Regola di S. Benedetto

IV - Gli strumenti delle buone opere: 32 non ricambiare le ingiurie e le calunnie, ma piuttosto rispondere con la benevolenza verso i nostri offensori,...73 nell'eventualità di un contrasto con un fratello, stabilire la pace prima del tramonto del sole.
XIII - Le lodi nei giorni feriali: 12 Ma l'Ufficio delle Lodi e del Vespro non si chiuda mai senza che... il superiore reciti il Pater per le offese alla carità fraterna che avvengono di solito nella vita comune, 13 in modo che i presenti possano purificarsi da queste colpe, grazie all'impegno preso con la stessa preghiera nella quale dicono: "Rimetti a noi, come anche noi rimettiamo".
XXIV - La misura della scomunica: 1 La scomunica e, in genere, la punizione disciplinare dev'essere proporzionata alla gravità della colpa 2 e ciò è di competenza dell'abate....7 fino a quando avrà ottenuto il perdono con una conveniente riparazione.
XLIII - La puntualità nell'Ufficio divino e in refettorio: 10 Nelle Ore del giorno, invece, il monaco che arriva all'Ufficio divino dopo il versetto o il Gloria del primo salmo, che segue lo stesso versetto, si metta all'ultimo posto...11 fino a che non avrà riparato, a meno che l'abate gliene dia il permesso con il suo perdono;


 

La risorsa sociale del perdono

Il perdono socialmente virtuoso

Giulia Paola Di Nicola, Attilio Danese

Estratto da “Perdono... per dono - Quale risorsa per la società e la famiglia

Effatà Editrice 20092

 

L’interesse del mondo culturale per il tema del perdono data ormai dagli anni Settanta e ha avuto un acme intorno all’anno duemila, a causa del Giubileo. Per il legame innegabile tra perdono e cristianesimo, generalmente lo s’intende come una virtù cristiana eroica, il che è vero solo in parte, giacché si tratta anche di una virtù sociale, indispensabile alla sopravvivenza di un qualunque raggruppamento umano. Dal punto di vista teorico, sociale e politico, il perdono è necessario alla convivenza: se la gratuità del perdono origina in una esigenza del cuore umano, allora anche la società deve a suo modo rappresentarlo, anzi forse essa sarebbe «disumana» se non ne rispecchiasse le caratteristiche. In effetti, una società senza perdono annienta i nemici, è totalitaria, oppure assiste impotente alla morte di entrambe le parti che si fronteggiano, e dunque alla sua estinzione.

L’osservanza esasperante della sola giustizia nelle istituzioni politiche sembra creare il regno della giustizia, ma in realtà stabilisce il regno delle élites, eia cui restano esclusi i più fragili, i peccatori, gli emarginati. Infarti, i colpevoli di reati sono spesso i più svantaggiati socialmente e dunque i meno difesi diti male. Dove possono trovare rifugio costoro, se nella società domina una giustizia che li vede in partenza perdenti? Anche per questo Jules Michelet ha interpretato la rivoluzione francese come una reazione degli esclusi dal regno di una elitaria giustizia umana ed anche di una pseudo grazia divina:

 

La Grazia regna soltanto nei cieli, sulla terra regna il favore... La Rivoluzione non è alerò che la reazione tardiva della Giustizia contro il regno del favore e la religione della Grazia [1].

 

Il perdono è socialmente virtuoso perché interrompe il circuito vizioso della vendetta per la quale le vittime tendono a identificarsi con i carnefici e a ripetere le sevizie subite, trasmettendo così, di generazione in generazione la predisposizione alla vendetta e all’annientamento del nemico.

Certamente il perdono ha livelli e ambiti diversi a seconda che si tratta dell’animo umano, dei piccoli gruppi, delle società, dello Stato. Quando si distinguono le forme associative della comunità, della società e dello Stato, come fa Edith Stein, si sottolinea opportunamente che i primi due ambiti (la società con i suoi rapporti impersonali e la sua razionalizzazione, e lo Stato, giuridicamente strutturato) sono deputati all’amministrazione della giustizia secondo criteri di equivalenza. È la comunità il luogo in cui il rapporto interpersonale prevale e in cui è possibile comprendere e accogliere la persona dell’altro anche se colpevole. Infliggere la punizione spetta allo Stato, mentre il pentimento e il perdono riguardano la coscienza dei singoli e si applicano alle relazioni interpersonali [2].

Evidentemente le istituzioni non possono regolare il perdono che attiene alla coscienza della persona, come fosse un’operazione d'ingegneria istituzionale: il perdono va da persona a persona, viene concesso dall’offeso all’offensore sempre grazie ad un atto personale, libero e responsabile: «La sovrabbondanza del perdono è sempre qualche cosa di non obbligato» [3]. Tuttavia, benché i livelli restino diversi, è importante notare che vi sono numerose intersezioni tra i diversi ambiti. Se così non fosse, il perdono resterebbe confinato alla buona intenzione personale, alla coscienza e alla testimonianza privata, senza ricadute anche a livello istituzionale. Resteremmo nella prospettiva, pure affascinante, di Vladimir Jankélévitch:

 

Il perdono, predicando con l’esempio, pare bisbigliare ai rancorosi: late come me che sono fuori della legalità, fate come me che non vado fino in fondo al mio diritto, che non faccio valere le mie ragioni, che non reclamo né riparazioni né risarcimento danni, che prosciolgo tutti i miei debitori; in una parola, fate come me che perdono senza esservi obbligato... una grande emulazione di pace s’impadronisce di tutti gli esseri [4].

 

Opportunamente fa notare Mastantuono:

 

Il fatto che in ogni altra sfera della vita sociale il perdono non abbia corso finisce per minare la stessa possibilità che esso sopravviva nella dimensione familiare... è legittimo parlare di «principio perdono» sia come radice di una competenza relazionale non violenta che come fondamento di una nuova convivenza [5].

 

Il perdono non svaluta i criteri oggettivi di giudizio. Una società può e dove punire i colpevoli, ma diverrebbe disumana se si accanisse contro di essi, applicando la logica impersonale e ferrea della giustizia che, per fedeltà ai principi di equivalenza e riparazione, condanna e applica la pena, sinanche di morte [6]. Inoltre, senza il perdono giudiziale una società resterebbe paralizzata nel passato, concentrata sui torti, sul racconto infinito di ciò che è successo e non sarebbe dovuto succedere, dunque arteriosclerotica. Non vivrebbe pienamente il presente e non potrebbe progettare l'avvenire. Al contrario, una società in cui si perdona, alimenta di positività la storia e guarda con speranza al suo futuro.

Se non si considera il perdono appannaggio dei soli credenti, esso ci appare come un prodigioso strumento di «ecologia sociale» che ripulisce i rapporti umani dalle scorie delle insofferenze e dell'odio [7]. Di conseguenza risultano preziosi tutti gli espedienti validi ad alimentare il tasso di perdono di una società. Diversamente si paga il prezzo dell’aumento del tasso di stress, provocato da risentimenti senza fine, dal sospetto, dall’insicurezza, oltre che i costi di un disagio sociale che spesso sfocia in malattie psichiche e neurologiche: una società c tanto più sana, forte e produttiva, quanto più pacificata al suo interno.

Vale in generale la regola che una società non può vivere nel fondamentalismo della giustizia del taglione e, pur tenendo fermi i principi della giustizia, deve contemplare anche a livello istituzionale la possibilità di forme di perdono che consentano la riconciliazione tra le parti e offrano l’opportunità di ricominciare. Si pensi alla istituzione delle figure professionali del mediatore familiare (con riferimento alle coppie) e del giudice di pace, con il compito di sollecitare ad una conciliazione pre-giuridica, meno costosa, meno burocratica, più conveniente.

La giustizia resta tale, pur nel suo rigore politico-giuridico, solo se ammette l’eccezione del perdono, ossia se l’economia del dono, con la sua logica poetica più che etica, coopera con l’economia dello scambio e della giustizia.

 

Riconosco - ha scritto Ricœur - che siamo ai limiti tra il politico e il poetico; ma è bene sapere che il politico, perfino nel suo rigore, resta politico se la regola della mutua riconoscenza sa ammettere, eccezionalmente, la trasgressione del perdono, col cui favore qualcosa di un’economia del dono, con la sua logica della sovrabbondanza, coopera ad un’economia della reciprocità e quindi dell’equivalenza [8].

 

Le istituzioni partecipano del dono eccellente del perdono, in forme diverse, più condizionate e discutibili, ma che ne ripropongono il senso e gli effetti attraverso alcune misure di clemenza, come la remissione o la riduzione della pena in seguito alla ricognizione delle attenuanti.

Un'eco istituzionale del perdono sono le amnistie, che hanno a che fare con L’annullamento della pena, anche se sono spesso concesse in funzione strumentale agli interessi dello Stato (vuotare le carceri, evitare sommosse, sottolineare una ricorrenza o un evento fondamentale). È noto però che eccedere nelle amnistie può favorire le amnesie. Lo stesso vale per la moratoria e il condono economico.

Nei tribunali troviamo inoltre la regola della prescrizione, che non è propriamente perdono, ma stabilisce che il colpevole non debba pagare una colpa commessa molti anni addietro, quando ormai la società stessa l’ha dimenticata, anche se rimane obiettivamente colpevole. Vi è stata una lunga polemica in Francia negli anni 70 sull’imperdonabile e l’imprescrittibile, soprattutto in considerazione dello sterminio degli ebrei (per Jankélévitch è incomprensibile come «il tempo, processo naturale senza valore normativo, possa esercitare un’azione attenuante sull’insostenibile orrore di Auschwitz»), ma bisogna avere ragioni molto serie per sospendere la regola della prescrizione, giacché la società non può rimanere per sempre in collera contro se stessa. Non si può reclamare una proprietà, un debito, una pena dopo un lungo periodo di tempo. Si tratta di una regola di pace sociale.

Su presupposti che hanno a che fare col perdono si basa anche l’istituto della grazia da parte del capo dello Stato, che in virtù del potere supremo attribuito al rappresentante dello Stato, può annullare la pena giustamente inflitta ad un cittadino riconosciuto colpevole.

Nel sottolineare la dimensione sociale e politica del perdono, Hannah Arendt lo concepisce come un principio guida per superare le aporie dell’azione nell'ambito delle relazioni pubbliche e degli affari [9]. Le persone possono sciogliersi reciprocamente dal male commesso e perciò non essere più legate al passato, possono tornare libere di agire e legarsi in un nuovo progetto («anche se devono morire [gli uomini] non sono nati per morire ma per incominciare» [10]). In quest’ottica alla Arendt il perdono non appare come amore, giacché l’amore tende alla fusione e dunque «distrugge lo spazio intermedio, l’infra che ci mette in relazione con gli altri e che dagli altri ci separa». Suppone invece lo spazio della separazione, che garantisce la possibile convivenza della pluralità. 11 valore politico del perdono sta in questo rispetto della pluralità che è costitutivo dell’ambito politico. In questo senso l’amore sembrerebbe apolitico o antipolitico, mentre il perdono restituirebbe il rispetto (che è l’equivalente dell’amore negli affari umani) e il potere di agire all’altro. Perdonare e agire risultano comunque strettamente connessi, per il fatto che rendono possibile evitare la paralisi e creare qualcosa di nuovo.

La necessità del perdono nasce dal fatto che nella natura stessa dell’azione è contemplato il peccato, ma se la vita vuole proseguire, bisogna che non prevalga la vendetta bensì il perdono, sciogliendo i vincoli e garantendo all'azione di ri-cominciare, giacché è dell'azione la promessa della emancipazione dalla necessità. Rispetto all’aporia della irreversibilità dell’azione, il perdono è potenzialità, restituzione del potere, della cittadinanza attiva, della possibilità di incontrarsi esplicitamente [11].

È singolare che la Arendt riconduca il valore sociale del perdono a Gesù di Nazareth:

 

A scoprire il ruolo del perdono nel dominio degli affari umani fu Gesù di Nazareth. Il facto che abbia compiuto questa scoperta in un contesto religioso non è una ragione per prenderla meno sul serio in un senso strettamente profano [12].

 

Forse il limite del firn postazione arendtiana sta sia nella insufficiente sottolineatura della imputabilità della persona, il che spiega la resa di fronte all’imperdonabile dell’olocausto, sia nel fatto di ritenere il perdono una sorta di «necessità» che sottovaluta la gratuità. Rispetto alla Arendt, come rispetto a quanti possono ridurre il perdono a fatto sociale «normale», Ricœur ribadisce:

 

Il perdono non è, non dovrebbe essere né normativo né normalizzante. Dovrebbe rimanere eccezionale e straordinario, alla prova dell’impossibile; come se interrompesse il corso ordinario della temporalità storica [13].

 

La dialettica tra giustizia e perdono

Il perdono non è nemico della giustizia, non la annulla; anzi, in qualche modo la invera, se inteso come eccesso di giustizia. Possiamo pensare alla giustizia come a un qualcosa di dovuto (pagare le tasse) e al perdono come giustizia non dovuta (le donazioni umanitarie, il volontariato per i carcerati...). Il perdono non si può esigere per legge, come avviene per la giustizia. Tuttavia la giustizia senza perdono si tramuta in strumento di oppressione e ingiustizia. Il marxismo ha puntato tutto il suo impianto teorico su una esigenza di giustizia inflessibile e rivendicativa, capace di creare «solidarietà» solo all’interno della classe proletaria. Perdono e giustizia sono apparsi incompatibili e la conseguenza è stata l'odio per la borghesia. Ma proprio perché il perdono non ha trovato spazio, la stessa giustizia ha perduto il suo afflato positivo.

Non è facile cercare di cogliere il senso del perdono sulla scena politica e nei rapporti tra i popoli paragonandolo al perdono che scaturisce dal cuore di una persona. La concessione personale del perdono non necessariamente cancella la necessità di scontare la pena oggettivamente stabilita. Si vede bene qui la distinzione tra il livello personale e quello politico: l’esempio di Alì Agca, che il papa incontrò in prigione c perdonò, mostra clic a livello personale il perdono può attuarsi anche senza richiedere la scarcerazione, senza cioè entrare nella giurisdizione dei tribunali.

La possibilità di riconciliare tra loro due nazioni che hanno a lungo guerreggiato si misura sui secoli. Come trasformare l’odio in perdono nel caso dei cattolici e dei protestanti nord irlandesi, dei musulmani e cristiani jugoslavi, dei popoli del Sud rispetto a quelli del Nord che hanno sfruttato e distrutto il loro ecosistema? Odi secolari tra popoli (Kossovo, Cecenia, Africa, Medio Oriente) pesano come macigni nel processo di pace internazionale. Non si può parlare di perdono senza una revisione seria dei rapporti. Guardando al secolo XX, col suo carico di orrori (ma anche al secolo presente col suo orizzonte di nuove guerre), si avverte la necessità di percorrere più in fretta il cammino della pace. Non si può pretendere che nemici secolari fraternizzino, ma si può chiedere loro di stabilire relazioni corrette. La ricostruzione dell’Europa, grazie al ristabilimento di relazioni solidali tra i Paesi che qualche decennio prima si sono combattuti aspramente, è condizione indispensabile per la ripresa di un clima internazionale accettabile. Per poter ricominciare, ciascun Paese deve smetterla di accusare gli altri e gettare uno sguardo nuovo, capace di comprendere le altrui ragioni e d'immedesimarsi nelle sofferenze che anche gli altri, vincitori o vinti, hanno patito:

 

Avere pietà - ha scritto Ricœur - significa smettere di accusare. È percepire l’altro come vittima ma, ancora più a fondo, come sofferente. La storia terrificante del XX secolo, collegata alla mia propria esperienza della sofferenza e del dolore, è stata per me l’occasione di riflettere sulla compassione. Il mio primo atteggiamento verso il male, non è di cercare un colpevole, ma di centrare l’attenzione sulla vittima. È una questione di orientamento dello sguardo... «Beati coloro che piangono, saranno consolati» [14].

 

Perciò anche a livello internazionale si può parlare di un perdono necessario, seppure spesso dettato prevalentemente da interessi di tipo politico ed economico. Si può qualche volta azzardare qualche richiesta straordinaria, anche solo per gettare sul tavolo delle trattative gesti profetici, come quando, in piena corsa agli armamenti nucleari, K. Barth invocò un gesto unilaterale d'interruzione da parte di almeno uno dei contendenti. È accaduto anche che una singola persona abbia chiesto simbolicamente perdono a nome del suo popolo, senza rinnegare la sua appartenenza, ma assumendo su di sé tutta la vergogna dei crimini commessi. Il seguente episodio è stato riportato dalle cronache (settembre 2004): Bernhard Lehemann, professore tedesco, ha girato l'Italia per chiedere scusa e risarcire i deportati in Germania (lista di 210 nomi), costretti ai lavori forzati in aziende chimiche convertite all’economia bellica. «Invoco perdono a nome dei miei studenti e della mia città (Gershofen)», ha detto agli interessati o ai discendenti, consegnando la somma simbolica di 750 euro.

Una società ha bisogno di giustizia, ossia di stabilire delle regole e applicare delle pene esemplari a chi le trasgredisce e viene giudicato colpevole. Se non lo facesse cadrebbe nel bellum omnium contra omnes e avallerebbe il detto di Plauto «Homo homini lupus», ripreso da Hobbes [15]. Anche a livello di relazioni interpersonali talvolta è necessario salvaguardare una sana difesa di sé, quando si decide di porre un freno al comportamento ingiusto e forse violento dell’altro, utilizzando i metodi più opportuni per impedire di farsi e fare del male, in una determinata situazione. Talvolta si può concludere che non si dispone della forza interiore necessaria per resistere e ancor più per perdonare. A seconda dei casi è più opportuno attendere o fuggire da una situazione incandescente. Un atto di prodigalità affrettato potrebbe risultare irrispettoso verso se stessi e spesso diseducativo verso l'altro. Un modo ipocrita di conciliare sempre e comunque, coprendo la verità, può far esplodere conflitti peggiori in un secondo tempo.

Quando si tratta di Stati, le cose sono ancora più complesse. Ciascuno ha il dovere di difendere il suo popolo dalle possibili aggressioni c dal rischio di estinzione. È sempre più evidente che i rapporti tra gli Stati reclamano un ordine internazionale condiviso, indispensabile a frenare gli appetiti e controllare l’esplosione delle guerre. Un perdono applicato in maniera ingenua, unilaterale e non sapiente, non farebbe che fomentare ulteriori guerre per il possesso dei beni, per il potere, per il dominio delle comunicazioni.

Ad intra e ad extra degli Stati, non basta alla convivenza seguire le regole della giustizia e dello scambio, perché una società si regge se c’è un di più di generosità che ne alimenta lo spirito e il senso di appartenenza, una specie di «corrente calda» (per dirla con Italo Mancini). Di questa corrente fa parte il perdono che, nel suo senso pieno, eccede la giustizia e appartiene ad un tipo di economia spirituale che oltrepassa le leggi dell’irreversibilità del tempo e dell'equilibrio dello scambio.

 

È vero che il perdono, nel suo senso pieno, eccede di molto le categorie politiche; esso appartiene a un ordine - l'ordine della carità — che supera anche l’ordine della moralità. Il perdono è legato ad una economia del dono, in cui la logica della sovrabbondanza supera la logica della reciprocità... Poiché supera l’ordine della moralità, l’economia del dono appartiene piuttosto a ciò che si potrebbe chiamare la «poetica» della vita morale, se si salva nella parola poetica il suo doppio senso: creatività, sul piano della dinamica dell’agire; del canto e dell’inno, sul piano della espressione verbale [16].

 

Il concetto di equivalenza richiama l’equa distribuzione delle risorse, quello di sovrabbondanza riecheggia san Paolo: «Laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia» (Rm 5,20).

Altrove Ricœur collega la speranza del futuro all’amore sovietico, alimentato dal perdono:

 

Una gran parte dell’etica si gioca attorno a questa dialettica dell’amore e della giustizia. Ora è all’amore e non al senso della sroria che bisogna legare la speranza. E nella misura in cui c’è qualcosa come una dialettica dell’amore e della giustizia che si può porre la questione della speranza... Continua a porsi la questione di sapere- fino a che punto lo straordinario dell'amore può penetrare lentamente l’ordinario della giustizia... Spero che ci siano sempre poeti che dicano l’amore poeticamente; esseri eccezionali che gli rendano testimonianza poeticamente; ma anche orecchie comuni che ascoltino e tentino di metterlo in pratica [17].

 

Con le parole di Roberto Mancini: «Il perdono crea futuro perché è anticipazione reale e propulsiva di un tempo liberato dalla spirale della violenza» [18].

Se si parla di dialettica tra amore e giustizia è perché sarebbe deleterio sia l’uno che l’altro eccesso: che la gratuità annullasse la giustizia e viceversa. La carità eccede la giustizia, ma non si sostituisce ad essa. Se ciò accadesse, si avallerebbero numerose ingiustizie, lasciando prosperare le vessazioni dei prepotenti sui deboli e perdonando ad aguzzini le cui vittime avrebbero ragione di esigere l'applicazione della giustizia, specie quando considerano la colpa «imperdonabile», come nel caso dell'Olocausto, dei Gulag, di Nagasaki e Hiroshima, dei più terribili genocidi della storia [19].

Il principio vale anche - ma in diverso modo - nella vita di famiglia, dove s’impara a tenere insieme perdono e correzione fraterna in un equilibrio difficile e sapiente. Laddove uno Stato è impossibilitato a fare più di tanto, giacché nella sua prospettiva il perdono appare una imperdonabile indulgenza e rischia di «instaurare per mille anni il regno dei carnefici» [20], subentra l’iniziativa personale, che ricostruisce i rapporti dalla base.

Da un versante e dall’altro si riaffaccia il nucleo del problema del difficile rapporto tra giustizia e amore, diritto e perdono. Entrambi sono necessari alla vita di una società, ma il modo in cui questi due aspetti possono essere pensati e tenuti insieme, resta problematico. Come possono essere coessenziali pur apparendo contraddittori? Come fare in modo che l’uno aspetto non soffochi l’altro? Pari- menti, a livello teologico, ci si può domandare come il perdono della parabola del Padre misericordioso possa conciliarsi con il giudizio universale, caratterizzato dalla logica della giusta retribuzione e della relativa condanna. Solo in Dio questi due aspetti possono convivere senza annullarsi. Può accadere anche in chi sa mettersi dal Suo punto di vista in situazioni complesse, come per esempio quella di un re che debba applicare una pena esemplare contro una persona cara, verso la quale nutre solo sentimenti di cura (questa ambascia dell’anima è ben descritta da Simone Weil [21]).

Il ricorso ai grandi racconti della Bibbia ha nell’episodio di Abramo e Isacco un punto fondamentale circa il perdono, su cui si è soffermato Derrida, tanto da far parlare di una sua «conversione».

Ciò che appare sconvolgente in questo episodio è che la parola «perdono», venuta dall'alto, ha qui un suo precedente nel coniando opposto di «dare la morte a chi si ama», in questo caso il figlio Isacco. C’è nel racconto un atto di giustizia che deve essere compiuto nei confronti di Dio, come una compensazione per il male ricevuto dagli uomini, che esige una vittima innocente, richiesta ad un uomo giusto. Dare la vita per chi si ama, rispetto ad essere artefici della sua morte, può risultare persino facile. Nel momento decisivo in cui Abramo sta per eseguire l’ordine paradossale di Dio, accade l’impossibile: lo stesso Dio si pone dalla parte del debitore, lui che dovrebbe invece essere creditore e lascia che sia suo Figlio ad essere ucciso. Derrida conclude facendo riferimento a Nietzsche, per il quale l’uomo che perdona appare un agnello che è tale perché non sa farsi giustizia, non sa essere lupo:

 

Nietzsche nella Genealogia della morale definisce questo «trasferimento» il «colpo di genio del cristianesimo»: «Dio stesso che si ripaga su se stesso... il creditore che si offre per il suo debitore, per amore (chi lo crederebbe?), per amore del suo debitore!». L’incredulità nicciana è, in effetti, la prova indiziaria più netta del «complesso cristico» del filosofo tedesco, del suo antagonismo (lo intuirono chiaramente Benjamin, Gide, Bataille...) [22].

 

Di fronte alle insolubili aporie del perdono, che non trovano una soluzione sul piano razionale, sta la tremenda responsabilità di chi deve prendere decisioni, bilanciando giustizia e amore in modo mirato ai diversi contesti.

 

Teatralità o segno dello Spirito?

Giovani Paolo II ha dato forti segnali di richiesta di perdono, specie a fine millennio (cfr. Tertio millennio ineunte, n. 33). Egli ha indicato soprattutto tre «deviazioni dal Vangelo» di cui si è resa responsabile storicamente la Chiesa: divisione tra le Chiese (a tal proposito già Paolo VI aveva chiesto perdono «per quello che ne siamo responsabili»), persecuzione degli Ebrei, intolleranza e violenza nel servizio della verità (Inquisizione, crociate, guerre di religione). 1 casi di Galileo Galilei e di Giordano Bruno sono tipici esempi di deviazione per intolleranza. Vi sono altre richieste di perdono relative al maltrattamento degli Indios, alla tratta dei neri, ai rapporti conflittuali con l’Islam, oltre che alle deviazioni da parte del clero o dei singoli cristiani, tra cui le colpe di «non pochi uomini di Chiesa» nei confronti del genere femminile [23].

Non mancano le denunce di anti testimonianze contemporanee: acquiescenza alle dittature, corresponsabilità nelle ingiustizie, cedimenti al secolarismo. Non era mai capitato che un papa riconoscesse le colpe e chiedesse perdono relativamente a comportamenti ancora in atto, come nel caso del genocidio del Rwanda nel 1994. Si calcola che sono un centinaio i testi in cui egli parla delle pagine oscure della storia della Chiesa e più di venti quelli in cui chiede perdono, senza timore di creare un certo disagio nella comunità cattolica. Parallelamente richieste di perdono si trovano anche nelle confessioni protestanti, per esempio in relazione al nazismo e allo sterminio degli Ebrei.

Dal punto di vista «laico», delle relazioni internazionali, un passaggio importante si è avuto con il Tribunale di Norimberga, che ha attualizzato il concetto giuridico di «crimine contro l’umanità», elaborato dalle Nazioni Unite, da inserire nella memoria collettiva. La comunità internazionale ha invitato a riconoscere il male davanti ad un tribunale, in funzione di una nuova dichiarazione dei diritti dell’uomo. Oggi l’espressione «crimine contro l'umanità» è d’uso frequente proprio in seguito a quell’episodio «performativo». Vi si collega la necessità di dare un giudizio etico sulla storia del nazismo, del terrorismo e di tutte le sofferenze subite dalle vittime della storia.

Un passo ulteriore, dal valore simbolico eccellente in ambito politico, è stato la creazione della Commissione per la Verità e la Riconciliazione del Sudafrica [24], caso unico, nonostante qualche analogia col Sud America (Cile). Anche la denuncia dell'apartheid e stata motivata come crimine contro (’umanità, ma c singolare che nella Commissione non si è mirato alla pena da infliggere ai malfattori, quanto a creare un luogo in cui il male fatto potesse essere raccontato, ascoltato, meditato, così da sollecitare alla conversione.

Lo stesso vale per l’episodio esemplare del rapporto di riconciliazione tra cechi e tedeschi [25]. Il dialogo tra i due popoli risale al primo Trattato di intesa del 1973. Il patto di Monaco fu riconosciuto come non valido, ma il documento evitò di parlare del passato traumatico, cosa che avvenne invece nella Dichiarazione congiunta ceco-tedesca del 1996. Ambedue i Paesi cercarono di valutare il passato proclamando un mea culpa sull’occupazione nazista c sull’espulsione dei tedeschi da parte dei Sudeti. In base al trattato, il governo ceco e quello tedesco non aggravarono le relazioni mutue con richieste di risarcimento a seguito del passato traumatico: nessun risarcimento di guerra fu pagato dai tedeschi ai cechi e nessun risarcimento fu pagato dai cechi per l’espulsione dei tedeschi. Il rapporto ufficiale di una Commissione di storici di entrambe le parti cercò di valutare gli ultimi cinquant’anni, specialmente il numero dei morti durante l'espulsione (circa 20.000). I vescovi cechi e tedeschi pubblicarono due lettere sulla riconciliazione negli anni che vanno dal 1990 al 1993. Esiste inoltre l'eccellente documentazione della Chiesa riformata dei fratelli cechi. Ne è scaturita una veduta storica meno parziale, col rilievo dato alla secolare coabitazione ceco-tedesca, basata sulla saggezza biblica dell’amore del vicino.

In questi ultimi tempi, i gesti simbolici si vanno moltiplicando nella direzione della confessione delle colpe, della richiesta e della concessione del perdono, confermando la necessità di considerare indispensabile per la convivenza sociale e politica la virtù del perdono, da domandare c da concedere in rapporto dialettico con le esigenze della giustizia. Il tema è tornato in auge soprattutto dopo gli eventi dell’11 settembre 2001 e delle due guerre successive, tanto da far parlare di «una globalizzazione, una teatralizzazione della scena del perdono»[26]. Derrida, nell’analizzare il ritorno alla religione che si trascina dietro anche l’esame di coscienza, denuncia il proliferare di «palcoscenici» del pentimento (usando espressioni colorite sull’ammissione di colpa e sul perdono, quali «irrefrenabile convulsione», «coazione febbrile», «convulsione-conversione-confessione») che, nella scena geopolitica a partire dall’ultima guerra, coinvolgono gerarchie ecclesiastiche, capi di Stato, associazioni professionali, in un processo di internazionalizzazione del perdono.

Egli denuncia un abuso di perdono che renderebbe diffidenti, inducendo il dubbio che si tratti di calcolo, scimmiottatura, rituale automatico, finzione, rito di espiazione:

 

Ecco il genere umano che all’improvviso pretenderebbe d'autoaccusarsi pubblicamente e spettacolarmente di tutti i crimini da esso effettivamente commessi contro se stesso, «contro l’umanità» [27].

 

Eppure, la «messa in scena spettacolare» del pentimento contiene un messaggio che valorizza il perdono. Non si tratta di equivocare confondendo il perdono con il teatro, con la captazione strumentale del consenso o con i parenti lontani (contraffazioni o derivati impuri quali le attenuanti, (’amnistia, la prescrizione, la moratoria, il condono economico). La confusione attenuerebbe la irriducibilità del perdono, facendogli perdere i suoi tratti distintivi. Bisognerebbe però saper cogliere l’aspetto positivo di tali messaggi, come fa Ricœur:

 

Ci sono momenti privilegiati in cui dei gesti simbolici ottengono un effetto. Penso al cancelliere tedesco W. Brandt che rende omaggio ai martiri del ghetto di Varsavia. Un gesto simbolico dà coraggio a chi lotta per la riconciliazione dei popoli [28].

 

Così per Vaclav Havel che chiede perdono ai Tedeschi per i comportamenti del suo popolo in seguito alla guerra contro i Sudeti e per Juan Carlos che chiede perdono agli Ebrei per la espulsione dalla Spagna.

Sia pure tenendo conto delle suddette riserve, a noi sembra che i gesti simbolici manifestino un desiderio di riconciliazione e comunque facciano uscire il perdono dal ghetto delle sacrestie e delle prediche domenicali, per farne una virtù socialmente e politicamente spendibile.

E una conquista della storia della cultura la convinzione che è bene evitare l’esplosione dei conflitti e tentare di riparare ai guasti del passato prima che esplodano nuove guerre. Dopo ogni guerra, latente o patente, è bene che gruppi, popoli o persone guardino al passato di cui non si possono liberare come ad uno zaino di memorie di cui alleggerirsi grazie alla richiesta di perdono e all’eventuale mutuo scambio dei pesi. Diversamente il rimorso è un soliloquio [29].

Il moltiplicarsi delle domande di perdono ci appare un segno dello Spirito Santo, il cui nome proprio è perdono, «remissione di tutti i peccati», come dice la liturgia della Pentecoste.

Nella contemporanea universalizzazione della scena del perdono si tocca con mano il processo di acquisizione di alcuni valori cristiani da parte della società, nonostante la temuta (o esaltata, a seconda delle prospettive) scristianizzazione. In ogni caso si tratta di segnali fondati sul principio della «solidarietà universale» che inducono all’imitazione e immettono il tema del perdono nel circuito dei valori condivisi [30].

 



[1] J. Michelet, Histoire de la Révolution française, I, Gallimard, Paris 1979, p. 30.

[2] Cfr. A. A. Bello, Presentazione a: A. Mastantuono, La profezia straniera. Il perdono in alcune figure della filosofa contemporanea, San Paolo, Milano 2002.

[3] B. Revillon, '900. L'ora del Perdono. Intervista a Ricœur, in «Avvenire», 8 agosto 1999.

[4] V. Jankélévitch, Il perdono, tr. it. di L. Aurigemma, IPL» Milano 1968,

[5] A. Mastantuono, La profezia straniera, cit., pp. 188-189.

[6] Cfr. A. Danese, Non uccidere Caino, Paoline, Milano 2002

[7] Oltre al testo di G. P. Di Nicola, Per un'ecologia della società (Dehoniane, Roma 1994) cfr. G. Leleu, L'écologie de l'amour. Rétablir la communication pour une vie de couple épanouie, Flammarion, Paris 2001. 

[8] P. RICŒUR, Le sfide e le speranze del nostro comune futuro, in «Prospettiva Persona», 4 (1993), pp. 6-16, 13-14, 

[9] H. Arendt, Vita activa, La condizione umana, tr. it. S. Finzi, Bompiani, Milano 1966, p. 176.

[10] Ibidem, p. 182.

[11] Si vede come qui potere viene inteso in modo contrapposto a violenza: «La violenza può distruggere il potere: è assolutamente incapace di crearlo» (H. Arendt, Sulla violenza, Mondadori, Milano 1971, pp. 69-70).

[12] H. Arendt, Vita activa, cit., p. 176.

[13] 13 P. RICŒUR, La mémoire, l’histoire, l'oubli, Seuil, Paris 2000, p. 637.

[14] B. Revillon, ‘900. L'ora del Perdono, cit. 

[15] Cfr. T. Hobbes, Elementi di legge naturale e politica, La Nuova Italia, Scandicci (PI) 1985.

[16] P. RICŒUR, Quale nuovo ethos per l’Europa, in Persona, comunità, istituzioni, a cura di A. Danese, ECP, Firenze 1994, pp. 102-103.

[17] Ibidem, pp. 15-16.

[18] R. Mancini, Esistenza e gratuità. Antropologia della condivisione, Cittadella, Assisi 1996, pp. 149-150; cfr. inoltre A. Mastantuono, La profezia straniera, cit., p. 191.

[19] «Dove la colpa abbonda, la grazia sovrabbonda. Ma inoltre, cosa che san Paolo non ha aggiunto, dove la grazia sovrabbonda, il male sovrabbonda a gara e sommerge questa stessa sovrabbondanza, mediante un infinito e misterioso rilancio» (V. Jankélévitch, II perdono, cit., p. 234). Diversa l'opinione di A. Neher (L'esilio della parola, Marietti, Casale Monferrato [Al] 1983), professore a Strasburgo, per il quale Auschwitz è sì il silenzio di Dio, che soffoca la sua parola, ma nello stesso tempo proprio da quel fallimento nasce la speranza di una nuova creazione (cfr. A. Mastantuono, La profezia straniera, cit., p. 107).

[20] V. Jankélévitch, Il perdono, cit., p. 233; cfr. anche A. Mastantuono, La profezia straniera, cit., p. 108.

[21] Cfr. M. C. Bingemer - G. P. Di Nicola, Simone Weil. Azione e contemplazione, Effatà Editrice, Cantalupa (To) 2005.

[22] Commento di M. Cecchetti a J. Derrida, Donare la morte, Jaca Book, Milano 1999.

[23] Per le richieste di perdono fino al 1997 cfr. L. Accattoli, Quando il papa chiede perdono. Tutti i mea culpa di Giovanni Paolo II, Mondadori, Milano 1997. Per la richiesta di perdono della Chiesa alle donne cfr. A. Danese - G. P. Di Nicola, Il papa scrive le donne rispondono, Dehoniane, Bologna 1996.

[24] Truth and Reconciliation Commission, formata da 17 membri e presieduta da Desmond Tutu, ha presentato le sue conclusioni nel 1998, dopo aver analizzato 14.000 dichiarazioni e 7000 domande di amnistia.

[25] Cfr. P. Ricœur, La mémoire, l’histoire, l’oubli, cit., pp. 67 ss, 83 e 581-583.

[26] J. Derrida, La colpa e il perdono nella civiltà globalizzata, in «La Repubblica», 6 settembre 2004, pp. 1 e 14.

[27] Le siècle et le pardon. Entretien avec J. Derrida, in «Le Monde des Débats», décembre 1999, pp. 10-14.

[28] Intervista a Paul Ricœur, in «Il Corriere della Sera», I" marzo 2003.

[29] «Laddove l’uomo del rimorso soffre senza nulla arrendere e sprofonda passivamente nell’inferno dei suoi sterili rimpianti e del suo confinamento autoscopico, il perdono, mettendo in relazione la prima e la seconda persona, apre una breccia nel muro dell’intimità colpevole e, soprattutto, quando il colpevole ha cattiva coscienza, il perdono infrange allora la staccionata dei rimorsi, poiché contiene in se stesso un atto liberatore e pone le fondamenta di una nuova era... Il perdono, se è vero che è privo della speranza mercenaria, non è tuttavia privo di gioia» (V. Jankélévitch, Il perdono, cit., p. 216).

[30] Cfr. Commissione Teologica Internazionale, Memoria e riconciliazione: la Chiesa e le colpe del passato, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2000, p. 51. Cfr. in proposito anche P. Valadier, Approches politiques du pardon, in «Études», 3926, giugno 2000, p. 782: «Non si possono riconoscere in questo lavoro di verità e di ricerca di riconciliazione i primi clementi di un autentico perdono, senza che questa parola sia stata pronunciata?».

 


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29 febbraio 2024                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net