbe alcuna utilità a passare in
rassegna in una breve enumerazione tutte queste situazioni se non esponessimo
anche, con la maggiore brevità possibile, i modi dell’ammonizione adatti a
ciascuna di esse. Dunque deve essere diverso il modo di ammonire gli uomini e le
donne poiché agli uni bisogna imporre obblighi più gravi affinché gravi doveri
li rendano sempre operanti nell’esercizio del bene; alle altre invece bisogna
imporre pesi più leggeri che le convertano come accarezzandole. Diverso deve
essere il modo di ammonire i giovani e i vecchi poiché è la severità
dell’ammonizione che per lo più guida i primi nel loro progresso mentre è
un’amorevole preghiera che dispone i secondi a un agire migliore. Poiché è
scritto: Non sgridare un anziano ma pregalo come un padre
(1 Tim. 5, 1).
2 — Come bisogna
ammonire i poveri e i ricchi
Diverso è il modo di
ammonire i poveri e i ricchi poiché agli uni dobbiamo offrire il sollievo della
consolazione di
fronte alla
tribolazione, agli altri invece il timore di fronte all’esaltazione. Al povero,
il Signore dice, per mezzo del profeta: Non temere perché non sarai confuso.
E non molto tempo dopo dice con dolcezza: Poverina, sbattuta dalla tempesta (Is. 48, 10).
E ancora la consola dicendo: Ti ho scelto nel crogiolo della
povertà (Is. 54, 4. 11).
Paolo, al contrario, a proposito dei ricchi dice al discepolo: Ai
ricchi di questo secolo ordina di non essere superbi e di non sperare nelle loro
incerte ricchezze (1 Tim. 6,
17); dove occorre notare
che il maestro dell’umiltà non dice: prega ma ordina,
perché quantunque si debba usare misericordia alla debolezza, non si
deve onore all’orgoglio. Dunque, ciò che è giusto dire a tali persone viene loro
tanto più giustamente comandato quanto più esse si gonfiano nell’esaltazione del
loro pensiero riguardo a realtà che passano. Di costoro il Signore dice
nell’Evangelo: Guai a voi,
ricchi, che avete la vostra consolazione (Lc. 6, 24).
Poiché infatti essi ignorano in che cosa consistono le gioie eterne e
si consolano con la ricchezza della vita presente. Bisogna allora offrire
consolazione a coloro che ardono nel crogiolo della povertà, mentre agli altri,
che si esaltano nella consolazione della gloria mondana, occorre insinuare il
timore; affinché i poveri apprendano che possiedono ricchezze che non vedono e i
ricchi sappiano che non possono conservare le ricchezze che vedono. Spesso
tuttavia la qualità dei costumi inverte l’ordine delle persone, per cui il ricco
è umile e il povero orgoglioso. Subito allora la parola del predicatore deve
adattarsi alla vita di chi ascolta così da colpire con tanto maggior rigore
l’orgoglio nel povero in quanto neppure la povertà che gli è stata imposta
riesce a piegarlo; e con tanta più dolcezza accarezzi l’umiltà dei ricchi in
quanto neppure la ricchezza che inorgoglisce li esalta. Tuttavia non di rado
anche il ricco superbo deve essere placato con dolce esortazione, perché spesso
dure ferite si alleviano con medicamenti leggeri e la furia dei pazzi è
ricondotta al senno da un medico amorevole, così che quando si viene loro
incontro con dolcezza si mitiga la malattia, dell’insania. Infatti bisogna
penetrare senza negligenza il significato più profondo di ciò che accadeva
quando lo spirito avverso invadeva Saul, e David calmava la sua follia con la
cetra (cf. 1 Sam. 16, 23);
giacché, a che cosa si accenna attraverso Saul se non all’orgoglio dei potenti?
E a che cosa attraverso David se non all’umile vita dei santi? Dunque, quando
Saul è afferrato dallo spirito immondo, la sua follia è moderata dal canto di
David perché quando il sentimento dei potenti si muta in furore a causa
dell’orgoglio, è opportuno che esso sia richiamato alla sanità della mente,
dalla pacatezza del nostro parlare come dal
dolce suono della cetra. Ma talvolta,
quando si tratta di confutare dei potenti di questo mondo, occorre prima
metterli alla prova usando delle similitudini come se si trattasse di affare che
non riguarda loro; e quando avranno proferito una giusta sentenza come rivolta a
un altro, allora con i modi opportuni bisogna colpirli direttamente con l’accusa
della loro colpa, affinché il cuore, gonfio della sua potenza mondana, non si
erga contro chi lo rimprovera — poiché è col suo stesso giudizio che questi
calpesta il suo collo superbo — ed esso non provi a difendersi in alcun modo,
legato com’è dalla sentenza pronunciata con la sua stessa bocca. Perciò,
infatti, il profeta Natan era venuto ad accusare il re con l’aria di chiedere un
giudizio contro un ricco in difesa di un povero (cf. 2 Sam. 12, 1-15), affinché il re prima pronunciasse la sua sentenza
e solamente dopo ascoltasse il suo peccato, senza poter contraddire ciò che era
giusto, secondo quanto egli stesso aveva proferito contro di sé. E così l’uomo
santo considerando insieme il peccatore e il re, secondo un mirabile
procedimento, prima legò il re temerario attraverso la confessione quindi lo
troncò con l’accusa; per un poco celò chi veramente cercava ma colpi
improvvisamente colui che teneva stretto. Forse avrebbe agito su di lui con
minore efficacia se fin dal principio del discorso avesse voluto colpire
apertamente la colpa, mentre anticipando la similitudine rese più acuto il
rimprovero che essa nascondeva. Era venuto come un medico da un malato, vedeva
che la ferita doveva essere tagliata ma dubitava della pazienza del malato;
pertanto, nascose il bisturi sotto la veste e trattolo improvvisamente lo
conficcò nella ferita, perché il malato lo sentisse tagliare prima di vederlo e
non si fosse rifiutato di sentirlo se l’avesse veduto in precedenza.
3 —
Come bisogna ammonire
gli allegri e i tristi
Diverso è il modo di ammonire gli allegri e i tristi.
Agli allegri evidentemente bisogna presentare le tristezze che tengono dietro al
castigo; ai tristi invece i gaudii promessi come frutto del regno. Gli allegri
imparino dalla durezza delle minacce ciò che devono temere; i tristi ascoltino
le
gioie del premio che già possono pregustare. Ai primi, infatti, è detto:
Guai a voi che ora ridete, poiché piangerete
(Lc. 6, 25); gli altri invece ascoltano l’insegnamento del
medesimo maestro:
Vi vedrò di nuovo e il
vostro cuore gioirà e nessuno vi toglierà la vostra gioia
(Gv.
16, 22). Alcuni però non diventano allegri o tristi per le
circostanze ma lo sono per temperamento nativo e ad essi bisogna certamente far
conoscere che ci sono dei vizi verso i quali certi temperamenti sono più
proclivi: infatti le persone allegre sono facili alla lussuria, le tristi
all’ira. Perciò è necessario che ognuno consideri non solamente ciò che deve
sostenere a causa del suo temperamento, ma anche ciò che lo preme da vicino con
peggiore pericolo, perché non avvenga che, mentre lotta contro ciò che deve
sopportare, si trovi a soccombere davanti a quel vizio dal quale pensa di essere
libero.
4 —
Come bisogna ammonire i
sudditi e i prelati
Diverso è il modo di
ammonire i sudditi e i prelati, affinché l’assoggettamento non annienti i primi
e la posizione elevata non esalti i secondi. Quelli non compiano meno di ciò che
è stato loro ordinato, e questi non ordinino pila
di quanto giustamente si può compiere; i primi siano sottomessi umilmente e gli
altri presiedano con moderazione. Infatti, per quanto si può anche intendere in
modo figurato, ai sudditi viene detto: Figli,
obbedite ai vostri genitori, nel Signore; e per i
prelati c’è il precetto: E voi,
padri, non provocate all’ira i vostri figli (Col. 3, 20-21).
I primi imparino come disporre il proprio intimo agli occhi del
Giudice occulto; e gli altri come offrire all’esterno esempi di una vita buona
anche a coloro che sono stati loro affidati. I prelati, infatti, devono sapere
che se commettono azioni perverse sono degni di morire tante volte quanti sono
gli esempi di perdizione che essi offrono ai loro sudditi. Perciò è necessario
che si custodiscano dalla colpa con una cautela tanto maggiore in quanto non
sono soli a morire, a causa delle loro azioni perverse, ma sono rei delle anime
altrui che essi hanno distrutto con i loro cattivi esempi. Così occorre ammonire
i sudditi, che saranno severamente puniti se non sapranno farsi trovare liberi
da colpa, almeno quanto a se stessi; e i prelati, che saranno giudicati degli
errori dei sudditi anche se essi si sentono tranquilli per quanto li riguarda
personalmente. I sudditi abbiano una cura tanto pila sollecita del proprio
dovere in quanto non devono preoccuparsi degli altri; ma i prelati provvedano
agli interessi altrui senza tralasciare di curare i propri, e per questi siano
ferventi e solleciti come in nulla devono
essere pigri a custodire quanti sono stati loro affidati. Infatti a colui
che deve provvedere solo a se stesso viene detto: Va’ dalla formica, pigro, e considera le sue vie e impara la sapienza (Prov. 6, 6); ma all’altro viene
fatta una terribile ammonizione quando gli è detto: Figlio mio,
ti sei impegnato per il tuo amico, hai dato la tua mano a un estraneo e
ti sei preso al laccio con le parole della tua bocca e sei prigioniero dei tuoi
propri discorsi (Prov. 6, 1). Infatti, impegnarsi per
un amico equivale a prendere su di sé l’anima di un altro a rischio della
propria vita; per questo poi si dà anche la mano a un estraneo, perché l’animo
si lega a una preoccupazione e a una sollecitudine che prima non aveva. Ed egli
è preso al laccio dalle parole della sua bocca e prigioniero dei propri
discorsi, perché mentre è costretto a dire cose buone a coloro che gli sono
stati affidati è necessario che prima egli stesso custodisca ciò che dice, ed è
quindi propriamente preso al laccio dalle parole della sua bocca quando è
costretto dalla coerenza a non abbandonarsi a una vita diversa da quanto egli va
insegnando. E perciò presso il severo Giudice egli è costretto ad adempiere,
praticamente, tutto quanto risulta che egli ha imposto agli altri a parole.
Segue poi subito e opportunamente l’esortazione: Dunque,
fa’ quanto ti dico, figlio mio, e liberati poiché sei caduto nelle
mani del tuo prossimo, corri, affrettati, sveglia il tuo
amico, non dare sonno ai tuoi occhi, non sonnecchino le tue
palpebre (Prov. 6, 3-4). Chi infatti è preposto
agli altri come esempio di vita è ammonito non solo a vegliare lui stesso ma
anche a svegliare l’amico. Giacché non basta, perché la sua vita sia buona, che
vegli, se non
separa dal torpore del
peccato anche colui a cui presiede. Ed è detto bene: Non dare sonno ai tuoi
occhi, non sonnecchino le tue
palpebre. Dare sonno agli occhi significa trascurare affatto
la cura dei sudditi cessando l’attenzione per loro. E le palpebre sonnecchiano
quando i nostri pensieri sanno che cosa bisogna rimproverare ai sudditi ma lo
dissimulano, resi indolenti dalla pigrizia. Infatti, dormire profondamente è non
conoscere e non correggere le azioni dei sudditi, mentre non è dormire ma
sonnecchiare, il conoscere ciò che va rimproverato e tuttavia non correggerlo
coi giusti rimproveri, per una specie di pigra noia dello spirito. Ma,
sonnecchiando, l’occhio cade nel sonno profondo, e ciò avviene per lo più quando
chi governa non taglia il male che conosce, e quindi poi, a causa della sua
negligenza, può giungere addirittura al punto di non sapere più riconoscere il
peccato commesso dai sudditi. Pertanto, bisogna ammonire coloro che governano ad
avere gli occhi attentissimi, dentro di sé e attorno, attraverso una accurata
vigilanza e ad adoperarsi per divenire animali celesti (cf. Ez. 1, 18):
quegli animali celesti che vengono descritti tutti pieni di occhi di dentro e di
fuori (cf. Ap. 6, 6).
Ed è certo cosa degna che tutti quelli che governano abbiano occhi rivolti
dentro di sé e attorno e, mentre cercano di piacere nel loro intimo al Giudice
interiore, offrendo all’esterno esempi di vita scorgano anche ciò che va
corretto negli altri. I sudditi poi vanno ammoniti a non giudicare
temerariamente la vita dei loro superiori, se capita di vederli fare qualche
cosa degna di rimprovero, perché non accada che, mentre giustamente rimproverano
cose malfatte, poi per un impulso orgoglioso, sprofondino in mali peggiori.
Bisogna ammonirli che, quando considerano le colpe dei superiori, non diventino
arroganti verso di loro, ma se si danno di fatto in essi alcune gravi colpe, le
discernano così però da non rifiutarsi, in ogni caso, di portare nei loro
confronti il giogo del rispetto dovuto, costretti a ciò dal timore di Dio. Ciò
si dimostra meglio portando l’esempio di quanto fece David: una volta che Saul,
il suo persecutore, era entrato in una grotta per evacuare, e là c’era David coi
suoi uomini — il quale già da lungo tempo portava il peso della sua persecuzione
— questi, poiché i suoi lo incitavano a colpire Saul, li persuase con la
risposta che non si doveva mettere le mani sull’unto del Signore. Tuttavia si
alzò di nascosto e gli tagliò il lembo del mantello (cf.
1 Sam. 24, 4 ss.).
Che cosa rappresenta Saul se non le cattive guide delle anime; e David, se non i
buoni sudditi? Pertanto, Saul che evacua designa i superiori empi che estendono
la malizia concepita nel cuore a compiere opere maleodoranti, e mostrano
nell’aperta esecuzione dei fatti i pensieri colpevoli del loro intimo. E
tuttavia David ebbe timore di colpirlo perché le pie menti dei sudditi che si
astengono da ogni pestifera maldicenza non colpiscono la vita dei superiori, con
la spada della loro lingua, anche quando li rimproverano per la loro
imperfezione. E se pure talvolta, per la loro debolezza fanno fatica ad
astenersi dal parlare di certe mancanze dei superiori più gravi e manifeste, e
tuttavia lo fanno umilmente, è come se tagliassero in silenzio l’orlo del
mantello; perché questo mancare verso la dignità del superiore, sia pure senza
nuocere e di nascosto, equivale a rovinare la veste del re costituito su di
loro. Ma essi poi rientrano in se stessi e si rimproverano aspramente
perfino di quel leggerissimo taglio operato con la parola. Perciò si trova
giustamente scritto in quel luogo: Dopo ciò David percosse il suo cuore,
per aver tagliato l’orlo del mantello di Saul (1
Sam. 24, 6). Dunque, le azioni dei
superiori non bisogna ferirle con la spada della bocca, anche quando si giudica
che sia giusto rimproverarle. Se però qualche volta la lingua si lascia andare
anche per pochissimo contro di loro, bisogna che il cuore si stringa per il
dolore del pentimento finché rientri in se stesso e, avendo peccato contro
l’autorità che gli è preposta, tema molto il giudizio di colui che gliel’ha
preposta. Perché quando pecchiamo contro i superiori contravveniamo a quella
disposizione che ce li ha preposti. Perciò anche Mosé, quando venne a sapere che
il popolo si lamentava contro di lui e contro Aronne, disse: Che cosa siamo
noi? La vostra mormorazione non è contro di noi,
ma contro il Signore (Es. 16, 8).
5 — Come bisogna
ammonire i servi e i padroni
Diverso è il modo di
ammonire i servi e i padroni. I servi, bisogna ammonirli a considerare sempre in
se stessi l’umiltà della loro condizione; i padroni, a non dimenticare la
propria natura per la quale sono creati uguali ai loro servi. I servi bisogna
ammonirli a non disprezzare i loro padroni per non offendere Dio insuperbendo e
contraddicendo alla sua disposizione; ma bisogna ammonire anche i padroni che, a
loro volta, insuperbiscono contro Dio riguardo al suo dono se non riconoscono
uguali a sé, per la comune natura, coloro che, per la loro condizione, tengono
sottomessi.
I servi bisogna ammonirli
a sapere di essere servi dei loro padroni; i padroni bisogna ammonirli a
riconoscere di essere conservi dei loro servi. Agli uni infatti è detto:
Servi, obbedite ai vostri
padroni secondo la carne (Col.
3, 22). E ancora: Coloro che
sono sotto il giogo della servita giudichino i loro padroni degni di ogni onore
(1
Tim. 6, 1); ma agli altri è detto:
E voi, padroni, fate lo
stesso con loro rinunciando a minacciarli, sapendo che il padrone vostro
e loro è nei cieli (Ef.
6, 2).
6 — Come bisogna
ammonire sapienti e incolti
Diverso è il modo di
ammonire i sapienti di questo mondo e gli incolti. I sapienti, bisogna ammonirli
a perdere la scienza di ciò che sanno; gli incolti invece, a desiderare di
sapere ciò che non sanno. Negli uni la prima cosa da distruggere è il fatto che
essi si giudicano sapienti; negli altri, bisogna ormai edificare tutto ciò che
si conosce della sapienza celeste, poiché in loro non c’è alcuna superbia e con
ciò è come se avessero preparato i loro cuori a ricevere quell’edificio. Coi
sapienti bisogna affaticarsi perché divengano più sapientemente stolti:
abbandonino la sapienza stolta ed imparino la sapiente stoltezza di Dio (cf. 1 Cor. 1, 25);
agli incolti invece, bisogna predicare in modo che, dalla loro apparente
stoltezza si accostino più da vicino alla vera sapienza. Infatti, ai primi è
detto: Se qualcuno di voi sembra sapiente in questo secolo,
diventi stolto per essere sapiente (1
Cor. 3, 18); e agli altri è detto:
Non molti sapienti secondo la carne
(1
Cor. 1, 26). E ancora: Dio ha
scelto le cose stolte del mondo per confondere i sapienti
(1
Cor. 1, 27). Per lo più ci vogliono
ragionamenti per convertire i primi; per gli altri, molto spesso valgon meglio
gli esempi. A quelli, pertanto, giova rimanere vinti nelle loro argomentazioni;
per questi invece, in genere è sufficiente che conoscano azioni altrui degne di
lode. Perciò il grande maestro,
debitore verso i sapienti e verso gli insipienti
(Rom.
1, 14), insegnando agli Ebrei,
tra i quali alcuni erano sapienti e altri anche piuttosto rozzi, e parlando loro
del compimento dell’Antico Testamento, superò la loro sapienza con l’argomento:
Quanto è antiquato e vecchio è presso alla morte
(Ebr.
8, 13). Ma poi, rendendosi
conto che alcuni si potevano trascinare solamente con la forza degli esempi,
aggiunse nella medesima lettera: I santi sperimentarono schemi e battiture e
inoltre catene e carcere, furono lapidati, segati, sottoposti a dure prove,
uccisi di spada (Ebr. 11, 36-37). E ancora: Ricordatevi dei vostri superiori che vi hanno
parlato la Parola di Dio e,
considerando quale fu il termine della loro esistenza, imitatene la fede
(Ebr. 13, 7). E così vinceva gli uni con la forza del ragionamento; e gli altri li persuadeva
ad elevarsi a una vita superiore attraverso una dolce imitazione.
7 — Come bisogna
ammonire gli sfrontati e i timidi
Diverso è il modo di
ammonire gli sfrontati e i timidi. I primi, infatti, nulla vale a trattenerli
dal vizio della sfrontatezza se non un duro rimprovero, mentre gli altri per lo
più si dispongono al meglio con una esortazione moderata. Quelli non si
accorgono di fare il male se non ricevono rimproveri da più parti; a convertire
i timidi, per lo più è sufficiente che il maestro gli richiami alla mente con
dolcezza le loro mancanze. Gli sfrontati, li corregge meglio chi li affronta con
un violento rimprovero, ma coi timidi si raggiunge un miglior risultato se si
sfiora appena ciò che in essi occorre rimproverare. Perciò il Signore,
rimproverando apertamente il popolo sfrontato dei Giudei, dice: La tua fronte
è divenuta come quella di una donna prostituta:
non hai voluto arrossire (Ger. 3, 3).
E di
nuovo conforta colei che si vergogna, dicendo: Ti
dimenticherai della vergogna della tua adolescenza, e non ricorderai l’obbrobrio della tua vedovanza, perché
sarà tuo Signore colui che ti ha fatta
(Is. 54, 4-5).
E Paolo sgrida apertamente anche i Galati che
peccavano con sfrontatezza, dicendo: O Galati insensati,
chi vi ha affascinato? (Gal. 3, 1)
E ancora: Siete così stolti che dopo avere incominciato con lo spirito finite
con la carne? (Gal. 3, 3).
Ma le colpe dei timidi le rimprovera quasi con
compassione, dicendo: Ho gioito grandemente nel Signore che finalmente sono
rifioriti i vostri sentimenti verso di me, come già li avevate ma eravate presi [da altro] (Fil. 4, 10).
E così, col rimprovero duro toglieva le colpe degli uni, e con parole più dolci
copriva la negligenza degli altri.
8 — Come bisogna
ammonire i presuntuosi e i pusillanimi
Diverso è il modo di
ammonire i presuntuosi e i pusillanimi. Quelli infatti, sono molto sicuri di sé
e rimproverano sdegnosamente gli altri; questi invece, troppo consci della
propria debolezza, per lo più si lasciano andare alla disperazione. I primi
hanno una straordinaria altissima stima di tutto ciò che compiono; gli altri
giudicano affatto spregevole ciò che fanno e perciò si scoraggiano e disperano.
Per questo, chi deve riprendere le azioni dei presuntuosi, deve discuterle con
grande sottigliezza per dimostrare loro che ciò in cui essi piacciono a se
stessi, dispiacciono a Dio. È allora infatti che li correggiamo meglio, cioè
quando dimostriamo loro che quel che credono di aver fatto bene è fatto male,
così che proprio di dove si crede di aver raggiunto la gloria provenga un utile
turbamento. Spesso però, quando proprio non si rendono conto per nulla di
peccare di presunzione, si correggono più rapidamente se restano confusi per il
rimprovero rivolto a un’altra colpa più manifesta scoperta in loro, così che da
ciò di cui non sono in grado di difendersi riconoscano che non sostengono
rettamente ciò che difendono. Perciò Paolo, rivolgendosi ai Corinzi che vedeva
presuntuosamente gonfi gli uni verso gli altri dire che uno era di Paolo,
l’altro di Apollo, l’altro di Cefa, l’altro di Cristo (cf. 1 Cor. 1, 12),
tirò fuori quel peccato di incesto che era stato commesso presso di loro e
restava impunito, dicendo: Si sente dire che si dà una fornicazione tra di
voi, e una tale fornicazione
quale non è ammissibile neppure fra i gentili, e cioè che uno abbia come
sua la moglie di suo padre. E voi vi siete gonfiati e non avete fatto
piuttosto lutto, perché fosse tolto di tra voi colui che ha commesso una
tale azione (1 Cor. 5, 1-2).
Come se dicesse apertamente: Perché nella vostra presunzione dite di
essere di questo e di quello, voi che mostrate di non essere di nessuno per
questa negligenza con cui vi siete sciolti da ogni legame? Al contrario,
riconduciamo al bene i pusillanimi in modo più appropriato se ci informiamo
indirettamente di qualche loro buona azione e, lodandola, li confortiamo nello
stesso momento in cui li dobbiamo accusare rimproverandogliene altre; affinché
la lode ricevuta sostenga la loro timidezza mentre riceve il castigo dal
rimprovero della colpa. Spesso tuttavia otteniamo un risultato più utile con
loro se richiamiamo anche solo ciò che hanno fatto di bene; e se hanno compiuto
qualche cosa di irregolare non glielo rimproveriamo come una colpa già commessa,
ma ci limitiamo a distoglierli da quella come se dovessero ancora commetterla,
affinché la benevolenza manifestata accresca in loro le azioni che approviamo,
mentre contro le azioni che dobbiamo rimproverare più che il rimprovero abbia
maggiore efficacia presso di loro una esortazione riguardosa. Perciò il medesimo
Paolo, vedendo che i Tessalonicesi fermi nella predicazione ricevuta erano
turbati da un senso di paura come per una prossima fine del mondo, prima loda
quanto scorge in loro di forte, e solo dopo, con caute ammonizioni, rafforza la
loro debolezza. Dice infatti: Dobbiamo ringraziare sempre Dio per voi,
fratelli, come è degno, perché la vostra fede aumenta e abbonda in
ciascuno di voi la carità vicendevole; così che noi stessi ci gloriamo
per voi nelle chiese di Dio, per la vostra pazienza e la vostra fede
(2 Tess. 1, 3-4). E dopo avere premesso queste lodi lusinghiere riguardo alla loro vita, poco dopo
prosegue dicendo: Vi preghiamo tuttavia,
fratelli, per la venuta del nostro Signore Gesti Cristo e il nostro
riunirci in Lui, che non vi lasciate smuovere troppo presto dal vostro
sentire né spaventare da spirito o da discorso o da lettera come fosse stata
scritta da noi, come se il giorno del Signore fosse imminente (2
Tess. 2, 1). Così, da vero maestro,
fece in modo che prima si sentissero lodati per ciò che riconoscevano di sé, e
quindi si sentissero esortati rispetto a ciò che dovevano seguire; affinché la
lode premessa rafforzasse il loro spirito per accogliere senza turbamento la
ammonizione che sarebbe seguita. E sebbene sapesse che essi erano turbati dal
timore della prossima fine, non li rimproverava per questo, ma come se ignorasse
addirittura la cosa, quasi non si fosse ancora data, li preveniva affinché non
si turbassero. E questo perché, mentre per quel lieve cenno potevano credere che
il loro maestro avesse addirittura ignorato questo aspetto in loro, temessero
però sia di meritare il rimprovero sia di essere in ciò conosciuti da lui.
9 — Come si devono
ammonire gli impazienti e i pazienti
Diverso è il modo di
ammonire gli impazienti e i pazienti. Infatti, agli impazienti bisogna dire che
trascurando di frenare la loro natura precipiteranno in molte azioni inique
contro la loro stessa intenzione, perché evidentemente il furore spinge l’animo
dove non desidererebbe essere trascinato e, senza che uno se ne renda conto,
provoca turbamenti, di cui poi egli
si duole quando ne
prende coscienza. Bisogna dire pure agli impazienti che quando agiscono come
folli per impulso di un moto precipitoso, a stento si rendono conto delle
proprie azioni cattive solo dopo che le hanno compiute. Coloro che non
contrastano per nulla le proprie emozioni, turbano anche ciò che forse avevano
compiuto tranquillamente, e per un improvviso impulso distruggono tutto ciò che
forse avevano costruito con lunga e provvida fatica. Per il vizio
dell’impazienza si perde perfino la virtù, poiché è scritto: La carità è
paziente (1
Cor. 13, 4). Pertanto, se non è paziente affatto non è
carità. Anche la stessa scienza che alimenta le altre virtù è dissipata dal
vizio dell’impazienza, infatti è scritto: La scienza dell’uomo si apprende
attraverso la pazienza (Prov.
19, 11);
per cui tanto meno uno si mostra dotto quanto meno si dimostra paziente. E
neppure può compiere con verità il bene a parole, se nella vita non sa
sopportare in pace i difetti altrui. Inoltre, per questo vizio dell’impazienza
lo spirito resta ferito dalla colpa dell’arroganza, perché quando uno non
sopporta di essere disprezzato in questo mondo, se ha qualche bene nascosto si
sforza di ostentarlo, così attraverso l’impazienza è condotto all’arroganza e,
per non poter sopportare il disprezzo, mettendo in mostra se stesso si gloria
con l’ostentazione. Perciò sta scritto: È meglio il paziente dell’arrogante
(Qo. 7, 9);
poiché evidentemente il paziente preferisce
sopportare qualsiasi male piuttosto di far conoscere con l’ostentazione i suoi
beni nascosti. L’arrogante, al contrario, preferisce vantarsi di qualche bene,
anche falsamente, pur di non dover sopportare neppure il più piccolo male.
Pertanto, poiché quando
si abbandona la pazienza va distrutto anche il resto di bene che si è compiuto,
giustamente in Ezechiele si trova il precetto che sull’altare di Dio si faccia
una cavità perché si conservino gli olocausti che vi stanno sopra
(cf.
Ez. 43, 13). Infatti se nell’altare
non ci fosse la cavità i resti di quel sacrificio sarebbero dispersi dal vento.
Ma che cosa dobbiamo intendere per altare di Dio se non l’anima del giusto che
pone su di sé, davanti agli occhi di Lui, quanto di bene ha compiuto come
sacrificio? E che cos’è la cavità dell’altare se non la pazienza dei buoni che
umilia il loro spirito per sopportare le avversità e lo mostra come adagiato nel
fondo di una fossa? Si faccia dunque una cavità nell’altare, affinché il vento
non disperda il sacrificio che vi sta sopra; cioè, lo spirito degli eletti
custodisca la pazienza per non perdere, a causa del vento dell’impazienza, anche
ciò che di bene ha compiuto. Ed è giusto che quella medesima cavità, secondo
quanto è descritto, sia di un solo cubito; poiché è naturale che se non si
abbandona la pazienza si conserva la misura dell’unità. Per cui anche Paolo
dice: Portate a vicenda i vostri pesi, e così adempirete la legge di Cristo (Gal. 6, 2). Poiché la legge di
Cristo è la carità dell’unità che compiono solamente coloro i quali, anche
quando portano grave peso, non trascendono. Ascoltino gli impazienti ciò che sta
scritto: È meglio un paziente che un uomo forte,
e chi domina il suo animo pia che un conquistatore di città (Prov.
16, 32). Vale meno infatti una
vittoria contro delle città, giacché ciò che in questo caso si sottomette è
qualcosa di esterno; ma è molto di più ciò che si vince con la pazienza, poiché
è l’anima che si lascia vincere da se stessa e si sottomette se stessa quando la
pazienza la spinge a frenarsi dentro di sé. Ascoltino gli impazienti ciò che la
Verità dice ai suoi eletti: Nella vostra pazienza possederete le vostre anime
(Lc. 21, 19). Infatti siamo stati creati in modo così mirabile che lo spirito possiede l’anima
e l’anima possiede il corpo; ma all’anima è rifiutato il suo diritto di
possedere il corpo se essa non è prima posseduta dallo spirito. Pertanto il
Signore, insegnandoci che nella pazienza possediamo noi stessi, ci ha insegnato
che la pazienza è custode della nostra condizione naturale. Perciò possiamo
conoscere quanto sia grande la colpa dell’impazienza se per essa perdiamo
perfino il possesso di ciò che siamo. Ascoltino gli impazienti ciò che ancora
dice Salomone: Lo stolto sfoga tutto il suo animo, il sapiente invèce attende e lo serba per l’avvenire (Prov.
29, 11). Per l’impulso
dell’impazienza avviene che tutto l’animo si sfoghi al
di fuori, ed è naturale che l’agitazione lo riversi all’esterno poiché nessuna
sapiente disciplina lo trattiene interiormente. Ma il sapiente attende e lo
serba per l’avvenire. Infatti, se viene offeso non desidera vendicarsi subito,
poiché anche dovendo sopportare preferisce trattenersi, tuttavia non ignora che
tutto riceverà la giusta vendetta nell’ultimo giudizio. Al contrario, bisogna
ammonire i pazienti a non dolersi interiormente di ciò che sopportano al di
fuori, per non corrompere nell’intimo con la peste della malizia l’intensità di
quel sacrificio ricco di virtù che immolano interiormente; e la colpa di questo
dolore, non riconosciuta come tale dagli uomini, ma peccato di fronte all’esame
divino, non divenga tanto peggiore proprio in quanto davanti agli uomini
pretende di
passare per virtù. Dunque bisogna dire ai
pazienti che si studino di amare coloro che sono costretti a sopportare, perché
se la pazienza non è accompagnata dalla carità, la virtù che ostenta non si muti
nella peggiore colpa dell’odio. Perciò Paolo, dopo avere detto: La carità è
paziente, aggiunge
subito: La carità è benigna (1
Cor. 13, 4), volendo mostrare
chiaramente che essa non cessa di amare con benignità coloro che sopporta con
pazienza.
Perciò il medesimo
egregio maestro, esortando i discepoli alla pazienza con le parole: Ogni
asprezza e ira e sdegno e clamore e ingiuria sia tolta da voi
(Ef.
4, 31), come dopo averli già
tutti ben disposti esteriormente, si rivolge al loro intimo e aggiunge: con
ogni malizia; poiché,
evidentemente, invano si toglie all’esterno lo sdegno, il clamore e l’ingiuria
se nell’intimo domina la malizia madre dei vizi; e invano si incide al di fuori
dei rami il male se esso si conserva nell’intimo della radice, pronto a
riaffiorare moltiplicato. Perciò la Verità stessa dice: Amate i vostri nemici,
fate del bene a coloro che vi odiano e pregate per coloro che vi perseguitano e
vi calunniano (Lc. 6, 27-28).
Dunque è virtù davanti agli uomini sopportare i nemici, ma davanti a
Dio la virtù è amarli, poiché Dio accoglie soltanto quel sacrificio che la
fiamma della carità accende davanti ai suoi occhi sull’altare delle buone opere.
Perciò dice ancora ad alcuni pazienti ma non caritatevoli: Perché vedi la
pagliuzza nell’occhio del tuo fratello e non vedi la trave nel tuo occhio?
(Mt. 7, 3), significando che il turbamento dell’impazienza è la
pagliuzza, ma la malizia in cuore è la trave nell’occhio. Infatti il soffio
della tentazione agita il filo di
paglia, ma la malizia consumata porta la trave quasi senza scosse. E giustamente
in quel passo si prosegue: Ipocrita, getta via prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai per
gettare la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello (Mt.
7, 5), come se dicesse
all’anima malvagia che si rode interiormente e all’esterno invece si mostra
santa per la pazienza: prima fa’ uscire da te la tua pesante malizia e poi
rimprovera agli altri la loro leggera impazienza, affinché il tollerare i
peccati altrui non sia per te peggio, se non ti sforzi a vincere lo spirito di
simulazione. Suole anche accadere spesso alle persone pazienti che, proprio nel
momento in cui o sopportano avversità o ricevono ingiurie, non si sentano spinte
da nessun risentimento e mostrino così una pazienza tale che permette loro di
conservare anche l’innocenza del cuore. Ma quando, passato un po’ di tempo,
richiamano alla memoria ciò che hanno dovuto sopportare, accendono in sé il
fuoco del risentimento e vanno a cercare gli argomenti per vendicarsi; e con
questa intima ritrattazione mutano in malizia la mansuetudine che avevano
conservato nella pazienza. Allora il maestro li soccorre ben presto se gli
manifesta la causa di questo mutamento. Infatti l’astuto avversario muove guerra
contro due tipi di persone: uno lo accende spingendolo ad offendere per primo,
l’altro lo provoca a restituire l’offesa ricevuta; mentre riesce subito
vincitore sul primo che si è lasciato persuadere all’ingiuria, resta poi vinto
da colui che porta tranquillamente l’offesa ricevuta. Pertanto, vincitore del
primo che è riuscito a soggiogare agitando il suo animo, si erge con tutta la
sua potenza contro l’altro e si irrita che questi gli resista con forza e vinca;
ma poiché non poté turbarlo nell’attimo stesso
in cui riceveva
l’ingiuria, rinunciando per il momento alla lotta aperta e attaccando il suo
pensiero con una suggestione segreta, cerca il tempo adatto per trarlo in
inganno. Infatti ha perduto nel pubblico combattimento e arde di esercitare
nascostamente le sue insidie. Così, nel tempo del riposo, ritorna all’animo del
vincitore e gli richiama alla memoria le perdite materiali
subite o le ferite delle ingiurie, e maggiorando grandemente quanto di male gli
è stato inflitto glielo mostra intollerabile e gli turba la mente con tanta
tristezza, che spesso l’uomo paziente, divenuto prigioniero dopo la vittoria,
arrossisce di avere sopportato tranquillamente quelle offese, si duole di non
averle ricambiate e cerca, se si offra l’occasione, di renderne di peggiori. A
chi dunque sono simili costoro se non a quelli che per la loro forza riescono
vincitori in campo aperto, ma per la loro negligenza in seguito si lasciano fare
prigionieri dentro le mura della città? A chi sono simili se non a coloro che
una improvvisa e grave malattia non li strappa alla vita, ma li uccide una
leggera febbre recidiva? Così bisogna ammonire le persone pazienti a fortificare
il loro cuore dopo la vittoria perché il nemico battuto in aperto combattimento
non mediti di insidiare le mura del pensiero; e temano maggiormente la malattia
che riprende a serpeggiare più insidiosamente, perché il nemico astuto non goda
poi dell’inganno con una esultanza tanto maggiore in quanto, ora calpesta i
colli dei suoi vincitori che prima si ergevano contro di lui.
10 — Come si devono
ammonire i benevoli e gli invidiosi
Diverso è il modo di
ammonire i benevoli e gli invidiosi. Bisogna ammonire i benevoli a gioire dei
beni altrui così da desiderare di farli propri. Lodino con vero amore le azioni
del prossimo così da moltiplicarle anche, imitandole; perché se nella sosta
della vita presente assistono alla gara altrui come devoti sostenitori ma
insieme come spettatori pigri, non restino, dopo la gara, senza premio quanto
pin ora, durante la gara, non hanno faticato; e, allora, non debbano guardare
afflitti alle palme di coloro davanti alle cui fatiche, ora, persistono in ozio.
Poiché pecchiamo gravemente se non amiamo ciò che gli altri fanno di bene, ma
non traiamo motivo di ricompensa se, per quanto sta in noi, non imitiamo ciò che
amiamo. Perciò alle persone benevole bisogna dire che se non si affrettano per
nulla ad imitare il bene che approvano con la loro lode, a loro piace la santità
delle virtù come agli stolti spettatori piace la vanità delle arti ludiche.
Costoro infatti esaltano coi loro applausi le imprese di aurighi e di attori e
tuttavia non desiderano essere tali quali vedono essere coloro che lodano. Li
ammirano per ciò che hanno compiuto di piacevole, tuttavia evitano di piacere
allo stesso modo.
Bisogna dire ai
benevoli che quando guardano alle azioni del prossimo rientrino nel proprio
cuore e non si vantino di azioni altrui; non lodino il bene mentre rifiutano di
compierlo, pöiché tanto più gravemente devono essere colpiti dall’estremo
castigo coloro a cui è piaciuto ciò che non hanno voluto imitare. Bisogna
ammonire gli invidiosi a valutare attentamente la cecità di coloro che vengono
meno per il successo degli
altri e si struggono per la gioia altrui. Quanto
grande è l’infelicità di coloro che diventano peggiori perché vedono migliorare
gli altri e, mentre guardano aumentare la fortuna altrui, stretti
dall’afflizione in se stessi, muoiono per la peste che hanno nel loro cuore. Che
cosa ci può essere di più infelice di costoro che la pena per la constatazione
della felicità altrui rende più cattivi? Invero, se amassero i beni degli altri
che non possono avere per sé, li farebbero propri. Poiché essi sono tutti
stabiliti nella fede, come molte membra in un solo corpo, le quali sono certo
diverse per la diversità delle funzioni, ma per il fatto stesso della loro
corrispondenza reciproca diventano una cosa sola (cf. 1 Cor. 12, 12-30). Per cui
avviene che il piede vede attraverso l’occhio e gli occhi camminano per mezzo
dei piedi, l’ascolto delle orecchie serve alla bocca e la lingua che sta in
bocca concorre con gli orecchi alla propria funzione; il ventre sostiene
l’attività delle mani e le mani lavorano per il ventre. Pertanto, è dalla stessa
condizione del corpo, che riceviamo ciò che dobbiamo conservare nel nostro
agire. E così è troppo vergognoso non imitare ciò che siamo. È certamente nostro
ciò che amiamo negli altri anche se non possiamo imitarlo; e ciò che è amato in
noi diviene di chi l’ama. Perciò gli invidiosi misurino quanto è grande la
potenza della carità che rende nostre senza fatica le opere della fatica altrui.
E così bisogna dire agli invidiosi che quando non si custodiscono per nulla
dall’invidia, sprofondano nella malizia antica dello scaltro nemico, perché di
lui è scritto: Per l’invidia del diavolo la morte entrò nel mondo
(Sap. 2, 24).
Infatti, poiché egli aveva perduto il cielo, lo invidiò all’uomo appena creato,
ed essendosi perduto lui volle accrescere la sua perdizione perdendo ancora
altri. Bisogna ammonire gli invidiosi a rendersi conto di quanto siano grandi le
cadute per le quali cresce la rovina sotto cui essi giacciono, poiché sé non
gettano via l’invidia dal cuore precipitano in una aperta iniquità di opere. Se
infatti Caino non avesse invidiato il sacrificio gradito [a Dio] del fratello,
non sarebbe giunto a spegnere la sua vita. Perciò è scritto: E il Signore
riguardò ad Abele e ai suoi doni;
ma non riguardò a Caino e ai suoi doni. E Caino si adirò fortemente e gli
cadde il volto (Gen. 4, 4). E così, l’invidia per
il sacrificio fu il germe del fratricidio, ed egli tagliò via chi non sopportava
fosse migliore di lui, affinché non fosse più
in alcun modo. Bisogna dire agli invidiosi che mentre si consumano interiormente
per questa peste essi uccidono anche ogni altra cosa buona sembrino avere dentro
di sé. Perciò è scritto: La sanità del cuore è vita della carne, l’invidia è putredine delle ossa (Prov. 14, 30).
Che cosa si intende per carne se non le azioni molli e deboli, e per
ossa se non quelle forti? Eppure accade spesso che alcuni i quali appaiono
deboli in alcune loro azioni, hanno l’innocenza del cuore e altri invece si
comportino in maniera forte agli occhi degli uomini e tuttavia nei confronti del
bene altrui si consumino nell’intimo, per la peste dell’invidia. Pertanto è ben
detto: La sanità del cuore è vita della carne,
perché se si custodisce l’innocenza del cuore, anche se l’agire
esterno talvolta è debole, prima o poi si irrobustisce. E si aggiunge
correttamente: L’invidia è putredine delle ossa,
perché per il vizio dell’invidia, agli occhi di Dio vanno perdute
anche quelle azioni che agli occhi degli uomini sembrano da forti; infatti
l’imputridire delle ossa per l’invidia significa il deperire di certe cose anche
forti.
11 — Come si devono
ammonire i semplici e gli insinceri
Diverso è il modo di
ammonire i semplici e gli insinceri.
I semplici bisogna
lodarli perché si studino di non dire mai il falso, ma bisogna ammonirli che
sappiano ogni tanto tacere il vero. Come il falso nuoce sempre a chi lo dice,
così talvolta ad alcuni nuoce ascoltare la verità. Perciò il Signore, temperando
il suo discorso col silenzio, davanti ai discepoli, dice: Ho molte cose da
dirvi ma ora non potete portarle (Gv.
16, 12). Pertanto bisogna
ammonire i semplici a dire la verità badando sempre all’utilità allo stesso modo
che sempre utilmente evitano l’inganno. Bisogna ammonirli ad aggiungere al bene
della semplicità quello della prudenza, affinché abbiano quella sicurezza che
viene dalla semplicità senza perdere quell’attenzione propria della prudenza.
Perciò infatti dice il dottore delle genti: Voglio che voi siate sapienti nel
bene ma semplici nel male (Rom. 16, 19). Perciò la Verità stessa
ammonisce i suoi eletti dicendo: Siate prudenti come serpenti e semplici come
colombe (Mt. 10, 16). Perché evidentemente
nel cuore degli eletti l’astuzia del serpente deve rendere acuta la semplicità
della colomba, e insieme la semplicità della colomba deve temperare l’astuzia
del serpente, affinché essi non si lascino sedurre ad eccedere nell’esercizio
della prudenza né, per la semplicità, divengano torpidi nell’uso
dell’intelligenza.
Al contrario, bisogna
ammonire gli insinceri a riconoscere quanto sia grave colpa la fatica di quella
doppiezza, che essi sostengono. Infatti, per il timore di essere scoperti
cercano sempre giustificazioni cattive e sono sempre agitati da sospetti che li
rendono paurosi. Ma niente è più sicuro della purezza, a propria difesa; niente
più facile a dirsi della verità. Infatti il cuore costretto a proteggere la
propria falsità dura una pesante fatica, e perciò è scritto: La fatica delle
loro labbra li ricoprirà (Sal.
139, 10). La fatica, che ora riempie e soddisfa, allora ricoprirà
perché opprimerà con atroce retribuzione l’animo di colui che ora tira fuori
d’impaccio a prezzo di una leggera inquietudine. Perciò si dice in Geremia:
Hanno insegnato alla loro lingua a dire la menzogna, si sono affaticati per commettere l’iniquità (Ger. 9, 5),
come se dicesse apertamente: Coloro che potevano essere amici della
verità senza fatica, si affaticano per peccare e mentre rifiutano di vivere
semplicemente, si adoperano con tutte le loro forze per morire. Infatti, non di
rado, se sono colti in fallo, mentre rifuggono dal farsi riconoscere quali sono,
si nascondono sotto il velo della falsità e si affaccendano per giustificare ciò
in cui stanno peccando e che è già apertamente visibile; così che spesso colui
che ha cura di correggere le loro colpe, ingannato dalle nebbie di questa
aspersione di falsità, ha quasi l’impressione di aver perduto di vista ciò che
ormai teneva per certo a loro riguardo. Perciò all’anima che pecca e si
giustifica si dice, per mezzo del profeta che rettamente la rappresenta nella
Giudea: Là ebbe la sua tana il riccio (Is. 34, 15). Col nome di riccio si
indica la doppiezza di una mente impura che si difende con astuzia, e ciò
chiaramente perché il riccio, nel momento in cui viene preso, mostra tutto
intero il corpo e si vedono capo e piedi,
ma appena è stato preso si raccoglie tutto in una palla, tira dentro i piedi,
nasconde il capo e di colpo scompare tutto nella mano di chi lo tiene, mentre
appena prima si mostrava tutto intero. Così certamente sono le anime insincere
quando vengono sorprese nelle loro prevaricazioni. Infatti si vede il capo del
riccio perché si vede quando il peccatore incomincia ad accostarsi alla colpa;
si vedono i piedi del riccio perché si conoscono le tracce del peccato commesso.
E tuttavia, con l’addurre subito le sue giustificazioni, l’anima insincera tira
dentro i piedi, cioè nasconde tutte le tracce della sua iniquità; sottrae il
capo, perché con le sue mirabili difese dimostra di non avere neppure dato
inizio a qualcosa di male, e resta come una palla in mano di chi lo tiene. Il
quale improvvisamente non si ritrova più tutto quanto aveva già compreso di lui
poiché ha di fronte un peccatore avvolto e chiuso nel segreto della sua
coscienza; e lui stesso, che lo aveva veduto tutto intero nel coglierlo sul
fatto, tratto in inganno dai raggiri di una maliziosa difesa, ancora tutto
intero lo ignora. Il riccio dunque ha una tana nei reprobi, esso che
raccogliendosi in se stesso nasconde le doppiezze di un animo malizioso nelle
tenebre della giustificazione. Ascoltino gli insinceri ciò che è scritto: Chi
cammina nella semplicità,
cammina con fiducia (Prov. 10.9);
poiché la semplicità dell’azione è fiducia di una grande sicurezza.
Ascoltino ciò che è detto dalla bocca del sapiente: Lo Spirito Santo fugge
una dottrina di falsità (Sap. 1, 5).
Ascoltino ciò che ancora è offerto dalla testimonianza della Scrittura: La
sua conversazione è coi semplici (Prov. 3, 32). Infatti il conversare
di Dio è il rivelare i suoi misteri ai cuori degli uomini attraverso
l’illuminazione della sua presenza. Pertanto si dice che conversa coi semplici
perché col raggio della sua visita illumina sui misteri celesti i loro cuori che
non sono oscurati da alcun’ombra di doppiezza. Il peccato delle persone doppie,
poi, è un peccato speciale, perché esse ingannano gli altri con l’azione doppia
e perversa e insieme si gloriano come fossero più astuti di loro; e poiché non
considerano la severità della retribuzione che riceveranno, esultano miseramente
del proprio danno. Ma ascoltino come sopra di loro il profeta Sofonia stenda la
forza della punizione divina, dicendo: Ecco, viene il giorno
del Signore, grande e terribile, giorno
d’ira quel giorno,
giorno
di tenebre e di caligine, giorno
di nebbia e di turbine, giorno
di suono di tromba su tutte le città fortificate e su tutti gli angoli elevati (cf.
Sof. 1, 15-16; Gioe. 2, 2).
Infatti, che cosa si intende per città fortificate se non gli animi sospettosi e
sempre circondati di false giustificazioni, i quali ogni volta che viene
rimproverata la loro colpa respingono da sé i dardi della verità? E che cosa è
indicato con angoli elevati (poiché negli angoli c’è sempre una doppia parete)
se non i cuori insinceri? I quali mentre fuggono la semplicità della verità, per
la stessa perversità della loro doppiezza, in qualche modo si ripiegano e, quel
che è peggio, per la loro stessa colpa di insincerità si esaltano nei loro
pensieri come avessero raggiunto l’apice della astuzia. Dunque il giorno del
Signore, pieno di vendetta e
di castigo, verrà sulle
città fortificate e sugli angoli elevati, perché l’ira dell’ultimo giudizio
distruggerà i cuori umani chiusi dalle difese contro la verità, e scioglierà le
pieghe della loro doppiezza. Allora infatti cadranno le città fortificate perché
saranno condannati gli animi che non si sono lasciati penetrare da Dio. Allora
crolleranno gli angoli elevati perché i cuori che si edificano, attraverso
l’astuzia della falsità, saranno atterrati dalla sentenza di giustizia.
12 — Come si devono
ammonire i sani e i malati
Diverso è il modo di
ammonire i sani e i malati. Bisogna ammonire i sani a esercitare la salute del
corpo a vantaggio della salute dello spirito perché, se piegano ad un uso
malizioso la grazia della buona salute che hanno ricevuto, proprio per questo
dono non diventino peggiori e meritino poi supplizi tanto più gravi quanto più
ora essi non temono di usare male dei più larghi beni di Dio. Bisogna ammonire i
sani che non disprezzino l’occasione di una salute da meritare per l’eternità,
poiché è scritto: Ecco, ora è il tempo gradito, ecco ora il tempo della salvezza
(2
Cor. 6, 2). Bisogna ammonirli che,
se non vogliono piacere a Dio quando possono, può accadere che non lo possano
quando lo vorranno troppo tardi. Da ciò infatti viene che poi la Sapienza
abbandona coloro che prima ha chiamato a lungo nel loro rifiuto, dicendo: Vi
ho chiamato e avete detto di no; ho teso la mia mano e nessuno ha guardato; avete disprezzato
ogni mio consiglio e avete trascurato i miei rimproveri; anch’io riderò
nella vostra fine e vi schernirò quando vi accadrà ciò che temevate (Prov.
1, 24 ss.). E ancora:
Allora mi invocheranno
e non ascolterò;
si leveranno la mattina e non mi troveranno
(Prov.
1, 28). Pertanto, quando si
disprezzala salute del corpo ricevuta per operare il bene, ci si rende conto di
quale grande dono fosse, quando la si è perduta; e alla fine si cerca senza
frutto ciò che, concesso al momento adatto, non è stato utilmente posseduto.
Perciò è ben detto ancora, per mezzo di Salomone: Non consegnare ad altri il
tuo onore e i tuoi anni al crudele,
perché non si riempiano gli stranieri con la tua forza e il frutto delle tue
fatiche finisca in casa altrui, e negli ultimi giorni tu pianga,
quando avrai consumato le tue carni e il tuo corpo (Prov. 5, 9 ss.).
Chi sono infatti gli stranieri, per noi, se non gli spiriti maligni separati
dalla sorte della patria celeste? E qual
è il nostro onore se non
l’essere creati a immagine e somiglianza del nostro Creatore, nonostante che
siamo fatti di corpo e di fango? O chi altri è il crudele se non quell’angelo
apostata, il quale con la sua superbia colpi se stesso con la pena di morte e,
ormai perduto, non volle risparmiare la morte al genere umano? E così, consegna
il suo onore agli stranieri colui che, fatto a immagine e somiglianza di Dio,
amministra il tempo della sua vita coi piaceri che sono propri degli spiriti
maligni. Consegna i suoi anni al crudele, chi dissipa il tempo di vita ricevuto,
secondo la volontà dell’avversario signore del male. E qui bene si aggiunge:
Perché non si riempiano gli stranieri della tua forza,
e il frutto delle tue fatiche finisca in casa altrui. Infatti
chiunque si affatica, con la forza del corpo che ha ricevuto e la sapienza della
mente che gli è stata assegnata, non a esercitare la virtù, ma a soddisfare i
vizi, non accresce la propria casa con le sue forze, ma certamente — praticando
sia
la lussuria sia la
superbia così da accrescere, con l’aggiunta di se stesso, il numero dei perduti
— moltiplica le dimore degli stranieri, cioè le azioni degli spiriti immondi. E
poi opportunamente si aggiunge: E tu pianga,
negli ultimi giorni, quando avrai consumato le tue carni e il tuo corpo.
Spesso, infatti, la salute del corpo che si
è ricevuta viene
dissipata coi vizi; ma quando improvvisamente è sottratta, quando la carne viene
afflitta da tormenti, quando l’anima già è incalzata ad uscire, si ricerca,
quasi per vivere bene, quella salute perduta che si è goduta a lungo, male. E
allora si lamentano gli uomini di non aver voluto servire Dio, quando ormai non
possono più servire, per rimediare ai danni della propria negligenza. Per cui
altrove è detto: Quando li uccideva, allora lo cercavano (Sal.
77, 34). Al contrario, bisogna
ammonire i malati a sentirsi tanto più figli di Dio quanto più li castigano i
colpi della correzione. Infatti, se Egli non avesse disposto di dare l’eredità a
coloro che corregge, non si curerebbe di istruirli attraverso le sofferenze.
Perciò il Signore dice a Giovanni per mezzo dell’angelo: Io rimprovero e
castigo quelli che amo (Ap.
3, 19). Perciò ancora è
scritto: Figlio mio, non
trascurare la correzione del Signore, non stancarti di essere
rimproverato da lui. Poiché Dio castiga chi ama e colpisce ogni figlio
che accoglie (Ebr.
12, 5-6). Perciò il salmista
dice: Molte sono le tribolazioni dei giusti,
ma da tutte li ha liberati il Signore
(Sal. 33, 20).
Perciò pure il santo Giobbe dice, gridando nel dolore: Se sarò giusto non
leverò la testa, sazio di
tribolazione e di miseria (Giob. 10, 15). Bisogna
dire ai malati che, se credono che sia loro la patria celeste, è necessario che
patiscano fatiche in questa come in terra straniera. È per questo infatti che,
per essere poste senza rumore di martelli nella costruzione del tempio del
Signore, le pietre vennero squadrate di fuori; per significare cioè che ora noi
siamo percossi dalle sferze di fuori, per essere poi posti dentro, nel tempio di
Dio, senza i colpi della correzione, affinché tutto ciò che in noi è superfluo
ora, lo tagli via la battitura, e allora, nell’edificio, ci tenga uniti la sola
concordia della carità.
Bisogna ammonire i
malati a considerare la durezza dei colpi con cui vengono castigati i figli
carnali, e solamente in vista di eredità terrene. E perché allora ci è pesante
la pena della correzione divina, per la quale si riceve una eredità che non
andrà mai perduta e si evitano supplizi che dureranno sempre? Perciò infatti
dice Paolo: Del resto, noi
abbiamo avuto come educatori i nostri padri secondo la carne, e
rispettavamo; non obbediremo molto di pia al padre degli spiriti e
vivremo? Quelli invero ci educavano secondo la loro volontà e per un tempo breve,
ma questo ci educa per ciò che è utile a ricevere la sua santificazione (Ebr.
12, 9-10). Bisogna ammonire i
malati a considerare quanta salute del cuore sia la sofferenza del corpo, la
quale richiama la mente alla conoscenza di sé e restituisce il ricordo della
propria debolezza, che spesso la salute rigetta; e così lo spirito, portato
fuori di sé a gonfiarsi di orgoglio, si ricorda a quale condizione è soggetto
proprio per quella carne colpita che deve sostenere. E ciò è rettamente
rappresentato da Balaam (se effettivamente avesse voluto seguire obbediente la
voce di Dio) proprio in quell’essere ritardato nel suo cammino. Infatti Balaam vuole giungere alla mèta che si è
prefisso ma l’animale che egli guida ostacola il suo desiderio (cf.
Num. 22, 23 ss.). In effetti, l’asina trattenuta dalla
proibizione dell’angelo vede ciò che lo spirito dell’uomo non riesce a vedere,
poiché spesso la carne resa tarda dalla sofferenza, con la percossa che patisce
indica Dio allo spirito, mentre lo stesso spirito che governa la carne non lo
vedeva; e così la carne [sofferente] trattiene l’ansietà dello spirito di colui
che brama di progredire in questo modo, come di chi sta percorrendo un cammino,
finché gli illumina l’invisibile che gli si oppone. Per ciò anche, per mezzo di
Pietro, è ben detto: Ricevette la correzione della sua follia:
un muto giumento parlando con voce umana impedì la stoltezza del profeta (2 Pt. 2, 15). E avviene che un uomo
folle sia corretto da un giumento muto, quando una mente esaltata, si ricorda
per l’afflizione della carne di quel bene dell’umiltà che avrebbe dovuto
custodire. Ma Balaam non ottenne il dono di questa correzione proprio perché,
andando per maledire, mutò le parole ma non la mente. Bisogna ammonire i malati
a considerare quale grande dono sia la sofferenza del corpo, che scioglie i
peccati commessi e impedisce quelli che si sarebbero potuti compiere e, prodotta
da piaghe esterne, infligge ferite di penitenza all’animo colpito. Perciò è
scritto: Il livido della ferita porta via il male,
e così le piaghe nei recessi del ventre (Prov. 20, 30). Infatti il livido della
ferita porta via il male perché il dolore delle percosse scioglie i pensieri e
le azioni inique. Con la parola ventre si suole intendere la mente
perché, come il ventre consuma i cibi, la mente meditando scioglie le
preoccupazioni. E che la mente sia detta ventre, lo insegna il proverbio: Lo
spirito dell’uomo è lampada del Signore,
che scruta tutti i recessi del ventre (Prov. 20, 27);
come se dicesse: l’illuminazione del soffio divino, quando viene nella
mente dell’uomo, illuminandola, la mostra a se stessa, essa che prima della
venuta dello Spirito Santo poteva portare pensieri cattivi e non sapeva pensare.
Pertanto, il livido della ferita porta via il male e così pure le piaghe nei
recessi del ventre, perché quando siamo percossi all’esterno, veniamo
richiamati, silenziosi e afflitti, al ricordo dei nostri peccati, e riportiamo
davanti ai nostri occhi tutto quanto abbiamo compiuto di male; e ciò che patiamo
di fuori ci procura maggiormente dolore nell’intimo per ciò che abbiamo fatto.
Quindi avviene che più abbondantemente che le ferite aperte del corpo, ci lavi
la piaga nascosta del ventre, perché la ferita nascosta del dolore sana la
malizia del cattivo operare. Bisogna ammonire gli ammalati a conservare la virtù
della pazienza, a considerare incessantemente quanto grandi mali il nostro
Redentore sopportò da coloro che aveva creato. Egli sostenne i tanto volgari
oltraggi della derisione e degli schemi, lui che rapisce ogni giorno
le anime dei prigionieri dalla mano dell’antico nemico, ricevette gli schiaffi
degli insultatori; lui che ci lava con l’acqua della salvezza non ritrasse la
faccia dagli sputi dei perfidi; lui che con la sua intercessione ci libera dagli
eterni supplizi, tollerò in silenzio le battiture; lui che ci assegna eterni
onori tra i cori degli angeli, sopportò i pugni; lui che ci salva dalle punture
dei peccati, non rifiutò di sottoporre il capo alle spine; lui che ci inebria in
eterno di dolcezza, ricevette l’amarezza del fiele nella sua sete; lui — che
pure essendo uguale al Padre per la divinità,
lo adorò per noi — adorato per
irrisione, tacque; lui che prepara la vita ai morti, essendo lui stesso la vita,
giunse fino a morire. Perché allora si giudica crudele che l’uomo sopporti
castighi di Dio in cambio dei suoi mali, quando Dio ha sopportato mali tanto
grandi dagli uomini in cambio dei suoi beni? O chi può esserci che, sano di
mente, sia ingrato per essere stato colpito, se colui che visse in questo mondo,
senza peccato, non se ne andò da questo mondo senza castigo?
13 — Come si devono
ammonire coloro che temono i castighi e coloro che li disprezzano
Diverso è il modo di
ammonire coloro che temono i castighi, e perciò conducono una vita innocente, e
coloro tanto induriti nell’iniquità che neppure i castighi li correggono. A
coloro che temono i castighi bisogna dire che né desiderino come gran cosa i
beni temporali dei quali vedono godere anche i cattivi; né fuggano come
intollerabili i mali presenti, poiché non ignorano che in questo mondo spesso
essi colpiscono anche i buoni. Bisogna ammonirli, se desiderano veramente essere
privi di mali, ad avere orrore degli eterni supplizi; non restino però in questo
timore dei supplizi, ma nutrendosi di carità crescano fino alla grazia
dell’amore, poiché sta scritto: La carità perfetta caccia il timore
(1 Gv. 4, 18). Ed è ancora scritto:
Non avete ricevuto spirito di servitù ancora per il timore,
ma spirito di adozione a figli nel quale gridiamo: Abbà, Padre
(Rom. 8, 15). Perciò il medesimo
maestro dice ancora: Dove è lo Spirito del Signore,
là c’è la libertà (2
Cor. 3, 17).
Dunque, se è il terrore della pena che trattiene dal commettere il male, non è
certo la libertà di spirito a possedere l’animo di colui che è atterrito.
Infatti, se non temesse la pena non c’è dubbio che commetterebbe la colpa. E
così il cuore, legato dalla schiavitù della paura, ignora la grazia della
libertà, poiché il bene si deve amare per se stesso e non sono le pene che
devono spingere a compierlo. Infatti, chi fa il bene perché teme il male dei
castighi, vorrebbe solo che non esistesse ciò che teme per potere osare di
compiere ciò che è lecito. Da cui risulta più chiaramente che si perde
l’innocenza davanti a Dio poiché si pecca di desiderio davanti ai suoi occhi. Al
contrario, coloro che neppure i castighi trattengono dall’iniquità, vanno
colpiti con rimprovero tanto più aspro quanto maggiore è l’insensibilità del
loro indurimento. Spesso infatti occorre respingerli, pur senza disprezzo, e
lasciare che la disperazione incuta il terrore e quindi subito l’ammonizione li
riporti alla speranza. Così, bisogna pronunciare severamente contro di loro le
sentenze divine, perché siano richiamati alla coscienza di sé dalla
considerazione del supplizio eterno. Ascoltino che si è compiuto contro di loro
ciò che sta scritto: Se pestassi lo stolto nel mortaio come grani d’orzo
sotto i colpi del pestello, non
verrebbe tolta da lui la sua stoltezza (Prov.
27, 22). Contro costoro il
profeta si volge con lamenti al Signore, dicendo: Li hai stritolati ed hanno
rifiutato di accogliere la correzione
(Ger. 5, 3).
Ed è ciò che dice il Signore: Ho ucciso e
distrutto questo popolo e tuttavia non si sono ritratti dalle loro
vie
(Ger. 15, 7).
E poi di nuovo dice: Il popolo non è ritornato a
colui che lo percuote (Is. 9, 13).
Quindi, con la voce dei castigatori, il profeta si lamenta dicendo: Abbiamo
curato Babilonia ma non è guarita (Ger. 51, 9).
Si intende che Babilonia viene curata e tuttavia non
guarisce, quando il cuore turbato dal cattivo operare ode le parole della
correzione, ne riceve i castighi e tuttavia trascura di ritornare al retto
cammino della salvezza. Perciò il Signore rimprovera il popolo di Israele
prigioniero e tuttavia non convertito dalla sua iniquità, dicendo: La casa di
Israele si è mutata per me in scoria: tutti costoro sono rame stagno ferro e piombo dentro la fornace
(Ez. 22, 18).
Come se dicesse apertamente: Volli purificarli col
fuoco della tribolazione e cercai di farli diventare oro e argento, ma mi sono
riusciti rame stagno ferro e piombo, perché anche nella tribolazione si sono
buttati nei vizi e non nella virtù. Rame, perché quando lo si percuote dà suono
più ampio degli altri metalli; pertanto colui che sotto i colpi che riceve rompe
nel suono della mormorazione risulta rame dentro la fornace. Lo stagno, invece,
trattato con arte, prende l’aspetto dell’argento e pertanto, chi nella
tribolazione non si astiene dal vizio della simulazione diventa stagno nella
fornace. Chi insidia alla vita del prossimo si serve del ferro, e così è ferro
nella fornace chi, pure nella tribolazione, non perde la malizia di nuocere. E
c’è anche il piombo che è il più pesante degli altri metalli; e nella
fornace si rivela piombo colui che è tanto oppresso dal peso del suo peccato
che, anche posto nella tribolazione non si solleva dai suoi desideri
terreni. Perciò ancora è scritto: Con molta fatica si sudò e non usci da essa
tutta la sua ruggine, neppure
col fuoco (Ez. 24, 12).
Cioè, ci invia il fuoco della tribolazione per purgarci dalla ruggine dei vizi,
che è in noi; ma non
perdiamo la ruggine neppure col fuoco quando, pure tra i castighi, non ci
asteniamo dal vizio. Perciò il profeta dice ancora: Invano li ha fusi il
fonditore: le loro malizie non
si sono consumate (Ger. 6, 29).
Ma bisogna anche sapere che spesso, quando persistono a non
correggersi nella durezza dei castighi, bisogna blandirli con una dolce
ammonizione, perché non di rado sono le parole miti
e le carezze che trattengono dalle azioni inique quelli che non
si lasciano correggere dalle punizioni, come anche spesso certi malati, che una
forte bevanda medicinale non riesce a curare, vengono risanati da acqua tiepida;
e alcune ferite che non possono curarsi incidendo, guariscono con impacchi di
olio. Così il duro diamante che non resta minimamente scalfito dal ferro,
diviene molle nel leggero sangue di capri.
14 —
Come bisogna ammonire i
taciturni e i chiacchieroni
Diverso
è il modo di ammonire coloro che
tacciono troppo e coloro che sono sempre pronti a parlare molto. Bisogna
suggerire a coloro che parlano troppo poco che, mentre vogliono fuggire — in
modo poco avvertito — certi vizi, restano nascostamente implicati in vizi
peggiori. Spesso infatti, frenando la lingua oltre misura, devono portare in
cuore un eccessivo peso
di parole, e così, tanto più i
pensieri ribollono nella mente
quanto più li costringe
la custodia forzata di un silenzio privo di discernimento, e si espandono tanto
più ampiamente quanto più si giudicano al sicuro perché non si mostrano fuori, a
chi potrebbe riprenderli. Perciò spesso la mente monta in superbia e disprezza
come deboli coloro che sente parlare; ma mentre chiude la bocca del suo corpo,
non si rende conto di quanto si apre ai vizi col suo insuperbire. Infatti
comprime la lingua e innalza il pensiero e mentre non considera affatto la sua
malizia, dentro di sé accusa tutti tanto più liberamente quanto più lo fa in
segreto. Perciò bisogna ammonire coloro che tacciono troppo, ad adoperarsi con
sollecitudine a conoscere non solo come si debbano mostrare al di fuori, ma
anche come si debbano disporre interiormente così da temere di più
l’occulto giudizio divino in seguito ai loro pensieri che il rimprovero del
prossimo in seguito ai loro discorsi. Infatti è scritto: Figlio mio, fa’ attenzione alla mia sapienza e piega l’orecchio alla mia
prudenza per custodire i pensieri (Prov.
5, 1). Poiché niente in noi è
più instabile del cuore, che si allontana da noi ogni
qual volta è trascinato via sull’onda dei cattivi pensieri. Perciò infatti il
salmista dice: Il mio cuore mi ha abbandonato
(Sal.
39, 13). E perciò, ritornando in
se stesso dice: Il tuo servo
ha trovato il suo cuore per pregarti
(2
Sam. 7, 27). Pertanto, il cuore solito a disperdersi, si
ritrova quando il pensiero è frenato dalla vigilanza. Spesso poi, quando coloro
che tacciono troppo patiscono qualche ingiustizia, cadono in un dolore tanto più
aspro quanto meno parlano del dolore che devono sopportare; perché se dicessero
tranquillamente la sofferenza che è stata loro inflitta, il dolore uscirebbe
dalla coscienza. Infatti le ferite chiuse fanno soffrire di più e quando il pus
che infiamma dentro viene espulso, il dolore si apre alla guarigione. Pertanto,
coloro che tacciono più del conveniente devono sapere che non è bene aumentare
la forza del dolore tra le sofferenze che sopportano, per il fatto di
trattenersi dal parlare. Bisogna ammonirli a non tacere al prossimo, se lo amano
come se stessi, ciò di cui giustamente lo rimproverano, giacché con la medicina
della parola si concorre alla salute di ambedue: si frena dalla cattiva azione
colui che la compie (cf. Lev. 19, 17),
e con l’apertura della ferita si allevia la fiamma del dolore di colui che la
sostiene. Infatti, coloro che si volgono a guardare i peccati del prossimo e poi
trattengono la lingua nel silenzio, è come se, viste delle ferite, sottraessero
ad esse il medicamento, e divengono doppiamente causa di morte in quanto non
hanno voluto curare l’infezione come avrebbero potuto. Dunque, bisogna frenare
la lingua con discrezione e non legarla indissolubilmente, poiché sta scritto:
Il sapiente tacerà fino al tempo opportuno (Sir.
20, 7); nel senso cioè che, quando vede l’opportunità,
tralasciata la censura del silenzio, dicendo quanto è conveniente si adopera per
l’utilità. E ancora sta scritto: C’è un tempo per tacere e un tempo per
parlare (Qo. 3, 7).
Cioè bisogna calcolare con discrezione l’alternarsi dei momenti diversi, perché
la lingua non scorra inutilmente sulle parole quando dovrebbe invece
trattenersi; o non si trattenga pigramente quando potrebbe utilmente parlare.
Ciò che ben considera il salmista dicendo: Poni, Signore, una custodia alla mia bocca e una porta intorno
alle mie labbra
(Sal.
140, 3). Infatti non chiede che
gli sia posta una parete davanti alla bocca, ma una porta che, evidentemente, si
apre e si chiude; perciò anche noi dobbiamo imparare con prudenza il momento
opportuno perché la voce apra la bocca con discrezione, e ancora il momento
opportuno perché il silenzio la chiuda. Al contrario, bisogna ammonire coloro
che sono sempre pronti a parlare molto, che siano pronti a rendersi conto di
quanto vengon meno alla loro rettitudine col diffondersi in tante parole.
Giacché la mente umana è come l’acqua, che quando è trattenuta si raccoglie
verso l’alto poiché tende a risalire là di dove è scesa, ma lasciata andare
viene meno perché si sparge inutilmente nei luoghi più bassi. Infatti, ogni
volta che la mente si dissipa in vane parole fuori dalla censura del proprio
silenzio, è condotta fuori di sé come per tanti rivoletti. Perciò non è più
capace di rientrare in se stessa, alla conoscenza di sé, perché dispersa nelle
molte parole si chiude fuori dal nascondimento dell’intima meditazione; e si
scopre tutta alle ferite del nemico insidioso perché nessuna protezione la
circonda e la custodisce. Perciò è scritto: Come una città aperta e senza
giro di mura, così è l’uomo che
non può trattenere il suo animo quando parla (Prov. 25, 28); giacché la città della
mente non possiede il muro del silenzio ed è aperta alle frecce del nemico, e
quando si butta fuori di se stessa attraverso le parole, si mostra tutta
all’avversario. Ed egli la espugna senza fatica tanto più in quanto anche lei
stessa, che viene vinta, combatte contro di sé col suo continuo parlare. Ma per
lo più, poiché la mente negligente è spinta a cadere per gradi, se trascuriamo
di guardarci dalle parole oziose, giungiamo a quelle dannose; così che, prima si
gode a parlare degli altri, poi si morde la vita di coloro di cui si parla, con
la detrazione, e infine la lingua rompe fino alle aperte offese. E di qui si
seminano le provocazioni, nascono le risse, si accendono le fiamme dell’odio, si
estingue la pace dei cuori. Perciò, bene è detto per mezzo di Salomone: Chi
lascia andare l’acqua, dà
principio alle contese (Prov. 17, 14). Lasciare andare l’acqua
significa abbandonare la lingua allo sproloquio. Al contrario, è detto ancora in
senso buono: Le parole che procedono dalla bocca dell’uomo sono acque
profonde
(Prov. 18, 4). Pertanto, chi lascia
andare l’acqua dà principio alle contese perché chi non frena la lingua dissipa
la concordia. E perciò in senso inverso è detto: Chi impone silenzio allo
stolto, mitiga le ire
(Prov.
26, 10). Che poi colui il quale
è dedito alle chiacchiere non possa mantenere la rettitudine della giustizia, lo
attesta il profeta che dice: L’uomo linguacciuto non va diritto sulla terra
(Sal. 139, 12). Perciò, pure Salomone
dice ancora: Nel molto parlare non mancherà il peccato
(Prov. 10, 19). Perciò Isaia dice:
Il silenzio è coltivazione della giustizia
(Is. 32, 17), significando
chiaramente che la giustizia dell’animo resta desolata se non la risparmia il
parlare smodato. Perciò Giacomo dice: Se qualcuno pensa di essere religioso e
non tiene a freno la sua lingua ma seduce il suo cuore,
la sua religione è vana (Giac. 1, 26). Perciò dice ancora:
Ognuno sia pronto ad ascoltare ma lento a parlare
(Giac. 1, 19). E di nuovo, definendo
la potenza della lingua, dice: È un male irrefrenabile,
piena di veleno mortifero (Giac.
3, 8). Perciò la Verità stessa
ci ammonisce dicendo: Di ogni parola oziosa che avranno detto,
gli uomini dovranno rendere conto il giorno del giudizio (Mt.
12, 36). Ed è oziosa ogni parola
che non sia giustificata da una ragionevole necessità o dall’intenzione di una
pia utilità. Se dunque si esige il rendiconto di una parola oziosa, pensiamo
quale pena attenda il molto parlare in cui si pecca anche con parole che
arrecano danno.
15 — Come si devono
ammonire i pigri e i precipitosi
Diverso è il modo di
ammonire i pigri e i precipitosi. I primi bisogna persuaderli a non perdere quei
beni di cui differiscono l’adempimento; gli altri invece bisogna ammonirli che,
col prevenire incautamente, per la loro fretta, il tempo di fare certe opere
buone, rischiano di mutarne i meriti. E così bisogna inculcare nei pigri che ciò
che speso non vogliamo fare al momento opportuno mentre lo possiamo, poco dopo,
quando lo vorremmo, non ne siamo più in grado; poiché la stessa pigrizia della
mente, se non viene accesa e stimolata da un ardore appropriato, viene uccisa
del tutto, quanto al desiderio delle buone opere, da un torpore sotterraneo e
crescente. Perciò è detto apertamente per mezzo di Salomone: La pigrizia fa
venire sonno (Prov.
19, 15). Il pigro infatti, nella
rettitudine del suo sentire, si può dire che veglia, nonostante il torpore del
suo non far nulla; ma si dice che la pigrizia fa venire sonno, perché, se si
cessa dalla pratica del bene operare a poco a poco si perde
anche la vigilanza del retto sentire. Perciò giustamente prosegue: E l’anima
indolente soffrirà la fame (Prov. 19, 15). Infatti, poiché non si
dirige verso l’alto col suo sforzo, con la trascuratezza di sé, si espande verso
il basso, nei suoi desideri; e non essendo costretta dal vigore di interessi
elevati, è ferita dalla fame di una bassa cupidigia, così che quanto più
trascura di legarsi alla disciplina tanto più si dissipa, affamata, nei desideri
dei piaceri. Perciò ancora dal medesimo Salomone è scritto: Ogni ozioso vive nei
desideri (cf.
Prov. 21, 26). Perciò la Verità stessa ci annuncia che quando
uno spirito immondo è uscito da una casa
questa è pura, ma se quando quello ritorna essa è vuota, viene poi
occupata da spiriti tanto più numerosi (cf.
Mt. 12, 44). Spesso il pigro, mentre trascura di fare le cose
necessarie, alcune se le immagina difficili e altre le teme infondatamente; e
trovata la scusa con cui giustificare il suo timore, pretende di dimostrare che
il suo dormire in ozio non è ingiustificato.
A lui bene viene detto per mezzo di Salomone: Il pigro non ha
voluto arare per il freddo;
dunque in estate andrà a mendicare, e non gliene daranno (Prov. 20, 4). Il pigro non ara per il
freddo quando, costretto dal sonno della pigrizia, trascura di fare le opere
buone che deve; non ara per il freddo quando tralascia di fare cose importanti
per timore di piccoli mali in contrario. Ed è ben detto: In estate andrà a
mendicare e non gliene daranno,
infatti chi ora non fatica nelle buone opere, quando il sole del
giudizio apparirà più bruciante, in quella estate, mendicherà senza ricevere
nulla perché invano andrà a questuare
all’ingresso del Regno.
E di nuovo per mezzo del medesimo Salomone si dice giustamente a costui: Chi
bada al vento non semina; e chi considera le nubi non miete (Qo. 11, 4). Che cosa si esprime col
vento se non la tentazione degli spiriti maligni? E che cosa con le nubi, che
sono mosse dal vento, se non le ostilità di uomini iniqui? Evidentemente, le
nubi sono spinte dai venti perché gli uomini iniqui sono eccitati dal soffio
degli spiriti immondi; pertanto, chi bada al vento non semina, e chi considera
le nubi non miete mai, perché chi teme la tentazione degli spiriti maligni e chi
teme la persecuzione di uomini iniqui né semina il grano delle buone opere né
taglia i covoni della santa retribuzione. Al contrario, i precipitosi che
prevengono il tempo delle buone azioni, ne pervertono il merito e spesso cadono
nel male perché non hanno alcun discernimento del bene. Essi non indagano quale
sia il momento giusto di compiere qualcosa, ma per lo
più se ne rendono conto solo quando l’hanno fatta, con
l’accorgersi che così non avrebbero dovuto farla. Ad essi, come a chi ascolta,
viene detto da Salomone: Figlio, non fare nulla senza consiglio, e dopo che l’hai fatto non
ti pentirai (Sir.
32, 24). E ancora: Le tue
palpebre precedano i tuoi passi (Prov.
4, 25). Le palpebre precedono i
passi quando retti consigli prevengono il nostro agire. Chi infatti trascura di
considerare in precedenza ciò che prevede di fare, drizza i suoi passi, chiude
gli occhi e giunge al termine del suo cammino, ma non si fa precedere dalle sue
stesse previsioni e perciò cade a terra più
rapidamente, perché non fa attenzione, attraverso la palpebra del consiglio, a
dove deve mettere il piede dell’opera.
16 — Come si devono
ammonire i mansueti e gli iracondi
Diverso è il modo di
ammonire i mansueti e gli iracondi. Spesso infatti, quando i mansueti hanno
qualche responsabilità di guida, soffrono di una certa lentezza di decisione
unita alla loro mitezza; e per lo più, per via di una pacatezza eccessivamente
rilassata, addolciscono oltre il necessario il vigore della severità. Al
contrario, gli iracondi, quando ricevono posti di governo, quanto più si
lasciano travolgere dall’impeto dell’ira all’esagitazione della mente, tanto più
turbano anche la vita dei sudditi disperdendone la tranquillità e la pace.
Quando il furore li spinge a trascendere inconsideratamente, ignorano ciò che
fanno nell’impeto dell’ira e anche il male che nell’impeto dell’ira ricevono da
se stessi. Spesso però, ciò che è
più grave, giudicano lo stimolo della propria ira zelo
di giustizia; e quando il vizio passa per una virtù, senza timore si accumula
colpa su colpa. Infatti, spesso, i mansueti intorpidiscono per la noia della
rilassatezza; e gli iracondi peccano per zelo di rettitudine. Pertanto, per i
primi, si tratta di un vizio che nascostamente si aggiunge a una virtù; agli
altri invece, il proprio vizio appare come virtù ardente. Dunque, bisogna
ammonire quelli a fuggire ciò che hanno presso di sé, e questi a badare a ciò
che hanno in sé; quelli discernano ciò che non hanno, questi ciò che hanno: i
mansueti abbraccino la sollecitudine; gli iracondi bandiscano l’agitazione.
Bisogna ammonire i mansueti che si studino di avere spirito di emulazione per la
giustizia; e gli iracondi ad aggiungere la mansuetudine a questo medesimo
spirito che essi credono di possedere. Perciò infatti lo Spirito Santo ci si è
mostrato come colomba e come fuoco, per presentarci tutti quelli che riempie,
mansueti per la semplicità della colomba e ardenti per il fuoco dello zelo.
Pertanto, non è pieno dello Spirito Santo né colui che, tranquillo della sua
mansuetudine, tralascia il fervore dello zelo, né colui che ancora per l’ardore
dello zelo, perde la virtù della mansuetudine. Ma forse ci spieghiamo meglio se
portiamo come esempio il magistero di Paolo, il quale, a due discepoli, forniti
di non diversa carità, dà tuttavia consigli diversi, per la predicazione.
Infatti, ammonendo Timoteo dice: Confuta, esorta e rimprovera con ogni pazienza e dottrina (2 Tim.
4, 2); ammonisce anche
Tito dicendo: Di’ queste cose ed esorta e confuta con ogni autorità
(Tit. 2, 15). A che cosa si deve che egli applichi tanto
sapientemente la sua dottrina che, nel proporla, ad uno consiglia l’autorità e
all’altro la pazienza, se non al fatto che conosceva lo spirito più mansueto di
Tito e quello un poco più fervido di Timoteo? Perciò infiamma quello, con
l’amore dello zelo e modera questo, con la dolcezza della pazienza: aggiunge ciò
che manca all’uno e toglie ciò che è di troppo nell’altro; si sforza di
stimolare il primo e di frenare il secondo, e come grande agricoltore della
Chiesa che ha ricevuto, annaffia alcuni rami perché crescano, e altri che vede
crescere più del normale li pota affinché non accada che, o non crescendo non
portino frutto o crescendo eccessivamente perdano quello che hanno già dato. Ma
è molto diversa l’ira che accompagna l’emulazione per la giustizia, dall’ira che
turba un cuore agitato e senza pretesto di giustizia. Nel primo caso, infatti,
essa si estende disordinatamente a ciò che è doveroso, nell’altro invece si
accende sempre indebitamente. Perciò bisogna sapere che gli impazienti
differiscono dagli iracondi in ciò, che quelli non sopportano ciò che viene loro
imposto da altri; questi invece sono loro a provocare ciò che gli altri devono
sopportare. Infatti gli iracondi, spesso, assalgono anche coloro che si
ritirano, provocano occasioni di risse, godono di affaticarsi in contese.
Costoro tuttavia si correggono meglio se ci si tira indietro nell’eccitazione
della loro ira, perché in quel momento ignorano ciò che viene detto loro, ma
ritornati in sé, accolgono tanto più liberamente le parole di esortazione quanto
più arrossiscono di essere stati sopportati in pace. Giacché, qualunque cosa
giusta si dica a una mente ebbra di furore, le parrà sempre sbagliata. Perciò
anche, a Nabal ubriaco, Abigail tacque lodevolmente la sua colpa che,
altrettanto lodevolmente, gli disse solo quando egli ebbe smaltito il vino (cf. 1 Sam. 25, 37);
e perciò egli poté conoscere il male che aveva compiuto e che non gli fu detto
quando era ubriaco. Quando però gli iracondi assalgono gli altri in modo che
essi non possano in alcuna maniera ritirarsi, bisogna affrontarli non con aperto
rimprovero ma usando verso di loro il riguardo di un certo cauto rispetto. Cosa
che si intende meglio con l’esempio di Abner. Di lui, quando Asael lo inseguiva
con violenza precipitosa e incauta, è scritto: Abner parlò ad Asael dicendo:
Ritirati, non inseguirmi che io non sia costretto a trafiggerti in terra.
Ma quello disprezzò l’avvertimento e non volle ritirarsi. Allora Abner lo
colpi con la parte posteriore della lancia, nell’inguine, e lo
trafisse e mori
(2
Sam. 2, 22-23). E di chi è figura Asael
se non di coloro che quando il furore li coglie con violenza, li trascina a
precipizio? Costoro sono da evitare tanto più cautamente nell’impeto dell’ira in
quanto ne sono anche trascinati come folli; perciò anche Abner — che nella
nostra lingua significa lucerna del padre — fugge; perché la lingua dei maestri,
che indica la luce celeste di Dio, quando vede la mente di qualcuno portata per
i precipizi del furore, e trascura di restituire le frecce delle sue parole
contro l’irato, è come chi non vuol ferire il suo persecutore.
Ma quando gli iracondi
non si acquietano con alcun ragionamento e, come Asael non cessano di
perseguitare e comportarsi da pazzi, è necessario che coloro i quali cercano di
trattenere i furiosi, non si erigano anch’essi con furore, ma mostrino tutta la
possibile tranquillità; facciano cioè qualche sottile osservazione che colpisca
indirettamente l’animo di colui che infuria. Perciò anche Abner, quando ristette
contro colui che lo inseguiva, non lo trapassò con la lancia diritta ma
rovesciata; poiché percuotere con la punta corrisponde ad affrontare d’impeto
con un aperto rimprovero; invece, ferire con la parte posteriore della lancia
vale toccare tranquillamente il furioso con qualche argomento e vincerlo quasi
risparmiandolo. Asael tuttavia cadde subito perché le menti eccitate, mentre
sentono che si ha riguardo per loro, toccate con tranquillità nell’intimo dalla
ragionevolezza delle risposte, cadono improvvisamente da quello stato di
esaltazione a cui si erano innalzati. Così, coloro che sotto un leggero colpo
piombano dall’impeto del loro ardore, sono come chi muore quasi senza ricevere
ferita di spada.
17 — Come si devono
ammonire gli umili e gli orgogliosi
Diverso è il modo di
ammonire gli umili e gli orgogliosi. Ai primi bisogna suggerire quanto sia vera
quella superiorità che possiedono nella speranza; gli altri bisogna persuaderli
quanto nulla valga la gloria temporale che essi, pur tenendola stretta, non
possiedono. Ascoltino gli umili quanto è eterno ciò a cui aspirano e quanto è
transitorio ciò che trascurano; e gli orgogliosi ascoltino quanto è passeggero
ciò che ambiscono ed eterno ciò che perdono. Ascoltino gli umili, dalla maestra
voce della Verità: Chi si umilia sarà esaltato
(Lc. 18, 14); ascoltino gli
orgogliosi: Chi si esalta sarà umiliato
(Lc.
18, 14). Ascoltino gli umili:
L’umiltà precede la gloria (Prov.
15, 33); ascoltino gli
orgogliosi: Lo spirito si esalta prima della rovina
(Prov. 16, 18). Ascoltino gli umili: A
chi volgerò lo sguardo se non all’umile e tranquillo e che teme le mie
parole? (Is. 66, 2); ascoltino gli
orgogliosi: Perché insuperbisce la terra e la cenere?
(Sir. 10, 9).
Ascoltino gli umili: Dio volge lo sguardo alle
cose umili (Sal. 137, 6); ascoltino gli
orgogliosi: e conosce da lontano le alte
(Sal.
137, 6). Ascoltino gli umili:
Poiché il Figlio dell’Uomo non è venuto per essere servito ma per servire
(Mt. 20, 28); ascoltino gli
orgogliosi: poiché la superbia è l’inizio di ogni peccato
(Sir. 10, 15). Ascoltino gli umili:
poiché il nostro Redentore umiliò se stesso fatto obbediente fino alla morte
(Fil.
2, 8); ascoltino gli
orgogliosi ciò che è scritto del loro capo: Egli è re sopra tutti i figli
della superbia (Giob. 41, 25).
Dunque, la superbia del diavolo fu l’occasione della nostra perdizione, e
l’umiltà di Dio fu trovata argomento della nostra redenzione. Infatti il nostro
nemico, creatura come tutte, volle apparire innalzata su tutte; ma il nostro
Redentore, pur rimanendo grande su tutte,. si degnò di diventare piccolo fra
tutte. Si dica dunque agli umili che nel loro abbassarsi si elevano alla
somiglianza di Dio; si dica agli orgogliosi che con il loro innalzarsi cadono ad
imitazione dell’angelo apostata. Perciò, che cosa c’è di più basso
dell’orgoglio, che nel tendersi al di sopra di sé si allontana dalla misura
della vera altezza? E che cosa è più sublime dell’umiltà che nell’abbassarsi
fino al fondo si unisce al suo Creatore, il quale rimane al di sopra
dell’altezza più eccelsa? C’è tuttavia dell’altro che in essi si deve valutare
con prudenza, poiché spesso alcuni restano ingannati dalla apparenza di umiltà e
altri peccano per ignoranza del proprio orgoglio. Spesso infatti ad alcuni che
si stimano umili si unisce un timore che non deve essere portato a uomini;
mentre non di rado l’affermazione di una propria franchezza accompagna gli
orgogliosi; e così, quando bisogna rimproverare certi vizi altrui, i primi
tacciono per timore, e tuttavia pensano di tacere per umiltà; i secondi invece
parlano con l’impazienza dell’orgoglio e si immaginano di parlare mossi da una
libera rettitudine. Dunque, la colpa della paura, sotto l’apparenza dell’umiltà,
trattiene quelli dal rimproverare i vizi altrui; mentre, sotto l’immagine di uno
spirito libero, la sfrenatezza dell’orgoglio spinge questi a fare rimproveri che
non devono, o a fare più rimproveri di quel che devono. Perciò gli orgogliosi
vanno ammoniti a non essere franchi
di quanto è conveniente; e gli umili a non stare sottomessi più di quanto è
opportuno, affinché i primi non voltino in difesa della giustizia l’esercizio
della superbia, e i secondi, quando si applicano a sottomettersi agli uomini più
del necessario, non siano spinti a rispettare anche i loro vizi. Bisogna però
considerare che spesso si correggono più utilmente gli orgogliosi, se mescoliamo
le correzioni con qualche incoraggiamento di lode. Infatti, bisogna riconoscere
altre cose buone che sono in loro o, se non ci sono, dire almeno quelle che
potrebbero esserci; solo allora si deve togliere quanto c’è in loro di male che
a noi dispiace, quando cioè è stato fatto precedere il ricordo delle loro cose
buone e che ci piacciono, con cui il loro cuore si è disposto a un ascolto
placato. Infatti, anche i cavalli irrequieti li tocchiamo prima con mano
leggera, per sottometterceli poi più pienamente anche con le frustate; e a un
bicchiere di amara medicina si aggiunge la dolcezza del miele perché ciò che
deve giovare alla salute non debba essere gustato proprio col sapore di un’aspra
amarezza; e invece, mentre il gusto resta ingannato dalla dolcezza, l’umore
mortifero viene espulso con l’amarezza. Pertanto, nell’accusa rivolta agli
orgogliosi, l’inizio deve essere temperato con la lode, affinché con
l’accoglimento degli elogi che amano, essi accettino insieme le correzioni che
odiano. Ma spesso possiamo persuadere meglio e più utilmente gli orgogliosi, se
facciamo passare il loro progresso piuttosto come pin vantaggioso per noi che
per loro, se chiediamo che il loro miglioramento si compia più per noi che per
loro stessi. Poiché è facile che l’orgoglio si pieghi al bene se crede che la
propria condiscendenza giovi ad altri. Perciò Mosé che aveva Dio come guida e
attraversava il deserto dietro la nuvola d’aria, volendo allontanare il suo
parente Hobab dalla consuetudine pagana e sottometterlo alla signoria di Dio
onnipotente, [lo pregò dicendo]: Noi partiamo per il luogo che il Signore ci
darà; vieni con noi affinché ti
facciamo del bene perché il Signore ha promesso dei beni a Israele.
Ma poiché quello gli rispose: Non verrò con te ma ritornerò alla terra
dove sono nato, aggiunse subito: Non ci abbandonare,
perché tu conosci in quali luoghi attraverso il deserto, dobbiamo porre
l’accampamento e sarai nostra guida (Num. 10, 29 ss.). Certo l’ignoranza
riguardo al viaggio non angustiava l’animo di Mosé, lui che la conoscenza della
divinità aveva dilatato alla scienza della profezia; che la colonna precedeva
all’esterno, e che il colloquio familiare della conversazione assidua con Dio
istruiva, all’interno, su ogni cosa. Ma evidentemente, da uomo avveduto, che
stava trattando con un ascoltatore orgoglioso, lo pregò di un aiuto per
poterglielo dare: cercava in lui una guida per il viaggio, per potergli essere
guida alla vita. E agi in modo che l’ascoltatore superbo tanto più si offrisse
alla voce che lo attirava verso beni migliori quanto più si sentiva considerato
necessario; ma proprio nello stimarsi come colui che precede chi lo esorta, di
fatto obbediva alle sue parole.
18 — Come si devono
ammonire gli ostinati e gli incostanti
Diverso è il modo di
ammonire gli ostinati e gli incostanti. Ai primi bisogna dire che essi si
stimano più di quello che sono e perciò non acconsentono ai consigli altrui; i
secondi bisogna convincerli che poiché si disprezzano e non hanno alcuna
considerazione di sé, i loro pensieri mancano di fermezza e così mutano il loro
giudizio a seconda dei momenti. A quelli bisogna dire che se non si stimassero
migliori degli altri, non posporrebbero i consigli di tutti alla propria
decisione; a questi bisogna dire che se fissassero comunque l’attenzione del
proprio animo a ciò che sono, il vento dell’instabilità non li trascinerebbe per
tanta diversità di posizioni. A quelli è detto per mezzo di Paolo: Non siate
prudenti presso voi stessi (Rom. 12, 6).
Al contrario, questi si sentono dire: Non facciamoci portare in giro
da ogni vento di dottrina (Ef.
4, 14). Di quelli, per
mezzo di Salomone è detto: Mangeranno il frutto della loro via e si
sazieranno dei loro consigli (Prov.
1, 31). Di questi, ancora
lo stesso scrive: Il cuore degli stolti sarà mutevole
(Prov. 15, 7). Infatti il cuore dei sapienti è sempre uguale a se
stesso, perché mentre riposa su persuasioni rette è costante nel bene operare.
Ma il cuore degli stolti è mutevole perché mostrandosi vario nell’instabilità,
non rimane mai ciò che è stato prima. E poiché certi vizi, come ne generano
altri da se stessi così da altri nascono, è importantissimo sapere che tanto più
riusciamo a toglierli, attraverso la correzione, quanto più asciughiamo la fonte
stessa della loro amarezza. E in effetti, l’ostinazione è generata dalla
superbia, l’incostanza dalla leggerezza. Perciò bisogna ammonire gli ostinati a
riconoscere l’orgoglio del proprio pensiero e ad applicarsi per vincere se
stessi, perché mentre all’esterno rifiutano con disprezzo di lasciarsi vincere
dai giusti consigli di altri, interiormente non siano tenuti prigionieri dalla
superbia. Bisogna ammonirli a considerare che il Figlio dell’uomo, che ha sempre
una sola volontà col Padre, per offrirci l’esempio di come spezzare la nostra
volontà, dice: Non cerco la mia volontà ma la volontà del Padre che mi ha
mandato (Gv. 5, 30).
Egli che, per meglio raccomandare la grazia di questa
virtù, affermò che l’avrebbe conservata nell’ultimo giudizio, dicendo: Io non
posso fare nulla da me stesso,
ma come ascolto giudico (Gv.
5, 30). Dunque, con quale
coscienza l’uomo disdegna di sottostare alla volontà altrui, quando il Figlio di
Dio, e dell’uomo, venuto a manifestare la gloria della sua potenza, afferma di
non giudicare da se stesso? Al contrario, bisogna ammonire gli incostanti a
rafforzare la loro mente con la fermezza Infatti essi inaridiscono in sé i
frutti della mutevolezza, se prima strappano dal cuore la radice della
leggerezza, perché si costruisce un edificio stabile quando si provvede prima un
luogo solido in cui porre le fondamenta. Pertanto, se prima non si provvede a
togliere la leggerezza dalla mente, non si vince per nulla l’incostanza del
pensiero. Paolo mostra di essere stato alieno da costoro, quando dice: Ho
forse usato della leggerezza? Oppure penso secondo la carne così che in me ci
siano il si e il no? (2 Cor. 1, 17). Come se dicesse
apertamente:
Non sono mosso
dal vento della instabilità perché non soggiaccio al vizio della leggerezza.
19 — Come si devono
ammonire gli intemperanti nel cibo e i parchi
Diverso è il modo di
ammonire i golosi e i temperanti. Infatti nei primi il vizio è accompagnato
dall’eccesso del parlare, dalla leggerezza dell’operare e dalla lussuria; agli
altri si unisce spesso l’impazienza e spesso anche la superbia. Infatti, se la
loquacità smodata non rapisse i golosi, quel ricco di cui si dice che
banchettava splendidamente ogni giorno
non sarebbe stato arso più gravemente nella lingua. Infatti dice: Padre
Abramo, abbi pietà di me e manda
Lazzaro a bagnare la punta del suo dito nell’acqua, per dare sollievo
alla mia lingua, perché sono tormentato in questa fiamma (Lc.
16, 24).
Con queste parole, certamente si mostra che banchettando ogni giorno, aveva
peccato più frequentemente con la lingua, egli che pur ardendo tutto cercava
refrigerio soprattutto per essa. E ancora l’autorità della Sacra Scrittura
attesta che la leggerezza dell’operare segue immediatamente i golosi, dicendo:
Il popolo si sedette per mangiare e bere,
e si alzò per divertirsi (Es.
32, 6). E spesso la voracità
trascina costoro fino alla lussuria, perché
quando il ventre si distende nella sazietà, si eccitano gli stimoli della
libidine. Perciò all’astuto nemico, che apri la sensualità del primo uomo alla
bramosia del frutto e la strinse poi col laccio del peccato, è detto dalla voce
divina: Striscerai sul petto e sul ventre (cf.
Gen. 3, 14),
come se gli venisse detto
apertamente: dominerai
suoi cuori umani coi pensieri cattivi e la golosità. Che poi la lussuria tenga
dietro ai golosi, lo attesta il profeta, che mentre racconta ciò che è manifesto
denuncia ciò che è nascosto, dicendo: Il principe dei cuochi distrusse le mura
di Gerusalemme
(cf. 2 Re, 25, 10. LXX).
Infatti il principe dei cuochi è il ventre, al quale si presta gran cura da
parte dei cuochi, perché possa riempirsi di cibi nel piacere. Le mura di
Gerusalemme poi, sono le virtù dell’anima innalzate verso il desiderio della
pace celeste. Pertanto il principe dei cuochi abbatte le mura di Gerusalemme,
perché mentre il ventre si distende per la ingordigia, le virtù dell’anima
vengono distrutte dalla lussuria. Al contrario, se per lo più, la impazienza non
scuotesse le menti dei temperanti dalla loro tranquillità, Pietro non direbbe:
Sforzatevi di unire la virtù alla vostra fede,
e alla virtù la scienza e alla scienza la temperanza; per
aggiungere subito oculatamente: e alla temperanza la pazienza
(2
Pt. 1, 5). Ammoni cioè i
temperanti ad avere quella pazienza che sapeva mancare loro. E ancora: se la
colpa della superbia non trapassasse i pensieri dei temperanti, Paolo non
avrebbe detto affatto: Chi non mangia non giudichi chi mangia
(Rom. 14, 3). E poi, parlando ad altri nel restringere il campo dei
precetti per coloro che si gloriavano per la virtù dell’astinenza, aggiunse:
Tutte cose che possiedono certo un aspetto di sapienza nella loro religiosità
umiltà e austerità del corpo, ma
non hanno alcun valore contro la soddisfazione della carne (Col.
2, 23).
In ciò va notato che
nella sua argomentazione, il predicatore egregio accosta alla scrupolosità un
certo aspetto di umiltà, poiché quando il corpo viene indebolito più del
necessario dall’astinenza, si manifesta esteriormente umiltà, ma proprio per
questa umiltà si insuperbisce gravemente nell’intimo. E se non fosse vero che
l’animo talvolta si gonfia d’orgoglio per la virtù dell’astinenza, il fariseo
non avrebbe enumerato con diligente presunzione questa virtù fra i suoi grandi
meriti, dicendo: Digiuno due volte la settimana (Lc.
18, 12). Pertanto bisogna ammonire i golosi che, mentre
sono dediti al piacere dei cibi, non si facciano trafiggere dalla spada della
lussuria, e vedano con quanta forza, attraverso il mangiare, li insidiano la
loquacità e la leggerezza della mente, affinché mentre servono con la mollezza
il ventre non si trovino crudelmente stretti nei lacci dei vizi. Infatti, tanto
più ci si allontana dal secondo genitore quanto più, col tendere la mano ad uso
smodato del cibo, si ripete la caduta del primo genitore. Ma al contrario,
bisogna ammonire i temperanti a fare molta attenzione che, mentre fuggono il
vizio della gola, non si generino, quasi dalla stessa virtù, vizi ancora
peggiori; così che mentre macerano la carne, lo spirito erompa nell’impazienza.
Poiché la vittoria sulla carne non costituisce più una virtù, se lo spirito si
lascia vincere dall’ira. Ma talvolta, quando il cuore dei temperanti riesce a
trattenersi dall’ira, lo coglie come una gioia insolita che lo corrompe, e il
bene della astinenza si perde quanto meno si custodisce dai vizi spirituali.
Perciò giustamente è detto per mezzo del profeta: Nei giorni dei vostri digiuni
si manifestano le vostre volontà (cf.
Is. 58, 3 - LXX).
E poco dopo: Voi digiunate nelle liti e nelle risse e fate a pugni (cf.
Is. 58, 4). La volontà
si riferisce alla gioia
e il pugno all’ira. Invano dunque si prostra il corpo con l’astinenza, se il
cuore, abbandonato a moti disordinati, si dissipa nei vizi. E ancora, bisogna
ammonire i temperanti a custodire la loro astinenza sempre intatta, senza
credere mai che essa rappresenti una virtù eccelsa presso il Giudice occulto,
perché se si dovesse credere che in essa ci sia gran merito, il cuore non si
esalti nell’orgoglio. Perciò infatti è detto per mezzo del profeta: È forse
questo il digiuno che ho scelto? Spezza invece il tuo pane a chi ha fame e
conduci a casa tua i pellegrini bisognosi
(Is. 58, 5.7). In ciò dunque bisogna
considerare come viene stimata piccola la virtù dell’astinenza, che non si
raccomanda se non per la presenza di altre virtù. Perciò Gioele dice:
Santificate il digiuno (Gioe. 1, 14). Infatti, santificare il
digiuno significa mostrare a Dio una astinenza del corpo resa degna per
l’aggiunta di altre virtù. Bisogna ammonire i temperanti a tenere presente che
essi offrono un’astinenza gradita a Dio solo quando i cibi che sottraggono al
proprio nutrimento li distribuiscono ai bisognosi. Bisogna sapientemente
ascoltare ciò che il Signore rimprovera, per mezzo del profeta, dicendo:
Quando digiunavate e piangevate,
il quinto e il settimo mese, per questi settant’anni, forse
facevate un digiuno per me? E quando avete mangiato e bevuto, non avete
mangiato forse per voi stessi e bevuto per voi stessi? (Zac. 7, 5 s.). Infatti non si digiuna
per Dio ma per sé, quando ciò che in certi tempi si sottrae al ventre, non lo si
distribuisce ai bisognosi, ma lo si custodisce per offrirlo di nuovo al ventre
in altri momenti. E così, affinché la golosità non faccia decadere gli uni dalla
stabilità dello spirito, e la mortificazione della carne
non faccia inciampare gli altri con l’orgoglio, ascoltino i golosi dalla bocca
della Verità: Badate a voi stessi,
che i vostri cuori non si appesantiscano nella crapula e nell’ubriachezza e
nelle preoccupazioni di questo mondo (Lc.
21, 34). E quindi aggiunge a ciò l’utile timore: E
sopravvenga improvviso su di voi quel giorno. Infatti sopravverrà come un laccio su tutti coloro che siedono
sulla faccia di tutta la terra (Lc. 21, 35).
E i temperanti ascoltino: Non ciò che entra nella bocca corrompe l’uomo,
ma ciò che esce dalla bocca corrompe l’uomo (Mt. 15, 11). Ascoltino i golosi:
Il cibo è per il ventre e il ventre è per i cibi:
ma Dio distruggerà questi e quello (1
Cor. 6, 13). E ancora: Non in
gozzoviglie e ubriachezze (Rom. 13, 13).
E ancora: Il cibo non ci raccomanda a Dio
(1
Cor. 8, 8).
Ascoltino i temperanti: Perché tutto è puro per i
puri; ma per i corrotti e gli
infedeli niente è puro (Tit.
1, 15). Ascoltino i golosi:
Loro dio è il ventre e la loro gloria in ciò che è la loro vergogna
(Fil.
3, 19). Ascoltino i temperanti:
Alcuni si allontaneranno dalla fede
(1 Tim. 4, 1); e poco dopo: Alcuni
proibiscono di sposarsi, vogliono che ci si astenga dai cibi, che Dio ha creato
perché siano presi con rendimento di grazie dai fedeli e da coloro che hanno
conosciuto
la verità
(1 Tim. 4, 3). Ascoltino i golosi:
È bene non mangiare carne e non bere vino,
né ciò, per cui il tuo fratello si scandalizza (Rom.
14, 21). Ascoltino i temperanti: Prendi un poco di vino
per via dello stomaco e delle tue frequenti debolezze (1 Tim. 5, 23).
Ciò perché gli uni non imparino a non desiderare disordinatamente i cibi della
carne e gli altri non osino condannare ciò che essi non desiderano e tuttavia è
stato creato da Dio.
20 — Come si devono
ammonire coloro che distribuiscono i propri beni e coloro che rapiscono quelli
altrui
Diverso è il modo di
ammonire coloro che già elargiscono i propri beni con misericordia, e coloro che
ancora si danno da fare per rapire i beni degli altri. I primi infatti bisogna
ammonirli a non innalzarsi con pensiero superbo su coloro a cui elargiscono i
beni terreni, e non si stimino migliori perché vedono gli altri sostenuti coi
loro mezzi. Infatti il padrone di una casa terrena, nel distribuire i ruoli e i
servizi dei servi, stabilisce questi a governare e quelli a essere governati
dagli altri. Ordina ai primi di provvedere il necessario ai secondi, e a questi
di prendere ciò che hanno ricevuto da quelli. E tuttavia spesso coloro che
governano, dispiacciono al padrone di casa, e restano invece nella sua grazia
coloro che sono governati. Coloro che sono dispensatori si trovano a meritare la
sua ira; gli altri, che sottostanno alla distribuzione fatta dai primi, restano
senza ricevere danno. Dunque, bisogna ammonire coloro che già dispensano con
misericordia ciò che possiedono, a riconoscersi come posti dal Padrone celeste a
dispensare aiuti temporali, e a offrirli tanto più umilmente quanto più
capiscono che quel che dispensano è roba altrui. E quando considerano di essere
stati costituiti nel servizio di coloro cui elargiscono i beni ricevuti, la
superbia non esalti il loro animo, ma lo trattenga invece il timore. Perciò è
necessario che badino con grande cura a non distribuire in modo indegno i beni
che gli sono stati affidati, e a darne così a chi non devono darne, o a non darne
affatto a chi devono qualcosa; a dare molto a chi devono dar poco, o a darne
poco a chi devono dar molto; a disperdere inutilmente, per precipitazione, ciò
che distribuiscono o a tardare a dare a chi chiede, affliggendolo così in modo
colpevole. Non si insinui qui l’intenzione di ricevere gratitudine; e il
desiderio di una lode passeggera non estingua lo splendore del donare. L’offerta
del dono non sia accompagnata da una opprimente tristezza, ma neppure l’animo di
chi offre si rallegri più del conveniente; e quando avranno compiuto tutto per
bene, non attribuiscano nessun merito a se stessi così da perdere, tutto in una
volta, quanto di bene hanno compiuto. Infatti, per non attribuire a sé la virtù
della propria liberalità, ascoltino ciò che è scritto: Se qualcuno esercita
un ufficio, lo faccia secondo la
capacità che Dio gli comunica (1 Pt. 4, 11). Per non gioire
smodatamente delle proprie beneficenze, ascoltino ciò che è scritto: Quando
avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato,
dite: Siamo servi inutili, abbiamo fatto quello che dovevamo fare
(Lc. 17, 10). E perché la tristezza
non guasti la liberalità, ascoltino ciò che è scritto: Dio ama chi dà con
gioia (2 Cor. 9, 7). Affinché non cerchino
una lode passeggera in cambio del dono, ascoltino ciò che è scritto: Non
sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra
(Mt. 6, 3),
cioè: a un dono fatto con intenzione pia, non si mescoli la gloria della vita
presente, e il desiderio della lode non tocchi un’azione giusta. Affinché non
cerchino il contraccambio della grazia fatta, ascoltino ciò che è scritto:
Quando fai un pranzo o una cena,
non invitare i tuoi amici o i tuoi fratelli o i parenti o i vicini ricchi,
perché non avvenga che essi ti ricambino l’invito e tu ne abbia il compenso;
invece, quando fai un pranzo, invita i poveri, i malati,
gli zoppi, i ciechi; e sarai beato perché loro non hanno da
restituirti (Lc. 14, 12 ss.). E affinché non si tardi
a dare ciò che va dato in fretta, ascoltino ciò che è scritto: Non dire al
tuo amico: Va’ e ritorna e
domani ti darò, quando puoi dare subito (Prov.
3, 28).
Affinché, sotto il pretesto della liberalità, non dissipino inutilmente ciò che
possiedono, ascoltino ciò che è scritto: Sudi, l’elemosina nella tua mano[1].
E perché non diano poco
là dove è necessario molto, ascoltino ciò che è scritto: Chi semina con
parsimonia, mieterà pure con
parsimonia (2 Cor. 9, 6). Affinché, dove basta
poco non offrano molto, e poi loro stessi, non potendo in alcun modo sopportare
l’indigenza, erompano nell’impazienza, ascoltino ciò che è scritto: Non
perché ci sia sollievo per gli altri e tribolazione per voi,
ma perché nell’uguaglianza, la vostra abbondanza supplisca la loro
indigenza, e la loro abbondanza venga a supplire la vostra indigenza
(2 Cor. 8, 13-14). Infatti, quando l’animo
di chi dà non sa sopportare l’indigenza, se si priva di molto cerca un’occasione
di impazienza contro se stesso. Poiché prima bisogna predisporre l’animo alla
pazienza e solo allora distribuire molto o anche tutto, perché non vada perduta
la mercede della liberalità prestata; e la mormorazione che inoltre si
aggiungerebbe non faccia perire più gravemente l’anima per il fatto che non si
riesce a sopportare in pace l’improvviso bisogno. Affinché non avvenga che non
diano nulla affatto a coloro cui qualcosa, anche poco, bisogna dare, ascoltino
ciò che è scritto: Da’ a chiunque ti chiede
(Lc. 6, 30). Ma affinché non diano,
anche poco, a chi non debbono assolutamente nulla, ascoltino ciò che è scritto:
Da’ al buono e non accogliere il peccatore:
fa’ il bene all’umile e non dare all’empio (Sir. 12, 5-6). E ancora: Poni il
tuo pane e il tuo vino sul sepolcro del giusto,
e non mangiarne né berne insieme con i peccatori (Tob.
4, 18).
Infatti offre ai peccatori il suo pane e il suo vino colui che dà sussidi agli
iniqui perché sono iniqui; perciò anche parecchi ricchi di questo mondo, mentre
i poveri di Cristo sono afflitti dalla fame, mantengono con effusa liberalità
gli istrioni. Chi invece dà il suo pane a un povero, anche peccatore, non perché
è peccatore ma perché è uomo, evidentemente non mantiene un peccatore ma un
povero giusto, poiché in lui non ama la colpa ma la. natura. Bisogna ammonire
coloro che già distribuiscono i propri beni con misericordia, ad attendere con
gran cura, mentre le elemosine redimono i peccati commessi, a non commetterne
degli altri; e non stimino venale la giustizia di Dio così da pensare di poter
peccare impunemente proprio mentre si preoccupano di distribuire denari per i
peccati. Infatti l’anima vale più del cibo e il corpo più del vestito
(Mt. 6, 25); chi allora dà cibo o
vestito ai poveri, ma si macchia con l’iniquità dell’anima o del corpo, ha
offerto ciò che vale di meno alla giustizia e ciò che vale di più al peccato;
infatti, a Dio ha dato i suoi beni, e al diavolo se stesso. Al contrario,
bisogna ammonire coloro che ancora si danno da fare per rapire i beni degli
altri, ad ascoltare con sollecitudine quanto dice il
Signore venendo al giudizio. Infatti dice: Ho avuto fame e non mi avete dato
da mangiare; ho avuto sete e non
mi avete dato da bere; ero pellegrino e non mi avete accolto, nudo
e non mi avete coperto, infermo e in carcere e non mi avete visitato
(Mt. 25, 42-43). E ad essi, subito prima
dice: Allontanatevi da me, maledetti, nel fuoco eterno che è stato preparato per il
diavolo e i suoi angeli (Mt.
25, 41). Ecco, quelli non
ascoltano affatto questa sentenza perché abbiano commesso rapine e ogni genere
di violenze, ma tuttavia vengono abbandonati al fuoco dell’eterna geenna. Da ciò
bisogna dedurre quanto sarà grande la pena che colpirà coloro che rapiscono i
beni altrui, se vengono colpiti con una punizione tanto grande coloro che
semplicemente conservano troppo gelosamente i propri. Valutino con quale peccato
li avvince il bene rapito se quello che non è stato semplicemente partecipato
sottopone a una tale pena. Valutino che cosa meriti una ingiustizia inferta, se
è degno di così grande castigo l’avere mancato di offrire pietà. Quando si
propongono di rubare i beni altrui, ascoltino ciò che è scritto: Guai a colui
che moltiplica i beni non propri: fino a quando accumula contro di sé denso fango? (Ab.
2, 6). Per un avaro, cioè,
accumulare il peso di denso fango significa accumulare guadagni terrestri col
peso del peccato. Quando bramano di dilatare sempre più l’ampiezza della loro
abitazione, ascoltino ciò che è scritto: Guai a voi che aggiungete
casa a casa e unite campi a campi fino ai confini del paese.
Forse abitate solo voi in mezzo alla terra? (Is.
5, 8). Come se dicesse
apertamente: Fin dove volete estendervi, voi che, in questo mondo che è di
tutti, non potete avere altri partecipi della vostra fortuna? In effetti voi
opprimete i vostri vicini, ma trovate sempre contro chi farvi valere per
estendervi. Quando anelano ad aumentare il loro denaro, ascoltino ciò che è
scritto: L’avaro non si riempie col denaro e chi ama le ricchezze non trarrà
frutto da esse (Qo.
5, 9). Certo ne trarrebbe frutto se volesse distribuirle
bene senza amarle, ma chi le conserva con amore le abbandonerà assolutamente
senza frutto. Quando ardono di riempirsi di tutte le ricchezze insieme,
ascoltino ciò che è scritto: Chi ha fretta di arricchirsi non sarà senza
colpa (Prov. 28, 20); infatti è certo, che
chi aspira ad aumentare le sue ricchezze, trascura di evitare il peccato e,
catturato come un uccello, mentre fissa avidamente l’esca di beni terreni, non
si accorge da quale laccio di peccato resta strangolato. Quando desiderano
guadagni di qualsiasi genere, del mondo presente, e ignorano i danni che
dovranno patire in quello futuro, ascoltino ciò che è scritto: L’eredità per
la quale ci si affretta in principio, alla fine non avrà benedizione (Prov. 20, 21). Cioè, da questa vita
noi traiamo inizio per giungere a ottenere benedizione alla fine; pertanto, chi
ha fretta di ereditare in principio, taglia via da sé la sorte della benedizione
alla fine. Poiché, mentre per il peccato di avarizia bramano di moltiplicare qui
i loro beni, là resteranno diseredati del patrimonio eterno. Quando o ambiscono
a molti beni o possono raggiungere tutto quanto hanno ambito, ascoltino ciò che
è scritto: Che cosa giova all’uomo se guadagna tutto il mondo ma reca danno
alla sua anima? (Mt. 16, 26). È come se la Verità
dicesse apertamente: Che cosa giova all’uomo raccogliere tutto quello che esiste
fuori di lui, se danna questa sola cosa che è lui stesso? Tuttavia spesso si
corregge più rapidamente l’avarizia degli uomini rapaci, se nelle parole di chi
li ammonisce si dimostra quanto sia fugace la vita presente; se si richiama la
memoria di coloro che a lungo hanno cercato di arricchire in questa vita e
tuttavia non poterono restare a lungo a godere delle ricchezze ottenute, poiché
la morte improvvisa, di colpo e tutto in una volta, ha portato via tutto ciò
che, non di colpo né tutto in una volta, la loro iniquità aveva messo insieme;
ed essi non solamente lasciarono qui le ricchezze rubate, ma condussero con sé,
al giudizio, le accuse di rapina. Ascoltino dunque gli esempi offerti da
costoro, che senza dubbio loro stessi condannano a parole, affinché quando
queste parole di condanna rientrano nel loro cuore, arrossiscano almeno di
imitare coloro che giudicano.
21 — Come bisogna
ammonire coloro che non bramano i beni altrui,
ma si tengono i propri e coloro che pur distribuendo i propri, rapiscono
tuttavia quelli degli altri
Diverso è il modo di
ammonire coloro che né bramano i beni altrui né elargiscono i propri; e coloro
che distribuiscono i beni che hanno e tuttavia non desistono di rapire quelli
altrui. Bisogna ammonire coloro che né bramano i beni altrui né elargiscono i
propri, a sapere che quella terra dalla quale sono stati presi è comune a tutti
gli uomini e perciò produce anche i mezzi di sopravvivenza a tutti allo stesso
modo. Pertanto vanamente si considerano innocenti coloro che rivendicano ad uso
privato il dono comune di Dio; i quali, quando non distribuiscono ciò che hanno
ricevuto, operano in qualche modo l’assassinio del prossimo; perché quasi ogni
giorno ne uccidono tanti, quanti sono i poveri che muoiono mentre essi
nascondono presso di sé quegli aiuti che erano loro. Infatti, quando
distribuiamo agli indigenti qualunque cosa, non elargiamo roba nostra ma
restituiamo loro ciò che ad essi appartiene; e assolviamo piuttosto a un debito
di giustizia più che compiere opere di misericordia. Perciò la Verità stessa
parlando di nome non bisogna ostentare la misericordia, dice: Badate di non
fare la vostra giustizia davanti agli uomini
(Mt. 6, 1).
E a ciò si accorda pure il salmista che dice: Disperse,
diede ai poveri, la sua giustizia rimane in eterno (Sal. 111,
9). Infatti, dopo avere nominato la liberalità esercitata
verso i poveri, preferisce chiamarla giustizia e non misericordia, poiché è
certamente giusto che quanto viene distribuito dal comune Signore, chiunque ne
riceve lo usi a vantaggio comune. Perciò anche Salomone dice: Chi è giusto
darà e non cesserà (Prov.
21, 26). Bisogna anche
ammonirli a stare molto attenti che l’agricoltore esigente si lamenta contro il
fico che non dà frutto perché, oltre a ciò, tiene occupato il terreno. Il fico,
cioè, tiene il terreno occupato senza frutto quando l’animo degli avari conserva
inutilmente ciò che avrebbe potuto giovare a molti. Il fico occupa senza frutto
il terreno quando lo stolto opprime con l’ombra della pigrizia un luogo che un
altro sarebbe stato in grado di sfruttare col sole delle buone opere. Costoro
tuttavia spesso sogliono dire: Usiamo ciò che ci è stato dato e non cerchiamo la
roba d’altri, e se non agiamo in modo degno di una ricompensa di misericordia,
tuttavia non commettiamo nulla di male. E pensano così perché evidentemente
chiudono l’orecchio del cuore alle parole celesti; infatti neppure il ricco
dell’Evangelo, che vestiva di porpora e di bisso e banchettava splendidamente
ogni giorno (cf.
Lc. 16, 19 ss.), aveva rapito i beni altrui, ma è dimostrato
che egli aveva usato dei propri senza frutto; e dopo questa vita lo accolse la
geenna vendicatrice, non perché aveva compiuto qualcosa di illecito, ma perché
si era dato tutto alle cose lecite con uso smodato. Bisogna ammonire questi
avari a rendersi conto che la prima offesa la fanno a Dio, poiché a colui che dà
loro tutto, essi non rendono alcun sacrificio di misericordia. Perciò il
salmista dice: Non darà a Dio la sua espiazione né il prezzo del riscatto
della sua anima (Sal. 48, 8-9). Infatti dare il prezzo
del riscatto è rendere una buona opera alla grazia che ci previene. Perciò
Giovanni esclama: La scure è ormai alla radice dell’albero.
Ogni albero che non fa buon frutto sarà tagliato e gettato nel fuoco (Lc. 3, 9).
Dunque, coloro che si giudicano innocenti perché non
rubano i beni altrui, faranno bene a prevedere il colpo della scure vicina e a
rigettare il torpore di una improvvida sicurezza, affinché, mentre trascurano di
portare il frutto di buone opere, non vengano tagliati via del tutto dalla
presente vita, come da una rigogliosa radice. Al contrario, bisogna ammonire
coloro che distribuiscono ciò che hanno e poi non cessano di rapire i beni
altrui, a non aspirare di apparire sommamente munifici e così divenire peggiori
sotto l’apparenza del bene. Costoro infatti, distribuendo senza discrezione i
propri beni, non solo, come abbiamo già detto, cadono nella mormorazione
dell’impazienza, ma poi, costretti dal bisogno, ripiegano fino all’avarizia. Che
cosa c’è dunque di più infelice dell’animo di coloro per i quali l’avarizia
nasce dalla liberalità e la messe dei peccati è come avesse il suo seme nella
virtù? Così bisogna innanzi tutto ammonirli a sapere conservare con raziocinio i
propri beni e quindi a non ambire a quelli degli altri; se infatti la colpa non
viene bruciata alla radice proprio nel suo stesso espandersi, la spina
dell’avarizia, diffondendosi per i rami, non si secca mai. Pertanto si toglie
l’occasione di rubare, se in precedenza si stabiliscono con chiarezza i limiti
del diritto di possedere. Allora solo, coloro che sono stati così ammoniti,
ascoltino in che modo devono distribuire, secondo misericordia, ciò che
possiedono; cioè, quando avranno imparato a non mescolare il bene della
misericordia con la malizia del furto, giacché essi ricercano poi, con la
violenza, ciò che hanno elargito con la misericordia. Ma altra cosa è fare
misericordia per i peccati e altra peccare per fare misericordia; che, fra
l’altro, non si può nemmeno più chiamare misericordia, poiché non può dare dolce
frutto l’albero che diviene amaro per il veleno di una radice pestifera. È
perciò, infatti, che per mezzo del profeta il Signore rimprovera gli stessi
sacrifici dicendo:
Io, il Signore,
che ama la giustizia e odia la rapina nel sacrificio
(Is. 61, 8). Perciò ancora disse:
Abominevoli sono i sacrifici degli empi,
che vengono offerti dal delitto (Prov. 21, 27).
Poiché essi spesso sottraggono anche ai poveri ciò che offrono a Dio.
Ma con quanto biasimo li rifiuti, il Signore lo dimostra dicendo, per mezzo di
un sapiente: Chi offre un sacrificio con le sostanze dei poveri è come uno
che immola un figlio alla vista di suo padre
(Sir. 34, 24).
Infatti, che cosa può esserci di pila
insopportabile che la morte del figlio davanti agli occhi del padre? Si
manifesta così con quanta ira sia riguardato questo sacrificio che viene
paragonato al dolore di un padre privato del figlio. E tuttavia spesso pesano
quel che danno, ma omettono di considerare quel che rubano. Contano quel che
danno come fosse una paga, ma rifiutano di pesare attentamente le colpe.
Ascoltino pertanto ciò che è scritto: Chi ha raccolto le paghe le ha messe in
un sacchetto bucato (Ag. 1,
6), poiché si vede,
quando si mette il denaro in un sacchetto bucato, ma non si vede quando lo si
perde. Pertanto, coloro che guardano a quanto elargiscono, ma non considerano
quanto rapiscono, mettono le paghe in un sacchetto bucato, perché certamente le
accumulano guardando alla speranza di ricompensa cui si affidano; ma senza
guardare le perdono.
22 — Come bisogna
ammonire i litigiosi e i pacifici
Diverso è il modo di
ammonire i litigiosi e i pacifici. Infatti, i litigiosi bisogna ammonirli a
sapere con assoluta certezza che, per quanto grandi siano le virtù di cui
abbondano, non di meno non possono diventare spirituali, se trascurano di
restare uniti al prossimo nella concordia. Poiché è scritto: Frutto,
poi, dello spirito è carità, gioia, pace (Gal.
5, 22). Dunque, chi non
ha cura di conservare la pace, rifiuta di portare il frutto dello spirito.
Perciò Paolo dice: Dal momento che ci sono fra voi gelosie e contese,
non siete carnali? (1 Cor. 3, 3).
Perciò di nuovo dice pure: Cercate la pace con tutti e una vita
santa senza la quale nessuno vedrà Dio
(Ebr. 12, 14).
Perciò ancora ammonisce dicendo: Solleciti a conservare l’unità
dello spirito: nel vincolo della
pace: un solo corpo e un solo spirito, come siete stati chiamati
ad una sola speranza della vostra chiamata (Ef. 4, 3-4). Dunque, non si giunge all’unica speranza della chiamata
se non si corre verso di essa con l’animo unito al prossimo. Ma spesso ci sono
alcuni che, quanto più sono i doni particolari che ricevono, tanto più
insuperbiscono perdendo il dono più grande che è quello della concordia; come
sarebbe uno che soggioga la propria carne
più degli altri, frenando la gola, e trascuri di andare d’accordo con coloro a
cui è superiore nell’astinenza. Ma chi separa l’astinenza dalla concordia,
consideri ciò che dice il salmista: Lodatelo col timpano e il coro
(Sal. 150, 4).
Infatti il timpano suona per la percussione di una pelle
secca, invece nel coro le voci concordano tutte insieme; e così chi affligge il
corpo ma abbandona la concordia, loda certo Dio col timpano, ma non lo loda col
coro. Spesso, poi, una maggiore scienza, mentre innalza certuni, li divide dalla
comunione con gli altri, e in un certo senso, quanto più sanno, tanto più
diventano incapaci della virtù della concordia.
Dunque, costoro
ascoltino che cosa dice la Verità in persona: Abbiate sale in voi e abbiate
pace tra voi (Mc. 9, 49).
La
sapienza, cioè, non è
un dono di virtù, ma causa di condanna. Infatti, quanto più uno è sapiente,
tanto più gravemente pecca, e perciò meriterà il supplizio senza possibilità di
scusa, perché, se avesse voluto, con la sua prudenza avrebbe potuto evitare il
peccato. A costoro è detto giustamente per mezzo di Giacomo: Che se avete
zelo amaro e ci sono contese nel vostro cuore,
non gloriatevi e non dite menzogne contro la verità. Questa non è
sapienza che scende dall’alto, ma è sapienza terrena, animale,
diabolica. Invece, la sapienza che è dall’alto,
innanzitutto è pudica, quindi pacifica (Giac. 3, 14-15.17).
Pudica, cioè, perché è casta nell’intendere, e pacifica perché non si
separa affatto con l’esaltazione dalla comunione col prossimo. Bisogna ammonire
i litigiosi a conoscere che non immolano alcun sacrificio di opere buone a Dio,
per tutto il tempo in cui non concordano nella carità col prossimo. Infatti, è
scritto: Se mentre offri il tuo dono all’altare ti ricordi che il tuo
fratello ha qualche cosa contro di te,
lascia là il tuo dono e va’ prima a riconciliarti col tuo fratello e poi vieni a
offrire il tuo dono (Mt. 5, 23-24).
Da questo precetto, bisogna considerare di chi sia la offerta che
viene respinta e quanto sia intollerabile la colpa che viene così indicata.
Infatti, se tutti i peccati vengono cancellati per il bene compiuto in seguito,
consideriamo quanto sia grande il peccato della discordia, che se non viene
distrutto radicalmente non permette al bene di seguirlo. Bisogna ammonire i
litigiosi, se distolgono gli orecchi dai precetti celesti, ad aprire gli occhi
del cuore a considerare come si comportano le creature degli ordini più
bassi; come gli uccelli di una stessa specie, volando tutti insieme non si
lasciano, gli uni con gli altri; e come gli animali, che pure sono senza
intelligenza, pascolano a gruppi. Poiché, se guardiamo con attenzione, la natura
irrazionale nell’accordo con se stessa indica quanto sia grande il peccato che
la natura razionale commette con la discordia; poiché questa, con l’applicazione
della ragione, ha perduto ciò che quella custodisce per istinto naturale.
Bisogna, al contrario, ammonire i pacifici, a non amare più del necessario la
pace che possiedono, così da non aspirare a raggiungere quella eterna. Spesso
infatti la tranquillità esteriore tenta più gravemente l’attenzione degli animi
così che quanto meno moleste sono le condizioni in cui essi si trovano, tanto
meno amabili divengono quelle cui sono chiamati; e quanto più dilettano le
presenti, tanto meno si ricercano le eterne. Per cui, la Verità stessa,
distinguendo la pace terrena da quella celeste e volendo eccitare i discepoli,
dalla pace presente a quella eterna, dice: Lascio a voi la pace,
vi do la mia pace (Gv. 14, 27).
Lascio, cioè, la pace transitoria e do quella durevole. Se dunque il
cuore si fissa in quella pace che è stata lasciata, non perviene mai a quella
che deve essere data. Pertanto bisogna conservare la pace presente in modo da
amarla e insieme disprezzarla, affinché, se la si ama smodatamente, l’animo
dell’amante non sia colto in peccato. Perciò bisogna anche ammonire i pacifici,
a non rinunciare a rimproverare i cattivi costumi degli uomini, per un eccessivo
desiderio di assicurarsi una pace umana, così che, consentendo ai peccatori, non
si distacchino dalla pace del loro Creatore; e mentre temono all’esterno gli
improperi degli uomini, non siano colpiti dalla rottura dell’alleanza interiore.
Che cos’è infatti una pace passeggera se non un’impronta della pace eterna? Che
cosa ci può essere di più stolto che amare delle impronte sulla polvere e non
amare la persona che ve le ha impresse? Perciò David, stringendosi tutto alla
alleanza della pace interiore, afferma di non conservare la concordia coi
malvagi dicendo: Non odio forse,
Dio, quelli che ti odiano, e non mi struggo sopra i tuoi nemici?
Li odio di un odio perfetto, sono divenuti miei nemici (Sal.
138, 21-22). Infatti, odiare i nemici di Dio con odio
perfetto significa amare che essi esistano e rimproverare ciò che essi fanno;
perseguire i costumi dei cattivi e giovare alla loro vita. Bisogna dunque
considerare con quanta colpa si conserva la pace coi malvagi, se ci si acquieta
nella rinuncia a riprenderli, dal momento che un profeta così grande offre come
un sacrificio a Dio il fatto di avere eccitato contro di sé, per Dio,
l’inimicizia degli empi. Perciò si dice che la tribù di Levi, impugnate le
spade, percorrendo tutto l’accampamento, poiché non volle risparmiare i
peccatori che meritavano di essere colpiti, consacrò la mano di Dio (cf.
Es. 32, 27 ss.). Perciò Finees, disprezzando il favore di
uomini peccatori, colpi coloro che si univano con le madianite e con la sua ira
placò l’ira del Signore (cf.
Num. 25, 9).
Perciò la Verità stessa dice: Non pensate che sia venuto a portare la pace
sulla terra. Non sono venuto a
portare la pace ma la spada (Mt. 10, 34). Infatti, quando
incautamente stringiamo amicizia coi malvagi, ci leghiamo alle loro colpe.
Perciò Giosafat che è esaltato con tanti elogi riguardo alla sua vita passata,
quasi in punto di morte viene rimproverato per la sua amicizia col re Achab; a
lui infatti è detto dal Signore, per mezzo del profeta: Hai portato aiuto
all’empio e ti sei unito, per
l’amicizia, con coloro che odiano il Signore; perciò meriteresti
l’ira del Signore, ma in te sono state trovate opere buone perché hai
tolto i boschi sacri dalla terra di Giuda (2 Cr. 19, 2-3). Quanto più la nostra
vita concorda per l’amicizia coi perversi tanto phi, solo per questo, essa si
distingue ormai da colui che è sommamente giusto. Bisogna ammonire i pacifici di
non temere di turbare la propria pace temporale, se ricorrono a parole di
correzione. E ancora bisogna ammonirli a conservare interiormente con intatto
amore la medesima pace che esteriormente si turba per la voce alzata
nell’invettiva. David mostra di avere saggiamente conservato ambedue quando
dice: Con coloro che odiano la pace ero pacifico,
quando parlavo con loro mi facevano guerra senza motivo (Sal.
119, 7). Ecco, quando parlava
gli facevano guerra; e tuttavia anche così era pacifico, perché né cessava di
rimproverare coloro che infuriavano né tralasciava di amare coloro che
rimproverava. Perciò anche Paolo dice: Se è possibile,
per quanto sta in voi, abbiate pace con tutti gli uomini (Rom. 12, 18). Volendo esortare i
discepoli ad avere pace con tutti, premise: Se è possibile,
e aggiunse: per quanto sta in voi.
Poiché era difficile che potessero essere in pace con tutti se
avessero dovuto rimproverare delle cattive azioni. Ma quando, per il nostro
rimprovero, la pace esteriore resta turbata nei cuori dei malvagi, è necessario
che essa si conservi inviolata nel nostro cuore. Perciò dice giustamente: per
quanto sta in voi, come se dicesse: Poiché la pace consiste nel consenso di due parti, se essa
viene cacciata da coloro che sono rimproverati, sia conservata tuttavia integra
nel cuore di voi che rimproverate. Perciò lo
stesso, di nuovo,
ammonisce i discepoli dicendo: Se qualcuno non ubbidisce a quanto diciamo con
questa lettera, notatelo,
e non mescolatevi con lui, affinché resti confuso (2 Tess. 3, 14). E subito aggiunge: E
non consideratelo come nemico ma correggetelo come un fratello
(2 Tess. 3, 15); come se dicesse:
Sciogliete la pace esterna con lui, ma quella interiore riguardo a lui
custoditela nel fondo del cuore, affinché il vostro dissenso ferisca il cuore
del peccatore in modo che, tuttavia, non si allontani dai vostri cuori la pace
che non avrete rinnegato.
23 — Come si devono
ammonire i seminatori di discordie e gli operatori di pace
Diverso è il modo di
ammonire i seminatori di discordie e gli operatori di pace. I primi bisogna
ammonirli a riconoscere di chi sono seguaci, poiché è dell’angelo apostata che
sta scritto, quando fu seminata la zizzania tra il buon seme: Un nemico ha
fatto questo (Mt. 13, 28). E di un suo membro è
anche detto, per mezzo di Salomone: L’apostata,
uomo inutile, avanza con volto maligno, fa cenno con gli occhi,
stropiccia col piede, parla col dito, con cuore malvagio
concepisce il male, e in ogni tempo semina discordie (Prov.
6, 12).
Ecco, chiama prima apostata colui che vuole chiamare seminatore di discordie,
perché, se per la perversione del cuore non fosse caduto prima, interiormente,
dal cospetto del Creatore — allo stesso modo dell’angelo insuperbito — non
sarebbe poi uscito a seminare discordie all’esterno, lui che bene viene
descritto come chi fa cenno con gli occhi, parla con le dita e stropiccia col
piede. Poiché è all’interno, la custodia che conserva l’ordinato comportamento
esterno delle membra. Ma chi ha perduto l’equilibrio dell’animo si abbandona, al
di fuori, a movimenti scomposti, e con la mobilità esteriore indica come nessuna
radice lo tenga saldo interiormente. Ascoltino i seminatori di discordie ciò che
è scritto: Beati gli operatori di pace poiché saranno chiamati figli di
Dio (Mt. 5, 9),
e traggano da ciò, inversamente, la conclusione che, se saranno chiamati figli
di Dio coloro che operano la pace, sono senza dubbio figli di Satana coloro che
la turbano. Ma tutti coloro che, a causa della discordia, si separano dalla
pianta verde dell’amore, inaridiscono. E quantunque essi producano frutti di
buone opere nelle loro azioni, questi non valgono assolutamente nulla perché non
nascono dall’unità della carità. Perciò considerino, i seminatori di discordie,
in quanti molteplici modi peccano, loro che, nel commettere una sola azione
malvagia, di fatto sradicano dai cuori umani tutte insieme le virtù. Ma poiché
nulla è più prezioso per Dio della virtù dell’amore, niente è più desiderabile
dal diavolo che la distruzione della carità. Dunque, chiunque seminando
discordie uccide l’amore del prossimo, serve come familiare al nemico di Dio
perché, sottraendo ai cuori feriti la virtù, per la cui perdita egli cadde,
taglia ad essi la via dell’ascesi spirituale. Al contrario, bisogna ammonire gli
operatori di pace a non trarre con leggerezza il peso di un’azione così
importante, quando non conoscano le persone tra cui debbono stabilire la pace.
Infatti, come è molto dannoso che non ci sia pace tra i buoni,
cos’ è
dannosissimo che ci sia pace tra i cattivi. Pertanto, se la malizia dei
malvagi li unisce nella
pace, certo la loro forza si accresce di cattive azioni, perché quanto più
concordano nel male tanto
più vigorosamente si buttano ad affliggere i buoni.
Perciò infatti la voce divina parlando contro gli strumenti di quel dannato,
cioè contro i predicatori dell’Anticristo, dice al beato Giobbe: Le membra
della sua carne congiunte fra loro (Giob.
41, 14). Perciò dei suoi
satelliti si dice, sotto l’immagine delle squame: Una si congiunge all’altra
e neppure un soffio passa fra di esse
(Giob.
41, 7). Poiché i seguaci di
quello, quanto meno sono divisi tra di loro dall’ostilità, frutto della
discordia, tanto più gravemente si uniscono per la strage dei buoni. Dunque,
colui che unisce gli iniqui, facendo pace fra loro, dispensa forze all’iniquità,
poiché perseguitando i buoni unanimemente, li affliggono ancor peggio. Perciò
l’egregio predicatore, prigioniero per la grave persecuzione di Farisei e
Sadducei, vedendoli pericolosamente uniti contro di sé, curò di dividerli fra di
loro, quando gridò dicendo: Fratelli,
io sono Fariseo figlio di Farisei e vengo giudicato riguardo alla speranza nella
risurrezione dei morti (Atti,
23, 6). E poiché i Sadducei
negavano la risurrezione dei morti e la speranza in essa, mentre i Farisei ci
credevano, secondo i precetti della parola divina, si creò una divisione
nell’unanimità dei persecutori, e per questa Paolo usci illeso da quella turba
che prima, unita, lo aveva ferocemente stretto. Pertanto bisogna ammonire coloro
che si applicano a ristabilire la pace, ad infondere innanzitutto nei cuori dei
malvagi l’amore della pace interiore, perché poi la pace esteriore possa giovare
a loro, così che il riceverla, mentre il loro cuore è intento alla esperienza
della pace intima, valga a non trascinarli al male; e mentre guardano avanti,
verso la pace celeste non si servano in alcun modo di quella terrena per
divenire peggiori. Ma quando i malvagi sono tali che non sono capaci di nuocere
ai buoni, anche se lo desiderano, è certo che tra costoro occorre stabilire la
pace terrena anche prima che essi siano in grado di conoscere quella celeste,
affinché coloro che la malizia della propria empietà esaspera contro l’amore di
Dio, divengano mansueti almeno per l’amore del prossimo; e passino, come
partendo da ciò che è vicino, a qualcosa di migliore, cioè ascendano a quella
pace del Creatore che è loro lontana.
24 — Come si devono
ammonire gli ignoranti nella dottrina sacra e i dotti che però non sono umili
Diverso è il modo di
ammonire coloro che non intendono rettamente le parole della legge sacra e
coloro che certo le intendono rettamente ma non ne parlano umilmente. I primi
vanno ammoniti a considerare che essi mutano, per sé, un sanissimo bicchiere di
vino in un bicchiere di veleno, e con un ferro da chirurgo, si feriscono con una
ferita mortale, quando con esso uccidono ciò che in loro è sano, mentre
avrebbero dovuto tagliare ciò che è malato. Bisogna ammonirli a considerare come
la Sacra Scrittura sia per noi quale lampada posta nella notte della vita
presente (cf.
Sal. 118, 105), ma se essi non intendono rettamente le sue parole
è come se quelle si oscurassero perdendo la loro luce. Certo non sarebbe un
errore intenzionale a trascinarli a una comprensione distorta, se prima non li
avesse gonfiati la superbia. Infatti, considerandosi più sapienti degli altri,
rifiutano con disprezzo di seguirli sulla via di una migliore comprensione, e
per estorcere, all’autorità dell’opinione del volgo, il nome di scienza per il
proprio insegnamento, si danno un gran daffare a demolire le rette
interpretazioni di altri e a rafforzare i propri errori.
Perciò giustamente si
dice per mezzo del profeta: Sventrarono le donne incinte in Galaad per
allargare i loro territori (Am.
1, 13). Infatti con Galaad si
intende il «cumulo della testimonianza», e poiché tutta insieme, la
congregazione della Chiesa, attraverso la confessione [dei suoi membri], serve
alla testimonianza della verità, non è senza senso che per Galaad si intenda la
Chiesa che, per bocca di tutti i fedeli, attesta ciò che è vero riguardo a Dio.
Per donne incinte si intendono le anime che in virtù dell’amore divino,
concepiscono la comprensione della Parola e giungono al compimento del tempo
sono pronte a partorire, con la manifestazione delle opere, quella comprensione
che avevano concepita. E dilatare il proprio territorio significa estendere la
fama della propria opinione. Dunque, sventrarono le donne incinte in Galaad per
allargare il proprio territorio, poiché evidentemente gli eretici uccidono, con
una predicazione perversa, i cuori dei fedeli che già avevano concepito una
qualche comprensione della verità, e diffondono la fama di una loro scienza. Con
la spada dell’errore squarciano i cuori dei piccoli, già gravidi della
concezione della Parola, e creano, per il proprio errore, la opinione di
dottrina. Dunque, quando ci sforziamo di istruire costoro perché non errino col
pensiero, è necessario che prima li ammoniamo a non cercare una gloria vana.
Infatti, se si strappa la radice dell’esaltazione, di conseguenza i rami della
dottrina depravata inaridiscono. Bisogna ammonirli anche che, col generare
errori e discordie, non mutino in sacrificio a Satana proprio quella legge di
Dio data precisamente per impedire sacrifici a Satana. Perciò attraverso il
profeta il Signore si lamenta dicendo: Ho dato loro frumento,
vino e olio, e per loro ho moltiplicato argento e oro che hanno usato per
Baal (Os. 2, 8).
Dunque, riceviamo
frumento dal Signore quando in espressioni oscure, tolta la copertura della
lettera, attraverso il midollo dello spirito, cogliamo l’intimo della legge. Il
Signore poi ci offre il suo vino quando ci inebria con l’alta predicazione della
sua Scrittura. E ci dà pure il suo olio quando, con precetti più aperti, dispone
con dolce leggerezza la nostra vita. Moltiplica l’argento, quando ci amministra
parole piene della luce della verità. E ci arricchisce pure d’oro quando
irraggia il nostro cuore con la percezione del sommo fulgore. Tutte queste cose
gli eretici le offrono a Baal, poiché, con la comprensione corrotta, pervertono
ogni cosa nei cuori dei loro ascoltatori. E col frumento di Dio, col vino e
l’olio e ugualmente l’argento e l’oro, immolano un sacrificio a Satana, poiché
piegano parole di pace all’errore che genera discordia. Perciò bisogna ammonirli
a considerare che quando, con animo perverso, creano discordia, per giusto
giudizio di Dio, sono loro stessi a morire uccisi da parole di vita. Al
contrario, bisogna ammonire coloro che intendono, certo rettamente, le parole
della legge, ma non ne parlano umilmente, ad esaminare se stessi alla luce dei
discorsi sacri, prima di proporli agli altri, perché non accada che nel
perseguire le azioni altrui, trascurino se stessi; e mentre intendono rettamente
ogni cosa della Sacra Scrittura non tralascino di fare attenzione solamente a
ciò che in essa si dice contro coloro che si esaltano. Poiché è disonesto e
ignorante, il medico che desidera curare la ferita altrui e ignora quella di cui
egli stesso soffre. Pertanto, coloro che non predicano umilmente le parole di
Dio, bisogna certamente ammonirli — quando si applicano a medicare i malati — a
esaminare anzitutto il veleno della peste che portano addosso, affinché mentre
curano gli altri non muoiano loro. Bisogna ammonirli a considerare che lo
spirito con cui parlano non contrasti con la santità della Parola, e non accada
che nella loro predicazione dicano una cosa e ne mostrino un’altra. Ascoltino
dunque ciò che è scritto: Se uno parla,
siano come discorsi di Dio (1
Pt. 4,11). Pertanto perché coloro
che pronunciano parole che non sono loro proprie, se ne vantano come se fossero
loro? Ascoltino ciò che sta scritto: Parliamo come da Dio,
di fronte a Dio, in Cristo (2
Cor. 2, 17).
Infatti parla da Dio, di fronte a Dio, colui che capisce di avere ricevuto da
Dio la parola della predicazione e cerca, con essa, di piacere a Dio e non agli
uomini. Ascoltino ciò che è scritto: È abominazione del Signore ogni
arrogante (Prov. 16, 5).
Poiché, evidentemente, mentre cerca la propria gloria nella parola di Dio,
usurpa il diritto di colui che la dà, e non teme di posporre alla lode di sé
colui dal quale ha ricevuto proprio ciò che viene lodato. Ascoltino ciò che
viene detto al predicatore per mezzo di Salomone: Bevi l’acqua della tua
cisterna e quella che sgorga dal tuo pozzo;
le tue sorgenti scorrano al di fuori e dividi le acque nelle piazze.
Abbile tu solo e non vi siano stranieri partecipi con te (Prov. 5, 15-17). Dunque, il predicatore
beve acqua dalla sua cisterna, quando rientrando nel suo cuore ascolta, lui per
primo, ciò che dice. Beve l’acqua che scorre dal suo pozzo, se viene irrigato
dalla sua parola. Ed è ben detto ciò che si aggiunge: Le tue sorgenti
scorrano al di fuori e dividi le acque nelle piazze (Prov. 5, 16);
poiché è giusto che beva lui, prima, e poi predicando faccia rifluire sugli
altri. Infatti, fare scorrere le fonti al di fuori significa infondere
esteriormente agli altri la forza della predicazione. Dividere poi le acque
nelle piazze corrisponde a dispensare il divino discorso ad un grande numero di
ascoltatori a seconda della qualità di ciascuno. E poiché per lo più, mentre la
parola di Dio si diffonde e giunge a conoscenza di molti, si insinua il
desiderio di una gloria vana, dopo che è stato detto: Dividi le acque sulle
piazze, giustamente
si soggiunge: abbila tu solo e non vi siano stranieri partecipi con te. Chiama cioè stranieri gli spiriti maligni dei quali, per
mezzo del profeta si dice, con la voce di un uomo nella tentazione: Stranieri
sono insorti contro di me e dei forti hanno cercato la mia vita (Sal. 53, 5).
Dice dunque: Dividi le acque nelle piazze e tuttavia abbile tu solo; come se
dicesse apertamente: È necessario che tu serva esteriormente la predicazione in
modo da non unirti, attraverso l’esaltazione, agli spiriti iniqui e da non
ammettere, nel ministero della parola divina, i tuoi nemici coane tuoi
partecipi. Pertanto, dividiamo l’acqua nelle piazze e tuttavia la possediamo da
soli, quando esteriormente diffondiamo ampiamente la predicazione e tuttavia non
aspiriamo affatto ad ottenere la lode degli uomini attraverso di essa.
25 — Come bisogna
ammonire coloro che rifiutano l’ufficio della predicazione per eccessiva umiltà
e coloro che se ne impadroniscono con fretta precipitosa
Diverso è il modo di
ammonire coloro che, pur essendo in grado di predicare degnamente, temono di
farlo per eccessiva umiltà, e quelli a cui sarebbe proibito da qualche difetto o
dall’età e tuttavia l’irruenza li spinge a farlo. Infatti, coloro che potrebbero
predicare utilmente ma ne rifuggono per umiltà eccessiva bisogna ammonirli, a
dedurre da esempi di minor conto, l’entità di quel che essi trascurano affatto
in cose di maggior conto. Se infatti essi nascondessero, a dei prossimi
bisognosi, del denaro in loro possesso, ne faciliterebbero senz’altro la rovina.
Vedano allora con quale colpa si legano, dal momento che, sottraendo a dei
fratelli peccatori la parola della predicazione, nascondono medicine di vita ad
anime che stanno morendo. Perciò dice bene un sapiente: Sapienza nascosta e
tesoro non visto, quale utilità
in ambedue? (Sir. 20, 32). Se la fame sfinisse la
popolazione ed essi custodissero nascosto del frumento, sarebbero senza dubbio
autori di morte. Considerino dunque con che pena meritano di essere colpiti
loro, che, mentre le anime muoiono di fame della Parola, non distribuiscono il
pane della grazia ricevuta. Perciò bene è detto per mezzo di Salomone: Chi
nasconde il grano sarà maledetto tra i popoli
(Prov. 11, 26); poiché nascondere il
grano significa trattenere presso di sé le parole della predicazione santa. Una
tale persona viene maledetta tra i popoli perché per la ‘sola colpa del
silenzio, viene condannata in proporzione a quella che sarà la pena di molti,
che avrebbe potuto correggere.
Se ci fosse chi conosce
bene l’arte medica e vedesse una ferita da incidere e tuttavia ricusasse di
farlo, peccherebbe certamente come responsabile della morte del fratello solo
per pigrizia. Vedano dunque quanto sia grande la colpa in cui si avvolgono,
coloro che mentre riconoscono le ferite dei cuori trascurano di curarle col
taglio delle parole. Perciò è anche ben detto per mezzo del profeta:
Maledetto chi tiene lontano la sua spada dal sangue (Ger. 48, 10),
poiché tener lontano la spada dal sangue corrisponde a trattenere la parola
della predicazione dall’uccidere la vita carnale. E di questa spada di nuovo è
detto: E la mia spada mangerà le carni (Deut. 32, 42).
Costoro dunque, quando nascondono presso chi sé la parola della predicazione,
ascoltino con terrore le divine.
sentenze pronunciate contro di loro. Ascoltino che colui, il quale non volle
commerciare il talento, lo perdette insieme con la sentenza di condanna (cf.
Mt. 25, 24 ss.).
Ascoltino come Paolo tanto più si considerò puro del sangue dei suoi prossimi,
quanto più non li risparmiò dal colpire i loro vizi dicendo: Affermo davanti
a voi, oggi, che sono
puro del sangue di tutti: infatti non mi sottrassi dall’annunziarvi ogni
consigliò di Dio (Atti,
20, 26-27). Ascoltino ciò che Giovanni ammonisce con voce
angelica, quando è detto: Chi ascolta dica: Vieni (Ap.
22, 17);
certo, perché colui nel quale si insinua una voce interiore chiami altri e
trascini là, dove egli stesso è rapito, affinché non trovi le porte chiuse,
nonostante sia stato invitato, se si avvicina a mani vuote a colui che lo
chiama. Ascoltino Isaia, il quale, poiché aveva taciuto dal ministero della
parola, illuminato dalla luce celeste, con grande voce di pentimento, rimprovera
se stesso dicendo: Guai a me, perché ho taciuto (Is.
5, 5).
Ascoltino ciò che è promesso per mezzo di Salomone, cioè che sarà moltiplicata
la scienza della predicazione in colui che avendola già ottenuta non si
trattiene da essa per il vizio della indolenza. Dice infatti: L’anima che
benedice sarà impinguata e chi inebria è lui pure inebriato
(Prov. 11, 25).
Infatti, chi benedice esteriormente predicando, accoglie la pinguedine
della crescita interiore; e mentre non cessa di inebriare l’animo degli
ascoltatori col vino della Parola, cresce a sua volta inebriato dalla bevanda
del dono così moltiplicato. Ascoltino ciò che David offri in dono a Dio, poiché
non nascose la grazia della predicazione che aveva ricevuto, dicendo: Ecco,
non terrò chiuse le mie labbra, Signore, tu lo sai: non ho
nascosto nel mio cuore la tua giustizia, la tua verità e la tua salvezza
ho proclamato (Sal. 39, 10-11). Ascoltino ciò che si dice nel
colloquio dello sposo con la sposa: Tu che abiti nei giardini,
gli amici
[ti] ascoltano; fammi udire la tua voce
(Cant. 8, 13). È la
Chiesa che abita nei giardini, e conserva le pianticelle ben coltivate delle
virtù per un rigoglio interiore. E gli amici che ascoltano la sua voce sono gli
eletti e coloro che desiderano la parola della sua predicazione. Ed anche lo
sposo desidera di udire quella voce, poiché anch’egli anela alla sua
predicazione attraverso le anime dei suoi eletti. Ascoltino come Mosé, vedendo
che Dio era adirato col popolo e ordinando di dare il via alla vendetta, con la
spada, dichiarò che erano dalla parte di Dio coloro che senza esitazione
avrebbero colpito il delitto dei peccatori, dicendo: Se uno è del Signore,
si unisca a me; ponga ogni uomo la spada sulla sua coscia: andate
e tornate da porta a porta attraversando l’accampamento nel mezzo e ciascuno
uccida il fratello e l’amico e il suo prossimo (Es.
32, 27). Porre la spada sulla
coscia è anteporre l’amore della predicazione ai piaceri della carne, poiché,
quando uno desidera di parlare di cose sante, bisogna che abbia cura di
sottomettere le suggestioni illecite. Andare, poi, da una porta all’altra è
passare col rimprovero da un vizio all’altro, poiché da essi entra la morte per
l’anima. Attraversare il campo nel mezzo significa vivere nella Chiesa con tanto
disinteresse che colui il quale rimprovera le colpe dei peccatori non si deve
piegare a favorire alcuno. Perciò giustamente si aggiunge: L’uomo forte
uccida il fratello, l’amico e il
suo prossimo. Cioè, uccide il fratello, l’amico, il prossimo,
colui che quando scopre qualcosa degno di punizione, non risparmia dalla spada
del rimprovero neppure coloro che ama per legame di parentela. Se dunque è detto
appartenente a Dio colui che è eccitato dallo zelo dell’amore divino a colpire i
vizi, negano certamente di essere di Dio coloro che rifiutano di rimproverare,
in quanto possono, la vita di uomini carnali. Al contrario, coloro ai quali, o
una imperfezione naturale o l’età proibisce l’ufficio della predicazione e
tuttavia vi sono spinti dall’irruenza, bisogna ammonirli a non tagliarsi la via
di un miglioramento successivo coll’arrogarsi, nella loro irruenza, il peso di
un ufficio così grave; e a non perdere anche ciò che avrebbero potuto compiere,
prima o poi ma al tempo giusto, coll’impadronirsi, fuori tempo, di ciò di cui
non sono capaci; e quindi di non mostrare di avere giustamente perduto questa
scienza della predicazione, perché si sono sforzati a ostentarla impropriamente.
Bisogna ammonirli a considerare che, se i piccoli degli uccelli vogliono volare
prima di avere tutte le penne, dal luogo che abbandonano, nella brama di salire
in alto, precipitano nel profondo. Bisogna ammonirli a considerare che, se si
pone il peso di una travatura sopra strutture recenti e non ancora consolidate,
non si fabbrica una abitazione ma un crollo. Bisogna ammonirli a considerare che
se le donne partorissero i figli concepiti prima che fossero pienamente formati,
non riempirebbero le case, ma le tombe. È perciò, infatti, che la Verità stessa,
che pure avrebbe potuto dare subito una tale forza a chi voleva, per lasciare un
esempio a quelli che sarebbero venuti in seguito, perché non avessero la
presunzione di predicare quando non fossero ancora in grado di farlo, dopo avere
pienamente istruito i discepoli sulla virtù della predicazione, aggiunse
immediatamente: Voi però rimanete nella città finché siate rivestiti della
virtù dall’alto (Lc. 24, 49). Dunque noi restiamo in
città se ci chiudiamo nel chiostro del nostro animo per non andare vagando coi
discorsi all’esterno; e usciamo invece fuori di noi stessi per istruire anche
gli altri, solo allora quando ci siamo rivestiti pienamente della virtù divina.
Perciò è detto per mezzo di un sapiente: Giovane,
parla solo se ti è proprio necessario, e se sei interrogato due volte,
allora incomincia a parlare (Sir. 32, 10).
È perciò che il medesimo nostro Redentore, pur essendo creatore e sempre, nella
manifestazione della sua potenza, dottore degli angeli, nei cieli; in terra, non
volle essere maestro degli uomini prima dei trent’anni; ciò evidentemente per
infondere nei precipitosi la forza di un sanissimo timore, in quanto anch’egli
stesso che non avrebbe potuto cadere, non predicava la grazia di una vita
perfetta se non dopo avere compiuto l’età; poiché sta scritto: Quando ebbe
dodici anni, il bambino Gesù
rimase a Gerusalemme (Lc. 2, 42), e poco dopo si aggiunge
di lui, il quale era stato ricercato dai genitori: Lo trovarono nel Tempio
che sedeva in mezzo ai dottori, li ascoltava e interrogava (Lc. 2, 46).
Dunque, bisogna considerare attentamente che, quando si parla di Gesù dodicenne
che sedeva in mezzo ai dottori, si dice che viene trovato a interrogare, non a
insegnare. Con questi esempi, evidentemente, si vuole dimostrare che nessuno,
che non ne abbia la forza, deve osare insegnare, se quel bambino, con le sue
domande, volle essere istruito; lui, che per la potenza della sua divinità aveva
dispensato la parola della scienza ai suoi stessi dottori. Ma quando per mezzo
di Paolo si dice al discepolo: Ordina queste cose e insegna;
nessuno disprezzi la tua adolescenza (1 Tim. 4, 11-12),
dobbiamo intendere che, nel discorso sacro, talvolta la giovinezza è chiamata
adolescenza. E ciò si dimostra subito citando ad esempio le parole di Salomone:
Gioisci giovane, nella tua
adolescenza (Qo. 11, 9). Infatti se non avesse
inteso l’una e l’altra come una cosa sola, non avrebbe chiamato giovane colui
che ammoniva nella sua adolescenza.
26 — Come bisogna
ammonire coloro a cui tutto, e coloro a cui nulla accade secondo la loro volontà
Diverso è il modo di
ammonire coloro che prosperano nei beni temporali, in tutto quanto desiderano, e
coloro che, pure accesi di desiderio delle cose mondane, durano la fatica di una
pesante fortuna avversa. Infatti, i primi bisogna ammonirli a non trascurare di
cercare colui che dà, dal momento che hanno tutto quanto basta al loro
desiderio; e a non fissare il proprio animo nelle cose che sono loro date, così
da amare il cammino verso la patria, invece che la patria stessa; a non mutare
gli aiuti ricevuti per il viaggio in ostacoli al raggiungimento della meta e,
dilettati dalla luce notturna della luna, a non rifuggire dalla vista luminosa
del sole. Così, bisogna ammonirli a non credere che tutti quanti i beni che
conseguono in questo mondo siano il premio di quel che hanno meritato, e non,
invece, sollievo dalla sventura; levino la mente contro i favori del mondo, per
non soccombere in essi col cuore tutto preso dal loro diletto. Infatti, chiunque
nella considerazione del suo cuore non reprime la prosperità di cui gode con
l’amore di una migliore vita, rende i vantaggi di una vita che passa occasione
di una morte perpetua. È perciò infatti che coloro i quali si rallegrano dei
successi di questo mondo vengono rimproverati, in persona degli Idumei che si
lasciarono vincere dalla loro prosperità, quando è detto: Si presero la mia
terra in eredità con gioia, con
tutto il cuore, con tutta l’anima (Ez. 36, 5).
E da queste parole si può considerare che non è solamente perché godono, ma è
perché godono con tutto il cuore e con tutta l’anima che vengono colpiti con un
severo rimprovero. Perciò dice Salomone: Il rifiuto dei piccoli li ucciderà e
la prosperità degli stolti li perderà (Prov. 1, 32).
Perciò Paolo ammonisce dicendo: Chi compra come se non possedesse, chi usa di questo mondo come se non ne usasse (1 Cor. 7, 30). Ciò, per dire che
quanto abbiamo in abbondanza deve servirci esteriormente così da non
distoglierci l’animo dall’amore della gioia celeste. Le cose che ci offrono un
aiuto, finché siamo nell’esilio, non indeboliscano in noi il lutto dell’intimo
stato di pellegrini; e non godiamo, come gente felice, di beni passeggeri, noi
che ora ci vediamo infelici, lontano da quelli eterni. È perciò infatti che la
Chiesa dice, con la voce degli eletti: La sua sinistra è sotto il mio capo e
la sua destra mi abbraccia (Cant.
2, 6). Dio ha posto la sua
sinistra, cioè la prosperità della vita presente, sotto il capo, e la preme la
tensione verso l’amore sommo; ma la destra di Dio l’abbraccia poiché la Chiesa
nella offerta di sé è tutta contenuta nella sua eterna beatitudine. Perciò
ancora è detto per mezzo di Salomone: Lunghezza di giorni nella sua destra,
e nella sua sinistra le sue ricchezze e la sua gloria (Prov.
3, 16).
E insegna, così, come si debbano usare ricchezze e gloria che egli pone nella
mano sinistra. Perciò dice il salmista: La tua destra mi fa salvo (Sal.
107, 7). Infatti non dice mano, ma destra, evidentemente
per indicare, dicendo destra, che era la salvezza eterna che egli cercava.
Perciò ancora è scritto: La tua destra Signore ha infranto i nemici
(Es.
15, 6. LXX); infatti i nemici di
Dio, quantunque nella sua sinistra si avvantaggino, dalla destra sono infranti,
poiché per lo pin la vita presente innalza i malvagi, ma l’avvento della
felicità eterna li condanna. Bisogna ammonire coloro che godono della prosperità
in questo mondo, a considerare accortamente che la
prosperità di questa vita
talvolta è data proprio per incitare ad una vita migliore e altra volta invece
per una più piena dannazione eterna. È perciò infatti che
viene promessa al
popolo israelita la terra di Canaan, perché prima o poi sia incitato alle
speranze eterne. Né d’altra parte quel rozzo popolo avrebbe creduto alle
promesse di Dio,. riguardanti il futuro, se non avesse ricevuto, da colui che le
aveva fatte, qualcosa anche al presente. Dunque, per dare una più solida
certezza alla [sua] fede nei beni eterni, non è solo con la speranza che lo si
attira a quei beni, ma è pure coi beni temporali che lo si conduce a sperare. E
ciò è chiaramente attestato dal salmista che dice: Diede ad essi i territori
delle genti e possedettero il frutto delle fatiche di quei popoli,
perché custodissero i suoi decreti e ricercassero la sua legge (Sal. 104, 44).
Ma quando l’anima dell’uomo non corrisponde con le buone opere a Dio, che è
largo verso di essa, proprio a causa di quei beni che si crede le siano alimento
alla pietà, essa viene più giustamente condannata. Perciò, infatti, si dice
ancora per mezzo del salmista: Li hai abbattuti mentre si consolavano
(Sal.
72, 18).
Poiché, quando i reprobi non corrispondono ai doni di Dio con opere di
giustizia, quando abbandonano completamente se stessi in questa vita e si
lasciano andare alla sovrabbondanza del benessere, ciò per cui esteriormente
hanno successo è la causa della loro caduta spirituale. Ed è perciò che al ricco
tormentato nell’inferno si dice: Hai ricevuto beni nella tua vita
(Lc. 16, 25).
Infatti anche il cattivo riceve beni in questa vita, proprio per questo, cioè
per ricevere più pienamente il male nell’altra; poiché qui non si è convertito
neppure per mezzo di quei beni. Al contrario, coloro che pure accesi di
desiderio delle cose mondane, durano la fatica di una pesante fortuna avversa,
bisogna ammonirli ad apprezzare con attenta considerazione, con quanta grazia il
Creatore, che dispone tutto, vigila su di loro, non permettendo che si lascino
andare ai loro desideri. Giacché, al malato senza speranza di guarigione, il
medico concede di prendere tutto ciò che desidera, ma chi si crede possa
guarire, si proibiscono molte cose di cui egli sente voglia. Inoltre, non diamo
soldi in mano ai bambini, ai quali pure riserviamo tutto intero il patrimonio in
quanto ne sono eredi. Perciò dunque, gioiscano della speranza della eredità
eterna, coloro che sono umiliati dall’avversità della vita temporale, perché, se
la dispensazione divina non li riguardasse come fatti per la salvezza eterna,
non li frenerebbe sotto il governo della disciplina. Pertanto bisogna ammonire
coloro che, accesi dal desiderio di beni temporali, durano la fatica di una
pesante fortuna avversa, a considerare con premura che spesso anche i giusti,
quando la potenza mondana li esalta, sono afferrati come in un laccio dalla
colpa. Così, come abbiamo già detto nella prima parte di quest’opera (I,
par. 3),
David amato da Dio fu più giusto nel periodo del suo servizio che quando giunse
al regno. Infatti, da servo, per amore della giustizia, ebbe timore di colpire
l’avversario che aveva nelle mani (cf.
1 Sam. 24, 18);
da re, invece, indotto dalla lussuria, uccise un soldato devoto con studiata
frode (cf. 2 Sam. 11, 7).
Chi, dunque, potrà cercare senza danno ricchezze, potere e gloria se queste cose
furono dannose perfino a colui che le ebbe senza averle cercate? Chi, in mezzo
ad esse, potrà salvarsi senza correre la fatica di un grande pericolo, se colui
che era stato preparato ad esse dalla
scelta di Dio rimase
turbato dalla colpa che vi si era insinuata? Bisogna ammonirli a considerare
come non si ricorda che Salomone — il quale viene descritto come chi cadde
nell’idolatria pur dopo aver ricevuto tanta sapienza (1 Re, 11, 4 ss.)
— avesse avuto in questa vita alcuna avversità prima di cadere, ma dopo che gli
fu concessa la sapienza, lasciò andare completamente il suo cuore, che nessuna
tribolazione, neppure la più piccola, aveva custodito con la sua disciplina.
27 — Come si devono
ammonire i coniugati e i celibi
Diverso è il modo di
ammonire quelli che sono vincolati dal matrimonio, e quelli che sono liberi dal
vincolo matrimoniale. Bisogna ammonire i primi, quando pensano vicendevolmente
l’uno all’altro, a studiarsi di piacere al coniuge in modo da non dispiacere al
Creatore; e trattino le cose di questo mondo così: da non tralasciare di
aspirare a quelle che sono di Dio; e godano dei beni presenti così da temere
tuttavia, con viva attenzione, i mali eterni; e piangano i mali presenti in modo
dà fissare però, con intatta consolazione, la loro speranza nei beni eterni, dal
momento che sanno che ciò che fanno passa, e ciò cui aspirano resta; né i mali
del mondo spezzino il loro cuore; poiché la speranza dei beni eterni lo conforta;
né i beni della vita presente lo ingannino, poiché lo rattrista il timore dei
mali del giudizio futuro. E così, l’animo degli sposi cristiani è insieme debole
e fedele, tale che non è capace di disprezzare pienamente tutti i beni
temporali, e tuttavia è capace di unirsi, nel desiderio, alle realtà eterne; e
quantunque per ora giaccia nel piacere della carne,
si rinvigorisce con l’alimento della speranza celeste. Dunque se nel viaggio usa
delle cose del mondo, spera in quelle di Dio come frutto della meta raggiunta; e
non si consegni interamente a ciò che fa per non cadere del tutto da ciò che
avrebbe dovuto sperare con forza. Paolo esprime bene e brevemente ciò, dicendo:
Chi ha moglie sia come se non l’avesse;
e chi piange come se non piangesse; e chi gode come se non godesse (1
Cor. 7, 29-30).
Poiché ha moglie come se non l’avesse, colui che con lei usa della consolazione
della carne, in modo che mai, tuttavia, per amore di lei, si piega, dalla
rettitudine della migliore intenzione, ad azioni depravate. Ha moglie come se
non l’avesse, colui che, vedendo come tutte le cose sono transitorie, tollera
per necessità la cura della carne, ma lo spirito attende con tutto il desiderio
le gioie eterne. Piangere non piangendo è piangere le avversità esteriori
sapendo tuttavia godere della consolazione della speranza eterna. E, ancora,
godere non godendo è innalzare tanto l’animo dalle bassezze, che esso non cessi
mai di temere le realtà supreme. E qui, appropriatamente, poco dopo aggiunge
pure: Passa, infatti,
la figura di questo mondo (1
Cor. 7, 31).
Come se dicesse apertamente: Non amate stabilmente il
mondo, dal momento che ciò stesso che amate non può rimanere; vanamente fissate
il cuore come se foste destinati a rimanere, mentre fugge colui stesso che
amate. Bisogna ammonire i coniugi a tollerare a vicenda, con pazienza, ciò in
cui talvolta l’uno dispiace all’altro; e a salvarsi esortandosi a vicenda.
Infatti è scritto: Portate a vicenda i vostri pesi e così adempirete la legge
di Cristo (Gal. 6, 2).
E la legge di Cristo è la carità; poiché per essa egli ci ha donato largamente i
suoi beni e con mitezza
ha portato i nostri
mali. Dunque, adempiremo la legge di Cristo come i suoi imitatori quando
offriremo benignamente i nostri beni e sosterremo con spirito di pietà i mali
del nostro prossimo. Bisogna ammonirli pure a badare, ciascuno di essi, non
tanto a ciò che l’uno deve sopportare dall’altro quanto a ciò che l’altro deve
sopportare di suo. Se infatti ciascuno considera i pesi che lui fa portare,
porta a sua volta più leggermente i pesi altrui che deve sostenere. Bisogna
ammonire gli sposi a ricordarsi che essi sono uniti allo scopo di avere figli, e
quando, servendo ad una unione sfrenata, mutano il momento della propagazione in
pratica del piacere, considerino che, anche se ciò non avviene al di fuori
dell’unione matrimoniale, tuttavia nel matrimonio stesso essi oltrepassano i
diritti del matrimonio. Per cui è necessario che, con frequenti orazioni,
cancellino ciò che, per la mescolanza col piacere, macchia la bellezza dell’atto
coniugale. È perciò infatti che l’Apostolo, esperto di medicina celeste, non
ammaestrò tanto i sani, quanto mostrò i rimedi ai malati dicendo: Quanto a
ciò che mi avete scritto: È bene per l’uomo non toccare donna; ma per rimedio alla
fornicazione ciascuno abbia la propria moglie e ciascuna abbia il proprio marito
(1
Cor. 7, 1-2). Ma se mise avanti il
timore della fornicazione, certo non stabili il precetto per quelli che stanno
saldi in piedi, bensì mostrò un letto a coloro che cadono perché non rovinassero
in terra. Perciò ancora, ai vacillanti, aggiunse: Il marito dia alla moglie
ciò che le deve e così la moglie al marito
(1 Cor. 7, 3);
ma, nel fare ad essi qualche concessione riguardo al
piacere, nell’ambito di una onestissima unione, aggiunse: Ma questo lo dico
per indulgenza, non per comando
(1 Cor. 7, 6); e accenna evidentemente che si tratta di colpa; poiché
parla di un oggetto di indulgenza, ma di colpa tale che tanto più presto è
condonata in quanto con essa non si compie qualcosa di illecito in sé, ma
piuttosto non si contiene, in un ambito di moderazione, ciò che di per sé è
lecito. Ed è ciò che Lot esprime bene in se stesso quando fugge Sodoma in fiamme
e tuttavia, trovando Segor, non sali subito la montagna (cf. Gen. 19, 30).
Fuggire Sodoma in fiamme significa rinunciare agli incendi illeciti della carne,
e l’altezza dei monti è la purezza delle persone continenti. Ora, sono
certamente come chi sta sul monte perfino coloro che, pur aderendo all’unione
carnale, tuttavia non si abbandonano ad alcun piacere della carne al di fuori di
quell’atto compiuto per avere figli. Stare sul monte, cioè, significa non
cercare nella carne se non il frutto della generazione. Stare sul monte
significa non aderire carnalmente alla carne. Ma poiché ci sono molti che
rinunciano ai peccati della carne
e tuttavia, posti nello stato matrimoniale; non ne osservano solamente i diritti
del suo debito uso, usci appunto Lot da Sodoma e tuttavia non giunse subito sui
monti, a indicare che quando già è abbandonata la vita degna di condanna,
l’altezza della continenza coniugale non è però ancora raggiunta in tutta la sua
perfezione. Ma c’è nel mezzo la città di Segor, per salvare il debole che fugge,
poiché naturalmente, quando i coniugi si uniscono a causa dell’incontinenza,
fuggono la caduta del peccato e tuttavia si salvano per condiscendenza. È come
se trovassero una piccola città che li difende dal fuoco, poiché una tale vita
coniugale non è certo mirabile per la virtù e tuttavia è sicura dal castigo.
Perciò il medesimo Lot
dice all’angelo: C’è
qui vicino una piccola città in cui posso rifugiarmi e mi salverò in essa.
Non è forse modesta, e la mia anima vivrà in essa? (Gen.
19, 20).
Dunque, è detta vicino e tuttavia è indicata come sicura per la salvezza, poiché
la vita coniugale non è separata di molto dal mondo e tuttavia non è estranea
alla gioia della salvezza. I coniugi però, in tale stato, custodiscono la loro
vita come in una piccola città, quando intercedono per se stessi con suppliche
assidue. Perciò viene detto anche al medesimo Lot, per mezzo dell’angelo:
Ecco, ho ascoltato le tue
preghiere anche in questo: non distruggerò la città in favore della quale
hai parlato (Gen.
19, 21); poiché è chiaro che non
è condannata quella vita matrimoniale in cui i coniugi si rivolgono a Dio con la
supplica, riguardo alla quale anche Paolo ammonisce dicendo: Non privatevi
l’uno dell’altro se non d’accordo e per un tempo stabilito,
per essere liberi per la preghiera (1
Cor. 7, 5). Al contrario, coloro
che non sono legati nel matrimonio bisogna ammonirli a servire tanto pin
rettamente i comandamenti divini quanto meno li inclina alle cure del mondo il
giogo dell’unione carnale; e poiché non sono gravati dal peso lecito del
matrimonio, non gravi su di loro il peso illecito della preoccupazione terrena,
ma l’ultimo giorno li trovi tanto più pronti quanto più leggeri; e poiché,
liberi come sono, possono compiere opere tanto più meritorie, non le trascurino
così da meritare, per questo, supplizi tanto più gravi. Ascoltino l’Apostolo, il
quale, volendo formare alcuni alla grazia del celibato, non disprezzò il
matrimonio, ma respinse le cure mondane che nascono da esso dicendo: Ciò lo
dico per vostra utilità, non per gettarvi un laccio; ma per indicarvi
ciò che è onesto e offre la possibilità di servire Dio senza impedimento
(1
Cor. 7, 35).
Dal matrimonio, dunque, procedono le preoccupazioni terrene, e perciò il maestro
delle genti volle persuadere i suoi ascoltatori a cose migliori perché non si
legassero alla preoccupazione terrena. Pertanto, il celibe, trattenuto
dall’impedimento delle cure temporali, è uno che non si è sottoposto al
matrimonio e tuttavia non è sfuggito ai suoi pesi. Bisogna ammonire i celibi a
non pensare di potersi unire a donne di liberi costumi, senza incorrere nel
giudizio di condanna. Infatti, quando Paolo inserì il vizio della fornicazione
fra tanti peccati esecrabili, indicò la sua gravità dicendo: Né i fornicatori
né gli idolatri né gli adulteri né gli effeminati né gli omosessuali né i ladri
né gli avari né gli ubriachi né i maldicenti né i rapaci possiederanno il regno
di Dio (1 Cor. 6, 9-10). E ancora: I
fornicatori e gli adulteri li giudicherà Dio
(Ebr. 13, 4).
Pertanto se sopportano le.
tempeste delle tentazioni con pericolo della salvezza, bisogna ammonirli a
cercare il porto
del matrimonio, infatti è scritto: È meglio sposarsi che ardere
(1
Cor. 7, 9). Non è colpa se si
sposano, purché in precedenza non si siano impegnati con voti a uno stato di
vita più perfetto. Infatti, chi
si era proposto un bene maggiore, rende illecito il bene minore che prima gli
sarebbe stato lecito. Perciò è scritto: Nessuno che mette la mano all’aratro
e si volta a guardare indietro è adatto al regno dei cieli
(Lc. 9, 62).
Dunque, chi si era rivolto a un interesse più forte è
convinto a guardare indietro se, abbandonati i beni maggiori, ripiega sui
minimi.
28 — Come bisogna
ammonire quelli che hanno esperienza dei peccati della carne e quelli che non
l’hanno
Diverso è il modo di
ammonire coloro che conoscono i peccati della carne e quelli che ne sono ignari.
Quelli che ne hanno esperienza, bisogna ammonirli a temere il mare, almeno dopo
il naufragio, e a guardarsi con orrore dai pericoli della loro perdizione che
già conoscono; ed essi, che sono stati salvati dalla pietà di Dio dopo avere
commesso il male, non debbano morire ripetendolo malvagiamente. Così, all’anima
che pecca e non cessa mai dal peccare è detto: Sei divenuta sfrontata come
una meretrice e non vuoi arrossire (Ger. 3, 3).
Pertanto bisogna ammonirli, se non hanno voluto
conservare integri i beni naturali ricevuti, ad applicarsi, a riparare almeno
quelli infranti. È assolutamente necessario, per loro, considerare quanti sono
quelli che, in un così grande numero di fedeli, si custodiscono illibati e
convertono gli altri dall’errore. Come pensano di difendersi costoro se, mentre
altri restano saldi nella loro integrità, essi non rinsaviscono neppure dopo
avere sentito il danno? Come pensano che potranno difendersi se, mentre molti
conducono con sé altri al Regno, essi non riconducono neppure se stessi al
Signore che li attende? Bisogna ammonirli a considerare i peccati passati e ad
evitare i futuri. Perciò, il Signore, per mezzo del
profeta, ricorda alle menti corrotte in questo mondo — rappresentate dalla
Giudea — le colpe commesse, affinché arrossiscano di contaminarsi con colpe
future, dicendo: Hanno fornicato in Egitto,
hanno fornicato nella loro adolescenza; là fu compresso il loro petto e
furono violati i loro seni verginali (Ez. 23, 3).
In Egitto viene compresso il petto, quando la volontà del cuore dell’uomo soggiace al
turpe desiderio di questo mondo. In Egitto vengono violati i seni verginali,
quando i sensi naturali ancora integri in se stessi, restano viziati dalla
corruzione della concupiscenza che preme. Bisogna ammonire coloro che hanno
esperienza di peccati della carne
a guardare con vigile cura, con, quanta benevolenza Dio ci allarghi il seno
della sua pietà, quando dopo il peccato ritorniamo a Lui, là dove dice, per
mezzo del profeta: Se un uomo avrà rimandato la moglie ed essa andandosene
prenderà un altro marito, forse
egli tornerà ancora da lei? Non sarà stata macchiata e contaminata quella donna?
Ma tu hai fornicato con molti amanti, tuttavia ritorna a me, dice
il Signore (Ger. 3, 1).
Ecco, una donna fornicatrice e per questo abbandonata è proposta come
un esempio di giustizia; e a noi, se dopo la caduta ritorniamo, non viene
offerta giustizia ma pietà. Da ciò possiamo renderci conto di quanto sia grande
la iniquità con cui pecchiamo se non torniamo a lui dopo il peccato, mentre lui
ci risparmia con tanta pietà quando ancora lo stiamo compiendo; o quale sarà
l’indulgenza per gli iniqui, che egli non cessa di chiamare dopo la colpa.
Questa misericordia della chiamata è ben espressa per mezzo del profeta quando
si dice all’uomo che si è ribellato: E i tuoi occhi vedranno il tuo maestro e
le tue orecchie udranno la parola di chi ti ammonisce dietro le spalle
(Is. 30, 20). Poiché il Signore ammoni di fronte il genere umano,
quando in paradiso, all’uomo appena creato, e ancor saldo nel suo libero
arbitrio, stabili quello che avrebbe potuto fare e non fare. Ma l’uomo voltò le
spalle di fronte a Dio, quando insuperbendo disprezzò i suoi ordini. E tuttavia
il Signore non l’abbandonò
nella superbia, lui che diede la legge per richiamarlo, mandò angeli ad
esortarlo e apparve egli stesso nella nostra carne
mortale. Dunque, stando dietro le nostre spalle, ci ammonisce, lui che anche
disprezzato ci chiamò a riottenere la grazia. Ciò che dunque poté essere detto
al profeta in generale per tutti gli uomini insieme, è necessario sentirlo in
particolare dei singoli. Infatti, quando uno conosce i precetti della volontà di
Dio, prima di commettere il peccato è come se ascoltasse le parole del suo
ammonimento standogli di fronte. Ed è ancora stare davanti al suo volto, il non
disprezzare Dio col peccato. Ma quando, abbandonato il bene dell’innocenza,
l’uomo brama e sceglie l’iniquità, ha già voltato le spalle al suo volto. E
tuttavia ancora, standogli dietro le spalle, il Signore lo segue e lo ammonisce
e vuole persuaderlo, anche dopo la colpa, a ritornare a lui. Richiama chi si è
rivolto indietro, non riguarda le colpe commesse, dilata il seno della sua
misericordia a colui che ritorna. Ascoltiamo dunque la voce che ci ammonisce se,
almeno dopo il peccato, ritorniamo al Signore che ci invita. Se non vogliamo
temere la giustizia, dobbiamo arrossire della pietà di chi ci chiama perché è
tanto più grave l’iniquità con cui egli è disprezzato, quanto più, pur
disprezzato, egli non disdegna di chiamare ancora. Al contrario, bisogna
ammonire coloro che non hanno esperienza di peccati della carne,
a temere con tanta maggior cura di rovinare nel precipizio, quanto più in alto
stanno. Bisogna ammonirli a sapere che quanto è più in vista il posto in cui
sono collocati, tanto più frequenti sono le frecce con cui l’insidiatore li
assale. Egli con tanto maggior ardore suole rialzarsi, quanta più è la forza da
cui si vede vinto; e tanto più si indigna d’essere vinto, in quanto vede
combattergli contro gli integri accampamenti della carne
inferma. Bisogna ammonirli a non cessare di raccogliere i premi [della
vittoria], e così, senza dubbio, calpesteranno volentieri le fatiche delle
tentazioni che devono sopportare. Se infatti si mira alla felicità a cui si
attinge eternamente, diviene lieve ciò che si fatica ed è però passeggero.
Ascoltino ciò che è detto per mezzo del profeta: Queste cose dice il Signore
agli eunuchi che hanno osservato i miei sabati,
che hanno scelto ciò che io voglio e hanno mantenuto il mio patto: darò
loro nella mia casa e nelle mie mura un luogo e un nome migliore che ai figli e
alle figlie (Is.
56, 4-5). Sono eunuchi coloro
che, trattenuti i moti della carne,
tagliano in se stessi l’amore dell’opera iniqua. E quale sia il posto che essi
hanno presso il Padre, è manifesto, poiché nella casa del Padre, cioè nella
dimora eterna, essi sono preferiti anche ai figli. Ascoltino ciò che è detto per
mezzo di Giovanni: Questi sono coloro che non si sono contaminati con donne: infatti sono vergini e seguono l’Agnello dovunque vada (Ap. 14, 4).
E cantano quel cantico che nessuno può pronunciare se non quei
centoquarantaquattromila. Cantare poi, loro soli, il canto all’Agnello è godere
con lui in eterno, sopra tutti i fedeli, anche dell’incorruzione della carne. E
che tuttavia gli altri eletti possano sentire il cantico, pur non potendo
pronunciarlo, è perché la carità li fa lieti della eccelsa beatitudine di
quelli, quantunque loro non possano raggiungerla. Ascoltino, gli ignari dei
peccati della carne, ciò che la Verità stessa dice di questa integrità: Non
tutti comprendono questa parola (Mt.
19, 11).
Accenna alla sua grandezza negando che sia di tutti; e avvertendo che
difficilmente è compresa, fa intendere
a chi ascolta con quanta cautela, quando si sia compresa, debba essere
conservata. Bisogna dunque ammonire coloro che non hanno esperienza di peccati
della carne, a sapere che la verginità è superiore al matrimonio, e tuttavia a
non esaltarsi nei confronti degli sposati affinché, scegliendo la verginità e
posponendosi agli altri, non abbandonino ciò che stimano il meglio e si
custodiscano dall’esaltarsi vanamente. Bisogna ammonirli a considerare che
spesso la vita delle persone continenti deve arrossire del confronto con
l’operosità di chi vive nel secolo, quando questi operano oltre ciò che è
richiesto dalla loro situazione, e quelli non eccitano il loro cuore in
corrispondenza al loro stato. Perciò è ben detto per mezzo del profeta:
Arrossisci, Sidone, dice
il mare (Is. 23, 4).
Infatti, quando la vita di colui che appare ben difeso e, in un certo
senso, stabile, viene riprovata nel confronto con quella di chi vive nel secolo,
sbattuto dai flutti di questo mondo, è come se Sidone fosse indotta alla
vergogna dalla voce del mare. Giacché spesso molti che, dopo aver commesso
peccati della carne, ritornano al Signore, si prestano con tanto più ardore
nelle buone opere, quanto più si vedono degni di condanna per quelle cattive. E
d’altra parte, certuni che perseverano nell’integrità del corpo, vedendo di
avere meno di che dolersi, pensano che sia pienamente sufficiente, quanto a
loro, l’innocenza della propria vita e non infiammano il loro spirito con alcuno
stimolo che ne ecciti il fervore. Così accade per lo più che sia più gradita a
Dio una vita ardente d’amore dopo il peccato, che una innocenza giacente nel
torpore della propria sicurezza. Perciò è detto per voce del Giudice: Le
saranno rimessi i molti peccati perché ha molto amato (Lc. 7, 47);
e: Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore pentito che per novantanove
giusti per i quali non c’è bisogno di penitenza (Lc. 15, 7).
E lo possiamo capire facilmente dalla stessa pratica se pensiamo a come
giudichiamo noi con la nostra mente: infatti noi apprezziamo di più una terra
che arata — dopo essere stata coperta di spine — produce ricchi frutti, di
quella che non ha mai avuto spine e tuttavia, anche coltivata, produce messe
sterile. Bisogna ammonire gli ignari del peccato carnale, a non preferirsi agli
altri per via dell’eccellenza di uno stato superiore, quando ignorano quanto
siano migliori le opere di quelli dello stato inferiore, poiché, nell’esame del
giusto Giudice, la qualità delle azioni muta i meriti dello stato di vita. Chi
infatti — per trarre esempi dalla realtà — non sa che nella natura delle gemme
il carbonchio è più prezioso del giacinto? Ma tuttavia, il colore ceruleo del
giacinto è preferito al pallido carbonchio, poiché ciò in cui quello è inferiore
per lo stato naturale viene avvalorato dalla bellezza dell’aspetto, e questo,
che per lo stato naturale è più prezioso, viene oscurato dalla qualità del
colore. Così dunque fra gli uomini: alcuni, posti in uno stato superiore, sono
peggiori: altri, posti in uno stato inferiore, sono migliori: perché questi,
vivendo bene, vanno oltre la sorte della condizione più bassa; mentre quelli
diminuiscono il merito della condizione superiore, perché non le corrispondono
con i costumi.
29 — Come bisogna
ammonire coloro che piangono peccati di opere e coloro che piangono peccati solo
di pensiero
Diverso è il modo di
ammonire coloro che piangono peccati di opere, e coloro che piangono peccati di
pensiero. Bisogna ammonire i primi a lavare con un pianto perfetto i peccati
compiuti, per non essere maggiormente stretti dal debito dell’azione commessa,
ma diminuire col pianto la soddisfazione dovuta. Poiché è scritto: Ci ha dato
da bere lacrime in misura (Sal.
79, 6), per dire, cioè, che
l’animo di ciascuno, nel suo pentimento, beva tante lacrime di compunzione,
quanto ricorda di essersi inaridito lontano da Dio, nelle colpe. Bisogna
ammonirli a ricondurre incessantemente davanti ai propri occhi i peccati
commessi, e ad agire nella propria vita in modo che quelli non debbano più
essere veduti dal severo Giudice. Perciò David, quando pregava dicendo:
Distogli i tuoi occhi dai miei peccati
(Sal.
50, 11),
poco sopra aveva detto: Il mio delitto mi sta sempre davanti
(Sal.
50, 5);
come se dicesse: Chiedo di non guardare al mio peccato perché io stesso non
cesso di guardarlo. Perciò anche, per mezzo del profeta, il Signore dice: E
non mi ricorderò dei tuoi peccati,
ma tu ricordateli (Is.
43, 25-26. LXX). Bisogna ammonirli a
considerare i peccati uno per uno, e mentre per ciascuno piangono la sozzura del
loro errore, con le lacrime purifichino insieme sé e quelli, interamente. Perciò
è detto bene, per mezzo di Geremia, pensando ai singoli peccati della Giudea:
Il mio occhio ha fatto scendere acque divise
(Lam. 3, 48); poiché noi facciamo scendere dagli
occhi corsi d’acqua divisi, quando spargiamo per ogni singolo peccato la sua
parte di lacrime. Infatti l’animo non prova dolore nello stesso unico momento
per tutti i peccati insieme, ma mentre la memoria è toccata più acutamente ora
dall’uno ora dall’altro, commovendosi per ciascuno singolarmente, essa si
purifica di tutti insieme. Bisogna ammonirli a confidare con certezza nella
misericordia che chiedono, per non morire sotto la forza di una eccessiva
afflizione. Poiché infatti non sarebbe pietà, nel Signore, porre davanti agli
occhi dei peccatori i peccati da piangere, se per parte sua volesse poi colpirli
severamente. È evidente infatti, che egli ha voluto sottrarre al suo giudizio
coloro che ha fatto giudici di se stessi, prevenendoli con la sua misericordia.
Perciò infatti è scritto: Preveniamo il volto del Signore con la confessione
(Sal. 94, 2). Perciò è detto per mezzo di Paolo: Se ci giudicassimo da
noi stessi non verremmo giudicati
(1
Cor. 11, 31).
E ancora bisogna ammonirli ad avere così quella fiducia che viene
dalla speranza, e tuttavia a non intorpidire in una incauta sicurezza. Spesso,
infatti, l’astuto avversario, quando vede l’animo, che egli insidia col peccato,
afflitto per la propria rovina, lo seduce con gli allettamenti di una pestifera
sicurezza. Ciò è espresso in figura dove si ricorda l’episodio di Dina. È
scritto: Dina usci per vedere le donne di quella regione;
ma quando la vide Sichem, figlio di Emor eveo, principe
di quel paese,
si innamorò di lei e la rapi e dormi con lei violando la sua verginità e la sua
anima si uni con lei e alleviò con le carezze la sua tristezza
(Gen.
34, 1-3). E Dina esce per vedere le donne della regione
straniera, ogni volta che un’anima, trascurando l’oggetto del suo proprio amore
e curandosi di attività che le sono estranee, vaga al di fuori della sua
condizione e del suo proprio stato. E allora Sichem, principe del paese, la
viola, ovvero il diavolo, trovatala presa da occupazioni esterne, la corrompe;
e la sua anima si uni con lei,
poiché la vede unita a sé nell’iniquità. E quando l’anima, rientrata
in sé dalla colpa, si accusa e tenta di piangere il peccato commesso, allora il
corruttore richiama ai suoi occhi le speranze e le sicurezze vane, per sottrarla
alla utile tristezza; perciò giustamente si aggiunge: e alleviò con le
carezze la sua tristezza.
Ora, infatti, le parla dei più gravi peccati di altri; ora le dice che
quanto ha fatto non è niente e ora che Dio è misericordioso ora le promette che
ci sarà in seguito dell’altro tempo per fare penitenza, affinché l’anima
condotta attraverso questi inganni tenga in sospeso l’intenzione del pentimento,
e poiché, ora, nessun peccato la rattrista, non riceva, poi, alcun bene, e sia,
allora, più pienamente sommersa dai supplizi, essa che, ora, gode perfino nei
peccati. Bisogna, invece, ammonire coloro che piangono peccati di pensiero, a
considerare accuratamente tra le pieghe misteriose dell’animo, se hanno peccato
solamente col piacere o anche col consenso. Spesso, infatti, il cuore è tentato
e trae piacere dalla malizia della carne,
e tuttavia contrasta con la ragione a quella malizia; cosicché, nel segreto del
pensiero, ciò che piace rattrista, e ciò che rattrista piace. Ma talvolta
l’animo viene talmente assorbito nel baratro della tentazione da non resisterle
affatto, e, invece, da seguirla deliberatamente dove il piacere lo spinge; e
così che, se si offre la possibilità esteriore, è pronto a consumare gli intimi
desideri, attuandoli coi fatti. E ciò non è più colpa di pensiero, quando la
colpisce la giusta punizione del severo Giudice, ma è peccato di opera, poiché
quantunque la mancanza della possibilità di attuazione distolga esteriormente il
peccato, nell’intimo, la volontà l’ha compiuto con l’opera del consenso. Nel
progenitore abbiamo imparato che sono tre i modi con cui perfezioniamo la
malizia di ogni colpa: la suggestione, il piacere, il consenso. La prima si
compie attraverso il nemico, il secondo attraverso la carne, il terzo con lo
spirito. Infatti, l’insidiatore suggerisce il male, la carne
si sottopone al piacere e, all’ultimo, lo spirito vinto consente ad esso. In
effetti, il serpente suggerì il male, Eva, come carne,
si sottomise al piacere; Adamo, come spirito, vinto dalla suggestione e dal
piacere, acconsenti (cf. Gen. 3, 1 ss.). E così, riconosciamo il peccato dalla
suggestione, restiamo vinti dal piacere e ci leghiamo col consenso. Pertanto,
bisogna ammonire coloro che piangono peccati di pensiero, a considerare con cura
l’entità della loro caduta nel peccato, affinché la misura del loro pianto
corrisponda alla rovina interiore che essi avvertono in se stessi e valga a
risollevarli, e non siano indotti ad attuare, con le opere, quei cattivi
pensieri che meno li affliggono. Ma soprattutto bisogna incutere timore in loro,
non però in modo che ne restino, anche per poco, spezzati. Poiché spesso Dio
misericordioso tanto più in fretta lava i peccati del cuore, in quanto non
permette che essi sfocino nelle opere; e il male solamente pensato è più
rapidamente sciolto, poiché non si lega così strettamente all’effetto
dell’opera. Perciò è detto bene per mezzo del salmista: Dissi: confesserò contro di me le mie iniquità al Signore e tu hai rimesso
l’empietà (Sal. 31, 3) del mio cuore. Egli infatti ha sottoposto
l’empietà del cuore, poiché ha indicato di voler confessare i peccati di
pensiero. E mentre dice: Dissi: confesserò, e subito aggiunse: E tu hai
rimesso, mostra
quanto sia facile su di essi il perdono: mentre ancora si ripromette di chiedere
ha già ottenuto, perché, dato che la colpa non era pervenuta all’atto, la
penitenza non dovesse giungere al grado del supplizio, ma l’afflizione del
pensiero lavasse il cuore che solo la malizia del pensiero aveva macchiato.
30 — Come bisogna
ammonire coloro che non si astengono dai peccati che piangono,
e coloro che si astengono da quelli commessi ma non li piangono
Diverso è il modo di
ammonire coloro che piangono i peccati commessi e tuttavia non se ne staccano, e
quelli che se ne staccano e tuttavia non li piangono. Infatti, bisogna ammonire
i primi a sapere considerare con cura che invano si purificano piangendo, coloro
che si macchiano vivendo nel peccato, poiché si lavano con le lacrime per poter
ritornare, lavati, alla lordura. Perciò infatti è scritto: Il cane è
ritornato al suo vomito e la scrofa lavata a rotolarsi nel fango
(2
Pt. 2, 22). Il cane, cioè, quando
vomita rigetta certamente il cibo che gli opprimeva lo stomaco, ma quando
ritorna al vomito, di cui si era alleggerito, si appesantisce di nuovo. E coloro
che piangono i peccati commessi, certamente rigettano, confessandola, la malizia
con cui si erano malamente saziati e che opprimeva l’intimo dell’animo,
ma la riprendono su di sé quando la ripetono dopo averla confessata. E la
scrofa, con l’arrotolarsi nel fango dopo essersi lavata, ritorna più sporca di
prima. E chi piange i peccati, e tuttavia non rinuncia ad essi, si sottopone
alla pena di una colpa maggiore, poiché disprezza proprio quel perdono che poté
ottenere con le lacrime, ed è come se si rotolasse nell’acqua fangosa; poiché,
mentre sottrae al suo pianto la purezza della vita [ottenuta con esso], davanti
agli occhi di Dio rende sordide perfino quelle lacrime. Perciò ancora è scritto:
Non dire due volte una parola nella preghiera
(Sir.
7, 15); infatti, dire due volte
una parola nella preghiera corrisponde a commettere, dopo il pianto, ciò che è
necessario tornare a piangere. Perciò è detto per mezzo di Isaia: Lavatevi,
siate puri (Is.
1, 16);
infatti, chi non custodisce l’innocenza della vita dopo il pianto, trascura di
conservarsi puro dopo il lavacro. Pertanto, si lavano e tuttavia non sono puri,
coloro che non cessano di piangere i peccati commessi, ma continuano a
commettere azioni degne di pianto. Perciò è detto, per mezzo di un sapiente:
Se uno si lava dopo aver toccato un morto e poi lo tocca di nuovo,
che cosa serve che si sia lavato? (Sir. 34, 30).
Si lava, cioè, dopo aver toccato un morto, chi si purifica col pianto
dal peccato; ma tocca il morto dopo il lavacro, colui che dopo le lacrime ripete
la colpa. Bisogna ammonire coloro che piangono i peccati commessi e tuttavia non
se ne staccano, a riconoscersi, davanti agli occhi del Giudice severo, simili a
quelli che si presentano di fronte
a certi uomini e li blandiscono mostrando grande sottomissione, ma
allontanandosi procurano loro inimicizie e danni con
effetti atroci. Che
cosa significa infatti piangere la colpa se non mostrare a Dio l’umiltà della
propria devozione? E che cos’è comportarsi iniquamente dopo avere pianto il
peccato, se non praticare superba inimicizia verso colui che si era pregato?
Così attesta Giacomo che dice: Chi vuole essere amico di questo secolo,
si costituisce nemico di Dio (Giac. 4, 4). Bisogna ammonire coloro
che piangono i peccati e tuttavia non se ne staccano, a considerare attentamente
che per lo più tanto inutilmente i cattivi si muovono a compunzione per la
giustizia, quanto spesso i buoni sono tentati al male senza danno. Avviene cioè
che, per una mirabile misura della loro disposizione interiore, corrispondente
ai loro meriti, quando quelli fanno qualcosa di buono che tuttavia non portano a
termine, assumono una superba fiducia, perfino mentre continuano a compiere il
male; e costoro — quando vengono tentati dal male cui per altro non consentono —
quanto più la loro debolezza li fa esitanti, tanto più, attraverso l’umiltà,
puntano i passi del loro cuore, con fermezza e verità, alla giustizia. Balaam,
infatti, guardando agli attendamenti dei giusti dice: Muoia la mia anima la
morte dei giusti e i miei ultimi momenti siano simili a quelli di costoro
(Num. 23, 10); ma quando si fu
allontanato il tempo della compunzione, offrì il suo consiglio contro la vita di
coloro ai quali aveva chiesto di divenire simile anche nella morte. E quando
trovò un’occasione per [soddisfare] la sua avarizia, subito dimenticò tutto
quanto aveva desiderato per sé nell’innocenza (cf.
Ap. 2, 14). Perciò, invero, il maestro e predicatore delle
genti, Paolo, dice: Vedo un’altra legge, nelle mie membra, lottare contro la legge dello spirito e
condurmi prigioniero sotto la legge del peccato che è nelle mie membra (Rom. 7, 23). Egli certamente viene
tentato, proprio per essere più fortemente consolidato nel bene dalla
consapevolezza della propria infermità. Com’è dunque che quello è portato alla
compunzione e tuttavia ciò non lo fa avvicinare alla giustizia; mentre questi è
tentato eppure la colpa non lo macchia, se non che — come apertamente si
manifesta — il bene incompiuto non giova ai cattivi né il male non consumato non
condanna i buoni? Al contrario, bisogna ammonire coloro che si staccano dal
peccato e però non lo piangono, a non stimare perdonate quelle colpe che essi
non purificano col pianto, anche sé non le moltiplicano col loro agire.
Infatti, uno scrittore che cessa dallo scrivere
non cancella ciò che ha scritto in precedenza solo per il fatto di
non aggiungervi altri scritti. Né è sufficiente che uno che proferisce ingiurie
taccia, per dare soddisfazione, mentre è necessario che contraddica con parole
di umile sottomissione quelle pronunciate precedentemente con superbia. Né un
debitore è assolto perché non aggiunge debiti a debiti, ma lo è se scioglie
quelli con cui è legato. E cose, quando pecchiamo nei confronti di Dio, non
diamo soddisfazione solamente se cessiamo di peccare, ma non facciano seguire
anche le lacrime, di contro a quei piaceri che abbiamo amato. Se infatti in
questa vita non ci fossimo macchiati di nessuna colpa di opere, la stessa nostra
innocenza, finché ancora siamo qui, non sarebbe sufficiente alla nostra
sicurezza, perché molte azioni illecite busserebbero alla nostra anima; con
quale pensiero, allora, si sente sicuro, uno che per le colpe che ha commesso è
testimone a se stesso di non essere innocente? Né, d’altra parte, Dio si pasce
delle nostre sofferenze, ma invece cura le malattie dei peccati con medicamenti
contrari ad essi, affinché noi, che ci siamo allontanati, presi dal diletto dei
piaceri, ritorniamo amareggiati nel pianto e, dopo essere caduti lasciandoci
andare ad azioni illecite, ci rialziamo trattenendoci anche da quelle lecite; e
il cuore che era stato invaso da una gioia insana, arda di una tristezza
salutare: esso, che l’esaltazione della superbia aveva ferito, sia curato
dall’abiezione di una vita umile. Perciò, infatti, è scritto: Ho detto agli
iniqui: non agite iniquamente,
e ai peccatori: non alzate la testa (Sal. 74, 5).
E i peccatori alzano la testa se non si umiliano a penitenza per la cognizione
della propria iniquità. Perciò di nuovo è detto: Un cuore contrito e umiliato
Dio non disprezza (Sal. 50, 19). Infatti, chi piange i
peccati ma non se ne distacca, spezza il suo cuore ma non si cura di umiliarlo;
chi poi ha già lasciato il peccato ma non lo piange, umilia già il cuore, ma
tuttavia rifiuta di spezzarlo. Perciò Paolo dice: Voi foste tutte queste cose,
ma siete stati lavati, ma siete stati santificati (1 Cor. 6, 11); perché, cioè, una vita
più corretta santifica coloro che l’afflizione delle lacrime, lavandoli, rende
puri. Perciò Pietro, vedendo alcuni atterriti dalla considerazione dei loro
peccati, li ammonisce dicendo: Fate penitenza:
ciascuno di voi sia battezzato (Atti, 2, 38). Volendo parlare del
Battesimo, premette il pianto della penitenza, affinché, prima, versassero su di
sé l’acqua della propria afflizione e, quindi, si lavassero col sacramento del
Battesimo. Con quale pensiero vivono sicuri del perdono, coloro che trascurano
di piangere le colpe passate, quando lo stesso sommo Pastore della Chiesa
credette che si dovesse aggiungere anche la penitenza al sacramento che
principalmente estingue i peccati?
31 — Come bisogna
ammonire coloro che lodano le azioni illecite di cui sono consapevoli;
e coloro che, pur condannandole, tuttavia non se ne guardano
Diverso è il modo di
ammonire coloro che addirittura lodano le azioni illecite che compiono; e quelli
che accusano le loro depravazioni ma non le evitano. Bisogna ammonire i primi,
infatti, a considerare che spesso peccano più con le parole che con le opere.
Infatti, con le opere compiono il male solo per se stessi; ma con la bocca
offrono il male a tante persone quante sono le menti di coloro che ascoltano e
che essi istruiscono con la lode dell’iniquità. Bisogna ammonirli a temere
almeno di seminare quei mali che essi trascurano di sradicare. Bisogna ammonirli
ad accontentarsi della loro personale perdizione. E ancora — se
non temono di essere malvagi —, bisogna ammonirli ad arrossire almeno di
mostrarsi ciò che sono. Spesso, infatti, si fugge la colpa volendo nasconderla,
perché se l’animo arrossisce di apparire ciò che, tuttavia, non teme di essere,
avviene talvolta che arrossisca di essere ciò che evita di apparire. Ma quando
il peccatore si fa notare con impudenza, quanto più liberamente compie qualsiasi
mala azione, tanto più la considera anche lecita, e quanto più la giudica lecita
senza dubbio affonda in essa maggiormente. Perciò è scritto: Hanno reso
pubblico il loro peccato, come
Sodoma, e non l’hanno nascosto (Is. 3, 9). Infatti, se Sodoma avesse nascosto il proprio peccato, avrebbe
peccato ancora nel timore, ma aveva perduto fino in fondo i freni del timore,
essa che non andava a cercare le tenebre per commettere la colpa. Perciò di
nuovo è scritto: Il grido di Sodoma e di Gomorra si è moltiplicato
(Gen.
18, 20); poiché il peccato è
detto voce quando è azione colpevole, ma è detto anche grido
quando è commesso in libertà. Al contrario, bisogna ammonire coloro che accusano
le loro depravazioni, ma non le evitano, a considerare prudentemente che cosa
diranno a propria scusa di fronte al severo giudizio di Dio, essi che, secondo
il loro stesso giudizio, sono inescusabili riguardo alle loro colpe. Così, che
altro sono costoro, se non accusatori di
se stessi? Parlano contro le colpe, e con le loro opere
trascinano se stessi come rei.
Bisogna ammonirli a vedere che è dalla sentenza ancora nascosta del giudizio che
la loro mente è illuminata perché veda il male che commette; e tuttavia non
cerca di vincerlo. Così quanto meglio vede, tanto peggio va in rovina perché
riceve la luce dell’intelligenza e non abbandona le tenebre dell’agire
depravato. Infatti, poiché trascurano la scienza ricevuta in aiuto, la voltano
in testimonianza contro di sé; e con quella luce di intelligenza, che certo
avevano ricevuto per poter cancellare i peccati, aumentano il castigo. La loro
malizia, cioè, quando opera quel male che pur discerne
e giudica, degusta già qui il giudizio futuro poiché, mentre si conserva
colpevole per il castigo eterno, neppure qui, intanto, è assolta dal suo stesso
esame; e tanto più gravi tormenti dovrà ricevere là, quanto più, qui, non
abbandona il male anche quando essa stessa lo condanna.
Perciò, infatti, la
Verità dice: Il servo, che
conosceva la volontà del suo Signore e non ha preparato né ha fatto secondo la
sua volontà, riceverà molte percosse (Lc. 12, 47).
Perciò dice il salmista: Discendano vivi nell’inferno (Sal.
54, 16). Perché vivi sanno e sentono le cose che si compiono intorno a loro, i
morti invece non possono sentire nulla. Così scenderebbero morti nell’inferno se
commettessero il male senza conoscerlo, ma quando conoscono il male, e
ciononostante lo fanno, discendono nell’inferno di iniquità, viventi, miseri e
consapevoli.
32 — Come bisogna
ammonire coloro che peccano per impulso e coloro che peccano deliberatamente
Diverso è il modo di
ammonire coloro che sono vinti da una improvvisa concupiscenza, e coloro che
restano prigionieri della colpa con deliberazione. Bisogna ammonire i primi a
badare a se stessi, dovendo affrontare quotidianamente la guerra della vita
presente, e a proteggere, con lo scudo di un pronto timore, il cuore che non è
in grado di prevedere le ferite che può ricevere; abbiano così grande terrore
dei dardi nascosti dell’insidioso nemico, e in un combattimento tanto oscuro si
trincerino negli accampamenti del cuore, con una attenzione continua. Infatti,
se il cuore è abbandonato dalla sollecita vigilanza, resta aperto alle ferite,
poiché l’astuto nemico colpisce il petto tanto più liberamente, quanto più lo
sorprende nudo della corazza della previdenza. Bisogna ammonire coloro che
restano vinti da una improvvisa concupiscenza a distogliersi dalla eccessiva
cura delle
cose terrene, poiché
mentre si coinvolgono smodatamente in realtà transitorie, ignorano da quali
dardi di colpe restano trafitti. Perciò, la voce di chi è colpito mentre dorme
viene anche espressa per mezzo di Salomone, il quale dice: Mi colpirono,
ma non sentii dolore; mi trascinarono e non me ne accorsi. Quando
veglierò e ritroverò ancora il vino? (Prov.
23, 35). La mente che dorme
dimentica della sua sollecitudine viene colpita e non sente dolore, perché, come
non vede i mali incombenti, così non riconosce neppure quelli che ha commesso;
viene trascinata e non se ne accorge, perché è condotta attraverso le seduzioni
dei vizi e tuttavia non si alza per custodirsi. Essa, in verità, desidera
vegliare per ritrovare ancora il vino, perché quantunque sia oppressa dal
terrore del sonno, via dalla custodia di se stessa, si sforza tuttavia di
vegliare per le cure del secolo, per essere sempre ebbra dai piaceri; e mentre
dorme, rispetto a ciò per cui avrebbe dovuto prudentemente vegliare, desidera di
essere sveglia per altre cose per le quali avrebbe potuto lodevolmente dormire.
Perciò più sopra, sta scritto: E sarai come chi dorme in mezzo al mare e come
un pilota assopito che ha lasciato il timone
(Prov.
23, 34). Infatti dorme in mezzo
al mare, colui che, posto nelle tentazioni di questo mondo, trascura di
prevedere i moti erompenti dei vizi, come cumuli di onde sovrastanti; ed è come
un pilota che perde il timone, la mente che perde la tensione sollecita a
governare la nave del corpo. Poiché è perdere il timone in mare il non mantenere
una attenzione previdente, tra le tempeste di questo secolo. Infatti, se il
pilota stringe con attenta cura il timone, ora dirige la nave contro i flutti
ora taglia obliquamente l’impeto dei venti. Così, quando la mente governa
l’anima con vigilanza, ora calpesta e vince alcune passioni ora, con previdenza,
ne aggira altre, e così., con fatica sottomette quelle presenti, e con la
previdenza si rafforza contro i combattimenti futuri. Perciò ancora si dice, dei
forti combattenti, della patria celeste: La spada di ognuno è sulla coscia
per via dei timori notturni (Cant.
3, 8). Si pone la spada sulla
coscia, quando con la punta della santa predicazione si doma la malvagia
suggestione della carne. Con la notte, poi, si esprime la cecità della nostra
debolezza, poiché di notte non si vede nulla di ciò che può sovrastare
ostilmente. E la spada di ognuno è posta sulla coscia per i timori notturni,
poiché evidentemente gli uomini santi, col fatto che temono le tentazioni che
non vedono, si mantengono sempre pronti alla tensione del combattimento. Perciò,
ancora, si dice della sposa: Il tuo naso come torre che è nel Libano
(Cant.
7, 4); infatti, ciò che non
vediamo con gli occhi spesso lo prevediamo dall’odore. Col naso, poi,
distinguiamo anche gli odori buoni dai cattivi. Dunque, che cosa si designa con
naso della Chiesa, se non la previdente discrezione dei santi? E il naso è anche
detto simile a una torre che è nel Libano, poiché la previdenza discreta dei
santi è posta tanto in alto che vede le lotte delle tentazioni prima che
vengano, e quando sono venute gli sta contro ben difesa. Infatti, le lotte
future che vengono previste, quando si sono fatte presenti hanno minor forza,
poiché quando uno si fa sempre più preparato contro i colpi, il nemico che si
crede inatteso viene reso impotente proprio perché è stato previsto. Al
contrario, bisogna ammonire coloro che si fanno prigionieri della colpa con
deliberazione, a considerare con attenta previdenza che, col compiere il male
deliberatamente, provocano contro di sé un giudizio più severo, così che li
colpisce una sentenza tanto
più dura, quanto
più strettamente li legano alla colpa i vincoli della deliberazione. Forse
laverebbero
più in fretta i
loro peccati col pentimento, se vi fossero caduti solamente per precipitazione;
infatti il peccato indurito dal consiglio è anche più duro da assolvere, e se la
mente non disprezzasse in ogni modo i beni eterni, non perirebbe cadendo nella
colpa deliberata. Dunque, coloro che cadono per la precipitazione e coloro che
periscono per la deliberazione differiscono in ciò, che questi ultimi, quando
peccando cadono dalla condizione di giustizia, per lo più cadono insieme anche
nel laccio della disperazione. Perciò, per mezzo del profeta, il Signore
rimprovera non tanto i peccati di precipitazione quanto quelli dovuti a una
passione coltivata, dicendo: Che non erompa come fuoco il mio sdegno e si
accenda, e non ci sia chi lo
spegne, per la malizia delle vostre passioni. Quindi,
una seconda volta irato, dice: Vi visiterò secondo il frutto delle vostre
passioni (Ger.
4, 4; 23, 2). Dunque, i peccati
commessi con deliberazione differiscono dagli altri, perché il Signore non
persegue tanto il fatto del peccato, quanto la premeditazione del peccato;
giacché, nel fatto, si pecca spesso per debolezza, spesso per negligenza; ma
nella premeditazione, si pecca sempre per intenzione maliziosa. Al contrario,
bene si dice, per mezzo del profeta, a proposito dell’uomo beato: Non siede
nella cattedra di pestilenza (Sal.
1, 1). Cattedra suole essere
il seggio del giudice o del presidente, e sedere nella cattedra di pestilenza
corrisponde a compiere il peccato con giudizio deliberato: sedere nella cattedra
di pestilenza corrisponde a discernere il male con la ragione e tuttavia
commetterlo con deliberazione. È come chi siede su una cattedra di consiglio
perverso chi è innalzato da una esaltazione iniqua tanto grande da tentare di
compiere il male perfino attraverso il consiglio. E come coloro che, sostenuti
dall’autorità della cattedra, sono superiori alle folle che li assistono, così i
peccati, ricercati con premeditazione, superano quelli di coloro che rovinano
per precipitazione. Pertanto bisogna ammonire chi si lega alla colpa anche con
la deliberazione, a dedurre da tutto ciò quale sarà la vendetta con cui, prima o
poi, dovranno essere colpiti, loro che ora si fanno non compagni ma principi dei
peccatori.
33 — Come bisogna
ammonire coloro che cadono in peccati minimi ma frequenti,
e coloro che guardandosi dai minimi restano talvolta sommersi da quelli gravi
Diverso è il modo di
ammonire coloro che commettono spesso peccati, sia pur minimi, e coloro che si
custodiscono dai piccoli, ma talvolta affondano nei gravi. Bisogna ammonire
coloro che cadono frequentemente in colpe sia pur piccole, a non considerare
quali, ma quanti peccati, commettono. Infatti, se quando pesano le loro azioni
disdegnano di temerle, devono averne paura quando le contano. Poiché sono
profondi i gorghi dei fiumi, e sono piccole ma innumerevoli le gocce di pioggia
che li riempiono; e la sentina che cresce nascostamente produce lo stesso
effetto di una tempesta che infuria palesemente. E sono piccolissime le ferite
che si aprono nelle membra per la scabbia,
ma quando la loro quantità, divenuta innumerevole, si estende, uccide la vita
del corpo come una grave ferita inflitta nel petto. Perciò è scritto: Chi
disprezza le cose piccole a poco a poco viene meno
(Sir.
19, 1). Infatti, chi trascura
di piangere e di evitare i peccati minimi cade dalla condizione di giustizia,
non di colpo, ma, poco alla volta, tutto. Bisogna ammonire coloro che
frequentemente cadono in cose minime, a considerare con cura che spesso si pecca
più rovinosamente con una colpa piccola che con una più grande. Poiché, la più
grande, quanto prima è riconosciuta come colpa, tanto più rapidamente viene
emendata: mentre la minore, che è valutata nulla, ha effetti tanto peggiori,
quanto più tranquillamente continua a essere praticata. Per cui avviene spesso
che il cuore avvezzo a peccati leggeri non ha in orrore neppure quelli gravi e,
nutrito dalle colpe, giunge a una certa sicurezza nel male; e tanto disdegna di
temere le colpe più gravi, quanto, nelle più piccole, ha imparato a peccare
senza timore. Al contrario, bisogna ammonire coloro che si guardano dalle colpe
piccole, ma talvolta sprofondano nelle gravi, ad aprire gli occhi su se stessi
con sollecitudine, giacché, mentre il loro cuore si esalta perché si custodisce
dalle piccole colpe, essi vengono divorati, dallo stesso baratro della loro
esaltazione, a commettere peccati ancora più gravi; e, mentre al di fuori
dominano le piccole colpe ma dentro si gonfiano di vanagloria, finiscono con
l’abbattere anche al di fuori, con colpe più gravi, l’animo che, dentro, è stato
vinto dalla malattia della superbia. Pertanto bisogna ammonire coloro che si
custodiscono dai peccati piccoli ma talvolta sprofondano nei gravi, a non
cadere, interiormente, là dove, esteriormente, stimano di stare in
piedi; e, nella retribuzione del Giudice
severo, l’esaltazione non divenga una via di minore giustizia, che trascini alla
fossa della colpa più grave. Infatti, coloro che, esaltatisi vanamente,
attribuiscono alle proprie forze la custodia di un bene minimo, giustamente
abbandonati, si coprono di colpe più gravi e, cadendo, imparano che il loro
stare in piedi non derivava da loro; ciò, affinché mali immensi umilino il cuore
che beni minimi esaltano. Bisogna ammonirli a considerare che, con colpe più
gravi si caricano di una grossa responsabilità, e tuttavia spesso nelle piccole
buone azioni che custodiscono, peccano più rovinosamente perché, con le prime
compiono cose inique, ma per mezzo delle altre tengono coperta agli uomini la
loro iniquità. Per cui avviene che, quando commettono davanti a Dio i peccati
maggiori, ciò è iniquità aperta; e quando custodiscono piccole buone azioni
davanti agli uomini, è santità simulata. Perciò infatti si dice dei Farisei:
Filtrano il moscerino e inghiottiscono il cammello
(Mt.
23, 24); come se dicesse
apertamente: lasciate da parte i peccati piccoli e divorate quelli grandi. È
perciò che ancora si sentono rimproverare dalla bocca della
Verità: Pagate la decima della menta,
dell’aneto, e del cimino e trascurate ciò che è più importante nella
legge: la giustizia, la misericordia, la fedeltà (Mt. 23, 23). E occorre ascoltare con
attenzione, perché quando parla delle decime più piccole, ricorda
intenzionalmente, fra le erbe, le ultime ma profumate; certo per mostrare che i
simulatori, quando custodiscono le piccole buone azioni, cercano di spandere
l’odore di una santa opinione di se stessi; e quantunque tralascino di compiere
i beni più grandi, hanno cura dei piccoli che, a giudizio umano, spandono
profumo in lungo e in largo.
34 — Come bisogna
ammonire coloro che non incominciano neppure a fare il bene,
e coloro che dopo averlo incominciato non lo portano a termine
Diverso è il modo di
ammonire coloro che non incominciano neppure a fare il bene e coloro che, dopo
averlo incominciato, non lo portano a termine. Quanto ai primi, non bisogna far
loro presente, innanzitutto, ciò che devono sanamente amare, ma distruggere ciò
a cui si applicano maliziosamente. Infatti, non vanno dietro a ciò di cui
sentono parlare senza averne l’esperienza, se prima non comprendono quanto sia
nocivo quello che hanno sperimentato; giacché non desidera di essere rialzato,
colui che ignora perfino di essere caduto; e colui che non sente il dolore della
ferita, non ricerca il rimedio per sanarla. Dunque, bisogna prima mostrare
quanto sia vano ciò che amano, e poi con molta cautela bisogna insinuare quanto
sia utile quello che tralasciano. Vedano, prima, che quel che amano è da
fuggire, e poi, senza difficoltà, si renderanno conto che è amabile ciò che
fuggono. Accolgono meglio, infatti, ciò di cui non hanno esperienza, se
riconoscono per vero quanto è stato loro dimostrato su ciò che conoscono per
esperienza. Allora, dunque, imparano con pieno desiderio a cercare le cose vere
e buone, quando cioè abbiano compreso con giudizio sicuro di essere stati
vanamente attaccati a cose false. Ascoltino quindi, che il piacere dei beni
presenti è destinato a passare ben presto, e tuttavia la loro causa permarrà per
una vendetta senza fine, poiché, ora, viene sottratto loro, contro voglia, ciò
che piace; e, allora, ciò che procura dolore, sarà loro riservato come
supplizio, ancora contro voglia. E così abbiano un salutare terrore delle
medesime cose da cui traggono un piacere che li danna, affinché l’animo, che
resta colpito alla vista dei danni profondi della sua propria rovina e si
accorge di essere giunto sull’orlo del precipizio, rivolga indietro i suoi passi
e, nel vivo timore di ciò che prima amava, impari ad amare ciò che disprezzava.
Perciò viene detto a Geremia, mandato a predicare: Ecco,
oggi ti ho costituito sopra le genti e sopra i regni, perché tu sradichi
e distrugga, disperda e dissipi, ed edifichi e pianti (Ger.
1, 10); perché, se prima non
avesse distrutto ciò che era perverso, non avrebbe potuto edificare utilmente
ciò che era retto; se non avesse sradicato dai cuori dei suoi ascoltatori le
spine di un amore vano, è certo che, invano, avrebbe piantato in loro le parole
della santa predicazione. Perciò Pietro, prima abbatte per poi costruire, quando
non ammoniva i Giudei riguardo a ciò che ormai avrebbero dovuto fare, ma li
rimproverava di ciò che avevano fatto, dicendo: Gesù Nazareno,
uomo approvato da Dio tra voi, per i miracoli, i prodigi, i
segni che Dio operò in mezzo a voi, attraverso lui, come voi
sapete: quest’uomo, consegnato per un disegno prestabilito dalla
prescienza di Dio, lo avete ucciso inchiodandolo per mano di empi,
ma Dio lo ha risuscitato, avendo sciolto le doglie dell’inferno (Atti,
2, 22-24).
Disse
così,
evidentemente, affinché, abbattuti dalla consapevolezza della propria crudeltà,
con quanta maggior tensione avrebbero ricercato l’edificazione della santa
predicazione, tanto più utilmente l’ascoltassero.
E quindi, subito rispondono: Che cosa dobbiamo fare,
allora, fratelli? E ad essi viene detto: Fate penitenza e
ciascuno di voi sia battezzato (Atti,
2, 37-38). Essi non
avrebbero certamente fatto alcun conto di queste parole di edificazione, se
prima non avessero trovato la salutare rovina della loro propria distruzione.
Perciò Paolo, quando risplendette su di lui la luce mandata dal cielo, non udì
ciò che avrebbe dovuto fare di bene, ma ciò che aveva fatto di male. Infatti,
quando prostrato chiedeva: Chi sei,
Signore? Gli fu subito risposto: Io sono Gesù Nazareno che tu
perseguiti. E alla
sua seconda immediata richiesta: Signore, che cosa ordini che faccia? Viene aggiunto subito:
Alzati ed entra in città e là ti sarà detto che cosa è bene che tu faccia
(Atti, 9, 24 ss.; 22, 8 ss.).
Ecco, il Signore, parlando dal cielo, rimprovera le azioni del suo
persecutore e tuttavia non mostra immediatamente che cosa avrebbe dovuto fare.
Ecco, ormai tutto l’edificio del suo orgoglio era crollato e, divenuto umile
dopo la sua rovina, cercava di essere riedificato. Ma la superbia viene
distrutta e tuttavia le parole dell’edificazione vengono ancora trattenute,
evidentemente perché il crudele persecutore giaccia a lungo abbattuto, e poi,
tanto più solidamente risorga nel bene, quanto più, prima, era caduto,
rovesciato fin dalle fondamenta, dal primitivo errore. Pertanto, coloro che non
hanno ancora incominciato a compiere alcun bene devono, prima, essere rovesciati
dalla loro rigida perversità, dalla mano della correzione; per essere, poi,
rialzati alla condizione di chi agisce rettamente. Poiché è come quando tagliamo
un albero per innalzarlo, poi, alla copertura di un edificio: esso non viene
impiegato immediatamente nella costruzione,
perché prima si secchi
il suo umore nocivo; e quanto più questo si asciuga nel suo interno, tanto più
solidamente può essere sollevato in alto. Al contrario, bisogna ammonire coloro
che non portano a termine il bene iniziato, a considerare con molta attenzione
che, col non adempiere quanto si sono proposti, strappano via anche ciò a cui
avevano dato inizio. Se, infatti, ciò che sembra di dover fare non cresce per
una sollecita applicazione, diminuisce anche ciò che era stato ben compiuto.
Poiché, in questo mondo, la vita umana è come una nave che sale contro la
corrente di un fiume: non le è permesso di stare ferma in un luogo, perché
scivola di nuovo verso il basso, se non si sforza di salire verso l’alto.
Dunque, se la forte mano di chi opera non conduce a perfezione il bene
intrapreso, la stessa interruzione dell’operare lotta contro quanto è già stato
compiuto. Ed è ciò che è detto per mezzo di Salomone: Chi è molle e
trascurato nel suo operare è fratello di chi dissipa il proprio lavoro
(Prov. 18, 9). Poiché è chiaro che, chi non esegue rigorosamente quanto ha
iniziato di buono, la trascuratezza della sua negligenza è come la mano di un
distruttore. Perciò l’angelo dice alla Chiesa di Sardi: Sii vigilante e
consolida le altre cose che stavano per morire,
infatti non trovo complete le tue opere davanti al mio Dio (Ap. 3,
2). Dunque, poiché le sue opere non erano state trovate complete davanti a Dio,
prediceva che sarebbero morte anche quelle altre che erano state compiute.
Infatti, se ciò che in noi è morto non
si riaccende a vita, si estingue anche ciò che, in un certo senso, si
conserva ancora vivo. Bisogna ammonirli a considerare che avrebbe potuto essere
più tollerabile non intraprendere la via del giusto, piuttosto che tornare
indietro dopo averla intrapresa; infatti, se non si voltassero a guardare
indietro, non languirebbero nel torpore, dopo l’attività iniziata. Ascoltino
dunque ciò che è scritto: Sarebbe stato meglio non conoscere la via della
giustizia che voltarsi indietro dopo averla conosciuta
(2
Pt. 2, 21). Ascoltino ciò che è
scritto: Magari fossi freddo o caldo; ma poiché sei tiepido e né freddo né caldo, incomincerò a
vomitarti dalla mia bocca (Ap. 3, 15-16). Caldo è chi intraprende
attivamente il bene e lo porta a termine; freddo è chi non incomincia neppure
ciò che dovrebbe terminare. E come dal freddo, attraverso la tiepidezza, si
passa al calore; così dal calore, attraverso la tiepidezza si ritorna al freddo.
Dunque, chi vive avendo perduto il freddo della incredulità ma non supera la
tiepidezza e non aumenta il suo calore così da ardere; mentre permane nella
nociva tiepidezza, senza più nessuna speranza di quel calore, non fa altro che
tornare freddo. Ma, come prima di diventare tiepido l’essere freddo conservava
la speranza, così ora, la tiepidezza, dopo essere stato freddo, è senza
speranza. Infatti, chi è ancora nel peccato, non perde la fiducia nella
conversione; ma chi, dopo la conversione, è tiepido, si è sottratto anche quella
speranza che poté avere da peccatore. Si richiede, dunque, che uno sia o caldo o
freddo, per non essere vomitato essendo tiepido, affinché, se non è ancora
convertito, lasci una speranza di conversione riguardo a sé o, se
è già convertito, sia sempre più
ardente nella pratica della virtù; e non sia vomitato come tiepido per essere
ritornato a causa della sua inerzia, dal calore che si era proposto, al freddo
dannoso.
35 — Come bisogna
ammonire coloro che fanno il male di nascosto e il bene apertamente;
e quelli che agiscono viceversa
Diverso è il modo di
ammonire coloro che fanno il male di nascosto e il bene in pubblico, e coloro
che nascondono il bene che fanno e tuttavia lasciano che si pensi pubblicamente
male di loro per certe loro azioni pubbliche. Infatti, bisogna ammonire i primi
a valutare la rapidità con cui i giudizi umani volano via, e come, invece,
restano stabili quelli divini. Bisogna ammonirli a tenere gli occhi della mente
fissi al
termine delle cose, poiché l’attestazione delle lodi umane
passa, e la sentenza divina, che penetra ciò che è nascosto, si rafforza fino
alla retribuzione eterna. Pertanto, mentre pongono i loro peccati davanti al
giudizio divino, e le loro azioni giuste davanti agli occhi degli uomini, il
bene che compiono pubblicamente resta senza testimone, ma non senza testimone
eterno rimane ciò che di male essi compiono di nascosto. Così, nascondendo agli
uomini le proprie colpe, e manifestando le virtù, mentre nascondono ciò per cui
avrebbero dovuto essere puniti; di fatto lo svelano; e svelando ciò per cui
avrebbero potuto essere premiati, di fatto lo nascondono. Giustamente la Verità
li chiama sepolcri imbiancati, belli all’esterno ma pieni di ossa di morti (cf.
Mt. 23, 27), perché occultano all’interno i mali dei vizi, ma
con la dimostrazione di certe azioni blandiscono la vista degli uomini, con la
sola apparenza esteriore della giustizia. Pertanto, bisogna ammonirli a non
disprezzare le azioni rette che compiono, ma ad attribuire ad esse un più grande
merito; infatti, condannano gravemente ciò che fanno di buono, coloro
che stimano un compenso
sufficiente per esso il favore umano, giacché, quando per una azione retta si
cerca una lode passeggera, si vende a poco prezzo una cosa degna di un compenso
eterno. Ed è di un tale prezzo che la Verità dice: In verità vi dico,
hanno ricevuto la loro mercede (Mt.
6, 2). Bisogna ammonirli a
considerare che mentre si mostrano malvagi nelle azioni nascoste e tuttavia
offrono di sé pubblicamente esempi di buone opere, indicano che bisogna seguire
ciò che essi fuggono, gridano che è amabile ciò che essi odiano e, da ultimo,
vivono agli occhi degli altri, ma a se stessi muoiono. Al contrario, bisogna
ammonire coloro che fanno nascostamente il bene e tuttavia per qualche loro
azione pubblica permettono che si pensi male di loro, a non uccidere in sé
altri, con l’esempio di una cattiva stima, mentre vivificano sé stessi, con la
potenza di un retto agire; a non amare il prossimo meno che sé stessi, e a non
versare veleno pestifero nei cuori attenti alla considerazione del loro esempio,
mentre loro stessi bevono vino salubre. Poiché, in questo caso, non giovano alla
vita del prossimo; e nell’altro la gravano molto; applicandosi, cioè, [da un
lato] ad agire rettamente di nascosto, e [dall’altro] a seminare, per certe loro
azioni, una cattiva opinione di sé come esempio per gli altri. Infatti, chi è
già in grado di mettersi sotto i piedi la brama della lode, opera a danno
dell’edificazione se nasconde il bene che compie; e colui che non mostra
l’azione che deve essere imitata è come se, dopo aver gettato il seme che deve
germinare ne strappasse le radici. Perciò infatti, la Verità disse,
nell’Evangelo: Vedano le vostre opere buone e glorifichino il Padre vostro
che è nei cieli (Mt.
5, 16).
Dove pure è pronunciata quell’altra sentenza che sembra comandare tutto il
contrario dicendo: Guardate di non compiere la vostra giustizia di fronte
agli uomini per essere visti da loro
(Mt.
6, 1). Che cosa significa
allora che il nostro operare deve essere compiuto in modo da non essere visto, e
tuttavia, secondo il precetto, deve essere visto, se non che tutto ciò che
facciamo deve essere nascosto perché non siamo noi a riceverne lode, e deve
essere manifestato perché accresciamo così la lode del Padre celeste? Infatti,
quando il Signore ci proibiva di compiere la nostra giustizia davanti agli
uomini, subito aggiunse: Per essere visti da loro.
E quando comandava che le nostre opere buone dovevano essere viste
dagli uomini, subito aggiunse: Affinché glorifichino il Padre vostro che è
nei cieli. Dunque, alla fine delle sentenze mostrò in che senso non
devono essere viste e in che senso devono esserlo, affinché il cuore di chi la
compie non cerchi che la sua opera sia veduta, per causa sua, e tuttavia non la
nasconda, a gloria del Padre celeste. Perciò accade che per lo più un’opera
buona possa essere nascosta anche se avviene pubblicamente e, ancora, sia come
pubblica pur compiendosi di nascosto. Infatti, chi, in un’azione compiuta in
pubblico, non cerca la propria gloria ma quella del Padre celeste, nasconde ciò
che ha fatto, poiché ha considerato come testimone solo colui a cui si è
preoccupato di piacere. E colui che nel suo segreto brama di essere scoperto e
lodato nella sua opera buona, anche se nessuno ha veduto ciò che egli ha
compiuto, egli ha tuttavia fatto ciò davanti agli uomini, poiché ha condotto con
sé, nella sua buona opera, tanti testimoni quante sono le lodi umane che ha
ricercato nel suo cuore. E quando una cattiva stima, che ha valore anche se non
nasconde un peccato, non viene cancellata dalla mente di chi la considera, per
l’esempio che essa rappresenta è come una colpa offerta all’imitazione di tutti
quelli che vi prestano fede. Perciò spesso accade che coloro i quali, con
negligenza, permettono che si pensi male di loro, non compiono per se stessi
alcuna iniquità e tuttavia, attraverso tutti coloro che li avranno imitati,
peccano ripetutamente. Perciò, a coloro che mangiano cibi immondi senza
contaminarsi, quanto a sé, ma scandalizzano i deboli con questo modo di cibarsi,
inducendoli in tentazione, Paolo dice: Guardate che la vostra libertà non
diventi inciampo per i deboli (1
Cor. 8, 9). E ancora: E per la
tua coscienza perirà il fratello debole per il quale Cristo è morto.
E così, peccando contro i fratelli e colpendo la loro debole coscienza,
peccate contro Cristo
(1
Cor. 8, 11-12). Perciò Mosé, dopo aver
detto: Non dirai male di un sordo, aggiunse: Né porrai un inciampo davanti a un cieco
(Lev. 19, 14). Dire male di un sordo
equivale a criticare un assente che non può ascoltare; e porre un inciampo
davanti a un cieco corrisponde ad agire con discernimento e tuttavia offrire
occasione di scandalo a chi non ha la luce della discrezione.
36 —
Dell’esortazione che bisogna prestare a molti, tale da aiutare le virtù dei singoli, così che per essa non
aumentino i vizi contrari a quelle virtù
Queste sono le
avvertenze che il Pastore d’anime deve osservare nella diversità della
predicazione, per contrapporre con sollecitudine medicine adatte alle ferite dei
singoli. Ma se è di grande impegno il servire
alle situazioni
individuali, nell’esortazione dei singoli, se è molto faticoso istruire
ciascuno, in quanto lo può direttamente riguardare, con la dovuta
considerazione, tuttavia è di gran lunga più faticoso farlo, nello stesso tempo
e con il medesimo discorso, nei. confronti di ascoltatori numerosi e sottoposti
a passioni diverse; e il discorso deve essere regolato con tanta arte da
adattarsi ai singoli ascoltatori coi loro diversi vizi, e insieme da non
contraddirsi; da passare tra le passioni seguendo un solo tracciato, ma come una
spada a due tagli, incidendo i tumori dei pensieri carnali da parti opposte,
così che si predichi l’umiltà ai superbi in modo che però ai timidi non aumenti
il timore; ai timidi si infonda sicurezza, in modo che però
non cresca la sfrenatezza dei superbi. Si predichi agli oziosi e ai torpidi la
sollecitudine del bene operare in modo che però non si accresca la licenza di
una attività smodata negli inquieti. Si ponga una misura agli inquieti in modo
che però il torpore degli oziosi non si senta sicuro. Si spenga l’ira degli
impazienti in modo che però, ai remissivi e ai tranquilli non aumenti la
negligenza. I tranquilli siano eccitati allo zelo, in modo che però non si
aggiunga fuoco agli iracondi. Si infonda spirito di larghezza nel dare agli
avari in modo che però non si allentino i freni della liberalità smodata ai
prodighi; e si predichi ai prodighi la parsimonia in modo che però negli avari
non aumenti la custodia dei beni destinati a perire. Si lodi il matrimonio agli
incontinenti, in modo che però coloro che già sono continenti non siano
richiamati alla lussuria. Ai continenti poi si lodi la verginità del corpo in
modo che però i coniugi non siano indotti a disprezzare la fecondità della
carne. Bisogna predicare i beni in modo che d’altro canto non ne traggano
giovamento i mali. Bisogna lodare i beni più alti in modo che non restino
disprezzati i minori; e bisogna alimentare i minori perché se si pensa che siano
per sé sufficienti, non si sia trattenuti dall’aspirare ai sommi.
37 —
Dell’esortazione che si
deve a una persona soggetta a passioni contrarie
È certo grave fatica
per un predicatore essere attento, in un discorso rivolto a pin persone, ai moti
nascosti dei singoli e alle loro cause e, come avviene negli esercizi in
palestra, destreggiarsi nell’arte di volgersi in diverse direzioni; tuttavia
egli si sottopone a una fatica molto maggiore quando è costretto a predicare a
una sola persona soggetta a vizi opposti. Spesso infatti si dà il caso di
qualcuno di carattere gaio che poi di colpo si deprime terribilmente per il
sopraggiungere di una improvvisa tristezza. Il predicatore deve allora fare si
che venga tolta la tristezza improvvisa ma in modo che non cresca la gaiezza
prodotta dal temperamento; e sia frenata la gaiezza del temperamento in modo che
però non aumenti la tristezza che viene all’improvviso. Uno è gravato da una
abituale smodata precipitazione, però, ogni tanto, la forza di una improvvisa
paura lo trattiene da qualcosa ché bisogna eseguire con fretta. Un altro è
gravato da una abituale smisurata paura, però ogni tanto è spinto da una
precipitazione temeraria in qualcosa che desidera. E allora, nel primo, bisogna
reprimere la paura sorta improvvisamente in modo che però non aumenti la
precipitazione coltivata a lungo; e nel secondo bisogna reprimere la
precipitazione improvvisa, in modo che però non si rafforzi la paura dovuta al
temperamento. Quale meraviglia che i medici delle anime abbiano tanta cura di
queste cose, se coloro che non curano i cuori ma i corpi si regolano con una
discrezione cos’ sapiente? Spesso infatti una terribile malattia opprime un
debole corpo e ad essa si deve venire in aiuto con rimedi vigorosi, ma tuttavia
il corpo debole non sostiene il rimedio forte; allora il medico deve studiare in
che modo togliere la malattia sopravvenuta senza aumentare la sottostante
debolezza del corpo, perché insieme con la malattia non venga meno la vita.
Perciò mette insieme il rimedio con tanta discrezione da ovviare alla malattia e
nello stesso tempo aiutare il malato. Dunque, se la medicina del corpo,
applicata in modo unitario, può agire in sensi opposti (la medicina infatti è
veramente tale quando con essa si rimedia alla malattia sopravvenuta e si viene
in aiuto anche al temperamento che vi è sottoposto), perché la medicina
dell’animo applicata da una sola e medesima predicazione non dovrebbe essere in
grado di ovviare a malattie morali di diverso ordine, essa che è tanto più
sottilmente praticata, in quanto si tratta di condizioni spirituali?
38 —
Talvolta occorre
lasciare sopravvivere vizi più leggeri per togliere i più gravi
Ma poiché spesso
irrompe una malattia dovuta al concorrere di due vizi, dei quali forse uno preme
in modo più grave dell’altro, più leggero; è senza subbio più giusto venire in
fretta in aiuto contro quel vizio per cui si corre rapidamente alla morte. E se
per evitare una morte prossima, non si può contenere questo, senza che cresca il
coesistente vizio contrario, occorre
che il predicatore tolleri che attraverso la sua esortazione, questo ultimo, per
un artificioso accomodamento, subisca una crescita, pur di poter trattenere
l’altro dalla vicina morte.
Ciò che egli opera non aumenta la malattia del suo ferito, cui egli applica il
rimedio, ma gli conserva la vita finché trovi il momento adatto per ricercare la
sua salvezza. Spesso avviene che qualcuno, per non sapersi affatto trattenere
dall’ingordigia dei cibi, viene assalito dagli stimoli della lussuria che ormai
sta per vincerlo ed egli, atterrito dal timore di soccombere in questa lotta,
mentre si sforza di contenersi con l’astinenza, è travagliato dalla tentazione
della vanagloria. In questa situazione non è possibile che si estingua un vizio
senza che se ne alimenti un altro. Dunque, quale peste occorre combattere con
più ardore se non quella che preme con maggiore pericolo? Allora bisogna
tollerare che, provvisoriamente, in chi esercita la virtù dell’astinenza cresca
un po’ di orgoglio purché egli viva, piuttosto che lo uccida del tutto la
lussuria generata dall’ingordigia. Perciò Paolo, considerando il suo debole
ascoltatore esposto all’alternativa, o di un agire ancora perverso o di
compiacersi per il compenso della lode degli uomini, per il suo agire retto,
dice: Vuoi non temere l’autorità? Fa’ il bene e riceverai lode da essa
(Rom. 13, 3).
Infatti, né il bene va fatto per non dovere temere chi ha il potere
in questo mondo né per ricever con esso la gloria di una lode passeggera. Ma
considerando che un cuore debole non può giungere a tanta fortezza da voler
sfuggire insieme al male e alla lode, il gran dottore, nella sua ammonizione,
mentre gli toglie una cosa gli concede l’altra; infatti, concedendogli ciò che è
più leggero, gli tolse il più grave, in modo che non essendo in grado di
abbandonare tutto in una sola volta, l’animo veniva lasciato alla consuetudine
di un certo suo vizio per essere liberato senza fatica da un certo altro.
39 — Non bisogna
assolutamente predicare cose troppo alte alle menti deboli
Occorre che il
predicatore non attiri l’animo del suo ascoltatore al di là delle sue forze,
affinché la corda della mente non si spezzi mentre viene tesa, per cosa dire,
oltre il suo potere. Infatti, quando sono molti ad ascoltare, i discorsi troppo
elevati si devono contenere e riservare solo per pochi. Perciò la Verità in
persona dice: Chi credi che sia il dispensatore fedele e prudente che il
padrone ha stabilito sulla sua famiglia perché dia a ciascuno a suo tempo la
misura di grano? (Lc.
12, 42). E la misura di grano esprime lo stile del discorso
perché non accada che si dia a un cuore angusto qualcosa che esso non può
contenere e questo si versi al di fuori. Perciò Paolo dice: Non ho potuto
parlarvi come a spirituali, ma
come a carnali. Come a bambini in Cristo, vi ho dato da bere latte
e non cibo solido (1
Cor. 3, 1). Perciò Mosé, uscendo
dall’intimità con Dio, vela, davanti al popolo, il volto ancora raggiante (cf. Es. 34, 31);
certo perché, alle turbe, esso non parla dei misteri della luce interiore.
Perciò, attraverso di lui, viene prescritto dalla parola divina che se qualcuno
ha scavato una cisterna e ha trascurato di ricoprirla, deve pagare il prezzo di
un bue o di un asino che vi sia caduto dentro (cf. Es. 21, 33-34).
Poiché, se i rozzi cuori dei suoi ascoltatori non possono contenere le acque
correnti della profonda dottrina cui egli è pervenuto, è considerato reo
meritevole di pena qualora, per le sue parole, una mente, sia pura sia impura,
resta presa nello scandalo. Perciò viene detto al beato Giobbe: Chi ha dato
l’intelligenza al gallo? (Giob.
38, 36). Infatti, il predicatore
santo che grida in questo tempo oscuro è come il gallo che canta nella notte,
quando dice: È
ormai ora di sorgere dal sonno
(Rom.
13, 11); e ancora: Vegliate,
giusti, e non peccate (1
Cor. 15, 34).
Ma il gallo è solito emettere un alto canto nelle ore più
profonde della notte, e invece, quando l’ora del mattino è più vicina, produce
suoni più tenui e leggeri, poiché chi predica opportunamente grida in modo
chiaro ai cuori ancora ottenebrati e non fa alcun accenno ai misteri nascosti,
affinché siano in grado di ascoltare discorsi più sottili sulle cose celesti
quando si avvicinano alla luce della verità.
40 — La predicazione
nelle opere e nelle parole
Ma ritorniamo
soprattutto con ardore di carità a quanto abbiamo già detto sopra, che cioè ogni
predicatore si faccia sentire più
con i fatti che con le parole, e imprima le sue orme per chi lo segue,
attraverso una buona vita, piuttosto che mostrare con le parole la mèta verso
cui essi devono camminare. Poiché anche questo gallo, che il Signore prende come
esempio nelle sue parole, per indicare il tipo del buon predicatore, quando già
si prepara a cantare, prima scuote le ali e percuotendosi da solo si fa più
sveglio; chiaramente perché è necessario che coloro, i quali si accingono alla
santa predicazione, siano prima vigilanti e dediti al bene operare, perché non
pretendano di scuotere gli altri con le parole, mentre in se stessi dormono
nell’inerzia: scuotano se stessi, prima, con azioni elevate, e solo allora
rendano gli altri solleciti del ben vivere; prima colpiscano sé con le ali della
meditazione e con attento esame colgano ciò che in loro giace nell’inutile
torpore e lo correggano con severa riprensione; e solo allora regolino con le
parole la vita degli altri. Prima abbiano cura di punire i propri peccati con
pianto e poi denuncino ciò che è degno di punizione negli altri; e prima di fare
risuonare parole di esortazione, gridino con le opere tutto ciò che hanno
intenzione di dire.
COME IL PREDICATORE,
COMPIUTA OGNI COSA NEL MODO DOVUTO,
DEVE RITORNARE IN SE STESSO,
PERCHÉ LA VITA O LA PREDICAZIONE
NON LO ESALTI
Ma poiché spesso, quando la predicazione scorre copiosamente nei modi convenienti, l’animo di chi parla si esalta in se stesso per la gioia nascosta di questa dimostrazione di sé, è necessaria una grande cura perché esso si lasci ferire dai morsi del timore e non accada che colui il quale, curando le loro ferite, richiama gli altri alla salvezza, si inorgoglisca lui per negligenza della salvezza sua propria; e mentre giova al prossimo, abbandoni se stesso e cada, mentre fa rialzare gli altri. Spesso, infatti, la grandezza della virtù fu occasione di perdizione per alcuni, perché per la confidenza nelle proprie forze acquistano una disordinata sicurezza, così che poi, per negligenza, in modo imprevisto muoiono. Infatti, quando la virtù resiste ai vizi, per un certo piacere di essa, l’animo ne resta lusingato, e avviene che la mente di chi opera bene rigetti il timore che la fa essere attenta ai vizi; riposi sicura nella confidenza di sé; e quando essa è presa nel torpore, l’astuto seduttore le enumera tutte le sue buone opere e la esalta nel pensiero orgoglioso di essere superiore agli altri. Quindi, agli occhi del giusto Giudice, il ricordo della virtù diviene una fossa per la mente, perché ricordando ciò che ha compiuto, mentre si innalza in se stessa, cade di fronte all’autore dell’umiltà. Perciò è detto all’anima che insuperbisce: Quanto pia sei bella, scendi e dormi con gli incirconcisi (Ez. 32, 9); come se dicesse apertamente: Poiché ti elevi per la bellezza della virtù, dalla tua stessa bellezza sei spinta a cadere. Perciò, l’anima che insuperbisce per la virtù, viene riprovata — personificata in Gerusalemme — quando è detto: Eri perfetta nella mia bellezza, che io avevo posto su di te, dice il Signore; ma fidando nella tua bellezza, hai fornicato nel tuo nome (Ez. 16, 14-15). Giacché l’animo si esalta, per la fiducia nella propria bellezza, quando lieto per i meriti delle sue virtù, si gloria ai suoi occhi nella propria sicurezza. Ma attraverso questa medesima fiducia è condotto alla fornicazione, perché quando i suoi stessi pensieri illudono la mente prigioniera, gli spiriti maligni la corrompono, seducendola attraverso innumerevoli vizi. Si noti che è detto: Hai fornicato nel tuo nome, perché quando il cuore abbandona il rispetto della guida celeste, cerca subito una lode personale, e incomincia ad attribuirsi ogni bene che ha ricevuto per servire all’annuncio di colui che gliel’ha donato; desidera dilatare la gloria della sua fama; fa di tutto per apparire degna di ammirazione a tutti. Pertanto fornica in suo nome, colei che abbandonando il talamo legale giace sotto lo spirito corruttore per la brama della lode. Perciò David dice: Ha consegnato alla prigionia la loro virtù e la loro bellezza in mano al nemico (Sal. 77, 61). Giacché la virtù è consegnata alla prigionia e la bellezza in mano all’avversario, quando l’antico nemico domina un cuore illuso dall’esaltazione per una buona opera; e tuttavia questa esaltazione della virtù, sebbene non vinca completamente, tenta spesso, comunque, anche l’animo degli eletti; ma quando, dopo essersi esaltato, viene abbandonato, allora è richiamato al timore. Perciò David ancora dice: lo dissi nel mio benessere: Non sarò scosso in eterno (Sal. 29, 7). Ma poiché si gonfiò nella confidenza nella propria virtù, poco dopo aggiunge che cosa dovette sopportare: Hai distolto il tuo volto e sono stato turbato (Sal. 29, 8); come se dicesse apertamente: Mi sono creduto forte tra le mie virtù, ma abbandonato, ho riconosciuto quanto è grande la mia debolezza. Perciò ancora dice: Ho giurato e stabilito di custodire i giudizi della tua giustizia (Sal. 118, 106). Ma poiché non era in potere della sua forza rimanere fermo nella custodia che aveva giurato, subito scopri la propria debolezza, per cui immediatamente si buttò nella preghiera dicendo: Sono stato umiliato fino in fondo, Signore, dammi vita secondo la tua parola (Sal. 118, 107). Poiché spesso la guida celeste prima di fare progredire coi doni richiama alla mente il ricordo della debolezza, perché non ci si gonfi per le virtù ricevute. Perciò il profeta Ezechiele, ogni volta che è condotto a contemplare le cose celesti, viene chiamato prima figlio dell’uomo, come se il Signore lo ammonisse apertamente dicendo: perché tu non innalzi il tuo cuore nell’esaltazione, considera attentamente ciò che sei, affinché quando penetri le verità somme riconosca di essere uomo; e mentre sei rapito al di là di te, tu sia richiamato sollecitamente a te stesso dal freno della tua debolezza. Perciò è necessario che quando l’abbondanza delle virtù ci lusinga, l’occhio della mente ritorni alle sue debolezze e si costringa a voltarsi indietro per guardare non ciò che ha fatto rettamente, ma ciò che ha trascurato di fare, perché, mentre nel ricordo della debolezza, il cuore si abbatte, sia rafforzato nella virtù presso l’autore dell’umiltà. Poiché spesso Dio onnipotente, quantunque in gran parte renda perfette le menti delle guide delle anime, tuttavia, per una piccola parte, le lascia imperfette, affinché, quando risplendono per le loro ammirabili virtù, si struggano per il fastidio della propria imperfezione e non si innalzino per quanto è in loro di grande, mentre ancora si travagliano nel loro sforzo contro difetti minimi; ma poiché non sono capaci di vincere questi ultimi resti di imperfezione, non osino insuperbire per i loro atti eminenti. Ecco, nobilissimo uomo, spinto dalla necessità di accusare me stesso e tutto attento a mostrare quale debba essere il Pastore, ho dipinto un uomo bello, io cattivo pittore, che, ancora sbattuto dai flutti dei peccati, pretendo di guidare gli altri al lido della perfezione. Ma in questo naufragio della vita, ti supplico, sostienimi con la tavola della tua preghiera e, poiché il mio peso mi fa affondare, sollevami con la mano dei tuoi meriti.
NOTE
[1] Uno dei detti del Signore di cui si ignora la fonte. Si ritrova in sant’Agostino (Enarr. in Ps. 102, 12; e in Ps. 146, 17) e in altri autori medievali.
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4 ottobre 2020 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net