Prologo: Il Signore attende che, giorno per giorno, rispondiamo con i fatti alle sue sante esortazioni. Ed è proprio per permetterci di correggere i nostri difetti che ci vengono dilazionati i giorni di questa vita secondo le parole dell'Apostolo: "Non sai che con la sua pazienza Dio vuole portarti alla conversione?" Difatti il Signore misericordioso afferma: "Non voglio la morte del peccatore, ma che si converta e viva".
Capitolo VI - L'amore del silenzio: Facciamo come dice il profeta: "Ho detto: Custodirò le mie vie per non peccare con la lingua; ho posto un freno sulla mia bocca, non ho parlato, mi sono umiliato e ho taciuto anche su cose buone". Se con queste parole egli dimostra che per amore del silenzio bisogna rinunciare anche ai discorsi buoni, quanto più è necessario troncare quelli sconvenienti in vista della pena riserbata al peccato! Dunque l'importanza del silenzio è tale che persino ai discepoli perfetti bisogna concedere raramente il permesso di parlare, sia pure di argomenti buoni, santi ed edificanti, perché sta scritto: "Nelle molte parole non eviterai il peccato".
Capitolo VII - L'umiltà: I Dunque il primo grado dell'umiltà è quello in cui, rimanendo sempre nel santo timor di Dio, si fugge decisamente la leggerezza e la dissipazione, si tengono costantemente presenti i divini comandamenti e si pensa di continuo all'inferno, in cui gli empi sono puniti per i loro peccati, e alla vita eterna preparata invece per i giusti. In altre parole, mentre si astiene costantemente dai peccati e dai vizi dei pensieri, della lingua, delle mani, dei piedi e della volontà propria, come pure dai desideri della carne, l'uomo deve prendere coscienza che Dio lo osserva a ogni istante dal cielo e che, dovunque egli si trovi, le sue azioni non sfuggono mai allo sguardo divino e sono di continuo riferite dagli angeli.... Il dodicesimo grado, infine, è quello del monaco, la cui umiltà non è puramente interiore, ma traspare di fronte a chiunque lo osservi da tutto il suo atteggiamento esteriore,... e, considerandosi sempre reo per i propri peccati, si vede già dinanzi al tremendo giudizio di Dio, ripetendo continuamente in cuor suo ciò che disse, con gli occhi fissi a terra il pubblicano del Vangelo: "Signore, io, povero peccatore, non sono degno di alzare gli occhi al cielo".
Capitolo LXXII - Il buon zelo dei monaci: Come c'è un cattivo zelo, pieno di amarezza, che separa da Dio e porta all'inferno, così ce n'è uno buono, che allontana dal peccato e conduce a Dio e alla vita eterna. Ed è proprio in quest'ultimo che i monaci devono esercitarsi con la più ardente carità... non antepongano assolutamente nulla a Cristo, che ci conduca tutti insieme alla vita eterna.
IL PECCATO DEGLI UOMINI
Cesls Spicq O.P.
Estratto da “Grandi temi biblici” –
Edizioni Paoline 1960
Si può dire che la religione
rivelata è caratterizzata tanto dalla rivelazione e dalla presa di coscienza del
peccato quanto dalla redenzione dei peccatori. L’Antico Testamento è soprattutto
la storia delle offese dell’uomo contro Dio, con tutto quello che queste colpe
portano con sé di castigo e di speranza e di perdono; il Nuovo Testamento
proclama la venuta del Salvatore: « Sarà lui che salverà il popolo suo dai
suoi peccati » (Mt 1, 21). Quest’ultima parola è al plurale; ed in realtà la
Bibbia dispone di più di trenta termini per indicare il male o la colpa:
disobbedienza, ingiustizia, debito, trasgressione, rivolta, infedeltà, ecc.; ma
il vocabolo più costante (amartia in greco, hattah in ebraico)
evoca l’idea di «mancare allo scopo», donde: deviare e fuorviare, sbagliar
strada. Se si pensa che la vocazione dell’uomo, la sua unica ragione di essere,
è trovare Dio, unirsi a lui, il peccato è tutt’insieme un errore (sheghaghah),
una follia e un accecamento (nebâlâh). Ecco perché la Scrittura qualifica
il giusto da saggio e il peccatore da stolto (Sir 16, 21-23; 21, 11-28).
Dopo la creazione del mondo e
dell’uomo da parte di Dio, la prima affermazione biblica è quella del carattere
originale del peccato. All’alba della razza umana, infatti, Adamo appare il
signore e padrone della terra, immagine di Dio, collocato in un paradiso di
delizie e che gode dell’intimità del suo Creatore (Gen 1, 26; 2, 8; 3, 8). Ora
egli trasgredisce una proibizione formale di Dio (Gen 2, 17; 3, 6). Questa colpa
non è soltanto una disobbedienza, cioè una rivolta contro una prescrizione
morale; ma ha senso solo in funzione di Dio che ha il diritto assoluto di
determinare la condotta della sua creatura, così che il peccato nella Bibbia ha
essenzialmente un carattere religioso. Questo fatto primordiale orienterà e il
destino di Adamo e tutto il corso della storia. Ci sarà ormai un legame
immutabile tra peccato e infelicità. Da una parte infatti questo primo peccato
separa da Dio, provoca la vergogna, attira il castigo, moltiplica pene e
sofferenze (Gen 3, 7-20). D’altra parte, esso si perpetuerà attraverso le
generazioni e l’offesa contro Dio trarrà seco tutta una serie di colpe contro
l’uomo; gelosia e violenza appaiono nell’assassinio di Abele per mano del
fratello (Gen 4, 1-16), poi nella crudeltà di Lamec (Gen 4, 23-24), così che «
Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni
intimo intento del loro cuore non era altro che male, sempre » (Gen 6, 5). La
conseguenza fu il diluvio.
Tuttavia, fin dalla prima caduta,
Dio ha pietà della sua creatura (Gen 3, 21); egli lascia intravedere la sua
intenzione di rialzarla (Gen 3, 15), e, per assicurare l’avvenire spirituale
dell’umanità, mette in azione il principio dell’elezione facendo alleanza con
alcune anime integre: Noè, Abramo, i Patriarchi, che «camminano con lui»
(Gen 6, 9) e da cui uscirà una umanità nuova, il Popolo di Dio.
Il dono della Legge sul Sinai
segna una nuova tappa nella concezione del peccato. Israele è legato a Dio con
una alleanza, simile ad un matrimonio indissolubile. Le stipulazioni hanno
precisamente lo scopo di assicurare la fedeltà del popolo eletto, « affinchè
non pecchiate » (Es 20, 20); Jahvè si impegna da parte sua ad assicurare la
protezione di coloro che gli appartengono e lo servono. Ne segue che, da una
parte, si dovrà odiare il male come Dio lo odia, e amare la virtù perché Dio
l’ama (Lv19, 32-37s; Dt 10, 17-20s.); d’altra parte che l’idolatria è il peccato
supremo (Es 20, 3-7; 23, 24; 32). In realtà Israele tradisce il suo Creatore, e
tutti i disastri nazionali sono attribuiti alla sua infedeltà
[1];
ma questo rigore nel castigo è ordinato ad aprire gli occhi e a purificare i
cuori. Quello a cui mira la pedagogia del Dio geloso quando punisce i suoi
figli, è che riconoscano che il peccato è un male, che conduce alla morte; la
conversione assicura la pace, la prosperità, la benedizione (Dt 10, 12; 11, 32).
A partire dall’ VIII secolo, i
Profeti affinano la coscienza morale del popolo e tendono a inculcargli il senso
del peccato, la gravità delle sue mancanze. A tale scopo insistono sulla bontà e
generosità divina (Ger 2, 7) che dovrebbero toccare le anime più superficiali.
Il peccato, risposta dell'uomo alle premure affettuose del suo benefattore,
appare allora come un rifiuto, una durezza di cuore (Is 46, 12; 48, 4; 8; Ez 2,
4), una mostruosa ingratitudine: «Il bue conosce il suo proprietario e
l’asino la greppia del suo padrone, ma Israele non conosce, il mio popolo non
comprende » (Is 1, 3). « La cicogna nel cielo conosce il tempo per
migrare, la tortora, la rondinella e la gru osservano il tempo del ritorno; il
mio popolo, invece, non conosce l’ordine stabilito dal Signore » (Ger 8, 7;
cfr. 2, 32). Qualunque sia la mentalità delle colpe: oppressione dei deboli,
spogliazione dei poveri, corruzione dei giudici, accaparramento delle terre,
frode nel commercio, cupidigia e lussuria
[2],
è sempre Dio che si offende. Il peccato c’è solo in relazione a lui, come
proclamò David dopo il suo adulterio: «Contro di te, contro te solo ho
peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto»
[3].
Più l’anima si purifica e più
acquista coscienza delle sue colpe. Nessuna meraviglia dunque che i Profeti, che
si sforzano di avvicinare i credenti al loro Dio, siano così vivamente colpiti
dall’universalità del male: «Percorrete le vie di Gerusalemme, ...cercate
nelle sue piazze se c’è un uomo che pratichi il diritto, e cerchi la fedeltà»
(Ger 5, 1); « Dal piccolo al grande, tutti commettono frode» (Ger 8, 10;
cfr. 5, 6); «Siamo divenuti tutti come una cosa impura, e come panno immondo
sono tutti i nostri atti di giustizia; tutti siamo avvizziti come foglie, le
nostre iniquità ci hanno portato via come il vento» (Is 64, 5). Perché in
verità il peccato — che si estende al mondo intero (Ez 25, 32; Am 1) — ha la sua
radice nel cuore (Ger 5, 23; 17, 9), come una cattiva inclinazione (Ger 2, 25;
7, 24; 18, 12) che non si può sradicare: «Può un
Etiope cambiare la pelle o un leopardo le sue macchie? Allo stesso modo: potrete
fare il bene voi, abituati a fare il male?» (Ger 13, 23; cfr. 10, 23). È una
corruzione, un egoismo forsennato, una malattia
[4].
Ecco perché Dio rassomiglia ad un
medico che cura un ammalato grave con un trattamento doloroso ma efficace: «Ma
ecco, io farò rimarginare la loro piaga, li curerò e li risanerò» (Ger 33,
6); «Io li guarirò dalla loro infedeltà,
li amerò profondamente» (Os 14,5)
[5].
È nel perdono del peccato che l’amore di Jahvè si rivela in tutta la sua
gratuità e immensità: «Quale dio è come te, che toglie l’iniquità e perdona
il peccato al resto della sua eredità? ... Egli tornerà ad avere pietà di noi,
calpesterà le nostre colpe. Tu getterai in fondo al mare tutti i nostri peccati.
Conserverai a Giacobbe la tua fedeltà, ad Abramo il tuo amore, come hai giurato
ai nostri padri fin dai tempi antichi»
(Mi 7,18-20)
[6].
Al ritorno dall’esilio la legge
giudaica — espressa con la penna dei sapienti e nel canto dei salmi — insiste
sull’universalità del peccato. Nessun uomo è perfetto: «Sono tutti
traviati, tutti corrotti; non c’è chi agisca bene, neppure uno» (Sal 14, 3).
«Non c’è infatti sulla terra un uomo così
giusto che faccia solo il bene e non sbagli mai» (Qo 7,20)
[7].
Senza dubbio si tratta di una impossibilità congenita di una esatta osservanza
della Legge
[8], ma si insiste
soprattutto sull’opposizione tra la contaminazione dell’uomo e la santità
dell’Altissimo. Il peccato si giudica in base all'orrore che ne ha Dio
[9]
e l’abisso che scava tra noi e lui. Mentre l’empio, presuntuoso, conta su un
facile perdono (Sir 5, 4-6), l’anima religiosa confessa con angoscia: «Davanti
a te poni le nostre colpe, i nostri segreti alla luce del tuo volto» (Sal
90, 8)
[10].
In realtà i peccati sono considerati come una specie di profanazione in seno al
popolo eletto, in mezzo al quale Jahvè risiede. Ogni culto, ogni gesto che
avvicina a Dio esige una santità perfetta, quindi il peccato è una bruttura
incompatibile con l’adorazione del Signore
[11].
Mentre il giusto proclama che il Signore è tutto (Sir 43, 27) e vive nel suo
timore, cioè in quella venerazione e religiosa fedeltà che gli meritano il
titolo di saggio
[12], il peccatore
vuole ignorare e spesso disprezza l’assoluta sovranità divina. Il primo vive
sotto lo sguardo di Dio, il secondo se ne allontana e compie la sua infelicità:
«I ragionamenti distorti separano da Dio» (Sap 1, 3; cfr. Is 59, 2). La
storia conferma e ratifica tragicamente la prima esperienza dell’Eden!
* * *
La predicazione primitiva della
Chiesa non poteva far a meno di sottolineare lo stato deplorevole degli uomini,
giudei o pagani, « schiavi del peccato »
[13]
che regna su loro come il più dispotico e il più crudele dei tiranni. La
corruzione del mondo è universale — « tutti hanno peccato » (Rm 8, 23) —
quindi provoca la collera di Dio, cioè la sua giustizia vendicatrice
[14].
Il responsabile è Adamo, la cui colpa, trasmessa nei suoi discendenti, ha
corrotto la natura umana
[15];
e la legge di Mosè, moltiplicando i precetti senza dare la forza di compierli,
ha aggravato ancor più la situazione dei suoi sudditi. Se ha precisato le
determinazioni del bene e del male, ha per ciò stesso ravvivato la coscienza del
peccato e ha contribuito a moltiplicare le infrazioni: «Però io non ho
conosciuto il peccato se non mediante la Legge. Infatti non avrei conosciuto la
concupiscenza, se la Legge non avesse detto: “Non desiderare”. Ma, presa
l’occasione, il peccato scatenò in me, mediante il comandamento, ogni sorta di
desideri. Senza la Legge infatti il peccato è morto. E un tempo io vivevo senza
la Legge ma, sopraggiunto il precetto, il peccato ha ripreso vita e io sono
morto. Il comandamento, che doveva servire per la vita, è divenuto per me motivo
di morte» (Rm 7, 7-10); «La
Legge poi sopravvenne perché abbondasse la caduta»
(5, 20; cfr. Gal 8, 22). Queste
non sono astratte considerazioni storiche o speculative. Ogni uomo potrebbe far
propria la confessione dell’Apostolo; «Sappiamo infatti che la Legge è
spirituale, mentre io sono carnale, venduto come schiavo del peccato. ... Io so
infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene: in me c’è il
desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il
bene che voglio, ma il male che non voglio. ... nelle mie membra vedo un’altra
legge, che combatte contro la legge della mia ragione e mi rende schiavo della
legge del peccato, che è nelle mie membra. Me infelice! Chi mi libererà da
questo corpo di morte?» (Rm 7, 14-24).
Infelix homo!
È il grido del peccatore che — volens nolens — non può trovare al di
fuori di Dio una beatitudine alla quale aspira con tutte le forze (Rm 8, 18-25).
Le sue colpe gli interdicono — più severamente dei Cherubini armati all’ingresso
del paradiso — l’accesso in quel bel regno, illusorio... fino al giorno in cui,
dalle labbra di un Apostolo, sentirà risuonare nelle sue orecchie la parola
liberatrice: «I tuoi peccati ti sono rimessi!». Infatti il più decisivo
avvenimento della storia si verifica con la venuta del Figlio di Dio in questo
mondo, e quel che contraddistingue la rivelazione del Nuovo Testamento riguardo
al peccato è il fatto di legarlo essenzialmente alla Persona
[16],
e all’intera opera di Gesù Cristo: la sua nascita, la sua vita, la sua morte, la
sua risurrezione sono ordinate a liberare l’uomo dal peccato, a «riconciliarlo»
con il suo Dio, cioè a salvarlo. Lo stesso nome esprime la sua missione: Gesù
vuol dire Salvatore (Mt 1, 21; Lc 1, 31, 77). Il Precursore lo indica come colui
«che toglie i peccati del mondo» (Gv 1, 29). Egli stesso dichiara
di essere venuto «a cercare e a salvare ciò che era perduto» (Lc 19,10)
[17], «non
a chiamare i giusti, ma i peccatori» (Mt 9, 13), come un
medico che consacra la propria vita agli ammalati (Lc 5, 31). Difatti, egli
frequenta i peccatori e concede loro la sua amicizia
[18].
Insegna che la volontà del Padre suo è che neppure uno di quei piccoli si perda
[19],
e come Dio, pieno di compassione per i suoi figli prodighi (Lc 15, 11-32)
rimette i loro debiti (Mt 6, 12-14), così anche lui ha il potere di assolvere
tutti i peccati. (Mt 9, 2-8). Perdona alla peccatrice le sue numerose colpe (Lc
7, 48), come introdurrà il buon ladrone nel paradiso (23, 43). Solo il rifiuto
della luce, «il peccato contro lo Spirito Santo», non è remissibile
[20].
In compenso, il Salvatore dà la propria vita in riscatto per la moltitudine (Mt
20, 28) e sparge il suo sangue per molti in remissione dei peccati (Mt 26, 28).
Non soltanto istituisce l’Eucarestia per unire eternamente al Padre le anime
purificate in questa «nuova Alleanza» che egli sigilla con la sua immolazione,
ma affida ai suoi Apostoli il potere che egli stesso aveva sulla terra: «A
coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non
perdonerete, non saranno perdonati» (Gv 20,23)
[21]. Finalmente,
nell’ultima apparizione il Risorto ordina «nel suo nome saranno predicati a
tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati» (Lc 24,47)
[22].
Si comprende allora come il
messaggio cristiano, la Buona Novella, si riassuma in quell’affermazione di fede
ripetuta a gara sotto una forma o sotto un’altra da tutti gli Apostoli: «A
voi infatti ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto, cioè che
Cristo morì per i nostri peccati» (1 Cor 15,3)
[23];
«Questa parola è degna di fede e di essere accolta da tutti: Cristo Gesù è
venuto nel mondo per salvare i peccatori» (1 Tm 1, 15). Fin dal giorno di
Pentecoste S. Pietro domandava alle anime di buona volontà di pentirsi «Convertitevi
e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono
dei vostri peccati» (At 2, 38), poiché «Dio, dopo aver risuscitato il suo
servo, l’ha mandato prima di tutto a voi per portarvi la benedizione, perché
ciascuno di voi si allontani dalle sue iniquità» (At 3, 26). «Dio lo ha
innalzato alla sua destra come capo e salvatore, per dare a Israele conversione
e perdono dei peccati» (At 5, 31). Alla sera della sua vita S. Giovanni
ripete: «Gesù si manifestò per togliere i peccati» (1 Gv 3, 5).
Se Cristo sulla croce ha espiato
le nostre colpe e riscattato il genere umano, rimane da appropriarsi i meriti di
questa morte e uccidere effettivamente il peccato in noi. È quello che fa il
battesimo, rito e sacramento di incorporazione a Cristo, in cui il credente è
unito al Salvatore come un membro a un corpo o un ramo innestato su un albero: «L’uomo
vecchio che è in noi è stato crocifisso con lui, affinché fosse reso inefficace
questo corpo di peccato» (Rm 6, 6; cfr. 7, 6). Quest’unione è talmente reale
che ormai è Cristo risuscitato che vive in noi (Gal 2, 19-20); in lui si diventa
una nuova creatura (2 Cor 5, 17; Gal 6,15), un uomo nuovo (Ef 4, 22-24; 1 Cor 3,
9-10). È una rinascita (Tt 3, 5-7), il passaggio da questo basso mondo al mondo
celeste: «Né immorali, né idolatri, né adùlteri, né depravati, né sodomiti,
né ladri, né avari, né ubriaconi, né calunniatori, né rapinatori erediteranno il
regno di Dio. E tali eravate alcuni di voi! Ma siete stati lavati, siete stati
santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore (nostro) Gesù Cristo»
(1 Cor 6, 9-11; cfr. Ef 5, 8). Donde l’immensa e religiosa gratitudine che
riempie il cuore del peccatore giustificato e costituisce la nota dominante
della sua carità. Al dono così prodigioso del perdono delle iniquità risponde la
riconoscenza dell’anima purificata: «Ringraziate con gioia il Padre che vi ha
resi capaci di partecipare alla sorte dei santi nella luce. È lui che ci ha
liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del Figlio del
suo amore, per mezzo del quale abbiamo la redenzione, il perdono dei peccati»
(Col 1, 12-14).
Per S. Paolo la creazione di una
umanità nuova, liberata dal male (Rm 5, 12-19) è attribuita alla carità divina
di cui costituisce la prova innegabile. Proprio perdonando il peccato, Dio
rivela il suo amore: «Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che,
mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5, 8; cfr. 8,
39; Gv 3, 16-17).
Qui sta l’insegnamento supremo
del Nuovo Testamento: Dio è carità, e questo amore non compie opera più grande
che di riscattare i peccatori; al punto che questo perdono, di una gratuità
insigne, è il segreto di tutto il piano provvidenziale: Dio ha permesso la colpa
e ha lasciato moltiplicare le iniquità, per dare maggior rilievo all’intervento
della sua misericordia. Come l’esperienza delle tenebre dà maggior valore alla
luce ricuperata, l’atroce coscienza delle sozzure permette alle anime purificate
di percepire la bontà di un Dio che perdona alle sue creature che l’hanno
offeso. Donde queste due affermazioni che riassumono l’epistola ai Romani: «Dove
abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia» (Rm 5, 20); «Dio infatti ha
rinchiuso tutti nella disobbedienza, per essere misericordioso verso tutti!»
(Rm 11, 32).
* * *
Mentre l’Antico Testamento,
dall’indomani della creazione e lungo i millenni, traccia l’oscuro quadro di una
umanità peccatrice, che sfoga il suo dolore e la sua vergogna, il Nuovo
Testamento è un canto di trionfo alla gloria della bontà di Dio e della sua
onnipotenza: «Noi siamo più che vincitori grazie a Colui che ci ha amati»
(Rm 8, 37)... E tuttavia, l’esperienza quotidiana non ci rivela forse nel mondo
riscattato tante iniquità quante ce n’erano prima? (1 Gv 2, 15- 16). La verità è
che se il battesimo ci ha realmente uniti a Cristo e resi partecipi della sua
morte, il cristiano deve far fruttare questa grazia di crocifissione e
realizzare ogni giorno questa morte al peccato: «Quelli che sono di Cristo
Gesù, hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri» (Gal
5, 24; cfr. Col 2, 11); «Il peccato dunque non regni più nel vostro corpo
mortale, così da sottomettervi ai suoi desideri» (Rm 6, 12; cfr. 8, 2-14).
L’assimilazione a Cristo si realizza progressivamente, la spiritualizzazione si
compie a poco a poco, e poiché il cristiano continua a vivere nella carne e in
un universo di cui Satana rimane il padrone
[24],
è chiamato a lottare contro tutte queste forze cattive e a liberarsi
progressivamente dal peccato. La sua fedeltà non è una semplice perseveranza, ma
una vittoria. Solo nella città beata, la Gerusalemme celeste, non ci sarà più
posto per il peccato (Ap 21, 27; 22, 14-15); ed è quanto dire che la condizione
essenziale del cristiano è quella di un peccatore riscattato.
Già Gesù, insegnando la preghiera
e prevedendo le colpe dei suoi futuri discepoli, faceva loro domandare: «Perdona
a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore, e
non abbandonarci alla tentazione» (Lc 11, 4). Egli istituì il sacramento di
penitenza per perdonare i peccati che non avrebbero mancato di commettere,
affinché questa purificazione fosse il segno permanente della virtù
santificatrice del suo sangue e l’opera dell’infinita misericordia. Sarebbe, di
conseguenza, una specie di eresia credersi impeccabile e sognare di vivere senza
colpa, poiché sarebbe contrario all’ordine provvidenziale
[25],
rompere questo vincolo d’amore compassionevole che Dio ha voluto stringere con
noi: «Se dicessimo che noi non abbiamo alcun peccato, inganneremmo noi stessi
e la verità non sarebbe in noi» (1 Gv 1, 8). Certo, dobbiamo evitare con
tutte le nostre forze di offendere Dio. S. Giovanni, dopo aver ripetuto: «Se
diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi»
(1 Gv 1, 10), aggiunge immediatamente: «Vi scrivo queste cose perché non
pecchiate» (1 Gv 2,1)
[26],
e preciserà: «Chiunque è stato generato da Dio non commette peccato» (1
Gv 3, 9; cfr. 5, 18). I grammatici osservano che il verbo è al presente (invece
dell’aoristo precedente) e non significa affatto un’impossibilità di peccare,
ma: il figlio di Dio non può rimanere nei suoi peccati o continuare ad offendere
il Padre suo come faceva prima di essere divinamente adottato.
Che rimane dunque, se non che il
dono salvatore della carità di Dio, nella passione di Cristo, si rinnova per
ogni cristiano? Questi si unisce al Padre suo, mediante il Figlio, grazie ai
suoi peccati oseremmo dire. Egli è ogni giorno contemporaneo del Calvario, da
cui riceve la grazia di purificazione e di perdono. Più esattamente, Cristo
risorto alla destra di Dio continua a intercedere per i peccatori e mette in
opera i frutti della sua Passione. Dunque i cristiani devono implorare la
misericordia divina dal cielo: «Se noi confessiamo i nostri peccati, egli è
fedele e giusto tanto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità...
ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un Paràclito presso il Padre: Gesù Cristo, il
giusto. È lui la vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i
nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo» (1 Gv 1, 9; 2, 1-2).
Ecco perché la Redenzione è
sempre attuale ed ecco come i «poveri peccatori» possono entrare in cielo e
starsene alla presenza di Dio. Essi hanno un avvocato, un difensore, che da una
parte è loro fratello (Eb 2, 12), dall’altra parte gode di ogni credito presso
il loro Padre comune e intercede continuamente in loro favore
[27].
Egli offre il suo prezioso sangue e purifica i suoi da ogni macchia (Eb 9, 14).
È il Sommo Sacerdote, costituito per la salvezza degli uomini (Eb 5, 1-10) e
aprir loro una via di accesso a Dio (Eb 10, 19-20).
Mentre il primo uomo, avendo
perduta l’intimità divina, era stato scacciato dal paradiso (Gen 3, 24), i
cristiani, grazie a Cristo Salvatore, possono avvicinarsi con fiducia al Dio di
ogni misericordia, con il cuore purificato (Eb 10, 22), per rendergli il culto
di cui è degno (Eb 12, 28). «Voi invece vi siete accostati al monte Sion,
alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a migliaia di angeli,
all’adunanza festosa e all’assemblea dei primogeniti i cui nomi sono scritti nei
cieli, al Dio giudice di tutti e agli spiriti dei giusti resi perfetti, a Gesù,
mediatore dell’alleanza nuova, e al sangue purificatore, che è più eloquente di
quello di Abele» (Eb 12, 22-24).
NDR. Le citazioni bibliche del testo originale sono state sostituite da quelle della Bibbia CEI ed. 2008.
NOTE
[1]
Cfr. Gdc 2, 10-15; 3, 7-8; 4, 1-2; 6, 1-3; 8, 33-35; 10, 6-9; 13, 1; 1
Re 11, 1-13; 16, 30-33; 2 Re 10, 29-33; 13, 2-3; poi Osea 13, 1-15; Amos
2, 4-16; 3, 11; 6, 7-9; Mi 3, 1-4; Ez 5, 7-17; 33, 23-29. Poiché tutti i
membri della nazione sono solidali dei colpevoli, il peccato ha un
carattere collettivo, e la comunità intera è colpita dal castigo.
[2]
Is 1, 17; 5, 8-25; Osea 4, 1-19; 12, 1-2, 8; Amos 2, 6-8; 3, 10; 4, 1;
8, 4-6.
[3]
Sal 51, 6; cfr. 1 Cor 8, 12: «Peccando così contro i fratelli e
ferendo la loro coscienza debole, voi peccate contro Cristo».
[4]
Cfr. Is 53, 4-5; Ger 14,7 (secondo l’ebraico). Con Geremia ed Ezechiele
appare nettamente la nozione di responsabilità individuale Ger 17, 10;
31, 29; 32, 19; Ez 14, 13-23; 18, 20: «Chi pecca morirà; il figlio
non sconterà l’iniquità del padre» Ez 33, 12-20.
[5]
Osea 14, 5; cfr. 5, 13; Dt 32, 39; Is 57, 18; Ger 8, 21-23.
[6]
Mi 7, 18-20; cfr. Is 1, 18: «Anche
se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come
neve. Se fossero rossi come porpora, diventeranno come lana».
Secondo Ezechiele è per far onore al suo santo Nome che Jahvé vuol
lavare il popolo da tutte le sue sozzure: «Vi aspergerò con acqua
pura e sarete purificati ... vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di
voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un
cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere
secondo le mie leggi e vi farò osservare e mettere in pratica le mie
norme» (Ez 36, 23-27).
[7]
Qo 7, 20; cfr. Pro 20, 9: “Chi può dire: «Ho la coscienza pulita,
sono puro dal mio peccato?»”.
[8]
Sap 12, 10: «(Tu sapevi) che la loro razza era cattiva e la
loro malvagità innata...» (Sir 23, 26; 25, 24; del peccato
originale).
[9]
Pr 3, 32; 6, 16-19; Sir 17, 19-26.
[10]
Sal 90, 8-12; cfr. Gb 4, 17: «Può l’uomo essere più retto di Dio, o
il mortale più puro del suo creatore?» «Il Signore soltanto è
riconosciuto giusto» (Sir 18, 1); e «Uno solo è il
sapiente, (è il Signore)» (Sir 1,6).
[11]
Zc 5, 5-11; Ml 2, 11.
[12]
Pr 1, 7; 9, 10; Sir 1, 14-21: «Il timore del Signore tiene lontani i
peccati» (Volg. Eccli. 1, 27).
[13]
Rom. 6, 16-22; Tt 3, 3: «Anche noi un tempo eravamo insensati,
disobbedienti, corrotti, schiavi di ogni sorta di passioni e di piaceri,
vivendo nella malvagità e nell’invidia, odiosi e odiandoci a vicenda».
(Cfr. 2 Pt 2, 19). S. Paolo caratterizza di solito le colpe individuali
come delle «trasgressioni» (paraptóma, parabasis), e riserva il
termine proprio di «peccato» (amartia), che spesso personifica,
per quella potenza che domina l’uomo, l’allontana da Dio e infine
l’uccide (Rm 7, 11-13).
[14]
Rm 1, 18-3,-20; 10, 3; Ef 2, 3.
[15]
«A causa di un solo uomo il
peccato è entrato nel mondo ... per la caduta di uno solo la morte ha
regnato ... per la disobbedienza di un solo uomo tutti sono stati
costituiti peccatori»
(Rm 5, 12-19); cfr. 1 Cor 15, 21, Per maggiori sfumature cfr. A.
M. Dubarle Le péché
originel dans l’Écriture, Paris, 1958.
[16]
Proprio lui è senza alcun legame con il peccato (2 Cor 5, 21; Gv 8, 46;
1 Gv 3, 5).
[17]
Lc 19, 10. «Ciò che era perduto» è un termine nuovo per designare i
peccatori, Mt 10, 28, 89; 16, 25; Lc 15, 4, 8, 24, 32; Gv 3, 16; 1 Cor
1, 18; 8, 11; 2 Cor 2, 15; 2 Ts 2, 10.
[18]
Lc 5, 30; 7, 34; Mt 11, 19.
[19]
Mt 18, 14; Gv 6, 39; 18, 9.
[20]
Mt 12, 31-32; cfr. Eb 6, 4-6; 10, 26-27; 1 Gv 5, 18.
[21]
Gv 20, 23 (cfr. Mt 16, 19). La seconda parte della frase non restringe
la portata della prima. Si tratta di una locuzione ebraica che, al
contrario, esprime la totalità e assolutezza del perdono. Avere il
diritto o la potenza di legare significa che la potenza di sciogliere è
senza limiti. A questo sacramento di penitenza deve aggiungersi
l’Estrema Unzione cosi efficacemente purificante (Gc 5, 15-16).
[22]
Lc 24, 47. Se Cristo ottiene dal Padre la remissione per tutte le colpe,
spetta agli uomini approfittarne; il che suppone che ci si riconosca
peccatori, come il pubblicano (Lc 18, 9-14); che si voglia essere
purificati, all’opposto dei Farisei (Mt 9, 12 ; Gv 9, 41 ; 15, 22) ; e
soprattutto che « ci si penta » dei propri peccati, dei propri
sentimenti, della propria condotta (Mt 4, 17). Il peccatore contrito ha
«il cuore trafitto» (Atti 2, 37) dal dolore, quel che il medioevo
chiamerà la «compunzione» (cfr. L’imitazione di Gesù Cristo);
valore morale essenziale e profondamente biblico, che la spiritualità
moderna trascura; e tuttavia «coloro che piangono, sono coloro che si
salvano », come scriveva meravigliosamente Ruysbroeck. (Jan van
Ruysbroeck detto “Dottore Ammirabile” (1293 – 1381) beato: autore
fiammingo di opere di mistica e spiritualità. Ndr.)
[23]
1 Cor 15, 3; cfr. Rm 5, 6-10; 8, 3-4; Gal 1, 4; Ef 1, 7. È in lui che
«abbiamo la redenzione e il perdono dei peccati» (Col. 1, 14).
[24]
1 Gv 2, 13-14; 3, 8; cfr. Mt 5, 37; 13, 19, 28, 38-39; Gv 8, 44.
[25]
L’uomo essendosi inorgoglito per la propria sapienza e allontanato da
Dio, Dio ha sostituito una «economia» di misericordia a quella di
«giustizia» che era venuta meno.
[26]
1 Gv 2, 1; cfr. 1 Cor 5, 11; Ef 5, 3-7; 1 Tm 6, 3-5; 1 Pt 1, 15; 4, 15,
ecc.
[27]
Rm 8, 34; Eb 4, 14-16; 7, 24-26. cfr. J.
Scharbebt, Unsere Sünden
und die Sünden unserer Väter, in Biblische Zeitschrift, 1958.
pp. 14-26.
|
Ora, lege et labora |
San Benedetto |
Santa Regola |
Attualità di San Benedetto
|
Storia del Monachesimo |
A Diogneto |
Imitazione di Cristo |
Sacra Bibbia |
25 maggio 2017 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net