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San Placido - Vita, culto e iconografia San Mauro raccontato dai Bollandisti Il male di san Mauro Benedizione di san Mauro per gli ammalati |
FONDAZIONI E DISCEPOLI DI SAN BENEDETTO
Estratto dal Capitolo terzo “DOPO SAN
BENEDETTO”
di Ivan Gobry
Città Nuova Editrice
Prime fondazioni | San Placido | San Mauro |
Grande è la nostra ignoranza sugli
inizi dell’Ordine di san Benedetto. La
maggior parte delle opere che potrebbero ragguagliarci sul primo secolo
dell’espansione benedettina in Italia sono andate perdute. Sono giunte a noi
solo poche notizie nei Dialoghi di san Gregorio e nella Storia dei Longobardi di
Paolo Diacono, cui bisogna aggiungere le tradizioni locali, molte delle quali
risalgono alle origini stesse.
I dodici monasteri fondati da san Benedetto a Subiaco furono distrutti dai
Longobardi. Due soli tornarono in seguito a vivere: il
Sacro Speco, sorto nella grotta del
fondatore e divenuto San Benedetto; e Santi Cosma e Damiano, ribattezzato più
tardi Santa Scolastica, dove il Padre dei monaci avrebbe vissuto nei suoi ultimi
anni a Subiaco. Il primo, che è tuttora occupato da una piccola comunità,
conserva nel giardino il cespuglio spinoso su cui si gettò il giovane Benedetto
al momento della grande tentazione. Il secondo, i cui abati si dicono legittimi
successori di san Benedetto e che nel XIV secolo ebbe una grande importanza nel
rinnovamento dell’Ordine, è un’imponente costruzione con una grande chiesa
abbaziale, che accoglie ancor oggi una numerosa comunità. Poco lungi da esso si
trova l’oratorio Santa Croce, costruito nel luogo dove san Benedetto ricevette
il santo abito dalle mani del monaco Romano.
Quanto agli altri dieci monasteri, o sono restati in rovina, o sono stati
sostituiti con cappelle commemorative. Erano: Sant’Angelo, sulla riva del lago;
Santa Maria, che porto in seguito il nome di San Lorenzo: San Girolamo; San
Giovanni Battista, così intitolato in onore del modello dei monaci, chiamato poi
San Giovanni dell’Acqua, a motivo della fonte che vi scaturiva, di cui sussiste
solo il sito selvaggio; San Clemente; San Biagio, ribattezzato in San Romano;
San Michele Arcangelo, sopra il Sacro Speco; San Vittorino, ai piedi del monte
Poriano, Sant'Andrea; e, infine, più in basso, la Vita Eterna, chiamato poi la
Valle Santa.
Da san Gregorio, apprendiamo il nome di un abate che successe a san Benedetto
come superiore di Subiaco e senza dubbio come superiore generale dei dodici
monasteri; si chiamava Onorato. Ma è tutto quello che sappiamo, a parte il fatto
storico che Subiaco e stato distrutto nel 601 dai Longobardi e che i suoi
monaci, rifugiati a Roma, hanno fondato sul Celio l’abbazia di Sant’Erasrno.
Siamo un po’ meglio informati sui primi abati di Montecassino. Il primo eletto
dopo il fondatore fu san Costantino, che esercito l’abbaziato dal 555 al 572
circa; ma non abbiamo nessuna eco degli avvenimenti che si svolsero durante
questi diciassette anni. Suo successore fu san Simplicio, il quale, se vogliamo
credere a san Benedetto d’Aniane, si sarebbe molto adoperato a diffondere la
regola benedettina. Dopo di lui, il monastero fu governato, successivamente, da
san Vitale e da san Bonito. Questi, il cui abbaziato inizio intorno al 587,
organizzò l’esodo dei monaci a Roma al momento del sacco longobardo e fondò sul
colle del Laterano il monastero di San Giovanni.
Quanto a Santo Stefano dei Monti, presso Terracina, fondato da san Benedetto,
san Gregorio non ci informa sul primo abate, limitandosi a dirci che san
Benedetto vi inviò due dei suoi discepoli, i gemelli Gregorio e Specioso.
Una tradizione vuole che sant’Eutizio e il suo discepolo Fiorenzo, monaci di
Norcia, abbiano eretto a Foligno il monastero di San Silvestro e lo abbiano
posto sotto la regola di san Benedetto. Si tratta certamente qui di un
anacronismo, che contraddice del resto ciò che sappiamo dei due santi religiosi:
si può supporre solo che la comunità di San Silvestro, chiunque ne sia stato
l’abate, abbia adottato questa regola più tardi, probabilmente all’epoca di san
Simplicio, il che spiegherebbe l’affermazione di Benedetto d’Aniane.
Restano i due più celebri figli di san Benedetto, che inviò a diffondere il suo
messaggio quand’era in vita: san Placido e san Mauro. Ma se i personaggi sono
indubbiamente esistiti, la critica storica fa serie riserve sui particolari
della loro vita.
Placido
fu il figlio prediletto di Benedetto, il fiore dei suoi discepoli, quello che
san Teodoro il Santificato fu per il grande san Pacomio. Era figlio del senatore
Tertullio, della gente Anicia, I genitori, che avevano una profonda pietà, si
recarono a Montecassino col ragazzo che aveva raggiunto l’età di sette anni e lo
affidarono all'abate. A imitazione della regola del Maestro, anche quella di san
Benedetto prevedeva l'educazione dei bambini in monastero: non a titolo di
allievi, come poi è stato il caso nei collegi annessi ai conventi, ma a titolo
di oblati, cioè di offerti, nei limiti richiesti dal rispetto della loro libertà
futura. Erano destinati a divenire in età adulta dei professi, sempre che
avessero perseverato. La loro lunga permanenza tra i religiosi costituiva un
apprendistato. E sappiamo quanti risultati al di là di ogni attesa ha prodotto
quest’uso nel corso della storia del monachesimo.
Il giovane Placido sarebbe forse restato tutta la vita a Montecassino, se suo
padre non avesse fatto dono a san Benedetto di un dominio che possedeva in
Sicilia perché vi erigesse una fondazione. Per rivendicare il possesso di questa
terra occorreva l’intervento di una persona accreditata: tanto meglio se era
l’erede stesso. Cosi, l'abate inviò laggiù Placido, che non aveva ancora
trent’anni, con alcuni compagni. Gli esordi furono felici: i fondatori
sbarcarono a Messina, raggiunsero il dominio, lo requisirono, costruirono un
monastero sotto il titolo di San Giovanni Battista e si dedicarono con fervore
alla vita conventuale secondo la regola elaborata dal Padre. E, a fianco della
regola scritta, ci dicono gli Atti di san
Placido, il giovane abate fu la regola vivente: eccettuati gli avvertimenti
necessari al governo della comunità, manteneva un silenzio perenne; portava il
cilicio, dormiva per terra, mangiava solo tre volte alla settimana. In lui
rinasceva la razza dei monaci d’Egitto. Nei rapporti con i fratelli, manifestava
l’attenzione, la dolcezza e la tenerezza di un Pacomio; la sua uguaglianza
d’umore era accompagnata da una profonda umiltà. Sotto la sua amorevole
autorità, la comunità salì presto a trenta religiosi.
La fama della santità e dei miracoli dell’abate di Messina giunse sul
continente. E suscitò in Eutichio e Vittorino, fratelli di Placido, e in Flavia,
sua sorella, un forte desiderio di rivederlo. Si trattò d’un incontro felice,
che si protrasse in terra solo per pochi giorni, ma si prolungò in cielo: non
appena, infatti, la famiglia degli Anici si trovò riunita, Mamuscia, pirata
saraceno, sbarcò sulla costa con la sua banda. Scorto il monastero, vi si
precipitò, ne sfondò le porte e intimò ai religiosi e ai loro ospiti, fatti
comparire in sua presenza, di rinunciare a Cristo. Tutti rifiutarono. Perirono
in crudeli tormenti, confessando il nome di Gesù. Un solo monaco fu risparmiato,
un certo Gordiano. Tanta misericordia da parte di fanatici cosi feroci fa
sorgere qualche dubbio. Questo fratello fu un rinnegato oppure (il che sarebbe
meno grave per la sua anima, ma molto di più per la verità storica) usurpò la
qualità di compagno di san Placido? Invero, fu lui che, dopo che i carnefici se
ne furono andati, diede ai martiri sepoltura nella chiesa conventuale e,
raggiunta Costantinopoli, scrisse gli
Atti di questi santi. Non é tuttavia vietato supporre che Gordiano ricevette
salva gratuitamente la vita per una qualche bizzarria di quelle alle quali
indulgono talora i cattivi. Comunque, questi
Atti, tradotti in latino, vennero
portati in seguito in Italia, dove un monaco di Montecassino, Pietro Diacono,
nel XII secolo, li rielaborò in una Vita
di san Placido più corposa.
L’essenziale di questa esistenza breve e stupenda pare accertato. Un particolare
degli Atti, tuttavia, merita di
essere criticato. Ed è sorprendente che il puntiglioso dom Bulteau ne parli
senza muovere obiezioni. Si tratta della data del martirio, indicata come il 5
ottobre dell’anno 13 del regno di Giustiniano, cioè del 539. Ora, avendo san
Benedetto fondato Montecassino nel 529, il giovane Placido poteva avere
all’epoca indicata diciassette anni al massimo. Due soluzioni si presentano
possibili, tenendo conto dei due elementi forniti dagli
Atti di san Placido: l’età del suo
ingresso a Montecassino: sette anni; l’età approssimativa del suo martirio: non
aveva ancora trent’anni. Prima soluzione; bisogna leggere, non
«l’anno
13 di Giustiniano»,
ma
«l’anno
23 di Giustiniano»,
il che ci obbliga a collocare l’oblazione del fanciullo alla fondazione stessa
dell’abbazia. Secondo questa cronologia, Placido nasce nel 522, è affidato a san
Benedetto nel 529, fonda il monastero di Messina nel 548 e subisce il martirio a
27 anni nel 549. Seconda soluzione: si deve intendere
«non
aveva ancora trent’anni»
nel senso di
«aveva
quasi trent’anni, aveva superato i ventinove».
In questo caso, bisogna leggere, quanto alla data del martirio,
«l’anno
33 del regno di Giustiniano». Secondo questa cronologia, Placido nasce nel 530,
è affidato a san Benedetto nel 537, fonda il monastero di Messina nel 558 e
subisce il martirio a ventinove anni nel 559. Poiché è san Benedetto stesso che
ha inviato il suo discepolo in Sicilia, una tale interpretazione fa arretrare la
morte del patriarca al 560 — il che non è impossibile e rappresenta del resto il
limite entro il quale la situano gli storici attuali.
Dal XVII secolo, dom Bulteau, seguito da dom Ruinard, avevano di volta in volta
risposto a queste messe in dubbio radicali. Odone di Glanfeuil ha creduto
certamente di rendere un servizio alla causa del fondatore della sua abbazia
aggiungendo al lavoro primitivo particolari e commenti, ma nel complesso si
tratta di poca cosa e l’autenticità del lavoro traspare attraverso l’edizione
rivista e corretta. Odone non ha fatto il proprio nome per scomparire dietro
l’autore vero e la sua discrezione non può essere giudicata una soperchieria.
Quanto all’argomento basato sul fatto che Gregorio di Tours non ha parlato di
san Mauro, cade non appena si costata che ha dimenticato anche molti altri suoi
contemporanei, che sarebbero oggi sconosciuti se avessimo dovuto contare
soltanto su di lui, a cominciare dai santi Calais (Carileffo), Gildas e
Maglorio, che vivevano nella sua stessa provincia ecclesiastica. Senza ascoltare
queste voci di buonsenso, alcuni storici hanno, alla fine del secolo scorso e al
principio del presente, ripreso questi attacchi in regola contro l’esistenza di
san Mauro. Dom Philibert Schmitz, autore di una grande
Histoire de l’Ordre de saint Benoît,
sulle loro orme, non accorda a san Mauro se non una semplice nota, nella quale
da atto solo delle critiche negative, omettendo — un atteggiamento che rivela
parzialità in uno storico — di menzionare le critiche positive. Ma queste ultime
hanno di gran lunga il sopravvento, soprattutto se si aggiunge che un monaco
degno come Odone di Glanfeuil merita stima a priori: è comprensibile, certo, che
ritocchi un’opera giudicata da lui incompleta e scorretta qui e là; non é
comprensibile invece che inventi di sana pianta un santo e la sua vita al solo
scopo di collocarlo sugli altari.
Ma percorriamo il corso di questa vita, come ce la racconta Fausto. Mauro,
dodicenne, fu affidato a san Benedetto da suo padre, il senatore Equizio. Subito
conquistato dall’ideale monastico, decise di procedere sulla via della
perfezione: portava il cilicio, si coricava su un mucchio di sabbia, mangiava
due volte alla settimana. Ardente nella preghiera, gli capitava di passare la
notte a cantare i salmi. Tutte queste austerità non gli impedivano di fare la
posta ai servizi che poteva rendere ai fratelli. Per cui san Benedetto credette
utile per la comunità di farne il suo priore quand’era ancora molto giovane. E
chiese per lui anche il diaconato.
Le ragioni della sua partenza per la Francia sono piuttosto misteriose. Secondo
Fausto, sant’Innocenzo vescovo di Mans, avrebbe inviato il sua arcidiacono da
san Benedetto per chiedergli di rnandargli i monaci più perfetti allo scopo di
erigere una fondazione nella sua diocesi. Non é impossibile, ma non si capisce
come la fama di Montecassino, che a quell’epoca non superava i confini
dell’Italia centrale, sarebbe potuta giungere fino al santo vescovo. Sta di
fatto, comunque, che per questa missione in terra franca l’abate scelse il suo
priore e gli aggregò quattro compagni: Simplicio, Costantiniano, Antonio e
Fausto. Il gruppo portava con sé la regola e alcune reliquie. Varcarono le Alpi
e si fermarono a Saint-Maurice d’Aguane, dove Mauro compì numerasi miracoli, poi
ad Auxerre, dove ci si attenderebbe di vederli ospitati a Saint-Germain, ma ci
viene detto invece che lo furono al monastero di Fontrouge, costruito da san
Romano: lo stesso, precisa il narratore, che aveva data l’abito a san Benedetto.
E qui è permesso dubitare. Giunti a Orleans, appresero che il vescovo di Mans
era morto e che al suo posto sedeva l’usurpatore Scienfroy, poco favorevole alla
loro installazione.
Fu allora che intervenne un grande signore di nome Floro, amico di re Teodeberto
d’Austrasia, che offrì ai vagabondi di Dio la terra di Glanfeuil (Glannafolium),
nella diocesi d’Angers, e vi fece costruire lui stesso il monastero, che sarebbe
divenuto poi la grande abbazia di Saint-Maur. Inoltre, Floro affidò a Mauro suo
figlio Bertulfo, che aveva otto anni. Questi avvenimenti si svolgevano intorno
al 540: Mauro doveva essere tra i venticinque e i trent’anni. Nel 552, Bertulfo
chiese di essere ammesso tra i monaci di Glanfeuil. La cerimonia di vestizione
fu presieduta da re Teodeberto, che accrebbe le donazioni al monastero. Nel 554,
sant’Eutropio, vescovo d’Angers, venne a consacrare la chiesa abbaziale,
dedicata a san Pietro. L’abbazia si ampliò in modo tale che fu necessario
aggiungere altri tre luoghi di culto: Saint-Martin, Saint-Séverin e
Saint-Michel. Il fondatore aveva fatto costruire centoquaranta celle, cifra
massima da lui stabilita per costituire una comunità governabile: nel 572 erano
ormai tutte occupate e numerosi oblati, usciti in maggioranza dall’aristocrazia
merovingia, popolavano l’edificio riservato ai fanciulli.
Giunto a un’età molta avanzata, Mauro rinunciò alla sua funzione, si ritirò con
due compagni in una cella costruita pressa la chiesa di Saint-Martin e indicò
Bertulfo a succedergli — iniziativa che non si allontanava dalla regola, perché
gli elettori restavano liberi di seguire o meno questa scelta. Fu allora che una
mortalità inspiegabile si abbatté sull'abbazia: in cinque mesi, centosedici
religiosi passarono a miglior vita. Mauro fu il centodiciassettesimo, ma sembra
che la causa della sua morte sia stata piuttosto la vecchiaia, sebbene la data
del 584, avanzata dagli specialisti, ne faccia allora appena un settuagenario.
L’abate Bertulfo lo seppellì addossato all’altare di san Martino e collocò
accanto al suo corpo, con una reliquia di santo Stefano, una pergamena
attestante che lì era sepolto l’abate Mauro, diacono e discepolo di san
Benedetto. Floriano fu il terzo abate di Glanfeuil. Fu sotto il suo abbaziato
che Fausto andò a fissarsi a Roma, nel monastero di San Giovanni in Laterano e
vi scrisse la Vita di san Mauro.
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