Il Padre Nostro
Papa Francesco
Serie di 16 catechesi tra il 5
dicembre 2018 e il 22 maggio 2019.
Libreria Editrice Vaticana
Estratte dal sito della Santa Sede: www.vatican.va
Catechesi sul “Padre nostro”: 1. Insegnaci a pregare
Oggi iniziamo un ciclo di catechesi sul “Padre nostro”.
I Vangeli ci hanno consegnato dei ritratti molto vivi di Gesù come uomo di
preghiera: Gesù pregava. Nonostante l’urgenza della sua missione e l’impellenza
di tanta gente che lo reclama, Gesù sente il bisogno di appartarsi nella
solitudine e di pregare. Il vangelo di Marco ci racconta questo dettaglio fin
dalla prima pagina del ministero pubblico di Gesù (cfr 1,35). La giornata
inaugurale di Gesù a Cafarnao si era conclusa in maniera trionfale. Calato il
sole, moltitudini di ammalati giungono alla porta dove Gesù dimora: il Messia
predica e guarisce. Si realizzano le antiche profezie e le attese di tanta gente
che soffre: Gesù è il Dio vicino, il Dio che ci libera. Ma quella folla è ancora
piccola se paragonata a tante altre folle che si raccoglieranno attorno al
profeta di Nazareth; in certi momenti si tratta di assemblee oceaniche, e Gesù è
al centro di tutto, l’atteso dalle genti, l’esito della speranza di Israele.
Eppure Lui si svincola; non finisce ostaggio delle attese di chi ormai lo ha
eletto come leader. Che è un pericolo dei leader: attaccarsi troppo alla gente,
non prendere le distanze. Gesù se ne accorge e non finisce ostaggio della gente.
Fin dalla prima notte di Cafarnao, dimostra di essere un Messia originale.
Nell’ultima parte della notte, quando ormai l’alba si annuncia, i discepoli lo
cercano ancora, ma non riescono a trovarlo. Dov’è? Finché Pietro finalmente lo
rintraccia in un luogo isolato, completamente assorto in preghiera. E gli dice:
«Tutti ti cercano!» (Mc1,37). L’esclamazione sembra essere la clausola apposta
ad un successo plebiscitario, la prova della buona riuscita di una missione.
Ma Gesù dice ai suoi che deve andare altrove; che non è la gente a cercare Lui,
ma è anzitutto Lui a cercare gli altri. Per cui non deve mettere radici, ma
rimanere continuamente pellegrino sulle strade di Galilea (vv. 38-39). E anche
pellegrino verso il Padre, cioè: pregando. In cammino di preghiera. Gesù prega.
E tutto accade in una notte di preghiera.
In qualche pagina della Scrittura sembra essere anzitutto la preghiera di Gesù,
la sua intimità con il Padre, a governare tutto. Lo sarà per esempio soprattutto
nella notte del Getsemani. L’ultimo tratto del cammino di Gesù (in assoluto il
più difficile tra quelli che fino ad allora ha compiuto) sembra trovare il suo
senso nel continuo ascolto che Gesù rende al Padre. Una preghiera sicuramente
non facile, anzi, una vera e propria “agonia”, nel senso dell’agonismo degli
atleti, eppure una preghiera capace di sostenere il cammino della croce.
Ecco il punto essenziale: lì, Gesù pregava.
Gesù pregava con intensità nei momenti pubblici, condividendo la liturgia del
suo popolo, ma cercava anche luoghi raccolti, separati dal turbinio del mondo,
luoghi che permettessero di scendere nel segreto della sua anima: è il profeta
che conosce le pietre del deserto e sale in alto sui monti. Le ultime parole di
Gesù, prima di spirare sulla croce, sono parole dei salmi, cioè della preghiera,
della preghiera dei giudei: pregava con le preghiere che la mamma gli aveva
insegnato.
Gesù pregava come prega ogni uomo del mondo. Eppure, nel suo modo di pregare, vi
era anche racchiuso un mistero, qualcosa che sicuramente non è sfuggito agli
occhi dei suoi discepoli, se nei vangeli troviamo quella supplica così semplice
e immediata: «Signore, insegnaci a pregare» (Lc11,1). Loro vedevano Gesù pregare
e avevano voglia di imparare a pregare: “Signore, insegnaci a pregare”. E Gesù
non si rifiuta, non è geloso della sua intimità con il Padre, ma è venuto
proprio per introdurci in questa relazione con il Padre. E così diventa maestro
di preghiera dei suoi discepoli, come sicuramente vuole esserlo per tutti noi.
Anche noi dovremmo dire: “Signore, insegnami a pregare. Insegnami”.
Anche se forse preghiamo da tanti anni, dobbiamo sempre imparare! L’orazione
dell’uomo, questo anelito che nasce in maniera così naturale dalla sua anima, è
forse uno dei misteri più fitti dell’universo. E non sappiamo nemmeno se le
preghiere che indirizziamo a Dio siano effettivamente quelle che Lui vuole
sentirsi rivolgere. La Bibbia ci dà anche testimonianza di preghiere
inopportune, che alla fine vengono respinte da Dio: basta ricordare la parabola
del fariseo e del pubblicano. Solamente quest’ultimo, il pubblicano, torna a
casa dal tempio giustificato, perché il fariseo era orgoglioso e gli piaceva che
la gente lo vedesse pregare e faceva finta di pregare: il cuore era freddo. E
dice Gesù: questo non è giustificato «perché chiunque si esalta sarà umiliato,
chi invece si umilia sarà esaltato» (Lc 18,14). Il primo passo per pregare è
essere umile, andare dal Padre e dire: “Guardami, sono peccatore, sono debole,
sono cattivo”, ognuno sa cosa dire. Ma sempre si incomincia con l’umiltà, e il
Signore ascolta. La preghiera umile è ascoltata dal Signore.
Perciò, iniziando questo ciclo di catechesi sulla preghiera di Gesù, la cosa più
bella e più giusta che tutti quanti dobbiamo fare è di ripetere l’invocazione
dei discepoli: “Maestro, insegnaci a pregare!”. Sarà bello, in questo tempo di
Avvento, ripeterlo: “Signore, insegnami a pregare”. Tutti possiamo andare un po’
oltre e pregare meglio; ma chiederlo al Signore: “Signore, insegnami a pregare”.
Facciamo questo, in questo tempo di Avvento, e Lui sicuramente non lascerà
cadere nel vuoto la nostra invocazione.
Catechesi sul “Padre nostro”:
2. Una preghiera che chiede con fiducia
Proseguiamo il cammino di catechesi sul “Padre nostro”, iniziato la scorsa
settimana. Gesù mette sulle labbra dei suoi discepoli una preghiera breve,
audace, fatta di sette domande – un numero che nella Bibbia non è casuale,
indica pienezza. Dico audace perché, se non l’avesse suggerita il Cristo,
probabilmente nessuno di noi – anzi, nessuno dei teologi più famosi - oserebbe
pregare Dio in questa maniera.
Gesù infatti invita i suoi discepoli ad avvicinarsi a Dio e a rivolgergli con
confidenza alcune richieste: anzitutto riguardo a Lui e poi riguardo a noi. Non
ci sono preamboli nel “Padre nostro”. Gesù non insegna formule per “ingraziarsi”
il Signore, anzi, invita a pregarlo facendo cadere le barriere della soggezione
e della paura. Non dice di rivolgersi a Dio chiamandolo “Onnipotente”,
“Altissimo”, “Tu, che sei tanto distante da noi, io sono un misero”: no, non
dice così, ma semplicemente «Padre», con tutta semplicità, come i bambini si
rivolgono al papà. E questa parola “Padre”, esprime la confidenza e la fiducia
filiale.
La preghiera del “Padre nostro” affonda le sue radici nella realtà concreta
dell’uomo. Ad esempio, ci fa chiedere il pane, il pane quotidiano: richiesta
semplice ma essenziale, che dice che la fede non è una questione “decorativa”,
staccata dalla vita, che interviene quando sono stati soddisfatti tutti gli
altri bisogni. Semmai la preghiera comincia con la vita stessa. La preghiera –
ci insegna Gesù – non inizia nell’esistenza umana dopo che lo stomaco è pieno:
piuttosto si annida dovunque c’è un uomo, un qualsiasi uomo che ha fame, che
piange, che lotta, che soffre e si domanda “perché”. La nostra prima preghiera,
in un certo senso, è stato il vagito che ha accompagnato il primo respiro. In
quel pianto di neonato si annunciava il destino di tutta la nostra vita: la
nostra continua fame, la nostra continua sete, la nostra ricerca di felicità.
Gesù, nella preghiera, non vuole spegnere l’umano, non lo vuole anestetizzare.
Non vuole che smorziamo le domande e le richieste imparando a sopportare tutto.
Vuole invece che ogni sofferenza, ogni inquietudine, si slanci verso il cielo e
diventi dialogo.
Avere fede, diceva una persona, è un’abitudine al grido.
Dovremmo essere tutti quanti come il Bartimeo del Vangelo (cfr Mc 10,46-52) –
ricordiamo quel passo del Vangelo, Bartimeo, il figlio di Timeo -, quell’uomo
cieco che mendicava alle porte di Gerico. Intorno a sé aveva tanta brava gente
che gli intimava di tacere: “Ma stai zitto! Passa il Signore. Stati zitto. Non
disturbare. Il Maestro ha tanto da fare; non disturbarlo. Tu sei fastidioso con
le tue grida. Non disturbare”. Ma lui, non ascoltava quei consigli: con santa
insistenza, pretendeva che la sua misera condizione potesse finalmente
incontrare Gesù. E gridava più forte! E la gente educata: “Ma no, è il Maestro,
per favore! Fai una brutta figura!”. E lui gridava perché voleva vedere, voleva
essere guarito: «Gesù, abbi pietà di me!» (v. 47). Gesù gli ridona la vista, e
gli dice: «La tua fede ti ha salvato» (v. 52), quasi a spiegare che la cosa
decisiva per la sua guarigione è stata quella preghiera, quella invocazione
gridata con fede, più forte del “buonsenso” di tanta gente che voleva farlo
tacere. La preghiera non solo precede la salvezza, ma in qualche modo la
contiene già, perché libera dalla disperazione di chi non crede a una via
d’uscita da tante situazioni insopportabili.
Certo, poi, i credenti sentono anche il bisogno di lodare Dio. I vangeli ci
riportano l’esclamazione di giubilo che prorompe dal cuore di Gesù, pieno di
stupore riconoscente al Padre (cfr Mt 11,25-27). I primi cristiani hanno perfino
sentito l’esigenza di aggiungere al testo del “Padre nostro” una dossologia:
«Perché tua è la potenza e la gloria nei secoli» (Didaché, 8, 2).
Ma nessuno di noi è tenuto ad abbracciare la teoria che qualcuno in passato ha
avanzato, che cioè la preghiera di domanda sia una forma debole della fede,
mentre la preghiera più autentica sarebbe la lode pura, quella che cerca Dio
senza il peso di alcuna richiesta. No, questo non è vero. La preghiera di
domanda è autentica, è spontanea, è un atto di fede in Dio che è il Padre, che è
buono, che è onnipotente. È un atto di fede in me, che sono piccolo, peccatore,
bisognoso. E per questo la preghiera, per chiedere qualcosa, è molto nobile. Dio
è il Padre che ha un’immensa compassione di noi, e vuole che i suoi figli gli
parlino senza paura, direttamente chiamandolo “Padre”; o nelle difficoltà
dicendo: “Ma Signore, cosa mi hai fatto?”. Per questo gli possiamo raccontare
tutto, anche le cose che nella nostra vita rimangono distorte e incomprensibili.
E ci ha promesso che sarebbe stato con noi per sempre, fino all’ultimo dei
giorni che passeremo su questa terra. Preghiamo il Padre nostro, cominciando
così, semplicemente: “Padre” o “Papà”. E Lui ci capisce e ci ama tanto.
Catechesi sul “Padre nostro”:
3. Al centro del discorso della montagna
Proseguiamo le nostre catechesi sul “Padre nostro”, illuminati dal mistero del
Natale che abbiamo da poco celebrato.
Il Vangelo di Matteo colloca il testo del “Padre nostro” in un punto strategico,
al centro del discorso della montagna (cfr 6,9-13). Intanto osserviamo la scena:
Gesù sale sulla collina presso il lago, si mette a sedere; intorno a sé ha la
cerchia dei suoi discepoli più intimi, e poi una grande folla di volti anonimi.
È questa assemblea eterogenea che riceve per prima la consegna del “Padre
nostro”.
La collocazione, come detto, è molto significativa; perché in questo lungo
insegnamento, che va sotto il nome di “discorso della montagna” (cfr
Mt5,1-7,27), Gesù condensa gli aspetti fondamentali del suo messaggio. L’esordio
è come un arco decorato a festa: le Beatitudini. Gesù incorona di felicità una
serie di categorie di persone che nel suo tempo – ma anche nel nostro! – non
erano molto considerate. Beati i poveri, i miti, i misericordiosi, le persone
umili di cuore… Questa è la rivoluzione del Vangelo. Dove c’è il Vangelo, c’è
rivoluzione. Il Vangelo non lascia quieto, ci spinge: è rivoluzionario. Tutte le
persone capaci di amore, gli operatori di pace che fino ad allora erano finiti
ai margini della storia, sono invece i costruttori del Regno di Dio. È come se
Gesù dicesse: avanti voi che portate nel cuore il mistero di un Dio che ha
rivelato la sua onnipotenza nell’amore e nel perdono!
Da questo portale d’ingresso, che capovolge i valori della storia, fuoriesce la
novità del Vangelo. La Legge non deve essere abolita ma ha bisogno di una nuova
interpretazione, che la riconduca al suo senso originario. Se una persona ha il
cuore buono, predisposto all’amore, allora comprende che ogni parola di Dio deve
essere incarnata fino alle sue ultime conseguenze. L’amore non ha confini: si
può amare il proprio coniuge, il proprio amico e perfino il proprio nemico con
una prospettiva del tutto nuova. Dice Gesù: «Ma io vi dico: amate i vostri
nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre
vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e
fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,44-45).
Ecco il grande segreto che sta alla base di tutto il discorso della montagna:
siate figli del Padre vostro che è nei cieli. Apparentemente questi capitoli del
Vangelo di Matteo sembrano essere un discorso morale, sembrano evocare un’etica
così esigente da apparire impraticabile, e invece scopriamo che sono soprattutto
un discorso teologico. Il cristiano non è uno che si impegna ad essere più buono
degli altri: sa di essere peccatore come tutti. Il cristiano semplicemente è
l’uomo che sosta davanti al nuovo Roveto Ardente, alla rivelazione di un Dio che
non porta l’enigma di un nome impronunciabile, ma che chiede ai suoi figli di
invocarlo con il nome di “Padre”, di lasciarsi rinnovare dalla sua potenza e di
riflettere un raggio della sua bontà per questo mondo così assetato di bene,
così in attesa di belle notizie.
Ecco dunque come Gesù introduce l’insegnamento della preghiera del “Padre
nostro”. Lo fa prendendo le distanze da due gruppi del suo tempo. Anzitutto gli
ipocriti: «Non siate simili agli ipocriti che, nelle sinagoghe e negli angoli
delle piazze, amano pregare stando ritti, per essere visti dalla gente» (Mt
6,5). C’è gente che è capace di tessere preghiere atee, senza Dio e lo fanno per
essere ammirati dagli uomini. E quante volte noi vediamo lo scandalo di quelle
persone che vanno in chiesa e stanno lì tutta la giornata o vanno tutti i giorni
e poi vivono odiando gli altri o parlando male della gente. Questo è uno
scandalo! Meglio non andare in chiesa: vivi così, come fossi ateo. Ma se tu vai
in chiesa, vivi come figlio, come fratello e dà una vera testimonianza, non una
contro-testimonianza. La preghiera cristiana, invece, non ha altro testimone
credibile che la propria coscienza, dove si intreccia intensissimo un continuo
dialogo con il Padre: «Quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta
e prega il Padre tuo, che è nel segreto» (Mt 6,6).
Poi Gesù prende le distanze dalla preghiera dei pagani: «Non sprecate parole
[…]: essi credono di venire ascoltati a forza di parole» (Mt 6,7). Qui forse
Gesù allude a quella “captatio
benevolentiae” che era la necessaria premessa di tante preghiere antiche: la
divinità doveva essere in qualche modo ammansita da una lunga serie di lodi,
anche di preghiere. Pensiamo a quella scena del Monte Carmelo, quando il profeta
Elia sfidò i sacerdoti di Baal. Loro gridavano, ballavano, chiedevano tante cose
perché il loro dio li ascoltasse. E invece Elia, stava zitto e il Signore si
rivelò a Elia. I pagani pensano che parlando, parlando, parlando, parlando si
prega. E anche io penso a tanti cristiani che credono che pregare è – scusatemi
– “parlare a Dio come un pappagallo”. No! Pregare si fa dal cuore, da dentro. Tu
invece – dice Gesù –, quando preghi, rivolgiti a Dio come un figlio a suo padre,
il quale sa di quali cose ha bisogno prima ancora che gliele chieda (cfr Mt
6,8). Potrebbe essere anche una preghiera silenziosa, il “Padre nostro”: basta
in fondo mettersi sotto lo sguardo di Dio, ricordarsi del suo amore di Padre, e
questo è sufficiente per essere esauditi.
È bello pensare che il nostro Dio non ha bisogno di sacrifici per conquistare il
suo favore! Non ha bisogno di niente, il nostro Dio: nella preghiera chiede solo
che noi teniamo aperto un canale di comunicazione con Lui per scoprirci sempre
suoi figli amatissimi. E Lui ci ama tanto.
Catechesi sul “Padre nostro”:
4. Bussate e vi sarà aperto
La catechesi di oggi fa riferimento al Vangelo di Luca. Infatti, è soprattutto
questo Vangelo, fin dai racconti dell’infanzia, a descrivere la figura del
Cristo in un’atmosfera densa di preghiera. In esso sono contenuti i tre inni che
scandiscono ogni giorno la preghiera della Chiesa: il
Benedictus, il Magnificat
e il Nunc dimittis.
E in questa catechesi sul Padre Nostro
andiamo avanti, vediamo Gesù come orante. Gesù prega. Nel racconto di Luca, ad
esempio, l’episodio della trasfigurazione scaturisce da un momento di preghiera.
Dice così: «Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne
candida e sfolgorante» (9,29). Ma ogni passo della vita di Gesù è come sospinto
dal soffio dello Spirito che lo guida in tutte le azioni. Gesù prega nel
battesimo al Giordano, dialoga con il Padre prima di prendere le decisioni più
importanti, si ritira spesso nella solitudine a pregare, intercede per Pietro
che di lì a poco lo rinnegherà. Dice così: «Simone, Simone, ecco: Satana vi ha
cercati per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, perché la tua fede
non venga meno» (Lc 22,31-32). Questo consola: sapere che Gesù prega per noi,
prega per me, per ognuno di noi perché la nostra fede non venga meno. E questo è
vero. “Ma padre, ancora lo fa?” Ancora lo fa, davanti al Padre. Gesù prega per
me. Ognuno di noi può dirlo. E anche possiamo dire a Gesù: “Tu stai pregando per
me, continua a pregare che ne ho bisogno”. Così: coraggiosi.
Perfino la morte del Messia è immersa in un clima di preghiera, tanto che le ore
della passione appaiono segnate da una calma sorprendente: Gesù consola le
donne, prega per i suoi crocifissori, promette il paradiso al buon ladrone, e
spira dicendo: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46). La
preghiera di Gesù pare attutire le emozioni più violente, i desideri di vendetta
e di rivalsa, riconcilia l’uomo con la sua nemica acerrima, riconcilia l’uomo
con questa nemica, che è la morte.
È sempre nel Vangelo di Luca che troviamo la richiesta, espressa da uno dei
discepoli, di poter essere educati da Gesù stesso alla preghiera. E dice così:
«Signore, insegnaci a pregare» (Lc 11,1). Vedevano lui che pregava. “Insegnaci –
anche noi possiamo dire al Signore – Signore tu stai pregando per me, lo so, ma
insegna a me a pregare, perché anche io possa pregare”.
Da questa richiesta – «Signore, insegnaci a pregare» – nasce un insegnamento
abbastanza esteso, attraverso il quale Gesù spiega ai suoi con quali parole e
con quali sentimenti si devono rivolgere a Dio.
La prima parte di questo insegnamento è proprio il Padre Nostro. Pregate così:
“Padre, che sei nei cieli”. “Padre”: quella parola tanto bella da dire. Noi
possiamo stare tutto il tempo della preghiera con quella parola soltanto:
“Padre”. E sentire che abbiamo un padre: non un padrone né un patrigno. No: un
padre. Il cristiano si rivolge a Dio chiamandolo anzitutto “Padre”.
In questo insegnamento che Gesù dà ai suoi discepoli è interessante soffermarsi
su alcune istruzioni che fanno da corona al testo della preghiera. Per darci
fiducia, Gesù spiega alcune cose. Esse insistono sugli atteggiamenti del
credente che prega. Per esempio, c’è la parabola dell’amico importuno, che va a
disturbare un’intera famiglia che dorme perché all’improvviso è arrivata una
persona da un viaggio e non ha pani da offrirgli. Cosa dice Gesù a questo che
bussa alla porta, e sveglia l’amico?: «Vi dico – spiega Gesù – che, anche se non
si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà
a dargliene quanti gliene occorrono» (Lc 11,9). Con questo vuole insegnarci a
pregare e a insistere nella preghiera. E subito dopo fa l’esempio di un padre
che ha un figlio affamato. Tutti voi, padri e nonni, che siete qui, quando il
figlio o il nipotino chiede qualcosa, ha fame, e chiede e chiede, poi piange,
grida, ha fame: «Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà
una serpe al posto del pesce?» (v. 11). E tutti voi avete l’esperienza quando il
figlio chiede, voi date da mangiare quello che chiede, per il bene di lui.
Con queste parole Gesù fa capire che Dio risponde sempre, che nessuna preghiera
resterà inascoltata, perché? Perché Lui è Padre, e non dimentica i suoi figli
che soffrono.
Certo, queste affermazioni ci mettono in crisi, perché tante nostre preghiere
sembra che non ottengano alcun risultato. Quante volte abbiamo chiesto e non
ottenuto – ne abbiamo l’esperienza tutti – quante volte abbiamo bussato e
trovato una porta chiusa? Gesù ci raccomanda, in quei momenti, di insistere e di
non darci per vinti. La preghiera trasforma sempre la realtà, sempre. Se non
cambiano le cose attorno a noi, almeno cambiamo noi, cambia il nostro cuore.
Gesù ha promesso il dono dello Spirito Santo ad ogni uomo e a ogni donna che
prega.
Possiamo essere certi che Dio risponderà. L’unica incertezza è dovuta ai tempi,
ma non dubitiamo che Lui risponderà. Magari ci toccherà insistere per tutta la
vita, ma Lui risponderà. Ce lo ha promesso: Lui non è come un padre che dà una
serpe al posto di un pesce. Non c’è nulla di più certo: il desiderio di felicità
che tutti portiamo nel cuore un giorno si compirà. Dice Gesù: «Dio non farà
forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui?» (Lc
18,7). Sì, farà giustizia, ci ascolterà. Che giorno di gloria e di risurrezione
sarà mai quello! Pregare è fin da ora la vittoria sulla solitudine e sulla
disperazione. Pregare. La preghiera cambia la realtà, non dimentichiamolo. O
cambia le cose o cambia il nostro cuore, ma sempre cambia. Pregare è fin da ora
la vittoria sulla solitudine e sulla disperazione. È come vedere ogni frammento
del creato che brulica nel torpore di una storia di cui a volte non afferriamo
il perché. Ma è in movimento, è in cammino, e alla fine di ogni strada, cosa c’è
alla fine della nostra strada? Alla fine della preghiera, alla fine di un tempo
in cui stiamo pregando, alla fine della vita: cosa c’è? C’è un Padre che aspetta
tutto e aspetta tutti con le braccia spalancate. Guardiamo questo Padre.
Catechesi sul “Padre nostro”:
5. Abbà, Padre
Proseguendo le catechesi sul “Padre nostro”, oggi partiamo dall’osservazione
che, nel Nuovo Testamento, la preghiera sembra voler arrivare all’essenziale,
fino a concentrarsi in una sola parola:
Abbà, Padre.
Abbiamo ascoltato ciò che scrive san Paolo nella Lettera ai Romani: «Voi non
avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete
ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo:
“Abbà! Padre!”» (8,15). E ai Galati l’Apostolo dice: «E che voi siete figli lo
prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il
quale grida: “Abbà! Padre!”» ( Gal 4,6). Ritorna per due volte la stessa
invocazione, nella quale si condensa tutta la novità del Vangelo. Dopo aver
conosciuto Gesù e ascoltato la sua predicazione, il cristiano non considera più
Dio come un tiranno da temere, non ne ha più paura ma sente fiorire nel suo
cuore la fiducia in Lui: può parlare con il Creatore chiamandolo “Padre”.
L’espressione è talmente importante per i cristiani che spesso si è conservata
intatta nella sua forma originaria: "Abbà".
È raro che nel Nuovo Testamento le espressioni aramaiche non vengano tradotte in
greco. Dobbiamo immaginare che in queste parole aramaiche sia rimasta come
“registrata” la voce di Gesù stesso: hanno rispettato l’idioma di Gesù. Nella
prima parola del “Padre nostro” troviamo subito la radicale novità della
preghiera cristiana.
Non si tratta solo di usare un simbolo – in questo caso, la figura del padre –
da legare al mistero di Dio; si tratta invece di avere, per così dire, tutto il
mondo di Gesù travasato nel proprio cuore. Se compiamo questa operazione,
possiamo pregare con verità il “Padre nostro”. Dire “ Abbà” è qualcosa di molto
più intimo, più commovente che semplicemente chiamare Dio “Padre”. Ecco perché
qualcuno ha proposto di tradurre questa parola aramaica originaria “Abbà” con
“Papà” o “Babbo”. Invece di dire “Padre nostro”, dire “Papà, Babbo”. Noi
continuiamo a dire “Padre nostro”, ma con il cuore siamo invitati a dire “Papà”,
ad avere un rapporto con Dio come quello di un bambino con il suo papà, che dice
“papà” e dice “babbo”. Infatti queste espressioni evocano affetto, evocano
calore, qualcosa che ci proietta nel contesto dell’età infantile: l’immagine di
un bambino completamente avvolto dall’abbraccio di un padre che prova infinita
tenerezza per lui. E per questo, cari fratelli e sorelle, per pregare bene,
bisogna arrivare ad avere un cuore di bambino. Non un cuore sufficiente: così
non si può pregare bene. Come un bambino nelle braccia di suo padre, del suo
papà, del suo babbo.
Ma sicuramente sono i Vangeli a introdurci meglio nel senso di questa parola.
Cosa significa per Gesù, questa parola? Il “Padre nostro” prende senso e colore
se impariamo a pregarlo dopo aver letto, per esempio, la parabola del padre
misericordioso, nel capitolo 15° di Luca (cfr Lc 15,11-32). Immaginiamo questa
preghiera pronunciata dal figlio prodigo, dopo aver sperimentato l’abbraccio di
suo padre che lo aveva atteso a lungo, un padre che non ricorda le parole
offensive che lui gli aveva detto, un padre che adesso gli fa capire
semplicemente quanto gli sia mancato. Allora scopriamo come quelle parole
prendono vita, prendono forza. E ci chiediamo: è mai possibile che Tu, o Dio,
conosca solo amore? Tu non conosci l’odio? No – risponderebbe Dio – io conosco
solo amore. Dov’è in Te la vendetta, la pretesa di giustizia, la rabbia per il
tuo onore ferito? E Dio risponderebbe: Io conosco solo amore.
Il padre di quella parabola ha nei suoi modi di fare qualcosa che molto ricorda
l’animo di una madre. Sono soprattutto
le madri a scusare i figli, a coprirli, a non interrompere l’empatia nei loro
confronti, a continuare a voler bene, anche quando questi non meriterebbero più
niente.
Basta evocare questa sola espressione –
Abbà – perché si sviluppi una preghiera cristiana. E San Paolo, nelle sue
lettere, segue questa stessa strada, e non potrebbe essere altrimenti, perché è
la strada insegnata da Gesù: in questa invocazione c’è una forza che attira
tutto il resto della preghiera.
Dio ti cerca, anche se tu non lo cerchi. Dio ti ama, anche se tu ti sei
dimenticato di Lui. Dio scorge in te una bellezza, anche se tu pensi di aver
sperperato inutilmente tutti i tuoi talenti. Dio è non solo un padre, è come una
madre che non smette mai di amare la sua creatura. D’altra parte, c’è una
“gestazione” che dura per sempre, ben oltre i nove mesi di quella fisica; è una
gestazione che genera un circuito infinito d’amore.
Per un cristiano, pregare è dire semplicemente “
Abbà”, dire “Papà”, dire “Babbo”, dire “Padre” ma con la fiducia di
un bambino.
Può darsi che anche a noi capiti di camminare su sentieri lontani da Dio, come è
successo al figlio prodigo; oppure di precipitare in una solitudine che ci fa
sentire abbandonati nel mondo; o, ancora, di sbagliare ed essere paralizzati da
un senso di colpa. In quei momenti difficili, possiamo trovare ancora la forza
di pregare, ricominciando dalla parola “Padre”, ma detta con il senso tenero di
un bambino: “ Abbà”, “Papà”. Lui non ci nasconderà il suo volto. Ricordate bene:
forse qualcuno ha dentro di sé cose brutte, cose che non sa come risolvere,
tanta amarezza per avere fatto questo e quest’altro… Lui non nasconderà il suo
volto. Lui non si chiuderà nel silenzio. Tu digli “Padre” e Lui ti risponderà.
Tu hai un padre. “Sì, ma io sono un delinquente…”. Ma hai un padre che ti ama!
Digli “Padre”, incomincia a pregare così, e nel silenzio ci dirà che mai ci ha
persi di vista. “Ma, Padre, io ho fatto questo…” – “Mai ti ho perso di vista, ho
visto tutto. Ma sono rimasto sempre lì, vicino a te, fedele al mio amore per
te”. Quella sarà la risposta. Non dimenticatevi mai di dire “Padre”. Grazie.
Catechesi sul “Padre nostro”:
6. Padre di tutti noi
Continuiamo il nostro percorso per imparare sempre meglio a pregare come Gesù ci
ha insegnato. Dobbiamo pregare come Lui ci ha insegnato a farlo.
Lui ha detto: quando preghi, entra nel silenzio della tua camera, ritirati dal
mondo e rivolgiti a Dio chiamandolo “Padre!”. Gesù vuole che i suoi discepoli
non siano come gli ipocriti che pregano stando dritti in piedi nelle piazze per
essere ammirati dalla gente (cfr Mt6,5). Gesù non vuole ipocrisia. La vera
preghiera è quella che si compie nel segreto della coscienza, del cuore:
imperscrutabile, visibile solo a Dio. Io e Dio. Essa rifugge dalla falsità: con
Dio è impossibile fingere. È impossibile, davanti a Dio non c’è trucco che abbia
potere, Dio ci conosce così, nudi nella coscienza, e fingere non si può. Alla
radice del dialogo con Dio c’è un dialogo silenzioso, come l’incrocio di sguardi
tra due persone che si amano: l’uomo e Dio incrociano gli sguardi, e questa è
preghiera. Guardare Dio e lasciarsi guardare da Dio: questo è pregare. “Ma,
padre, io non dico parole…”. Guarda Dio e lasciati guardare da Lui: è una
preghiera, una bella preghiera!
Eppure, nonostante la preghiera del discepolo sia tutta confidenziale, non scade
mai nell’intimismo. Nel segreto della coscienza, il cristiano non lascia il
mondo fuori dalla porta della sua camera, ma porta nel cuore le persone e le
situazioni, i problemi, tante cose, tutte le porto nella preghiera.
C’è un’assenza impressionante nel testo del “Padre nostro”. Se io domandassi a
voi qual è l’assenza impressionante nel testo del “Padre nostro”? Non sarà
facile rispondere. Manca una parola. Pensate tutti: che cosa manca nel “Padre
nostro”? Pensate, che cosa manca? Una parola. Una parola che ai nostri tempi –
ma forse sempre – tutti tengono in grande considerazione. Qual è la parola che
manca nel “Padre nostro” che preghiamo tutti i giorni? Per risparmiare tempo la
dirò io: manca la parola “io”. Mai si dice “io”. Gesù insegna a pregare avendo
sulle labbra anzitutto il “Tu”, perché la preghiera cristiana è dialogo: “sia
santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà”. Non il
mio nome, il mio regno, la mia volontà. Io no, non va. E poi passa al “noi”.
Tutta la seconda parte del “Padre nostro” è declinata alla prima persona
plurale: “dacci il nostro pane quotidiano, rimetti a noi i nostri debiti, non
abbandonarci alla tentazione, liberaci dal male”. Perfino le domande più
elementari dell’uomo – come quella di avere del cibo per spegnere la fame – sono
tutte al plurale. Nella preghiera cristiana, nessuno chiede il pane per sé:
dammi il pane di oggi, no, dacci, lo supplica per tutti, per tutti i poveri del
mondo. Non bisogna dimenticare questo, manca la parola “io”. Si prega con il tu
e con il noi. È un buon insegnamento di Gesù, non dimenticatelo.
Perché? Perché non c’è spazio per l’individualismo nel dialogo con Dio. Non c’è
ostentazione dei propri problemi come se noi fossimo gli unici al mondo a
soffrire. Non c’è preghiera elevata a Dio che non sia la preghiera di una
comunità di fratelli e sorelle, il noi: siamo in comunità, siamo fratelli e
sorelle, siamo un popolo che prega, “noi”. Una volta il cappellano di un carcere
mi ha fatto una domanda: “Mi dica, padre, qual è la parola contraria a ‘io’?”. E
io, ingenuo, ho detto: “Tu”. “Questo è l’inizio della guerra. La parola opposta
a ‘io’ è ‘noi’, dove c’è la pace, tutti insieme”. È un bell’insegnamento che ho
ricevuto da quel prete.
Nella preghiera, un cristiano porta tutte le difficoltà delle persone che gli
vivono accanto: quando scende la sera, racconta a Dio i dolori che ha incrociato
in quel giorno; pone davanti a Lui tanti volti, amici e anche ostili; non li
scaccia come distrazioni pericolose. Se uno non si accorge che attorno a sé c’è
tanta gente che soffre, se non si impietosisce per le lacrime dei poveri, se è
assuefatto a tutto, allora significa che il suo cuore… com’è? Appassito? No,
peggio: è di pietra. In questo caso è bene supplicare il Signore che ci tocchi
con il suo Spirito e intenerisca il nostro cuore: “Intenerisci, Signore, il mio
cuore”. È una bella preghiera: “Signore, intenerisci il mio cuore, perché possa
capire e farsi carico di tutti i problemi, tutti i dolori altrui”. Il Cristo non
è passato indenne accanto alle miserie del mondo: ogni volta che percepiva una
solitudine, un dolore del corpo o dello spirito, provava un senso forte di
compassione, come le viscere di una madre. Questo “sentire compassione” – non
dimentichiamo questa parola tanto cristiana: sentire compassione – è uno dei
verbi-chiave del Vangelo: è ciò che spinge il buon samaritano ad avvicinarsi
all’uomo ferito sul bordo della strada, al contrario degli altri che hanno il
cuore duro.
Ci possiamo chiedere: quando prego, mi apro al grido di tante persone vicine e
lontane? Oppure penso alla preghiera come a una specie di anestesia, per poter
stare più tranquillo? Butto lì la domanda, ognuno si risponda. In questo caso
sarei vittima di un terribile equivoco. Certo, la mia non sarebbe più una
preghiera cristiana. Perché quel “noi”, che Gesù ci ha insegnato, mi impedisce
di stare in pace da solo, e mi fa sentire responsabile dei miei fratelli e
sorelle.
Ci sono uomini che apparentemente non cercano Dio, ma Gesù ci fa pregare anche
per loro, perché Dio cerca queste persone più di tutti. Gesù non è venuto per i
sani, ma per i malati, per i peccatori (cfr Lc 5,31) – cioè per tutti, perché
chi pensa di essere sano, in realtà non lo è. Se lavoriamo per la giustizia, non
sentiamoci migliori degli altri: il Padre fa sorgere il suo sole sopra i buoni e
sopra i cattivi (cfr Mt 5,45). Ama tutti il Padre! Impariamo da Dio che è sempre
buono con tutti, al contrario di noi che riusciamo ad essere buoni solo con
qualcuno, con qualcuno che mi piace.
Fratelli e sorelle, santi e peccatori, siamo tutti fratelli amati dallo stesso
Padre. E, alla sera della vita, saremo giudicati sull’amore, su come abbiamo
amato. Non un amore solo sentimentale, ma compassionevole e concreto, secondo la
regola evangelica – non dimenticatela! –: «Tutto quello che avete fatto a uno
solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Così
dice il Signore. Grazie.
Catechesi sul “Padre nostro”:
7. Padre che sei nei cieli
L’udienza di oggi si sviluppa in due posti. Prima ho fatto l’incontro con i
fedeli di Benevento, che erano in San Pietro, e adesso con voi. E questo è
dovuto alla delicatezza della Prefettura della Casa Pontificia che non voleva
che voi prendeste freddo: ringraziamo loro, che hanno fatto questo. Grazie.
Proseguiamo le catechesi sul “Padre nostro”. Il primo passo di ogni preghiera
cristiana è l’ingresso in un mistero, quello della paternità di Dio. Non si può
pregare come i pappagalli. O tu entri nel mistero, nella consapevolezza che Dio
è tuo Padre, o non preghi. Se io voglio pregare Dio mio Padre incomincio il
mistero. Per capire in che misura Dio ci è padre, noi pensiamo alle figure dei
nostri genitori, ma dobbiamo sempre in qualche misura “raffinarle”, purificarle.
Lo dice anche il Catechismo della Chiesa Cattolica, dice così: «La purificazione
del cuore concerne le immagini paterne e materne, quali si sono configurate
nella nostra storia personale e culturale, e che influiscono sulla nostra
relazione con Dio» (n. 2779).
Nessuno di noi ha avuto genitori perfetti, nessuno; come noi, a nostra volta,
non saremo mai genitori, o pastori, perfetti. Tutti abbiamo difetti, tutti. Le
nostre relazioni di amore le viviamo sempre sotto il segno dei nostri limiti e
anche del nostro egoismo, perciò sono spesso inquinate da desideri di possesso o
di manipolazione dell’altro. Per questo a volte le dichiarazioni di amore si
tramutano in sentimenti di rabbia e di ostilità. Ma guarda, questi due si
amavano tanto la settimana scorsa, oggi si odiano a morte: questo lo vediamo
tutti i giorni! È per questo, perché tutti abbiamo radici amare dentro, che non
sono buone e alle volte escono e fanno del male.
Ecco perché, quando parliamo di Dio come “padre”, mentre pensiamo all’immagine
dei nostri genitori, specialmente se ci hanno voluto bene, nello stesso tempo
dobbiamo andare oltre. Perché l’amore di Dio è quello del Padre “che è nei
cieli”, secondo l’espressione che ci invita ad usare Gesù: è l’amore totale che
noi in questa vita assaporiamo solo in maniera imperfetta. Gli uomini e le donne
sono eternamente mendicanti di amore, - noi siamo mendicanti di amore, abbiamo
bisogno di amore - cercano un luogo dove essere finalmente amati, ma non lo
trovano. Quante amicizie e quanti amori delusi ci sono nel nostro mondo; tanti!
Il dio greco dell’amore, nella mitologia, è quello più tragico in assoluto: non
si capisce se sia un essere angelico oppure un demone. La mitologia dice che è
figlio di Poros e di
Penía, cioè della scaltrezza e della
povertà, destinato a portare in sé stesso un po’ della fisionomia di questi
genitori. Di qui possiamo pensare alla natura ambivalente dell’amore umano:
capace di fiorire e di vivere prepotente in un’ora del giorno, e subito dopo
appassire e morire; quello che afferra, gli sfugge sempre via (cfr Platone,
Simposio, 203). C’è un’espressione del
profeta Osea che inquadra in maniera impietosa la congenita debolezza del nostro
amore: «Il vostro amore è come una nube del mattino, come la rugiada che
all’alba svanisce» (6,4). Ecco che cos’è spesso il nostro amore: una promessa
che si fatica a mantenere, un tentativo che presto inaridisce e svapora, un po’
come quando al mattino esce il sole e si porta via la rugiada della notte.
Quante volte noi uomini abbiamo amato in questa maniera così debole e
intermittente. Tutti ne abbiamo l’esperienza: abbiamo amato ma poi quell’amore è
caduto o è diventato debole. Desiderosi di voler bene, ci siamo poi scontrati
con i nostri limiti, con la povertà delle nostre forze: incapaci di mantenere
una promessa che nei giorni di grazia ci sembrava facile da realizzare. In fondo
anche l’apostolo Pietro ha avuto paura e ha dovuto fuggire. L’apostolo Pietro
non è stato fedele all’amore di Gesù. Sempre c’è questa debolezza che ci fa
cadere. Siamo mendicanti che nel cammino rischiano di non trovare mai
completamente quel tesoro che cercano fin dal primo giorno della loro vita:
l’amore.
Però, esiste un altro amore, quello del
Padre “che è nei cieli”. Nessuno deve dubitare di essere destinatario di
questo amore. Ci ama. “Mi ama”, possiamo dire. Se anche nostro padre e nostra
madre non ci avessero amato – un’ipotesi storica –, c’è un Dio nei cieli che ci
ama come nessuno su questa terra ha mai fatto e potrà mai fare. L’amore di Dio è
costante. Dice il profeta Isaia: «Si dimentica forse una donna del suo bambino,
così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si
dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai. Ecco, sulle palme delle mie
mani ti ho disegnato» (49,15-16). Oggi è di moda il tatuaggio: “Sulle palme
delle mie mani ti ho disegnato”. Ho fatto un tatuaggio di te sulle mie mani. Io
sono nelle mani di Dio, così, e non posso toglierlo. L’amore di Dio è come
l’amore di una madre, che mai si può dimenticare. E se una madre si dimentica?
“Io non mi dimenticherò”, dice il Signore. Questo è l’amore perfetto di Dio,
così siamo amati da Lui. Se anche tutti i nostri amori terreni si sgretolassero
e non ci restasse in mano altro che polvere, c’è sempre per tutti noi, ardente,
l’amore unico e fedele di Dio.
Nella fame d’amore che tutti sentiamo, non cerchiamo qualcosa che non esiste:
essa è invece l’invito a conoscere Dio che è padre. La conversione di
Sant’Agostino, ad esempio, è transitata per questo crinale: il giovane e
brillante retore cercava semplicemente tra le creature qualcosa che nessuna
creatura gli poteva dare, finché un giorno ebbe il coraggio di alzare lo
sguardo. E in quel giorno conobbe Dio. Dio che ama.
L’espressione “nei cieli” non vuole esprimere una lontananza, ma una diversità
radicale di amore, un’altra dimensione di amore, un amore instancabile, un amore
che sempre rimarrà, anzi, che sempre è alla portata di mano. Basta dire “Padre
nostro che sei nei Cieli”, e quell’amore viene.
Pertanto, non temere! Nessuno di noi è solo. Se anche per sventura il tuo padre
terreno si fosse dimenticato di te e tu fossi in rancore con lui, non ti è
negata l’esperienza fondamentale della fede cristiana: quella di sapere che
sei figlio amatissimo di Dio, e che
non c’è niente nella vita che possa spegnere il suo amore appassionato per te.
Catechesi sul “Padre nostro”:
8. Sia santificato il tuo nome
Sembra che l’inverno se ne stia andando e
perciò siamo ritornati in Piazza. Benvenuti in piazza! Nel nostro percorso di
riscoperta della preghiera del “Padre nostro”, oggi approfondiremo la prima
delle sue sette invocazioni, cioè «sia santificato il tuo nome».
Le domande del “Padre nostro” sono sette, facilmente divisibili in due
sottogruppi. Le prime tre hanno al centro il “Tu” di Dio Padre; le altre quattro
hanno al centro il “noi” e le nostre necessità umane. Nella prima parte Gesù ci
fa entrare nei suoi desideri, tutti rivolti al Padre: «sia santificato il
tuo nome, venga il
tuo regno, sia fatta la
tua volontà»; nella seconda è Lui che
entra in noi e si fa interprete dei nostri
bisogni: il pane quotidiano, il perdono dei peccati, l’aiuto nella
tentazione e la liberazione dal male.
Qui sta la matrice di ogni preghiera cristiana – direi di ogni preghiera umana
–, che è sempre fatta, da una parte, di
contemplazione di Dio, del suo mistero, della sua bellezza e bontà, e,
dall’altra, di sincera e coraggiosa
richiesta di quello che ci serve per vivere, e vivere bene. Così, nella sua
semplicità e nella sua essenzialità, il “Padre nostro” educa chi lo prega a non
moltiplicare parole vane, perché – come Gesù stesso dice – «il Padre vostro sa
di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate» (Mt 6,8).
Quando parliamo con Dio, non lo facciamo per rivelare a Lui quello che abbiamo
nel cuore: Lui lo conosce molto meglio di noi! Se Dio è un mistero per noi, noi
invece non siamo un enigma ai suoi occhi (cfr Sal139,1-4). Dio è come quelle
mamme a cui basta uno sguardo per capire tutto dei figli: se sono contenti o
tristi, se sono sinceri o nascondono qualcosa…
Il primo passo della preghiera cristiana è dunque la consegna di noi stessi a
Dio, alla sua provvidenza. È come dire: “Signore, Tu sai tutto, non c’è nemmeno
bisogno che ti racconti il mio dolore, ti chiedo solo che tu stia qui accanto a
me: sei Tu la mia speranza”. È interessante notare che Gesù, nel discorso della
montagna, subito dopo aver trasmesso il testo del “Padre nostro”, ci esorta a
non preoccuparci e non affannarci per le cose. Sembra una contraddizione: prima
ci insegna a chiedere il pane quotidiano e poi ci dice: «Non preoccupatevi
dunque dicendo: che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?» (Mt
6,31). Ma la contraddizione è solo apparente: le domande del cristiano esprimono
la confidenza nel Padre; ed è proprio questa fiducia che ci fa chiedere ciò di
cui abbiamo bisogno senza affanno e agitazione.
È per questo che preghiamo dicendo: “Sia
santificato il tuo nome!”. In questa domanda – la prima! “Sia
santificato il tuo nome!” – si sente tutta l’ammirazione di Gesù per la
bellezza e la grandezza del Padre, e il desiderio che tutti lo riconoscano e lo
amino per quello che veramente è. E nello stesso tempo c’è la supplica che il
suo nome sia santificato in noi, nella nostra famiglia, nella nostra comunità,
nel mondo intero. È Dio che santifica, che ci trasforma con il suo amore, ma
nello stesso tempo siamo anche noi che, con la nostra testimonianza,
manifestiamo la santità di Dio nel mondo, rendendo presente il suo nome. Dio è
santo, ma se noi, se la nostra vita non è santa, c’è una grande incoerenza! La
santità di Dio deve rispecchiarsi nelle nostre azioni, nella nostra vita. “Io
sono cristiano, Dio è santo, ma io faccio tante cose brutte”, no, questo non
serve. Questo fa anche male; questo scandalizza e non aiuta.
La santità di Dio è una forza in espansione, e noi supplichiamo perché frantumi
in fretta le barriere del nostro mondo. Quando Gesù incomincia a predicare, il
primo a pagarne le conseguenze è proprio il male che affligge il mondo. Gli
spiriti maligni imprecano: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a
rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!» (Mc1,24). Non si era mai vista
una santità così: non preoccupata di sé stessa, ma protesa verso l’esterno. Una
santità – quella di Gesù - che si allarga a cerchi concentrici, come quando si
getta un sasso in uno stagno. Il male ha i giorni contati – il male non è eterno
–, il male non può più nuocerci: è arrivato l’uomo forte che prende possesso
della sua casa (cfr Mc 3,23-27). E questo uomo forte è Gesù, che dà anche a noi
la forza per prendere possesso della nostra casa interiore.
La preghiera scaccia ogni timore. Il Padre ci ama, il Figlio alza le braccia
affiancandole alle nostre, lo Spirito lavora in segreto per la redenzione del
mondo. E noi? Noi non vacilliamo nell’incertezza. Ma abbiamo una grande
certezza: Dio mi ama; Gesù ha dato la vita per me! Lo Spirito è dentro di me. È
questa la grande cosa certa. E il male? Ha paura. E questo è bello.
Catechesi sul “Padre nostro”:
9. Venga il tuo Regno
Quando preghiamo il “Padre nostro”, la seconda invocazione con cui ci rivolgiamo
a Dio è «venga il tuo Regno» (Mt 6,10). Dopo aver pregato perché il suo nome sia
santificato, il credente esprime il desiderio che si affretti la venuta del suo
Regno. Questo desiderio è sgorgato, per così dire, dal cuore stesso di Cristo,
che iniziò la sua predicazione in Galilea proclamando: «Il tempo è compiuto e il
regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc 1,15). Queste
parole non sono affatto una minaccia, al contrario, sono un lieto annuncio, un
messaggio di gioia. Gesù non vuole spingere la gente a convertirsi seminando la
paura del giudizio incombente di Dio o il senso di colpa per il male commesso.
Gesù non fa proselitismo: annuncia, semplicemente. Al contrario, quella che Lui
porta è la Buona Notizia della salvezza, e a partire da essa chiama a
convertirsi. Ognuno è invitato a credere nel “vangelo”: la signoria di Dio si è
fatta vicina ai suoi figli. Questo è il Vangelo: la signoria di Dio si è fatta
vicina ai suoi figli. E Gesù annuncia questa cosa meravigliosa, questa grazia:
Dio, il Padre, ci ama, ci è vicino e ci insegna a camminare sulla strada della
santità.
I segni della venuta di questo Regno sono molteplici e tutti positivi. Gesù
inizia il suo ministero prendendosi cura degli ammalati, sia nel corpo che nello
spirito, di coloro che vivevano una esclusione sociale – per esempio i lebbrosi
–, dei peccatori guardati con disprezzo da tutti, anche da coloro che erano più
peccatori di loro ma facevano finta di essere giusti. E Gesù questi come li
chiama? “Ipocriti”. Gesù stesso indica questi segni, i segni del Regno di Dio:
«I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono
purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il
Vangelo» (Mt 11,5).
“Venga il tuo Regno!”, ripete con insistenza il cristiano quando prega il “Padre
nostro”. Gesù è venuto; però il mondo è ancora segnato dal peccato, popolato da
tanta gente che soffre, da persone che non si riconciliano e non perdonano, da
guerre e da tante forme di sfruttamento, pensiamo alla tratta dei bambini, per
esempio. Tutti questi fatti sono la prova che la vittoria di Cristo non si è
ancora completamente attuata: tanti uomini e donne vivono ancora con il cuore
chiuso. È soprattutto in queste situazioni che sulle labbra del cristiano
affiora la seconda invocazione del “Padre nostro”: “Venga il tuo regno!”. Che è
come dire: “Padre, abbiamo bisogno di Te! Gesù, abbiamo bisogno di te, abbiamo
bisogno che ovunque e per sempre Tu sia Signore in mezzo a noi!”. “Venga il tuo
regno, sii tu in mezzo a noi”.
A volte ci domandiamo: come mai questo Regno si realizza così lentamente? Gesù
ama parlare della sua vittoria con il linguaggio delle parabole. Ad esempio,
dice che il Regno di Dio è simile a un campo dove crescono insieme il buon grano
e la zizzania: il peggior errore sarebbe di voler intervenire subito estirpando
dal mondo quelle che ci sembrano erbe infestanti. Dio non è come noi, Dio ha
pazienza. Non è con la violenza che si instaura il Regno nel mondo: il suo stile
di propagazione è la mitezza (cfr Mt 13,24-30).
Il Regno di Dio è certamente una grande forza, la più grande che ci sia, ma non
secondo i criteri del mondo; per questo sembra non avere mai la maggioranza
assoluta. È come il lievito che si impasta nella farina: apparentemente
scompare, eppure è proprio esso che fa fermentare la massa (cfr Mt 13,33).
Oppure è come un granello di senape, così piccolo, quasi invisibile, che però
porta in sé la dirompente forza della natura, e una volta cresciuto diventa il
più grande di tutti gli alberi dell’orto (cfr Mt13,31-32).
In questo “destino” del Regno di Dio si può intuire la trama della vita di Gesù:
anche Lui è stato per i suoi contemporanei un segno esile, un evento pressoché
sconosciuto agli storici ufficiali del tempo. Un «chicco di grano» si è definito
Lui stesso, che muore nella terra ma solo così può dare «molto frutto» (cfr Gv
12,24). Il simbolo del seme è eloquente: un giorno il contadino lo affonda nella
terra (un gesto che sembra una sepoltura), e poi, «dorma o vegli, di notte o di
giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa» (Mc 4,27). Un
seme che germoglia è più opera di Dio che dell’uomo che l’ha seminato (cfr Mc
4,27). Dio ci precede sempre, Dio sorprende sempre. Grazie a Lui dopo la notte
del Venerdì santo c’è un’alba di Risurrezione capace di illuminare di speranza
il mondo intero.
“Venga il tuo Regno!”. Seminiamo questa parola in mezzo ai nostri peccati e ai
nostri fallimenti. Regaliamola alle persone sconfitte e piegate dalla vita, a
chi ha assaporato più odio che amore, a chi ha vissuto giorni inutili senza mai
capire il perché. Doniamola a coloro che hanno lottato per la giustizia, a tutti
i martiri della storia, a chi ha concluso di aver combattuto per niente e che in
questo mondo domina sempre il male. Sentiremo allora la preghiera del “Padre
nostro” rispondere. Ripeterà per l’ennesima volta quelle parole di speranza, le
stesse che lo Spirito ha posto a sigillo di tutte le Sacre Scritture: “Sì, vengo
presto!”: questa è la risposta del Signore. “Vengo presto”. Amen. E la Chiesa
del Signore risponde: “Vieni, Signore Gesù” (cfr Ap 2,20). “Venga il tuo regno”
è come dire “Vieni, Signore Gesù”. E Gesù dice: “Vengo presto”. E Gesù viene, a
suo modo, ma tutti i giorni. Abbiamo fiducia in questo. E quando preghiamo il
“Padre nostro” diciamo sempre: “Venga il tuo regno”, per sentire nel cuore: “Sì,
sì, vengo, e vengo presto”. Grazie!
Catechesi sul “Padre nostro”:
10. Sia fatta la tua volontà
Proseguendo le nostre catechesi sul
“Padre nostro”, oggi ci soffermiamo sulla terza invocazione: «Sia fatta la tua
volontà». Essa va letta in unità con le prime due – «sia santificato il tuo
nome» e «venga il tuo Regno» – così che l’insieme formi un trittico: «sia
santificato il tuo nome», «venga il tuo Regno», «sia fatta la tua volontà». Oggi
parleremo della terza.
Prima della cura del mondo da parte dell’uomo, vi è la cura instancabile che Dio
usa nei confronti dell’uomo e del mondo. Tutto il Vangelo riflette questa
inversione di prospettiva. Il peccatore Zaccheo sale su un albero perché vuole
vedere Gesù, ma non sa che, molto prima, Dio si era messo in cerca di lui. Gesù,
quando arriva, gli dice: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a
casa tua». E alla fine dichiara: «Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare
e a salvare ciò che era perduto» (Lc19,5.10). Ecco la volontà di Dio, quella che
noi preghiamo che sia fatta. Qual’è la volontà di Dio incarnata in Gesù? Cercare
e salvare quello che è perduto. E noi, nella preghiera, chiediamo che la ricerca
di Dio vada a buon fine, che il suo disegno universale di salvezza si compia,
primo, in ognuno di noi e poi in tutto il mondo. Avete pensato che cosa
significa che Dio sia alla ricerca di me? Ognuno di noi può dire: “Ma, Dio mi
cerca?” - “Sì! Cerca te! Cerca me”: cerca ognuno, personalmente. Ma è grande
Dio! Quanto amore c’è dietro tutto questo.
Dio non è ambiguo, non si nasconde dietro ad enigmi, non ha pianificato
l’avvenire del mondo in maniera indecifrabile. No, Lui è chiaro. Se non
comprendiamo questo, rischiamo di non capire il senso della terza espressione
del “Padre nostro”. Infatti, la Bibbia è piena di espressioni che ci raccontano
la volontà positiva di Dio nei confronti del mondo. E nel
Catechismo della Chiesa Cattolica troviamo una raccolta di citazioni
che testimoniano questa fedele e paziente volontà divina (cfr nn. 2821-2827). E
San Paolo, nella Prima Lettera a Timoteo, scrive: «Dio vuole che tutti gli
uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità» (2,4). Questa,
senza ombra di dubbio, è la volontà di Dio: la salvezza dell’uomo, degli uomini,
di ognuno di noi. Dio con il suo amore bussa alla porta del nostro cuore.
Perché? Per attirarci; per attirarci a Lui e portarci avanti nel cammino della
salvezza. Dio è vicino ad ognuno di noi con il suo amore, per portarci per mano
alla salvezza. Quanto amore c’è dietro di questo!
Quindi, pregando “sia fatta la tua volontà”, non siamo invitati a piegare
servilmente la testa, come se fossimo schiavi. No! Dio ci vuole liberi; è
l’amore di Lui che ci libera. Il “Padre nostro”, infatti, è la preghiera dei
figli, non degli schiavi; ma dei figli che conoscono il cuore del loro padre e
sono certi del suo disegno di amore. Guai a noi se, pronunciando queste parole,
alzassimo le spalle in segno di resa davanti a un destino che ci ripugna e che
non riusciamo a cambiare. Al contrario, è una preghiera piena di ardente fiducia
in Dio che vuole per noi il bene, la vita, la salvezza. Una preghiera
coraggiosa, anche combattiva, perché nel mondo ci sono tante, troppe realtà che
non sono secondo il piano di Dio. Tutti le conosciamo. Parafrasando il profeta
Isaia, potremmo dire: “Qui, Padre, c’è la guerra, la prevaricazione, lo
sfruttamento; ma sappiamo che Tu vuoi il nostro bene, perciò ti supplichiamo:
sia fatta la tua volontà! Signore, sovverti i piani del mondo, trasforma le
spade in aratri e le lance in falci; che nessuno si eserciti più nell’arte della
guerra!” (cfr 2,4). Dio vuole la pace.
Il “Padre nostro” è una preghiera che accende in noi lo stesso amore di Gesù per
la volontà del Padre, una fiamma che spinge a trasformare il mondo con l’amore.
Il cristiano non crede in un “fato” ineluttabile. Non c’è nulla di aleatorio
nella fede dei cristiani: c’è invece una salvezza che attende di manifestarsi
nella vita di ogni uomo e donna e di compiersi nell’eternità. Se preghiamo è
perché crediamo che Dio può e vuole trasformare la realtà vincendo il male con
il bene. A questo Dio ha senso obbedire e abbandonarsi anche nell’ora della
prova più dura.
Così è stato per Gesù nel giardino del Getsemani, quando ha sperimentato
l’angoscia e ha pregato: «Padre, se vuoi, allontana da me questo calice!
Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà» (Lc 22,42). Gesù è schiacciato
dal male del mondo, ma si abbandona fiducioso all’oceano dell’amore della
volontà del Padre. Anche i martiri, nella loro prova, non ricercavano la morte,
ricercavano il dopo morte, la risurrezione. Dio, per amore, può portarci a
camminare su sentieri difficili, a sperimentare ferite e spine dolorose, ma non
ci abbandonerà mai. Sempre sarà con noi, accanto a noi, dentro di noi. Per un
credente questa, più che una speranza, è una certezza. Dio è con me. La stessa
che ritroviamo in quella parabola del Vangelo di Luca dedicata alla necessità di
pregare sempre. Dice Gesù: «Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che
gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico
che farà loro giustizia prontamente» (18,7-8). Così è il Signore, così ci ama,
così ci vuole bene. Ma, io ho voglia di invitarvi, adesso, tutti insieme a
pregare il Padre Nostro. E coloro di voi che non sanno l’italiano, lo preghino
nella lingua propria. Preghiamo insieme.
Catechesi sul “Padre nostro”:
11. Dacci il nostro pane quotidiano
Passiamo oggi ad analizzare la seconda parte del “Padre nostro”, quella in cui
presentiamo a Dio le nostre necessità. Questa seconda parte comincia con una
parola che profuma di quotidiano: il pane.
La preghiera di Gesù parte da una domanda impellente, che molto somiglia
all’implorazione di un mendicante: “Dacci il pane quotidiano!”. Questa preghiera
proviene da un’evidenza che spesso dimentichiamo, vale a dire che non siamo
creature autosufficienti, e che tutti i giorni abbiamo bisogno di nutrirci.
Le Scritture ci mostrano che per tanta gente l’incontro con Gesù si è realizzato
a partire da una domanda. Gesù non chiede invocazioni raffinate, anzi, tutta
l’esistenza umana, con i suoi problemi più concreti e quotidiani, può diventare
preghiera. Nei Vangeli troviamo una moltitudine di mendicanti che supplicano
liberazione e salvezza. Chi domanda il pane, chi la guarigione; alcuni la
purificazione, altri la vista; o che una persona cara possa rivivere... Gesù non
passa mai indifferente accanto a queste richieste e a questi dolori.
Dunque, Gesù ci insegna a chiedere al Padre il pane quotidiano. E ci insegna a
farlo uniti a tanti uomini e donne per i quali questa preghiera è un grido –
spesso tenuto dentro – che accompagna l’ansia di ogni giorno. Quante madri e
quanti padri, ancora oggi, vanno a dormire col tormento di non avere l’indomani
pane a sufficienza per i propri figli! Immaginiamo questa preghiera recitata non
nella sicurezza di un comodo appartamento, ma nella precarietà di una stanza in
cui ci si adatta, dove manca il necessario per vivere. Le parole di Gesù
assumono una forza nuova. L’orazione cristiana comincia da questo livello. Non è
un esercizio per asceti; parte dalla realtà, dal cuore e dalla carne di persone
che vivono nel bisogno, o che condividono la condizione di chi non ha il
necessario per vivere. Nemmeno i più alti mistici cristiani possono prescindere
dalla semplicità di questa domanda. “Padre, fa’ che per noi e per tutti, oggi ci
sia il pane necessario”. E “pane” sta anche per acqua, medicine, casa, lavoro…
Chiedere il necessario per vivere.
Il pane che il cristiano chiede nella preghiera non è il “mio” ma è il “nostro”
pane. Così vuole Gesù. Ci insegna a chiederlo non solo per sé stessi, ma per
l’intera fraternità del mondo. Se non si prega in questo modo, il “Padre nostro”
cessa di essere una orazione cristiana. Se Dio è nostro Padre, come possiamo
presentarci a Lui senza prenderci per mano? Tutti noi. E se il pane che Lui ci
dà ce lo rubiamo tra di noi, come possiamo dirci suoi figli? Questa preghiera
contiene un atteggiamento di empatia, un atteggiamento di solidarietà. Nella mia
fame sento la fame delle moltitudini, e allora pregherò Dio finché la loro
richiesta non sarà esaudita. Così Gesù educa la sua comunità, la sua Chiesa, a
portare a Dio le necessità di tutti: “Siamo tutti tuoi figli, o Padre, abbi
pietà di noi!”. E adesso ci farà bene fermarci un po’ e pensare ai bambini
affamati. Pensiamo ai bambini che sono in Paesi in guerra: i bambini affamati
dello Yemen, i bambini affamati nella Siria, i bambini affamati in tanti Paesi
dove non c’è il pane, nel Sud Sudan. Pesiamo a questi bambini e pensando a loro
diciamo insieme, a voce alta, la preghiera: “Padre, dacci oggi il pane
quotidiano”. Tutti insieme.
Il pane che chiediamo al Signore nella preghiera è quello stesso che un giorno
ci accuserà. Ci rimprovererà la poca abitudine a spezzarlo con chi ci è vicino,
la poca abitudine a condividerlo. Era un pane regalato per l’umanità, e invece è
stato mangiato solo da qualcuno: l’amore non può sopportare questo. Il nostro
amore non può sopportarlo; e neppure l’amore di Dio può sopportare questo
egoismo di non condividere il pane.
Una volta c’era una grande folla davanti a Gesù; era gente che aveva fame. Gesù
domandò se qualcuno avesse qualcosa, e si trovò solo un bambino disposto a
condividere la sua provvista: cinque pani e due pesci. Gesù moltiplicò quel
gesto generoso (cfr Gv 6,9). Quel bambino aveva capito la lezione del “Padre
nostro”: che il cibo non è proprietà privata – mettiamoci questo in testa: il
cibo non è proprietà privata -, ma provvidenza da condividere, con la grazia di
Dio.
Il vero miracolo compiuto da Gesù quel giorno non è tanto la moltiplicazione –
che è vero -, ma la condivisione: date quello che avete e io farò il miracolo.
Egli stesso, moltiplicando quel pane offerto, ha anticipato l’offerta di Sé nel
Pane eucaristico. Infatti, solo l’Eucaristia è in grado di saziare la fame di
infinito e il desiderio di Dio che anima ogni uomo, anche nella ricerca del pane
quotidiano.
Catechesi sul “Padre nostro”:
12. Rimetti a noi i nostri debiti
Dopo aver chiesto a Dio il pane di ogni giorno, la preghiera del “Padre nostro”
entra nel campo delle nostre relazioni con gli altri. E Gesù ci insegna a
chiedere al Padre: «Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai
nostri debitori» (Mt 6,12). Come abbiamo bisogno del pane, così abbiamo bisogno
del perdono. E questo, ogni giorno.
Il cristiano che prega chiede anzitutto a Dio che vengano rimessi i suoi
debiti, cioè i suoi peccati, le cose
brutte che fa. Questa è la prima verità di ogni preghiera: fossimo anche persone
perfette, fossimo anche dei santi cristallini che non deflettono mai da una vita
di bene, restiamo sempre dei figli che al Padre devono tutto. L’atteggiamento
più pericoloso di ogni vita cristiana qual è? È l’orgoglio. È l’atteggiamento di
chi si pone davanti a Dio pensando di avere sempre i conti in ordine con Lui:
l’orgoglioso crede che ha tutto al suo posto. Come quel fariseo della parabola,
che nel tempio pensa di pregare ma in realtà loda sé stesso davanti a Dio: “Ti
ringrazio, Signore, perché io non sono come gli altri”. E la gente che si sente
perfetta, la gente che critica gli altri, è gente orgogliosa. Nessuno di noi è
perfetto, nessuno. Al contrario il pubblicano, che era dietro, nel tempio, un
peccatore disprezzato da tutti, si ferma sulla soglia del tempio, e non si sente
degno di entrare, e si affida alla misericordia di Dio. E Gesù commenta:
«Questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato» (Lc 18,14),
cioè perdonato, salvato. Perché? Perché non era orgoglioso, perché riconosceva i
suoi limiti e i suoi peccati.
Ci sono peccati che si vedono e peccati che non si vedono. Ci sono peccati
eclatanti che fanno rumore, ma ci sono anche peccati subdoli, che si annidano
nel cuore senza che nemmeno ce ne accorgiamo. Il peggiore di questi è la
superbia che può contagiare anche le persone che vivono una vita religiosa
intensa. C’era una volta un convento di suore, nell’anno 1600-1700, famoso, al
tempo del giansenismo: erano perfettissime e si diceva di loro che fossero
purissime come gli angeli, ma superbe come i demoni. È una cosa brutta. Il
peccato divide la fraternità, il peccato ci fa presumere di essere migliori
degli altri, il peccato ci fa credere che siamo simili a Dio.
E invece davanti a Dio siamo tutti peccatori e abbiamo motivo di batterci il
petto – tutti! – come quel pubblicano al tempio. San Giovanni, nella sua prima
Lettera, scrive: «Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la
verità non è in noi» (1 Gv1,8). Se tu vuoi ingannare te stesso, dì che non hai
peccato: così ti stai ingannando.
Siamo debitori anzitutto perché in questa vita abbiamo ricevuto tanto:
l’esistenza, un padre e una madre, l’amicizia, le meraviglie del creato... Anche
se a tutti capita di attraversare giorni difficili, dobbiamo sempre ricordarci
che la vita è una grazia, è il miracolo che Dio ha estratto dal nulla.
In secondo luogo siamo debitori perché, anche se riusciamo ad amare, nessuno di
noi è capace di farlo con le sue sole forze. L’amore vero è quando possiamo
amare, ma con la grazia di Dio. Nessuno di noi brilla di luce propria. C’è
quello che i teologi antichi chiamavano un “mysterium
lunae” non solo nell’identità della Chiesa, ma anche nella storia di
ciascuno di noi. Cosa significa, questo “mysterium
lunae”? Che è come la luna, che non ha luce propria: riflette la luce del
sole. Anche noi, non abbiamo luce propria: la luce che abbiamo è un riflesso
della grazia di Dio, della luce di Dio. Se ami è perché qualcuno, all’esterno di
te, ti ha sorriso quando eri un bambino, insegnandoti a rispondere con un
sorriso. Se ami è perché qualcuno accanto a te ti ha risvegliato all’amore,
facendoti comprendere come in esso risiede il senso dell’esistenza.
Proviamo ad ascoltare la storia di qualche persona che ha sbagliato: un
carcerato, un condannato, un drogato … conosciamo tanta gente che sbaglia nella
vita. Fatta salva la responsabilità, che è sempre personale, ti domandi qualche
volta chi debba essere incolpato dei suoi sbagli, se solo la sua coscienza, o la
storia di odio e di abbandono che qualcuno si porta dietro.
E questo è il mistero della luna: amiamo anzitutto perché siamo stati amati,
perdoniamo perché siamo stati perdonati. E se qualcuno non è stato illuminato
dalla luce del sole, diventa gelido come il terreno d’inverno.
Come non riconoscere, nella catena d’amore che ci precede, anche la presenza
provvidente dell’amore di Dio? Nessuno di noi ama Dio quanto Lui ha amato noi.
Basta mettersi davanti a un crocifisso per cogliere la sproporzione: Egli ci ha
amato e sempre ci ama per primo.
Preghiamo dunque: Signore, anche il più santo in mezzo a noi non cessa di essere
tuo debitore. O Padre, abbi pietà di tutti noi!
Catechesi sul “Padre nostro”:
13. Come noi li rimettiamo ai nostri debitori
Oggi completiamo la catechesi sulla quinta domanda del “Padre nostro”,
soffermandoci sull’espressione «come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori»
(Mt 6,12). Abbiamo visto che è proprio dell’uomo essere debitore davanti a Dio:
da Lui abbiamo ricevuto tutto, in termini di natura e di grazia. La nostra vita
non solo è stata voluta, ma è stata amata da Dio. Davvero non c’è spazio per la
presunzione quando congiungiamo le mani per pregare. Non esistono nella Chiesa
“self made man”, uomini che si sono fatti da soli. Siamo tutti debitori verso
Dio e verso tante persone che ci hanno regalato condizioni di vita favorevoli.
La nostra identità si costruisce a partire dal bene ricevuto. Il primo è la
vita.
Chi prega impara a dire “grazie”. E noi ci dimentichiamo tante volte di dire
“grazie”, Siamo egoisti. Chi prega impara a dire “grazie” e chiede a Dio di
essere benevolo con lui o con lei. Per quanto ci sforziamo, rimane sempre un
debito incolmabile davanti a Dio, che mai potremo restituire: Egli ci ama
infinitamente più di quanto noi lo amiamo. E poi, per quanto ci impegniamo a
vivere secondo gli insegnamenti cristiani, nella nostra vita ci sarà sempre
qualcosa di cui chiedere perdono: pensiamo ai giorni trascorsi pigramente, ai
momenti in cui il rancore ha occupato il nostro cuore e così via. Sono queste
esperienze, purtroppo non rare, che ci fanno implorare: “Signore, Padre, rimetti
a noi i nostri debiti”. Chiediamo così perdono a Dio.
A pensarci bene, l’invocazione poteva anche limitarsi a questa prima parte;
sarebbe stata bella. Invece Gesù la salda con una seconda espressione che fa
tutt’uno con la prima. La relazione di benevolenza verticale da parte di Dio si
rifrange ed è chiamata a tradursi in una relazione nuova che viviamo con i
nostri fratelli: una relazione orizzontale. Il Dio buono ci invita ad essere
tutti quanti buoni. Le due parti dell’invocazione si legano insieme con una
congiunzione impietosa: chiediamo al Signore di rimettere i nostri debiti, i
nostri peccati, “come” noi perdoniamo i nostri amici, la gente che vive con noi,
i nostri vicini, la gente che ci ha fatto qualcosa di non bello.
Ogni cristiano sa che esiste per lui il perdono dei peccati, questo lo sappiamo
tutti: Dio perdona tutto e perdona sempre. Quando Gesù racconta ai suoi
discepoli il volto di Dio, lo tratteggia con espressioni di tenera misericordia.
Dice che c’è più gioia nei cieli per un peccatore che si pente, piuttosto che
per una folla di giusti che non hanno bisogno di conversione (cfr Lc 15,7.10).
Nulla nei Vangeli lascia sospettare che Dio non perdoni i peccati di chi è ben
disposto e chiede di essere riabbracciato.
Ma la grazia di Dio, così abbondante, è sempre impegnativa. Chi ha ricevuto
tanto deve imparare a dare tanto e non trattenere solo per sé quello che ha
ricevuto. Chi ha ricevuto tanto deve imparare a dare tanto. Non è un caso che il
Vangelo di Matteo, subito dopo aver regalato il testo del “Padre nostro”, tra le
sette espressioni usate si soffermi a sottolineare proprio quella del perdono
fraterno: «Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro
che è nei cieli perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli altri,
neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe» (Mt 6,14-15). Ma questo è
forte! Io penso: alcune volte ho sentito gente che ha detto: “Io non perdonerò
mai quella persona! Quello che mi hanno fatto non lo perdonerò mai!”. Ma se tu
non perdoni, Dio non ti perdonerà. Tu chiudi la porta. Pensiamo, noi, se siamo
capaci di perdonare o se non perdoniamo. Un prete, quando ero nell’altra
diocesi, mi ha raccontato angosciato che era andato a dare gli ultimi sacramenti
ad un’anziana che era in punto di morte. La povera signora non poteva parlare. E
il sacerdote le dice: “Signora, lei si pente dei peccati?”. La signora ha detto
di sì; non poteva confessarli ma ha detto di sì. È sufficiente. E poi ancora:
“Lei perdona gli altri?”. E la signora, in punto di morte ha detto: “No”. Il
prete è rimasto angosciato. Se tu non perdoni, Dio non ti perdonerà. Pensiamo,
noi che stiamo qui, se noi perdoniamo o se siamo capaci di perdonare. “Padre, io
non ce la faccio, perché quella gente me ne ha fatte tante”. Ma se tu non ce la
fai, chiedi al Signore che ti dia la forza per farcela: Signore, aiutami a
perdonare. Ritroviamo qui la saldatura tra l’amore per Dio e quello per il
prossimo. Amore chiama amore, perdono chiama perdono. Ancora in Matteo troviamo
una parabola intensissima dedicata al perdono fraterno (cfr 18,21-35).
Ascoltiamola.
C’era un servo che aveva contratto un debito enorme con il suo re: diecimila
talenti! Una somma impossibile da restituire; non so quanto sarebbe oggi, ma
centinaia di milioni. Però succede il miracolo, e quel servo riceve non una
dilazione di pagamento, ma il condono pieno. Una grazia insperata! Ma ecco che
proprio quel servo, subito dopo, si accanisce contro un suo fratello che gli
deve cento denari – piccola cosa -, e, pur essendo questa una cifra accessibile,
non accetta scuse né suppliche. Perciò, alla fine, il padrone lo richiama e lo
fa condannare. Perché se non ti sforzi di perdonare, non verrai perdonato; se
non ti sforzi di amare, nemmeno verrai amato.
Gesù inserisce nei rapporti umani la forza del perdono. Nella vita non tutto si
risolve con la giustizia. No. Soprattutto laddove si deve mettere un argine al
male, qualcuno deve amare oltre il dovuto, per ricominciare una storia di
grazia. Il male conosce le sue vendette, e se non lo si interrompe rischia di
dilagare soffocando il mondo intero.
Alla legge del taglione – quello che tu hai fatto a me, io lo restituisco a te,
Gesù sostituisce la legge dell’amore:
quello che Dio ha fatto a me, io lo restituisco a te! Pensiamo oggi, in questa
settimana di Pasqua tanto bella, se io sono capace di perdonare. E se non mi
sento capace, devo chiedere al Signore che mi dia la grazia di perdonare, perché
è una grazia il saper perdonare.
Dio dona ad ogni cristiano la grazia di scrivere una storia di bene nella vita
dei suoi fratelli, specialmente di quelli che hanno compiuto qualcosa di
spiacevole e di sbagliato. Con una parola, un abbraccio, un sorriso, possiamo
trasmettere agli altri ciò che abbiamo ricevuto di più prezioso. Qual è la cosa
preziosa che noi abbiamo ricevuto? Il perdono, che dobbiamo essere capaci di
dare anche agli altri.
Catechesi sul “Padre nostro”:
14. Non abbandonarci alla tentazione
Proseguiamo nella catechesi sul “Padre nostro”, arrivando ormai alla penultima
invocazione: «Non abbandonarci alla tentazione» (Mt6,13). Un’altra versione
dice: “Non lasciare che cadiamo in tentazione”. Il “Padre nostro” incomincia in
maniera serena: ci fa desiderare che il grande progetto di Dio si possa compiere
in mezzo a noi. Poi getta uno sguardo sulla vita, e ci fa domandare ciò di cui
abbiamo bisogno ogni giorno: il “pane quotidiano”. Poi la preghiera si rivolge
alle nostre relazioni interpersonali, spesso inquinate dall’egoismo: chiediamo
il perdono e ci impegniamo a darlo. Ma è con questa penultima invocazione che il
nostro dialogo con il Padre celeste entra, per così dire, nel vivo del dramma,
cioè sul terreno del confronto tra la nostra libertà e le insidie del maligno.
Come è noto, l’espressione originale greca contenuta nei Vangeli è difficile da
rendere in maniera esatta, e tutte le traduzioni moderne sono un po’ zoppicanti.
Su un elemento però possiamo convergere in maniera unanime: comunque si
comprenda il testo, dobbiamo escludere che sia Dio il protagonista delle
tentazioni che incombono sul cammino dell’uomo. Come se Dio stesse in agguato
per tendere insidie e tranelli ai suoi figli. Un’interpretazione di questo
genere contrasta anzitutto con il testo stesso, ed è lontana dall’immagine di
Dio che Gesù ci ha rivelato. Non dimentichiamo: il “Padre nostro” incomincia con
“Padre”. E un padre non fa dei tranelli ai figli. I cristiani non hanno a che
fare con un Dio invidioso, in competizione con l’uomo, o che si diverte a
metterlo alla prova. Queste sono le immagini di tante divinità pagane. Leggiamo
nella Lettera di Giacomo apostolo: «Nessuno, quando è tentato, dica: “Sono
tentato da Dio”; perché Dio non può essere tentato al male ed egli non tenta
nessuno» (1,13). Semmai il contrario: il Padre non è l’autore del male, a nessun
figlio che chiede un pesce dà una serpe (cfr Lc 11,11) – come Gesù insegna – e
quando il male si affaccia nella vita dell’uomo, combatte al suo fianco, perché
possa esserne liberato. Un Dio che sempre combatte per noi, non contro di noi. È
il Padre! È in questo senso che noi preghiamo il “Padre nostro”.
Questi due momenti – la prova e la tentazione – sono stati misteriosamente
presenti nella vita di Gesù stesso. In questa esperienza il Figlio di Dio si è
fatto completamente nostro fratello, in una maniera che sfiora quasi lo
scandalo. E sono proprio questi brani evangelici a dimostrarci che le
invocazioni più difficili del “Padre nostro”, quelle che chiudono il testo, sono
già state esaudite: Dio non ci ha lasciato soli, ma in Gesù Egli si manifesta
come il “Dio-con-noi” fino alle estreme conseguenze. È con noi quando ci dà la
vita, è con noi durante la vita, è con noi nella gioia, è con noi nelle prove, è
con noi nelle tristezze, è con noi nelle sconfitte, quando noi pecchiamo, ma
sempre è con noi, perché è Padre e non può abbandonarci.
Se siamo tentati di compiere il male, negando la fraternità con gli altri e
desiderando un potere assoluto su tutto e tutti, Gesù ha già combattuto per noi
questa tentazione: lo attestano le prime pagine dei Vangeli. Subito dopo aver
ricevuto il battesimo da Giovanni, in mezzo alla folla dei peccatori, Gesù si
ritira nel deserto e viene tentato da Satana. Incomincia così la vita pubblica
di Gesù, con la tentazione che viene da Satana. Satana era presente. Tanta gente
dice: “Ma perché parlare del diavolo che è una cosa antica? Il diavolo non
esiste”. Ma guarda che cosa ti insegna il Vangelo: Gesù si è confrontato con il
diavolo, è stato tentato da Satana. Ma Gesù respinge ogni tentazione ed esce
vittorioso. Il Vangelo di Matteo ha una nota interessante che chiude il duello
tra Gesù e il Nemico: «Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco, degli angeli gli si
avvicinarono e lo servivano» (4,11).
Ma anche nel tempo della prova suprema Dio non ci lascia soli. Quando Gesù si
ritira a pregare nel Getsemani, il suo cuore viene invaso da un’angoscia
indicibile – così dice ai discepoli – ed Egli sperimenta la solitudine e
l’abbandono. Solo, con la responsabilità di tutti i peccati del mondo sulle
spalle; solo, con un’angoscia indicibile. La prova è tanto lacerante che capita
qualcosa di inaspettato. Gesù non mendica mai amore per sé stesso, eppure in
quella notte sente la sua anima triste fino alla morte, e allora chiede la
vicinanza dei suoi amici: «Restate qui e vegliate con me!» (Mt 26,38). Come
sappiamo, i discepoli, appesantiti da un torpore causato dalla paura, si
addormentarono. Nel tempo dell’agonia, Dio chiede all’uomo di non abbandonarlo,
e l’uomo invece dorme. Nel tempo in cui l’uomo conosce la sua prova, Dio invece
veglia. Nei momenti più brutti della nostra vita, nei momenti più sofferenti,
nei momenti più angoscianti, Dio veglia con noi, Dio lotta con noi, è sempre
vicino a noi. Perché? Perché è Padre. Così abbiamo incominciato la preghiera:
“Padre nostro”. E un padre non abbandona i suoi figli. Quella notte di dolore di
Gesù, di lotta sono l’ultimo sigillo dell’Incarnazione: Dio scende a trovarci
nei nostri abissi e nei travagli che costellano la storia.
È il nostro conforto nell’ora della prova: sapere che quella valle, da quando
Gesù l’ha attraversata, non è più desolata, ma è benedetta dalla presenza del
Figlio di Dio. Lui non ci abbandonerà mai!
Allontana dunque da noi, o Dio, il tempo della prova e della tentazione. Ma
quando arriverà per noi questo tempo, Padre nostro, mostraci che non siamo soli.
Tu sei il Padre. Mostraci che il Cristo ha già preso su di sé anche il peso di
quella croce. Mostraci che Gesù ci chiama a portarla con Lui, abbandonandoci
fiduciosi al tuo amore di Padre. Grazie.
Catechesi sul “Padre nostro”:
15. Ma liberaci dal male
Eccoci infine arrivati alla settima domanda del “Padre nostro”: «Ma liberaci dal
male» (Mt 6,13b).
Con questa espressione, chi prega non solo chiede di non essere abbandonato nel
tempo della tentazione, ma supplica anche di essere liberato dal male. Il verbo
greco originale è molto forte: evoca la presenza del maligno che tende ad
afferrarci e a morderci (cfr 1 Pt 5,8) e dal quale si chiede a Dio la
liberazione. L’apostolo Pietro dice anche che il maligno, il diavolo, è intorno
a noi come un leone furioso, per divorarci, e noi chiediamo a Dio di liberarci.
Con questa duplice supplica: “non abbandonarci” e “liberaci”, emerge una
caratteristica essenziale della preghiera cristiana. Gesù insegna ai suoi amici
a mettere l’invocazione del Padre davanti a tutto, anche e specialmente nei
momenti in cui il maligno fa sentire la sua presenza minacciosa. Infatti, la
preghiera cristiana non chiude gli occhi sulla vita. È una preghiera filiale e
non una preghiera infantile. Non è così infatuata della paternità di Dio, da
dimenticare che il cammino dell’uomo è irto di difficoltà. Se non ci fossero gli
ultimi versetti del “Padre nostro” come potrebbero pregare i peccatori, i
perseguitati, i disperati, i morenti? L’ultima petizione è proprio la petizione
di noi quando saremo nel limite, sempre.
C’è un male nella nostra vita, che è una presenza inoppugnabile. I libri di
storia sono il desolante catalogo di quanto la nostra esistenza in questo mondo
sia stata un’avventura spesso fallimentare. C’è un male misterioso, che
sicuramente non è opera di Dio ma che penetra silenzioso tra le pieghe della
storia. Silenzioso come il serpente che porta il veleno silenziosamente. In
qualche momento pare prendere il sopravvento: in certi giorni la sua presenza
sembra perfino più nitida di quella della misericordia di Dio.
L’orante non è cieco, e vede limpido davanti agli occhi questo male così
ingombrante, e così in contraddizione con il mistero stesso di Dio. Lo scorge
nella natura, nella storia, perfino nel suo stesso cuore. Perché non c’è nessuno
in mezzo a noi che possa dire di essere esente dal male, o di non esserne almeno
tentato. Tutti noi sappiamo cosa è il male; tutti noi sappiamo cosa è la
tentazione; tutti noi abbiamo sperimentato sulla nostra carne la tentazione, di
qualsiasi peccato. Ma il tentatore che ci muove e ci spinge al male, dicendoci:
“fa questo, pensa questo, va per quella strada”.
L’ultimo grido del “Padre nostro” è scagliato contro questo male “dalle larghe
falde”, che tiene sotto il suo ombrello le esperienze più diverse: i lutti
dell’uomo, il dolore innocente, la schiavitù, la strumentalizzazione dell’altro,
il pianto dei bambini innocenti. Tutti questi eventi protestano nel cuore
dell’uomo e diventano voce nell’ultima parola della preghiera di Gesù.
È proprio nei racconti della Passione che alcune espressioni del “Padre nostro”
trovano la loro eco più impressionante. Dice Gesù: «Abbà! Padre! Tutto è
possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma
ciò che vuoi tu» (Mc 14,36). Gesù sperimenta per intero la trafittura del male.
Non solo la morte, ma la morte di croce. Non solo la solitudine, ma anche il
disprezzo, l’umiliazione. Non solo il malanimo, ma anche la crudeltà,
l’accanimento contro di Lui. Ecco che cos’è l’uomo: un essere votato alla vita,
che sogna l’amore e il bene, ma che poi espone continuamente al male sé stesso e
i suoi simili, al punto che possiamo essere tentati di disperare dell’uomo.
Cari fratelli e sorelle, così il “Padre nostro” assomiglia a una sinfonia che
chiede di compiersi in ciascuno di noi. Il cristiano sa quanto soggiogante sia
il potere del male, e nello stesso tempo fa esperienza di quanto Gesù, che mai
ha ceduto alle sue lusinghe, sia dalla nostra parte e venga in nostro aiuto.
Così la preghiera di Gesù ci lascia la più preziosa delle eredità: la presenza
del Figlio di Dio che ci ha liberato dal male, lottando per convertirlo.
Nell’ora del combattimento finale, a Pietro intima di riporre la spada nel
fodero, al ladrone pentito assicura il paradiso, a tutti gli uomini che erano
intorno, inconsapevoli della tragedia che si stava consumando, offre una parola
di pace: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34).
Dal perdono di Gesù sulla croce scaturisce la pace, la vera pace viene dalla
croce: è dono del Risorto, un dono che ci dà Gesù. Pensate che il primo saluto
di Gesù risorto è “pace a voi”, pace alle vostre anime, ai vostri cuori, alle
vostre vite. Il Signore ci dà la pace, ci dà il perdono ma noi dobbiamo
chiedere: “liberaci dal male”, per non cadere nel male. Questa è la nostra
speranza, la forza che ci dà Gesù risorto, che è qui, in mezzo a noi: è qui. È
qui con quella forza che ci dà per andare avanti, e ci promette di liberarci dal
male.
Catechesi sul “Padre nostro”:
16. Ovunque tu sia, invoca il Padre
Oggi concludiamo il ciclo di catechesi sul “Padre nostro”. Possiamo dire che la
preghiera cristiana nasce dall’audacia di chiamare Dio con il nome di “Padre”.
Questa è la radice della preghiera cristiana: dire “Padre” a Dio. Ma ci vuole
coraggio! Non si tratta tanto di una formula, quanto di un’intimità filiale in
cui siamo introdotti per grazia: Gesù è il rivelatore del Padre e ci dona la
familiarità con Lui. «Non ci lascia una formula da ripetere meccanicamente. Come
per qualsiasi preghiera vocale, è attraverso la Parola di Dio che lo Spirito
Santo insegna ai figli di Dio a pregare il loro Padre» (Catechismo
della Chiesa Cattolica, 2766). Gesù stesso ha usato diverse espressioni per
pregare il Padre. Se leggiamo con attenzione i Vangeli, scopriamo che queste
espressioni di preghiera che affiorano sulle labbra di Gesù richiamano il testo
del “Padre nostro”.
Per esempio, nella notte del Getsemani Gesù prega in questa maniera: «Abbà!
Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che
voglio io, ma ciò che vuoi tu» (Mc 14,36). Abbiamo già richiamato questo testo
del Vangelo di Marco. Come non riconoscere in questa preghiera, per quanto
breve, una traccia del “Padre nostro”? In mezzo alle tenebre, Gesù invoca Dio
col nome di “Abbà”, con fiducia filiale e, pur sentendo paura e angoscia, chiede
che si compia la sua volontà.
In altri passi del Vangelo Gesù insiste con i suoi discepoli, perché coltivino
uno spirito di orazione. La preghiera deve essere insistente, e soprattutto deve
portare il ricordo dei fratelli, specialmente quando viviamo rapporti difficili
con loro. Dice Gesù: «Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro
qualcuno, perdonate, perché anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni a voi
le vostre colpe» (Mc 11,25). Come non riconoscere in queste espressioni
l’assonanza con il “Padre nostro”? E gli esempi potrebbero essere numerosi,
anche per noi.
Negli scritti di San Paolo non troviamo il testo del “Padre nostro”, ma la sua
presenza emerge in quella sintesi stupenda dove l’invocazione del cristiano si
condensa in una sola parola: “Abbà!” (cfr Rm 8,15; Gal 4,6).
Nel Vangelo di Luca, Gesù soddisfa pienamente la richiesta dei discepoli che,
vedendolo spesso appartarsi e immergersi in preghiera, un giorno si decidono a
chiedergli: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni – il Battista –
ha insegnato ai suoi discepoli» (11,1). E allora il Maestro insegnò loro la
preghiera al Padre.
Considerando nel complesso il Nuovo Testamento, si vede chiaramente che il primo
protagonista di ogni preghiera cristiana è lo Spirito Santo. Ma non
dimentichiamo questo: protagonista di ogni preghiera cristiana è lo Spirito
Santo. Noi non potremmo mai pregare senza la forza dello Spirito Santo. È Lui
che prega in noi e ci muove a pregare bene. Possiamo chiedere allo Spirito che
ci insegni a pregare, perché Lui è il protagonista, quello che fa la vera
preghiera in noi. Lui soffia nel cuore di ognuno di noi, che siamo discepoli di
Gesù. Lo Spirito ci rende capaci di pregare come figli di Dio, quali realmente
siamo per il Battesimo. Lo Spirito ci fa pregare nel “solco” che Gesù ha scavato
per noi. Questo è il mistero della preghiera cristiana: per grazia siamo
attratti in quel dialogo di amore della Santissima Trinità.
Gesù pregava così. Qualche volta ha usato espressioni che sono sicuramente molto
lontane dal testo del “Padre nostro”. Pensiamo alle parole iniziali del salmo
22, che Gesù pronuncia sulla croce: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai
abbandonato?» (Mt 27,46). Può il Padre celeste abbandonare il suo Figlio? No,
certamente. Eppure l’amore per noi, peccatori, ha portato Gesù fino a questo
punto: fino a sperimentare l’abbandono di Dio, la sua lontananza, perché ha
preso su di sé tutti i nostri peccati. Ma anche nel grido angosciato, rimane il
«Dio mio, Dio
mio». In quel “mio” c’è il nucleo della relazione col Padre, c’è il
nucleo della fede e della preghiera.
Ecco perché, a partire da questo nucleo, un cristiano può pregare in ogni
situazione. Può assumere tutte le preghiere della Bibbia, dei Salmi
specialmente; ma può pregare anche con tante espressioni che in millenni di
storia sono sgorgate dal cuore degli uomini. E al Padre non cessiamo mai di
raccontare dei nostri fratelli e sorelle in umanità, perché nessuno di loro, i
poveri specialmente, rimanga senza una consolazione e una porzione di amore.
Al termine di questa catechesi, possiamo ripetere quella preghiera di Gesù: «Ti
rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste
cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli» (Lc10,21). Per pregare
dobbiamo farci piccoli, perché lo Spirito Santo venga in noi e sia Lui a
guidarci nella preghiera.
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9 gennaio 2023 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net