Regola di S. Benedetto

 

INIZIA IL TESTO DELLA REGOLA

Regola è chiamata perchè dirige la vita di quelli che obbediscono.

Capitolo I: Le varie categorie di monaci: 1 E' noto che ci sono quattro categorie di monaci. 2 La prima è quella dei cenobiti, che vivono in un monastero, militando sotto una regola e un abate.

Capitolo III - La consultazione della comunità: 7 Dunque in ogni cosa tutti seguano come maestra la Regola e nessuno osi allontanarsene. 8 Nessun membro della comunità segua la volontà propria,

Capitolo LXIV - L'elezione dell'abate: 20 E soprattutto osservi e faccia osservare integramente la presente Regola 21 per potersi sentir dire dal Signore, al termine della sua onesta gestione, le parole udite dal servo fedele, che a tempo debito distribuì il frumento ai suoi compagni: 22 "In verità vi dico: - dichiara Gesù - gli diede potere su tutti i suoi beni".

Capitolo LXXIII - La modesta portata di questa regola: 1 Abbiamo abbozzato questa Regola con l'intenzione che, mediante la sua osservanza nei nostri monasteri, riusciamo almeno a dar prova di possedere una certa rettitudine di costumi e di essere ai primordi della vita monastica... 8 Chiunque tu sia, dunque, che con sollecitudine e ardore ti dirigi verso la patria celeste, metti in pratica con l'aiuto di Cristo questa modestissima Regola, abbozzata come una semplice introduzione, 9 e con la grazia di Dio giungerai finalmente a quelle più alte cime di scienza e di virtù, di cui abbiamo parlato sopra.


A regola d’arte

appunti per un cammino spirituale

Maria Ignazia Angelini O.S.B.

Città Nuova Editrice 2017



1. Introduzione al tema

 

Se io non sono per me, chi sarà per me?

E se io sono per me, chi sono io?

E se non ora, quando?

Rabbi Hillel

 

Dammi un cuore che ascolta

(1 Re 3, 9)

 

Perché una regola di vita?

 

Che senso ha parlare di “regola di vita” quando - se teniamo il cuore in ascolto - ci rendiamo conto di quel che accade attorno a noi, in quest’ora così severa, inquietante e frantumata della storia umana? In tale stretta così insensatamente devastante, perché aprire un tema così inusuale?

Ho scelto di vivere come monaca «sotto una regola», come san Benedetto chiede ai monaci cenobiti, e perciò, in un certo senso, “gioco in casa”, ma, sotto la mia forma di vita “regolare”, sono tuttavia in una situazione di pura “marginalità”, sia dal punto di vista dello sguardo comune, che dal punto di vista della luce di verità del Vangelo.

In realtà, ritengo che la scelta monastica - come lo stesso Benedetto da Norcia verosimilmente pensava quando ha iniziato questa forma di vita -, nella Chiesa e per la Chiesa, evidenzi il segreto che riguarda il cristiano come tale, il battezzato, il quale assume pienamente nella storia la propria responsabilità: essere discepolo di Gesù, sulla sua stessa via di incarnazione. Prima di essere missione, il legame con Gesù dà forma alla cura dell’anima, alla propria interiorità, a una regola di vita.

È un’evidenza che oggi deve più che mai aprirsi la strada, trovandoci, tutti noi, in mezzo a una cultura del tutto estranea. Una regola di vita è infatti un genere assolutamente desueto nell’epoca dominata dall’imporsi del virtuale, l’epoca cosiddetta “post”: post-moderna, post-cristiana, post-religiosa, post-industriale, post-ideologica... Siamo post-tutto (oggi si parla addirittura del post-umano, con la cyber-technology e l’elaborazione della catena del DNA) e ci riteniamo ormai avveduti e pertanto emancipati da regole. Tuttavia, abbiamo ancora aperte domande radicali: dopo tutti questi oltrepassamenti, che cosa c’è? Non temiamo l’orizzonte assolutamente aperto e indeterminato dell’uomo - come diceva Musil - «senza qualità»? Nonostante tutto e attraverso tutto, vogliamo cercare una possibilità per l’uomo contemporaneo, che con la sua stessa indeterminatezza sollecita la libertà, e per noi stessi, di scoprire una misura, un ritmo, uno stile - un senso.

L’epoca moderna poneva l’uomo al centro dell’universo e ne indicava una conseguente paideia, l’arte di far maturare il soggetto come ragione sovrana e alimentatrice di inarrestabile progresso; nella contemporaneità, invece, ci troviamo a muoverci in una cultura profondamente segnata da molteplici oltrepassamenti e dalla conseguente liquidità del soggetto; sappiamo come, anche per l’espressione massima della cultura decostruzionista - cioè di quelle filosofie che intendono l’uomo non più come centro ma come una regione a sé, buttata in un orizzonte di complessità irriducibile -, l’uomo, non essendo più al centro, rischia di ridursi a una passione inutile.

Ebbene, la sapienza monastica - pure nata in epoca di crisi di civiltà - sostiene la bellezza di una strada di umanizzazione fondata sull’invenzione di una misura, di una regola, di un passo, di uno stile, di un metodo: un’arte di vivere, a partire dalla custodia del cuore, dalla cura della propria interiorità. Non è forse nata, la cultura europea, dai monasteri dell’Alto Medioevo?

Vorrei subito sgombrare il campo da un equivoco: la regola non è una stampella per persone fragili o un comodo prontuario tecnico per persone che non hanno tempo da perdere, così che la mattina non devono fare alcun programma perché tutto è già regolato. San Benedetto dice che vivere secondo una regola, sotto e insieme a un abate, è propriamente un orizzonte dinamico, un inizio, ogni giorno rinnovato, per maturare in bellezza la vicenda della propria esistenza, avendo la percezione di una partenza, di punti di riferimento, di un senso - in un’avventura che di per sé è spericolata, imprevedibile. L’avventura di credere, a partire dal cuore e dentro una storia concreta in cui Dio parla.

Per far intuire la prospettiva, vorrei proporre un piccolo detto di rabbi Hillel, rabbino del I secolo, perché proprio la sua domanda molteplice e aperta può orientarci su questo percorso:

Se io non sono per me, chi sarà per me?

E se io sono per me, chi sono io?

E se non ora, quando?

Sono tre domande strane, sconcertanti, incalzanti nell’aprire un orizzonte inedito.

Da una parte, l’importanza di prendersi cura di sé, di cercare un ordine per la propria vita, di porsi la domanda fondamentale: Se io non sono per me, chi sarà per me? «Cura dell’anima» si chiamava anticamente questa pratica.

E però, mentre si formula questa domanda, se ne insinua un’altra, dirompente, inquietante: E se io sono per me, chi sono io? Posso partire da me? Mi areno subito. Io sono un tu rispetto ad altri, una presenza rispetto a un cosmo, a un universo, e nel prendermi cura di me non posso isolarmi, sarebbe un’astrazione: devo contestualizzarmi in questa realtà più grande, perché se io sono per me, è la fine. Il mio esserci invoca un Tu che dia nome e perciò senso alla mia finitudine.

E se non ora, quando? Questa terza articolazione della domanda fondamentale dice che non si possono rimandare le domande più serie dell’esistenza a un momento più opportuno, a una situazione più adeguata. Di fatto, in ogni momento, in ogni realtà, in ogni qui e adesso, rendiamo ragione della nostra vita: rispondiamo di noi stessi in qualsiasi situazione della vita.

Viviamo, oggi, nella cultura - se così si può dire - del “divertimento” sempre e comunque, della distrazione, dell’evasione: cosa ben diversa dall’ironia e dal gioco. Ancor più, è diffusa la logica cosiddetta dello “sballo”, cioè la possibilità di assentarsi, di darsi un tempo in cui non rendere conto a nessuno di quello che si fa di sé; una logica totalmente avulsa dalla prospettiva della fede, che è: accettarsi e comprendersi come domanda fondamentale, domanda lanciata non nel vuoto ma ad altri e posta a un Tu che in principio ci ha fatto esistere, ci ha pensato secondo un disegno d’amore, e non ci perde mai.

Ebbene, questa condizione fondamentale di “responsabilità” in quanto persona umana nella fede - così efficacemente allusa dal triplice interrogativo di Hillel -, ha a che fare con la questione di una regola di vita.

Nel Primo libro dei Re (cf. 1 Re 3, 5.7-12) si racconta un sogno, il sogno di Salomone che viene interpellato da Dio con una domanda: «Dimmi quello che vuoi». Una domanda imprevista, sconcertante per il giovane. «Dimmi quello che vuoi»: implica che Dio attende di conoscerci attraverso la nostra risposta. Salomone, che si preparava a diventare re, rispose: «Dammi un cuore che ascolta». La traduzione della CEI 2008 dice «docile», ma il testo originale è: «in ascolto». La capacità di essere re, di essere signore, di essere nella vita in posizione di libertà, la capacità di cogliere e sintonizzarsi con le voci che interpellano, che giungono sempre come domanda, come chiamata all’esistenza, che definiscono la vera signoria umana, estranea ad ogni prepotenza, dipende dalla cura del cuore. Umanità regale è di chi veglia sul proprio cuore e sa custodire il luogo dell’interiorità da cui sgorga la vita. Ebbene: l’invenzione di una propria regola di vita è funzionale alla maturazione di un cuore che ascolta.

Intendersi così, ci consente di affrontare la questione di una regola di vita come un’avventura che ci sfida non marginalmente: al cuore dell’essere adulti nella fede.

 

L’etimologia parla

 

“Regola” è una parola che evoca nella sua radice, nel suo significato originario latino, un’assicella di legno (regula) utilizzata per tirare le righe dritte; il termine greco corrispondente è kanon, derivato da kanna, il cui significato, “canna”, indicava allo stesso modo il regolo utilizzato dagli artigiani. Regola è dunque, nel suo significato traslato, una norma dell’agire che prescrive il modo in cui comportarsi in determinate circostanze, in nome di un ordine costante, ripetutamente verificato in una serie di eventi. Mantiene comunque un tratto di normatività, ma alimentato dalla pratica e affidato alla libertà. Quindi è decisivo, quando parliamo di regola di vita, il riferimento all’esperienza, il carattere sapienziale e non puramente regionale e tecnico.

Si tratta di una parola carica di risonanze a tutti i livelli del vissuto e dell’attività umana. Dall’umiltà del fine lavoro artigiano e dalla sua regola composta di attente misure, scaturisce attraverso i secoli una parola che arriva a toccare le più alte sfere della vita: le regole della logica e delle discipline scientifiche; le regole che determinano l’uso di un sistema linguistico; le regole del gioco, indispensabili per condurre qualsiasi attività ludica da bambini o da adulti, così da stabilire un contesto, un orizzonte e un obiettivo anche per la più gratuita delle attività; le regole dell’arte, in particolare della musica dove il canone dà addirittura nome a un preciso tipo di componimento musicale nato nel XV secolo fatto di contrappunti e voci che si imitano, componimento che indoviniamo necessiti di misurazioni di precisione e complessità matematica; le regole del diritto e della religione: se infatti il canone agli inizi dell’epoca cristiana indica la norma religiosa della fede dei riti e dei costumi, presto si allarga a significare anche il tributo dovuto ai poteri dominanti, amministrativi o politici.

Troviamo infine tracce della regola anche nella sfera della vita quotidiana, quando indica una sorta di ciclicità (regolarità) della vita, una sua propria misura che ciascuno - personalmente o come gruppo - deve trovare a sé appropriata, un ritmo di tempi e spazi.

Si tratta dunque di una parola densa, complessa, magnifica, che riguarda esplicitamente la persona umana; gli altri viventi, invece, o hanno scritta dentro di sé una regola, oppure sono addomesticati, cioè ricevono regole dall’uomo. Nella sua storia il plesso tematico della regola si mostra polisemico, e variabile come i più complessi fuochi d’artificio, ma mantenendo sempre alla base quell’immagine archetipa del paziente artigiano che nel silenzio della concentrazione osserva e misura i pezzi sciolti che nel suo lavoro assemblerà e modellerà in un’armonia prima e altrimenti sconosciuta.

Tra regole e modelli il passo è breve, tanto quanto tra artigianato e arte. Solo che tra artigianato e arte c’è una differenza: l’artigiano fa degli oggetti che gli vengono richiesti e ha le sue regole per procedere; l’arte anche ha le sue regole per procedere, però ciò che nasce dall’arte è un unicum. La regola di vita del cristiano è collocabile più nell’orizzonte della regola d’arte che in quello della regola tecnica dell’artigiano.

Se questo è il senso etimologico, originario della parola “regola”, nella tradizione cristiana però, fin dalle prime generazioni, il termine è venuto a indicare quel complesso di indicazioni e misure (nell’ambito della parola e del silenzio, della preghiera e del lavoro, del rito e del pensiero, delle relazioni e delle passività) con le quali è ordinata, per il raggiungimento di una pienezza spirituale, la vita individuale e collettiva di una comunità di cristiani che si sono chiamati inizialmente monaci, o anche monotropoi, viventi cioè secondo un solo e medesimo ordine, stile di vita. Ha cioè indicato un modo di esistere umanamente, un modo di essere in relazione, un modo di stare al mondo. Distinguendosi, in tal senso, come testo squisitamente spirituale e non tecnico né giuridico.

 

Letture contemporanee

(Ndr. Capitolo omesso)

 

Regola di vita ed emozioni

 

Un tratto caratteristico della nostra epoca, che attraversa intrinsecamente la questione di una regola di vita, è il peso e il ruolo attribuito alla sfera emozionale, che tende oggi ad assumere un ruolo dispotico nella decisione del proprio stile di vita.

La regola di vita, nel contesto cristiano ma già anche, in origine, nel contesto della paideia greca di matrice platonica o stoica, è data ai giovani come proposta di un ordine al mondo delle emozioni: il contesto greco - nel dare un ordine - chiede di sottomettere le emozioni alla ragione, nella spiritualità biblica si elabora un ordine che delle emozioni interpreti il senso, l’intuito di verità.

Oggi invece la nostra è una cultura dell’emozione eretta a principio dispotico: frammentata e molto fragile, direi caotica, l’emozione assume la pretesa di dire la verità del cuore: «mi sento», «non mi sento». Non si tratta di demonizzare a priori o sottovalutare questa dilagante potenza dell’emozione, che è la faccia più immediatamente reattiva dei sentimenti: rispetto al cuore in ascolto, che si inoltra nella vita, nelle relazioni, nella storia, i sentimenti sono il luogo più generativo di futuro - ma allo stadio magmatico, preliminare. Il primo movimento del sentimento è quello dell’emozione, peraltro ancora grezzo e non elaborato dagli affetti. L’emozione presagisce, ma non dice.

Nell’epoca immediatamente precedente alla nostra, che nelle sue origini faceva capo ancora al giansenismo, movimento all’inizio della cultura moderna, il profilo emozionale nel contesto educativo era stato severamente screditato da molti sospetti, addirittura sanzionato, non solo in ambito di fede confessionale, ma anche in ambito laico; l’ideale coltivato dell’uomo nobile, dell’uomo adulto, maturo, si proponeva la capacità di mantenere sempre sotto controllo le emozioni, dominate dentro e fuori e mai comunque troppo manifeste.

Riproposta da una cultura e da una società come le nostre, in cui il sacro dimostra di non essersi affatto eclissato (semmai il sacro è diventato pervasivo, in quella pseudoreligiosità che papa Francesco definisce di “tipo spray”[1]), l’emozione più vibrante oggi pretende di dare una percezione del sacro; assume dispoticamente il ruolo di rivelare dove si muove più profondamente il legame tra noi e il parlare di Dio. In realtà si richiede un’opera di discernimento, attraverso cui adeguatamente decantare e recuperare la forza rivelativa dell’emozione all’interno del discorso antropologico complessivo.

L’emozione è costante interfaccia della nostra vita gettata nel mondo, nelle relazioni, nell’imprevedibile. E soprattutto gettata nell’itinerario della fede, che prende corpo e anima. L’emozione, in quanto condizione dell’umano di passività vitale, di affezione rispetto alla realtà, non va mai esorcizzata come interferenza indebita, o condizionamento negativo: ma richiede attento ascolto, discernimento e educazione - questa è l’opera propria della regola di vita, in tutte le culture dell’umano.

Più acutamente, oggi l’emozione viene interpretata in chiave psicologica come imprescindibile, promettente preparazione, ovvero come predisposizione alla decisione e all’azione. In linguaggio ermeneutico diremmo: l’essere affetti emotivamente da una realtà fornisce un’ineliminabile precomprensione, evidenziandone la determinazione affettiva di fondo (Grundbestimmung), quella per cui comunque e sempre in ogni istante e impresa della nostra vita siamo emotivamente situati. Il problema sarà semmai che l’emozione non operi dispoticamente sulla libertà pregiudicando il processo interpretativo, l’azione su cui si affaccia, ma ne sia correttamente investita.

L’emozione erotica, ad esempio, passando attraverso l’attenzione sfocia nell’ammirazione (il Cantico dei Cantici è un modello eccellente di questo pathos) e si compie come innamoramento, conoscenza dell’alterità cui liberamente scelgo di appartenere.

A tal proposito una regola di vita si propone come processo di paideia a emozioni che maturino in scelte libere e non rimangano allo stadio di una sorta di autoaffezione. La questione che la regola di vita elabora è che l’emozione non pregiudichi il giudizio e l’azione, ma vi sia correttamente investita passando attraverso l’attestazione di una verità che le dà nome, e trasformandosi presto in ammirazione, in meraviglia, in stupore che prelude all’azione più alta dell’uomo.

Pensiamo ai grandi incontri con la presenza di Dio nella Bibbia: eventi dell’anima e inseparabilmente del corpo, della storia, si aprono destando nell’interlocutore di Dio un’emozione travolgente, che per sé spinge a sottrarsi. Ma l’emozione spinge oltre l’impulso immediato, quando viene educata a un percorso - che per Geremia, ad esempio, diventerà uno stile inconfondibile di profezia:

 

Mi fu rivolta questa parola del Signore:

«Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto,

prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato;

ti ho stabilito profeta delle nazioni».

Risposi: «Ahimè, Signore Dio!

Ecco, io non so parlare, perché sono giovane».

Ma il Signore mi disse: «Non dire: “Sono giovane”.

Tu andrai da tutti coloro a cui ti manderò

e dirai tutto quello che io ti ordinerò.

Non aver paura di fronte a loro,

perché io sono con te per proteggerti» (Ger 1, 4-8).

 

Spavento, fuga, paura, spaesamento totale, si aprono poi - attraverso l’ascolto stupito («mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre», dirà nelle sue confessioni Geremia: 20, 7) - a diventare voce salda di profezia.

Possiamo pensare al peso dell’emozione nel cammino per credere, anche rileggendo nella nostra stessa storia personale i momenti in cui l’emozione è stata più travolgente perché portava in sé il presentimento di un “oltre”, preparava, disegnava la soglia a un avvenimento di trasformazione, di superamento, a una decisione importante.

Ebbene, rispetto ai momenti originari dell’esistenza, la regola di vita è uno strumento che in base ai tratti costitutivi di questi eventi - in forma “memoriale” - aiuta a dare una forma all’emozione e a renderla soglia per una relazione inverante e mai scrigno per un autopossesso.

Percorrere una via spirituale implica perciò un “met-odo” (= letteralmente: “con-via”) proprio e anzitutto riguardo alla gestione degli affetti, dei sentimenti, delle emozioni. Non si può percorrere un cammino spirituale, cioè umano in senso pieno, solo gettati sull’emozione del momento. È necessario discernere e decidere il fondamento, le priorità, i pilastri, il ritmo dell’incedere, le soste, i prevedibili ostacoli e inconvenienti, le lotte e come affrontarle. Tutto questo sta dentro l’orizzonte di una regola di vita.

Infine, ci sono nella vita dei punti di fragilità che sono quelli in cui più facilmente l’ordine fatto da mano umana si rompe. O perché siamo sopraffatti, o perché ci sono cose che ci attirano con prepotenza e alle quali non sappiamo resistere, o per altra divagazione. Gli antichi padri greci li chiamavano i loghismoi, i cattivi pensieri. Pertanto, un capitolo fondamentale della regola di vita - lo vedremo, sulla scorta anche di esempi tradizionali, come la Regola di san Benedetto - è quello della lotta spirituale per uscire dall’influsso dispotico dei vizi.

La Regola di san Benedetto, che in modo paradossale ha potuto essere indicata come il fondamento della nascente cultura europea, ha dato in proposito indicazioni illuminanti: preziose nella loro valenza simbolica piuttosto che nella materialità cosificante di pratiche. Molto sintetiche - per certi versi anche datate - dal punto di vista dei contenuti, il loro valore è che suggeriscono un dinamismo, una direzione di senso e dei fondamenti. La “piccola regola” (così la nomina lo stesso Benedetto) delinea gli atteggiamenti originari dello spirito e un itinerario di discernimento e di lotta spirituale, piuttosto che fissare nel dettaglio meccanismi tecnico-ascetici.

Sappiamo che c’è bisogno di vigilanza e attenzione spirituale - e la Regola abilita a questo. Nella maturazione di un’umanità adulta è indispensabile apprendere a nominare le proprie “passioni” o passività rispetto all’inautentico, al male che viene sempre dal di fuori del cuore ma vi si insinua con la pretesa di insediarsi da padrone dispotico.

In tal senso, della lotta spirituale, dobbiamo, sì, ricevere una regola, ma contemporaneamente è decisiva la scelta di libertà di plasmarla noi personalmente: riceverla creandola, perché il modo adeguato di ricevere una regola è ricrearla sulla propria concreta, piccola e grande, storia di salvezza. E quest’opera di “ri-creazione” è tipicamente spirituale: tale da implicare lo spirito della persona umana nella sua gratuita sinergia con lo Spirito di Dio, donato nel battesimo.

 

La scrittura di una regola di vita,

atto spirituale

 

È illuminante, in tal senso, seguire il nascere e lo sviluppo delle regole monastiche antiche nelle prime espressioni cristiane - parlo ad esempio di Basilio, di Pacomio, dei santi Quattro Padri, prima di Benedetto. La trasmissione di una regola era atto squisitamente spirituale: la regola maturata in prima battuta dall’esperienza dell’iniziatore, veniva offerta come frutto di una rivelazione ricevuta da fonte angelica. Pacomio, che è stato il primo estensore di una regola cenobitica, la consegnava ai suoi dicendo: «L’ho ricevuta da un angelo». Non è un parlare mitico: corrisponde alla percezione di sé nell’atto di configurare una regola dal vissuto, come mosso da Dio. Pacomio (e chi ne narra la vita: ce ne sono pervenute più versioni, di mani differenti) si sente spinto, abitato, da una presenza “altra”, la stessa che fin da principio del suo semplicissimo e travolgente itinerario di fede lo illumina, lo investe, lo custodisce e orienta - com’è stata la stessa, splendida, vocazione battesimale di Pacomio.

In Pacomio, che da soldato pagano viene condotto al battesimo attraverso l’esperienza sconvolgente della solidarietà dei cristiani, la vocazione battesimale e la vocazione alla vita monastica cenobitica di fatto coincidono: è proprio l’esperienza dell’incontro con Gesù, attraverso la fraternità gratuita dei cristiani, a innescare in lui il processo per il quale si sente responsabile di radunare altri e di configurare una forma di vita.

Sarebbe - per il nostro intento - un testo molto utile da rileggere (anche se non è di lettura immediata), quello della vita di Pacomio, per cogliere un itinerario emblematico: come nasce una regola di vita, inizialmente per sé e conseguentemente rivolta ad altri. La spinta iniziale viene dal percepirsi incontrati da Altri, e perciò convocati in modo nuovo vivi, creati amati, e resi termine di una gratuità imprevedibile, sorprendente. Sono solo spunti, per chi voglia addentrarsi nella ricerca.

 

La domanda oggi di fronte alla regola di vita

 

A questo punto del nostro ideale itinerario di ricerca, dopo aver intravisto l’origine del termine di cui vogliamo occuparci, dopo aver accennato alla sua accezione plurima, dopo aver accennato al contesto culturale del nostro tempo, ci poniamo la domanda cruciale: nella cultura cui apparteniamo - e il riferimento preminente è a coloro che vivono la trasgressione, l’uscita dalle regole, come principale espressione di libertà individuale - “regola” è ormai una metafora morta?

Visto che siamo in un’epoca segnata, dicono i sociologi, da una liquidità dominante (liquido è ciò che per eccellenza sfugge alla forma; ciò che, se assume forma, è solo provvisoriamente), ci domandiamo: parlare di regola è un fatto sorpassato, si tratta di un relitto nel generale logoramento dei simboli dell’antica paideia cristiana? E una domanda cruciale per un percorso come quello che ci proponiamo, per niente accademico ma piuttosto spirituale. E l’affrontiamo volgendoci alla sua radice: l’esistenza nella fede. La differenza sostanziale rispetto a espressioni, pur analoghe, in cui - attraverso le epoche e fino ad oggi - s’intende mettere ordine nella vita umana, imprimerle uno stile, sta proprio qui: la fede.

Quando Paolo si esprime così: «Questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2, 20), mette in luce la singolarità che viene all’esistenza propria quando è intesa in senso radicalmente dialogico, cioè come legame con Gesù, il Cristo.

Nel Vangelo di Gesù viene incontro il compimento della volontà originaria di Dio verso la creatura umana, volontà che in ogni concreta esistenza si attesta: stringere alleanza, fare grazia. Nell’orizzonte della rivelazione cristiana, il mistero di Dio si rivela e suscita il suo interlocutore mediante una “Parola” - «In principio era la Parola» (cf. Gv 1, 1) - rivolta per amore dal Creatore stesso alla creatura. La Parola originaria suscita la coscienza umana e le si rivela come amore: e l’amore, per il suo intrinseco dinamismo, proprio in quanto grazia, si fa comandamento: «Amerai!». La Parola originaria perciò, per la sua stessa intrinseca pienezza, suscita legame di reciprocità e dispone la vita: libertà e memoria. Non viene impressa con prepotenza la Parola originaria, ma certamente ha una sua assolutezza che ordina la vita. Perciò, se guardiamo all’Inizio (che lascia impronta di sé in ogni concreta esistenza umana: si tratta di trovare lo sguardo che vede), scopriamo distintamente che alla vita nel suo passaggio dal caos al cosmo appartiene un ordine, fatto di separazioni e ingiunzioni - «Sia la luce!», «Le acque si raccolgano!», «La terra produca!», «Siate fecondi!», «Vi do ogni erba» - che portano traccia del tocco originario - gratuito dono di vita a ciò che è nulla e cura amorosa della sua fragilità informe. Qualcosa è avvenuto - in principio -, che non dipende da noi eppure ci riguarda intimamente, e - attraverso gratitudine e meraviglia - per sempre ordina in noi la vita.

E la grazia dell’Inizio ha infinite rifrazioni nella vita: fino alla quotidianità, fino alla regola che ordina il ritmo dei giorni. Come l’etimo ci ha suggerito, la regola aiuta, ma non è fine a se stessa: è traccia e memoria grata. Rimanda sempre a un’origine ed è compresa correttamente solo se di questa origine non perdiamo la percezione. C’è in principio la Parola, la presenza amorosa di chi ha dato vita, ha posto dentro di noi un ordine disponendo così l’orizzonte della libertà. La regola di vita, come piccola goccia sgorgata da quell’originaria scaturigine cosmica, ha intrinseco carattere memoriale.

La regola che in principio Dio Creatore ha dato all’uomo creandolo con la parola fa riferimento a una libertà situata e subito già anche a un’originaria insidia: nel mondo, nell’universo lasciato a se stesso c’è un mistero di anomia, di sregolatezza (i “ribelli”, o gli “empi”, sono figure che solcano tutte le preghiere del Salterio, come la storia dell’umano), mysterium iniquitatis che si è insinuato, lo sappiamo dalla narrazione della storia di salvezza, in maniera surrettizia, diabolica, profondamente parassitaria: è la trasgressione, l’enigma dell’animo umano, strettamente correlato al tema della regola.

Pensare alle grandi domande e scegliere, configurarsi su una «piccola regola per l’inizio, l’incessante inizio che è anima dell’umano» (è il modo di esprimersi di san Benedetto nella presentazione della sua opera): ecco l’arte di vivere. La sapienza del dare forma memoriale, del resistere e dell’arrendersi. Per la vita.

La vita umana infatti non è puro istinto vitale e non si alimenta come indeterminato slancio, affermazione di sé, volontà di potenza. La libertà, dentro un flusso di generazioni, ha breve respiro se non si esercita - nell’obbedienza - a trascendersi nell’amore.

Tra il momento della grazia e l’ora della crisi (in cui sembra saltare ogni ordine, ed è proprio per  ciò importante aver previamente interiorizzato i fondamenti), l’anima umana riconosce un ritmo e degli ancoraggi. Un ritmo e dei riferimenti sorgivi, lo scorrere di un fiume, e una misura.

Siamo infatti in un cosmo e non in un caos. Anche se il caos persiste nel minacciare il cosmo.

Ma oggi, in un tempo e in luoghi umani tutti segnati da “crisi”, quale ordine resiste, quale regola tiene? Consapevoli di muoverci nell’orizzonte e secondo la logica della fede, sappiamo bene che la risposta che diamo a questo interrogativo ci implica, ci chiama in causa. Abbozziamo tuttavia un percorso di risposta: non è immediata.

Resiste e ci orienta quella regola che in noi e da noi si origina da un atteggiamento fondamentale di attenzione e di ascolto, dalla capacità di far memoria di eventi originari e di implicarsi in legami fondamentali. Di ricevere l’eredità di una generazione. E, nel far questo, di “restituirla” ad altri che verranno[2]. Capacità di narrare il vissuto. Di consegnare agli altri il significato del vivere, attraverso la maturazione apportata dalla nostra libertà che si gioca.

Si tratta, dunque, di trovare l’unità di misura che ci permette di dare ordine alla vita. Per imparare a vivere - e a morire vivi. Cose che s’imparano? Occorre intendersi: non s’imparano come una tecnica di autopossesso, ma come arte di vivere, imparando dalle cose “patite”. Perché anche morire è una “passione”.

Gesù, sicuramente - lo vedremo più avanti -, ha inteso proporre una sua sfida in tal senso, un’unità di misura. Con il suo vivere e il suo narrare la vita, Gesù ha proposto un’arte di vivere. E il suo modo di attraversare la morte tendendo alla vita ci schiude il codice fondamentale per ogni regola di vita. Morte non rifiutata, non rimossa, non esorcizzata - artificiosamente nascondendola, o differenziandoci dagli altri -, ma attraversata e vinta.

Stiamo parlando di vita cristiana come “stile”[3]. “Stile”, in letteratura e in genere nel campo dell’arte, definisce il sistema di mezzi o di codici utilizzati nella produzione di un’opera. È un termine comunque legato alla manifestazione di una unicità incomparabile e piena di senso. Allude alla coerenza interna di una figura, o di una forma di vita che - in quanto tale - rivela lo spirito dell’autore. Diventa, considerato in senso globale, emblema di un modo di abitare il mondo.

Ogni stile consiste nel dare una forma agli elementi del mondo che permettono di orientarlo verso quella che è riconosciuta la sua Presenza essenziale, dinamismo di ogni processo. In tal modo lo si libera dai tratti che distraggono o l’appesantiscono equivocamente. Si restituisce, leggibile, la struttura propria di chiamata e di risposta.

Stile, ciò che è attribuito al genio, cioè la capacità di aprire il mondo, tramite il proprio modo di immaginare la realtà, a un senso che apre il futuro. Nel contesto classico è prerogativa dell’eroe, del condottiero, del sovrano. Nel contesto cristiano lo stile è opera del santo, del profeta: essi inaugurano «stili di compimento», secondo le parole di P. Beauchamp, sulle orme di Gesù.

Parleremo perciò della regola di vita come elaborazione di “stili di compimento”, rivalutando, in forma radicalmente critica, l’idea della storia umana come fiume che scorre per poi ritornare alla sorgente, della continuità dell’umano attraverso una logica del divenire che vede la salvezza come successive riprese dell’origine: Gesù ci ha detto che nella vita del discepolo si va di nascita in nascita: «La creazione va dalla prima alla seconda nascita», scrive J.-P. Sonnet. E in questo processo, sicuramente l’elaborazione di una regola di vita, la scoperta di una “legge”, ha funzione maieutica. Strumento singolare e prezioso per maturare uno stile, una bellezza.

La regola di vita si dice in molti modi. Gesù ha pronunciato, con il suo insegnamento, con le parabole, con i suoi gesti e infine con la sua consegna ultima offerta come «esempio» (Gv 13, 15), come modello dinamico, la sintesi compiuta - sintesi dialettica di contestazione a ogni fissità legalista -. Ma Gesù stesso ascolta e ospita tutti gli abbozzi dei suoi fratelli e delle sue sorelle, orientandoli.

Il riferimento a Gesù è fondamentale perché in lui ogni persona umana trova la sua “misura”, l’unità della vita attorno al senso. Da lui impariamo il carattere sostanzialmente “responsoriale” della regola di vita - se inteso in contesto di fede cristiana - che la collega strettamente con la vita concreta. L’importanza dell’esperienza perché nasca una regola: che cosa è esperienza? La lettura della sottile scrittura della vita: «Che altro è la vita umana - scrive il monaco Isacco il Siro -, se non l’esegesi di quella sua kenosi che adempì la piena misura dell’umano?». Ogni regola di vita delinea lo stile di questa esegesi vivente.

 


[1] Cfr. ad esempio l’intervista su «la Repubblica» del 22 gennaio 2017.

[2] Cfr. F. Stoppa, La restituzione. Perché si è rotto il patto tra le generazioni, Feltrinelli, Milano 2011.

[3] Cfr. Ch. Theobald, Lo stile della vita cristiana, Qiqajon, Magnano 2015.

 


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15 gennaio 2023                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net