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Chi sono i Padri?

Estratto da: "La patristica" di Élisabeth T. Barbier, Edizioni San Paolo 1996

 

Noi, dopo aver lavato in questo modo colui che ha creduto e ha acconsentito, lo conduciamo tra coloro che sono chiamati fratelli, lì dove essi sono riuniti, per celebrare preghiere comuni e con fervore per noi stessi, per l’illuminato e per tutti gli altri di ogni luogo, affinché, avendo appreso la verità, possiamo essere considerati buoni cittadini per le opere e custodi dei precetti, affinché possiamo salvarci nella salvezza eterna. Terminate le preghiere, ci salutiamo reciprocamente con un bacio [1].

 

Nel cristianesimo primitivo, come nella tradizione giudaica, il termine « padre » designa il maestro. Colui che ama e colui che guida. Colui che insegna, ma che sa anche annullarsi dietro il suo insegnamento. Il padre passa il testimone, come lo sportivo nello stadio. È mediatore e non proprietario del suo messaggio, comunicatore — per usare un termine attuale — contemporaneamente formatore e informatore. Padre adottivo della vita spirituale, il cui discepolo è chiamato « figlio », come indica Ireneo di Lione nell’Adversus haereses (Contro le eresie): « Colui che è stato ammaestrato dalla bocca di un altro si dice figlio di colui che l’ha ammaestrato e quello si dice suo padre ».

La precisazione « dalla bocca » è significativa. Il pane quotidiano non è che un alimento per il corpo. Analogamente l’acqua non può estinguere che la sola sete fisica. L’insegnamento trasmesso dai Padri è nutrimento di vita eterna, una fonte che, attraverso il dominio del corpo, tende a gerarchizzare i valori. La samaritana del vangelo l’ha ben compreso, quando dice a Gesù: « Signore, dammi quest’acqua, affinché io non abbia più sete e non debba più venire qui ad attingere» (Gv 4,15).

È a immagine di Cristo, per quanto ne sono capaci, che i Padri si sforzano di nutrire i loro figli, di mettere nelle loro bocche al tempo stesso l’eucaristia e la parola, il « pane vivente disceso dal cielo » (Gv 6,51). Il loro insegnamento è l’eredità ortodossa (letteralmente « retto dogma ») del vangelo. La paternità spirituale non esclude l’affettività, ma la trascende. La cura dei discepoli, la loro formazione negli attuali monasteri, sono affidate ai maestri e alle maestre dei novizi. Essi non rivendicano questo compito. Come i Padri dei primi secoli, vi sono chiamati. Come i Padri dei primi secoli, il loro ruolo non è attrarre a sé in virtù della propria personalità, ma cancellarsi per fare emergere, nei discepoli, ciò che aprirà la strada verso Dio. Ed è su di essi, oggi, che incombe la responsabilità di tracciare questo cammino nella tradizione dei primi apostoli.

 

 

La perfezione

Se potrai portare tutto il giogo del Signore, sarai perfetto; se non ti è possibile, fa’ quello che puoi.

 

Didachè

 

Non sono l’età anagrafica né la paternità naturale — anche se nei primi secoli alcuni Padri, quali Agostino di Ippona, ebbero dei figli — che fondano la paternità spirituale, ma la saggezza e il buonsenso. La giovane età non è incompatibile. La possibilità di essere padre non è appannaggio di qualcuno; tutti sono chiamati a imitare Cristo, a esprimersi e ad adottare una condotta esemplare. San Benedetto ne è testimone. Se nell’ultimo capitolo della Regola (73, 5) evoca le « Conferenze dei Padri », le loro « Istituzioni », le loro « Vite » e anche la « Regola del nostro santo padre Basilio », non trascura di affermare: « A consiglio siano chiamati tutti, poiché spesso è al più giovane che il Signore rivela ciò che è meglio»[2]. E Doroteo, maestro spirituale di Gaza — allora terra di pace — non teme di presentare come modello il giovane monaco Dositeo, pronto all’obbedienza e alla gioia.

Che i « piccoli » imparino ad essere responsabili quanto i loro padri sarà, nel XIII secolo, preoccupazione anche di Francesco d’Assisi: « Coloro che vogliono vivere religiosamente nei romitori, siano tre frati o al più quattro. Due di essi facciano da madre e abbiano due figli o almeno uno. I due che fanno da madri, seguano la vita di Marta; gli altri due quella di Maria. Quelli che seguono la vita di Maria abbiano un chiostro e in esso ciascuno la sua cella, nella quale pregare e dormire [...]. I figli poi assumano talora l’ufficio delle madri, come volta per volta parrà loro opportuno disporre per alternarsi […]» [3].

Delle « madri »? In effetti, ci furono anche delle madri: amma, femminile di abba. I nomi di amma Sara, amma Melania, amma Teodora... sono arrivati fino a noi. Quanto ad amma Sincletica, la sua Vita, talvolta attribuita alla penna di Atanasio, è una delle più antiche vite di santa che possediamo dopo i racconti degli Atti dei martiri e la Vita di santa Macrina scritta da Gregorio di Nissa.

Si tratta forse di una compilazione di elementi giustapposti riguardanti la realtà della vita consacrata verginale (Sincletica significa «riunita»)? Resta il fatto che questa sintesi ci mostra, nella sua unità, la testimonianza che una donna poteva dare con il suo comportamento all’inizio dell’era cristiana in Egitto.

 

 

La storia dei vestiti

E [Doroteo] non lasciava mai che [Dositeo] si attaccasse a un lavoro o a un oggetto qualsiasi. Dositeo infatti accettava ogni cosa con gioia e fiducia e obbediva di buon animo a tutto. Quando aveva bisogno di un mantello, l’abba glielo dava; e Dositeo correva a ricucirlo con cura e attenzione. Ma come aveva finito, Doroteo gli domandava: « Dositeo, hai ricucito quel mantello? ». Rispondeva: « Sì, padre mio, l’ho riparato per bene ». Gli diceva allora: « Su, dallo a quel fratello o a quel malato ». E Dositeo correva subito a darlo. Di nuovo Doroteo gliene dava un altro e, dopo che l’aveva ricucito e riparato, gli diceva: « Dallo a quel fratello ». E Dositeo glielo dava immediatamente, senza mai rattristarsi né mormorare dicendo: « Dopo tutta la fatica che ho fatto per ricucirlo e ripararlo, me lo prende e lo dà a un altro ». Ma si affrettava a fare ogni cosa buona che gli veniva chiesta [4].

 

 

Castità, lotta contro i pensieri, povertà volontaria, umiltà, vigilanza continua, necessaria stabilità, dominio di fronte ai desideri, giusta misura nell’ascesi... Amma Sincletica sembra aver assunto i diversi comportamenti che la sua consacrazione implicava e non si è lasciata inghiottire nella routine. Non ha forse dichiarato con pertinenza che «più questi atleti fanno progressi, più forte è l’avversario che affronteranno »?

 

L’eredità diretta degli apostoli

La prima comunità cristiana si stabilì a Gerusalemme poco dopo la Pentecoste e le prime conversioni. Come gli Atti degli apostoli ce li descrivono, questi cristiani «partecipavano assiduamente alle istruzioni degli apostoli, alla vita comune, allo spezzare del pane e alle preghiere. [...] Tutti i credenti poi stavano riuniti insieme e avevano tutto in comune; le loro proprietà e i loro beni li vendevano e ne facevano parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno» (At 2,42-45). Questa vita evangelica esemplare non mancava di inquietare le autorità, da una parte perché divergeva dall’ordine sociale stabilito, dall’altra perché si accompagnava allo zelo missionario dispiegato a Roma, Alessandria e Antiochia, in Asia Minore e in Grecia.

Se, alla fine del I secolo, l’espansione della Chiesa fu rapida, molti cristiani conobbero le persecuzioni e dovettero affrontare tentazioni di potere e divisioni all’interno delle loro file. Nel primo scritto patristico che conosciamo, la Lettera ai Corinti, Clemente Romano, verso il 96, esorta la comunità: « Dunque, fratelli, siamo umili deponendo ogni baldanza, boria, stoltezza e ira [...]» [5].

Il martirio di Ignazio, vescovo di Antiochia, gettato alle belve verso il 110 a Roma, e quello di Policarpo, vescovo di Smirne, che morì sul rogo, non frenarono lo zelo missionario, ma al contrario ne ravvivarono lo slancio in un momento in cui ci si doveva anche difendere dalle calunnie e riaffermare la fede monoteista combattuta dai pagani.

 

I Padri apologisti

Furono i Padri apologisti a redigere i primi testi di questa letteratura, abbozzi di « filosofia cristiana ». Tra questi autori emergono due figure: Atenagora, che tra il 176 e il 180 indirizzò agli imperatori Marco Aurelio e Commodo un’apologia dei cristiani intitolata Presbeia (letteralmente «supplica»), e Giustino.

Giustino, teologo laico e martire, nato a Nablus in Palestina, si convertì al cristianesimo nel 130 dopo una ricerca filosofica che lo condusse successivamente alle scuole stoica, aristotelica, pitagorica e platonica. Fu il primo ad adattare la terminologia filosofica al pensiero cristiano. Fervente fautore della tesi del Cristo-Logos (cioè intermediario tra Dio e il mondo) e della sua universalità, cita abbondantemente le Scritture a sostegno di una riflessione che traccia le linee della prima dottrina trinitaria: « Intendo riportarvi dei passi della Scrittura e non tanto darmi pena di allestire un costrutto che si regge sul puro artificio retorico. Non ne ho infatti la capacità, ma mi è stata concessa da Dio una grazia che sola mi fa comprendere le sue Scritture. Di questa grazia vi esorto a diventare tutti partecipi gratuitamente e copiosamente [...] » [6].

Altri scritti apologetici del II secolo sono giunti fino a noi senza che ne conosciamo gli autori. È il caso della Epistola a Diogneto, scoperta per caso a Costantinopoli verso il 1436. In risposta alle questioni poste dal pagano Diogneto, l’autore, verosimilmente egiziano, espone come i fedeli vivano concretamente il mistero cristiano.

 

La tradizione apostolica

Certamente i discorsi apologetici furono indispensabili per confermare i cristiani nella loro fede, rassicurare i detrattori sulle loro pratiche e chiamarli alla conversione. Ma si dovevano anche spiegare con minuzia i loro riti, i loro doveri e il senso della tradizione degli apostoli. Nella linea della Didachè, raccolta di insegnamenti comparsa verso la metà del II secolo (la parola greca didaché significa «insegnamento»), la Tradizione apostolica, testo più legislativo, codifica i comportamenti di cui i Padri apostolici dovevano esplicitare il significato spirituale. La si attribuisce a Ippolito di Roma.

La Tradizione apostolica tratta anzitutto delle pratiche: il battesimo, l’eucaristia, l’ordine... I riti sacramentali vi sono presentati chiaramente. Che si tratti della consacrazione dei vescovi, dei preti o dei diaconi, la tradizione degli apostoli non precisa solo le liturgie. Infatti, la liturgia non ha senso se non radicandosi nella preghiera e si prolunga nella conversione della vita quotidiana.

 

 

L’anima del mondo

A dirla in breve, come è l’anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani. L’anima è diffusa in tutte le parti del corpo e i cristiani nelle città della terra. L’anima abita nel corpo, ma non è del corpo; i cristiani abitano nel mondo, ma non sono del mondo. L’anima invisibile è racchiusa in un corpo visibile; i cristiani si vedono nel mondo, ma la loro religione è invisibile. La carne odia l’anima e la combatte pur non avendo ricevuto ingiuria, perché impedisce di prendersi dei piaceri; il mondo che pur non ha avuto ingiustizia dai cristiani li odia perché si oppongono ai piaceri. L’anima ama la carne che la odia e le membra; anche i cristiani amano coloro che li odiano. L’anima è racchiusa nel corpo, ma essa sostiene il corpo; anche i cristiani sono nel mondo come in una prigione, ma essi sostengono il mondo. L’anima immortale abita in una dimora mortale; anche i cristiani vivono come stranieri tra le cose che si corrompono, aspettando l’incorruttibilità nei cieli. Maltrattata nei cibi e nelle bevande, l’anima si raffina; anche i cristiani maltrattati ogni giorno più si moltiplicano: Dio li ha messi in un posto tale che ad essi non è lecito abbandonarlo [7].

 

 

 

Il segno della croce

Se sei tentato, segnati devotamente la fronte. Difatti, questo è il segno della passione, noto e sperimentato contro il diavolo se lo fai con fede, cioè non per farti vedere dagli uomini, ma opponendolo saggiamente come uno scudo. Infatti l’avversario, vedendo la forza del cuore dell’uomo che manifesta all’esterno la propria somiglianza spirituale con il Cristo, fugge spaventato non dall’uomo, ma dallo spirito che è in lui [8].

È nel III secolo dell’era cristiana che la Chiesa si impianta in Mesopotamia e in Cappadocia, che conferma il suo insediamento in Gallia come in Germania, in Egitto come nell’Africa romana. A imitazione di san Paolo, i Padri apostolici sono grandi viaggiatori. Se le questioni di acculturazione e inculturazione non si ponevano negli stessi termini di oggi — essendo i comportamenti culturali condizionati dalla sottomissione o dalla rivolta contro l’impero romano — i Padri ebbero a cuore di adattare la loro predicazione ai catecumeni, sviluppando una teologia attenta a testimoniare la fede « in situazione ». Alcuni grandi nomi dominano questo periodo segnato dalle persecuzioni: Cipriano e Tertulliano a Cartagine, Clemente il Pedagogo e Origene ad Alessandria.

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Le celebrazioni sono indissociabili da un comportamento caritatevole. La Tradizione apostolica dispensa dunque anche un buon numero di consigli sul digiuno, i doni ai malati, il rendimento di grazie, le sepolture, la convivialità e la misura a tavola. Attenta a non occultare lo Spirito con il gesto, la tradizione degli apostoli, nella fedeltà al vangelo — «Ma tu, quando vuoi pregare, entra nella tua camera e, serratone l’uscio, prega il Padre tuo che sta nel segreto; e il Padre tuo che vede nel segreto te ne darà la ricompensa » (Mt 6,6) — si applica a situare di nuovo il rito in ciò che significa, volgendolo verso Dio.

 

Ad Alessandria: Clemente e Origene

Clemente è di origine greca e pagana. Dopo la sua conversione in età adulta, intraprende dei viaggi che lo conducono ad Alessandria, dove crea una scuola di catechesi. Poi, la persecuzione di Settimio Severo (202) lo costringe all’esilio in Cappadocia, infine si stabilisce a Gerusalemme. Colto e aperto alle altre culture, in particolare al pensiero greco, elabora un umanesimo cristiano del quale sono testimonianza le tre opere che ci ha lasciato: il Protrettico (invito ai pagani a volgersi verso Dio); il Pedagogo (« catechismo » dove si congiungono morale e spiritualità, ma i cui capitoli costituiscono anche una vasta panoramica della società a cui egli si rivolge); gli Stromati (equivalente antico del termine patchwork (miscellanea. N.d.r.), in cui l’argomentazione è soprattutto filosofica).

Nel Pedagogo Clemente passa in rassegna tutti gli aspetti della vita quotidiana: dagli esercizi fisici all’uso dei profumi, dal riso al sonno, dal lavoro alla sessualità. Il suo insegnamento, i principi che egli professa trovano le loro giustificazioni nella Scrittura. Il modello perfetto del cristiano è Cristo. Il suo cammino è la subordinazione dei minimi dettagli della vita (perfino la scelta delle scarpe! cfr. 116-117) allo spirito del vangelo. Clemente è esigente e alcuni suoi consigli possono far sorridere: vi si scoprirebbe facilmente qualcosa di maniacale. Catalogo di vizi e virtù, il Pedagogo ha per fine anzitutto di orientare i minimi atti quotidiani dei cristiani. È, infatti, il dominio di sé che permette di modellarsi a immagine di Cristo; è l’ascesi che è fonte di libertà interiore; è l’obbedienza, non costrizione passivamente vissuta ma accettata attivamente, che costruisce l’autonomia e fortifica. All’eccesso dei dettagli, Clemente unisce il gusto della misura.

Altro scrittore di Alessandria, Origene ha lasciato una gigantesca opera, ben conosciuta grazie alla Storia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea. Morì a settant’anni, dopo essere stato probabilmente l’autore più fecondo di tutta l’antichità. Contestato dai suoi, disorientati dalla modernità della sua teologia — che unisce alla ricerca esegetica la preoccupazione di congiungere le dimensioni etimologica, psicologica e mistica — è bandito dall’Egitto e sospeso dal sacerdozio. « Nessuno è profeta...»: facendo opera di pioniere, sconcerta i suoi avversari, già abituati a un dogmatismo rigido e poco inclini al dialogo con gli eretici.

 

 

 

La moderazione

Bisogna sempre serbare la giusta misura. Come è cosa ottima che le fatiche precedano i pasti, così lo stancarsi oltre misura è cosa pessima, molesta e dannosa alla salute. Non bisogna dunque essere del tutto inerti né eccessivamente affaticati. Come infatti abbiamo detto riguardo al cibo, così in ogni cosa e dappertutto non bisogna condurre una vita rivolta al piacere e sfrenata, ma nemmeno una vita del tutto opposta, senza svaghi, ma una vita di mezzo che sia armonica e temperata, libera da ogni male, lontana dalla sfrenatezza e dal rigore. Ora, come abbiamo già detto, un esercizio ginnico senza fasto è il fare da sé, così il calzarsi da sé, il lavarsi i piedi, il farsi massaggi dopo essersi unti abbondantemente di olio. Rendere da parte nostra un uguale contraccambio a chi ci ha fatto i massaggi, anche questo è un esercizio di giustizia commutativa, così dormire accanto a un amico ammalato e aiutare uno che non può fare una cosa e mettere il cibo davanti a un bisognoso. Si legge: «Abramo pose dinanzi ai tre la colazione sotto l’albero e stette in piedi mentre mangiavano » (Gn 18,8). Buona è anche la pesca come lo fu per Pietro, se siamo a riposo dall’ascoltare le istruzioni necessarie alla conoscenza del Logos. È migliore però quella pesca che il Signore largì al discepolo quando gli insegnò a pescare gli uomini come pesci di mezzo all’acqua [9].

 

 

Ciò non gli impedisce di condurre una vita assai austera, di consacrarsi alla sola catechesi dopo avere insegnato la grammatica, e anche di mutilarsi, diventando volontariamente eunuco per seguire alla lettera la parola di Cristo riportata dall’evangelista Matteo (19,12).

« Chi può comprendere, comprenda! »: il suo radicalismo disturba quanto le sue prediche di teologo speculativo. Trecento anni dopo la sua morte, all’epoca del secondo concilio di Costantinopoli (553), le sue tesi saranno condannate e molti dei suoi scritti sistematicamente distrutti. Mentre nel suo catalogo Eusebio ne enumera poco meno di duemila, ben pochi perverranno fino a noi: Contro Celso, I principi, le Omelie, gli He- xapla...

In quest’ultima opera, Origene studia la Bibbia confrontando, su sei colonne, sei versioni tra cui quelle del testo ebraico e dei Settanta (greca). Il suo approccio filologico colpisce. Soprattutto quando distingue due sensi della parola di Dio: il senso letterale e il senso figurato che mette in evidenza la profezia spirituale, subordinando così il significato storico alla visione mistica. Per Origene, è la presenza di Dio nel mondo che fonda l’economia della salvezza. La lettera non ne è che il segno. Cristo si incarna in ogni anima e invita alla trasformazione nello Spirito. La trasfigurazione è il culmine di questo triplice incontro fra il Dio invisibile, il Dio incarnato e il cuore dell’uomo.

Origene è di difficile lettura? Nello stesso tempo specialista del senso letterale e dell’allegoria, le sue parole sgorgano spontanee. È sconveniente e inopportuno riconoscere in Saint-Exupéry uno dei suoi discendenti profani? « Ciò che abbellisce il deserto, è che nasconde un pozzo da qualche parte » (Il piccolo principe). Poiché è proprio la sete del Dio nascosto, la sete del Verbo, l’attesa della teofania fino all’unione nella somiglianza con Dio, che caratterizzano la spiritualità di Origene. Una spiritualità dove il dinamismo non contraddice la continuità, dove la purificazione sostiene la speranza. Una spiritualità che si inscrive anzitutto nel cuore dell’uomo.

I rimproveri fatti a Origene non riguardano solo i suoi incontri con gli eretici, nel 231, nel corso di un invito formulato dai vescovi di Acaia (Grecia). Tanto più che, in seguito, i suoi accusatori lo chiameranno in causa per non aver previsto le eresie posteriori! I suoi oppositori gli rimproverano le forme letterarie che, nel loro stile, relativizzano la fragilità dell’essere umano, privilegiando l’affettività sulla legge. L’eunuco, il maestro severo, osava essere tenero, paziente, attento a ciascuno... soprattutto, precursore della pedagogia dei maestri spirituali di oggi!

In un’opera in cui il dogma dell’immacolata Concezione era lungi dall’essere conosciuto e proclamato, alcune delle sue teorie hanno ugualmente colpito i contemporanei. Origene, infatti, non ritiene Maria al riparo da ogni peccato. Sarà tuttavia il primo teologo a enunciare la convinzione della sua verginità perpetua.

Come altri Padri apostolici, Origene viaggiò molto, recandosi a Roma, in Giordania, a Cesarea, in Grecia e in Arabia. Torturato, morirà durante la persecuzione di Decio, probabilmente nella città di Tiro.

 

 

Il luogo di Dio

Dio non abita in un luogo, né sulla terra, ma nel cuore; e, se cerchi il luogo di Dio, il suo luogo è il cuore puro. Egli dice che abiterà in questo luogo, quando afferma per mezzo del profeta: « Abiterò con loro e fra loro camminerò; essi saranno per me popolo, e io sarò Dio per loro, dice il Signore ». Considera dunque che, forse anche nell’anima di ciascuno di noi, c’è un pozzo d’acqua viva, c’è come nascosto un certo senso celeste e l’immagine di Dio [...].

Scaviamo i nostri pozzi, svuotiamoli della terra, purifichiamoli da ogni bruttura e da tutti i pensieri fangosi e terrestri, e troveremo in essi l’acqua viva, quella di cui il Signore dice: « Chi crede in me, dal suo ventre scaturiranno fiumi d’acqua viva» [10].

 

 

A Cartagine: Tertulliano e Cipriano

Nell’Africa del Nord il cristianesimo era conosciuto fin dalla metà del I secolo. La sua esistenza è attestata dagli scavi di Adrumeto (oggi la città di Sousse), dalla scoperta di tombe cristiane risalenti al 50-60 nel cimitero ebraico. La penetrazione del vangelo nella terra africana sotto il proconsolato romano dovette, forse più che altrove, tener conto contemporaneamente della cultura dell’occupante e dell’occupato. La missione in quella che diventerà la Tunisia non manca di evocare le missioni successive, all’epoca delle grandi colonizzazioni. Con la differenza che il colonizzatore romano non condivideva le convinzioni cristiane dei discepoli della fede. È tuttavia da Cartagine che ci arriverà il primo scritto cristiano in latino, l’Ad Scapulam (lettera al proconsole Scapula) di Tertulliano, testo che fa l’elogio dei martiri e si situa nella linea dell’apologetica.

Nato a Cartagine verso il 155, educato alle lettere come alla retorica, verosimilmente all’arte della medicina e al diritto che studia molto probabilmente a Roma, Tertulliano, dopo una giovinezza dissipata, ritorna in Africa e si converte. Sposato con una cristiana, si consacra alla pastorale e redige numerosi libri — ne possediamo trentuno — ove riserva un posto importante alla morale. Polemista, combatte con la sua penna i giudei, i pagani e gli eretici, particolarmente gli gnostici. Ciò non gli impedirà, negli ultimi anni della sua vita, di diventare adepto del montanismo — setta fondata dal prete frigio Montane che si proclama portavoce dello Spirito — prima di fondare egli stesso una propria setta.

Il movimento montanista si caratterizza per la supremazia attribuita al Paraclito, al fine di restaurare l’antica situazione della Chiesa di Pentecoste: la capacità di parlare in lingue, il ricorso all’« effusione dello Spirito », il comportamento etico da seguire nell’attesa della parusia (il ritorno di Cristo glorioso)... Alla luce del montanismo, si possono capire la vigilanza e la prudenza dimostrate oggi dai nostri pastori davanti all’emergere di alcuni movimenti della seconda metà del XX secolo. Non si può negare la parentela spirituale che esiste tra alcune comunità carismatiche e molte delle tesi di Montano. Sarebbe nondimeno ingiusto accusare il « Rinnovamento dello Spirito » di eresia montanista. Ogni nuova espressione di Chiesa conferma la sua credibilità nel tempo. Si constata così come tutti questi movimenti tanto vivi sorgano quando il fervore diminuisce. Essi corrispondono allora a una necessità: quella di ridare slancio e ardore ai cristiani.

Tertulliano non si limita a combattere le devianze alle quali il suo temperamento battagliero finirà poi per cedere, ma ricentra la vita della comunità cristiana sulla preghiera. Nel De oratione commenta e medita il Padre nostro, « riassunto di tutto il vangelo », e indica le condizioni e i benefici della preghiera. Preghiera che non è prerogativa dei soli esseri umani, ma alla quale partecipano tutte le creature, come nel Cantico di Daniele (Dn 3).

 

 

Sia santificato il tuo nome

Indubbiamente sarebbe conveniente che Dio venisse benedetto da ogni uomo dappertutto e in ogni momento perché ci si dovrebbe ricordare sempre dei suoi benefici; ebbene anche questa richiesta espressa nella preghiera ha lo stesso significato di una benedizione di Dio. Del resto quando mai il nome di Dio non è santo e non è santificato in se stesso, dal momento che è proprio lui da sé che santifica gli altri? [11].

 

 

 

Anch’egli scrittore di Cartagine, Cipriano, di agiata famiglia pagana, convertito al cristianesimo quando aveva circa 40 anni, fu eletto vescovo « a voce di popolo » nel 248. Conoscerà il martirio e morirà decapitato dieci anni dopo. Se egli stesso ha raccontato a lungo le circostanze della propria conversione nella Lettera a Donato, anche Girolamo ne parla nel suo De viris illustribus ricordando che, coerente con le esigenze della fede ricevuta, egli « distribuì ai poveri tutte le sue ricchezze ».

Il buonsenso e l’equilibrio di vita caratterizzano anzitutto la sua azione pastorale. Segnato dalla lettura quotidiana della Bibbia e dall’opera di Tertulliano, si sforza di dar prova di moderazione, anche quando il suo episcopato lo porta a prendere posizione sul battesimo degli eretici o sull’ingerenza di Roma negli affari delle Chiese africane. Rispettoso della Chiesa di Roma — è noto il suo detto: « Nessuno può avere Dio per padre se non ha la Chiesa per madre » — ne difende l’unità. Il De unitate Ecclesiae, che apparve nel 251, contribuì alla riconciliazione con gli apostati. Cipriano vi congiunge fermezza e misericordia e, come negli altri suoi scritti, non dissocia mai la carità dall’esigenza morale. Per lui, la « disciplina» cristiana trova il suo fermento nella preghiera e nella meditazione delle Scritture: « Prega e leggi la divina parola con assiduità. Rivolgi ora la tua parola a Dio e ascoltala. Egli ti istruisca e ti formi con i suoi comandamenti» [12].

La Chiesa dei primi secoli non misconosceva la prima lettera ai Corinzi di san Paolo: «C’è poi varietà di doni, ma un solo Spirito; c’è varietà di ministeri, ma un solo Signore; c’è varietà di attività, ma un solo Dio, che opera tutto in tutti» (1 Cor 12,4-6). Mentre alcuni provavano la loro vocazione nel fuoco dell’apostolato, altri si nascondevano nel deserto, nel silenzio e nella solitudine (gli anacoreti), e altri ancora impegnavano la loro vita in una comunità soggetta a un abate, un « padre »!, e all’osservanza della Regola (i cenobiti). Ciascuno secondo la sua chiamata e il suo temperamento. Attraverso i secoli e fino ai nostri giorni, il pluralismo delle vocazioni e la diversità del loro radicamento testimoniano il dinamismo della Chiesa e la sua ricchezza. Monaci o missionari, preti o laici, ciascuno al suo posto, tale qual è e là dove Dio lo vuole, gli uomini costruiscono una Chiesa dagli innumerevoli volti, una Chiesa universale perché non esclude nessun tipo di vita.

 

I Padri del deserto

I primi monaci cristiani (mónos: «solo»), fin dal III secolo, hanno probabilmente cercato di sfuggire alle persecuzioni, ma anche di seguire gli esempi di Elia o Giovanni Battista e rispondere alla chiamata di Jahvè quale è formulata nel libro di Osea: « Per questo io la sedurrò, la ricondurrò nel deserto e parlerò al suo cuore» (2,16). Essi dunque cammineranno e si insedieranno nel deserto, si nasconderanno nella solitudine con Dio e, fedeli all’esempio di Cristo (Mt 4), si eserciteranno ad affrontare le tentazioni. Che abbiano conosciuto l’approvazione sociale o la marginalità, la ricchezza o la povertà, essi hanno in comune, tutti, il desiderio di donarsi a Dio solo.

Nel parlare poco o nulla, nel cercare di ascoltare Dio nel silenzio, nel padroneggiare le loro pulsioni naturali, essi eccellono o si piegano. Come per ogni uomo, zelo e scoraggiamento si succedono, addirittura coabitano. La solitudine implica l’autonomia affettiva e spirituale. Questa solitudine è tuttavia interrotta dall’afflusso di quanti vengono a loro per ascoltare una parola di vita, parola sobria e unica, vademecum. Questi sono i consigli, a volte simili agli aforismi, che trasmettono gli apoftegmi.

 

 

Come Agatone impara il silenzio

Raccontavano che il padre Agatone visse tre anni con un sasso in bocca, finché non riuscì a praticare il silenzio [13].

 

 

Ai Padri del deserto sono state attribuite numerose imprese per cautelarsi dal rischio di peccare. Rischio di vanità, rischio di parlare troppo, di ascoltare i desideri del corpo più di quelli dell’anima... L’ascesi assoluta poteva generare reazioni ambigue quanto al fine ricercato. Come quella di Simeone lo Stilita (morto nel 459), un siriaco che, assediato dai pellegrini, decise di installarsi su una colonna esposta agli sguardi! Assistito da una comunità, abitò diverse colonne (stilos in greco significa appunto « colonna »), l’ultima delle quali si sarebbe elevata fino a 16 metri dal suolo.

Se i Padri del deserto hanno fatto versare fiumi d’inchiostro a coloro che hanno narrato le loro pratiche ascetiche, hanno anche nutrito la meditazione di coloro che hanno optato per la vita comunitaria: i cenobiti. È san Pacomio (292 ca.-347) che viene considerato il fondatore del cenobitismo. Questo monaco egiziano, nato vicino a Tebe in una famiglia pagana, si convertì all’età di 20 anni, colpito dalla carità dei cristiani per i soldati mobilitati dall’imperatore Costantino. Fin dal battesimo, verso il 310, si sente attirato dalla vita monastica e spinto a servire i fratelli. Un eremita, Palamone, per sette anni lo formerà alla vita dei monaci e all’esercizio della carità. Pacomio non si limita a studiare la parola di Dio e a imparare a memoria i salmi e il vangelo, ma lavora per guadagnarsi da vivere e aiutare i poveri.

Dopo un primo tentativo, infruttuoso, di vita comunitaria, fonda un monastero a Tabennisi e raggruppa, in molte « case », fratelli che praticano lo stesso lavoro. Egli stesso si installa a Pbow, nel monastero principale, e colloca, in ciascuna delle diverse case, dei padri spirituali che lo rappresentino. Non solo monaci, ma anche alcune sorelle si impegneranno nella via del monachesimo pacomiano.

Non è certo che egli sia l’autore dei Precetti che gli sono stati attribuiti — senza dubbio sono stati redatti dopo la sua morte — ma questo piccolo libro, autentica regola monastica, fissa le condizioni necessarie alla vita cenobitica e alla sua organizzazione quotidiana. Non si fonda sulla teoria, ma sull’esperienza vissuta, attento a elencare le esigenze della vita in comune come a prevenire gli eventuali abusi di potere. In Catechesi a un monaco che serbava rancore, Pacomio esorta, incoraggia, abbozza un codice di vita e offre la sua esperienza. Sa che le divisioni, la mancanza di pace nascono da carenze di umiltà. Per questo non esita a denunciare il male e a mettersi in questione con le sue fragilità.

Da Simeone, che visse trentasei anni tra cielo e terra su una colonna, a Pacomio che si preoccupò di codificare la vita comunitaria, l’esigenza è la stessa: l’autonomia necessita di una rottura col mondo. Il monaco è un uomo «solo» davanti a Dio. Più tardi, parlando di san Benedetto, Gregorio Magno scriverà: « Solo davanti all’Essere supremo, abitò con se stesso ». Essere solo davanti a Dio significa anche riconoscere lo sguardo che Dio rivolge a ciascuno di noi. Essere solo è accettare di essere unico, essere responsabile e libero per crescere nello Spirito. Ogni crescita impone delle rotture. I Padri del deserto ne hanno indicato le vie.

 

 

Si levano le tenebre

Fratello mio, è questo il tempo di far guerra a noi stessi: tu sai che da più parti si levano le tenebre. Le chiese sono piene di gente che litiga e si adira, le comunità monastiche sono diventate ambiziose, regna l’orgoglio. Non c’è più nessuno che si metta a servire il prossimo, ciascuno invece opprime il prossimo (Mic 7,2). Siamo immersi nel dolore. Non c’è più né profeta né sapiente, non c’è nessuno che possa convincere un altro, perché abbonda la durezza di cuore. Chi comprende resta in silenzio perché i tempi sono cattivi (cfr. Am 5,13). Ciascuno è signore di se stesso, disprezza quanto non si dovrebbe disprezzare. Fratello mio, sii in pace con il tuo fratello. E pregate anche per me, perché non posso far nulla, ma sono tribolato dai miei desideri [14].

 

 

 

 


[1] Giustino Martire, Prima apologia, 65, 1-2, in Gli apologeti greci, tr. it. C. Burini, Città Nuova, Roma 1986, p. 146.

[2] Regola di Benedetto, 3,3, in Regole monastiche d’Occidente, tr. it. E. Arborio Mella - C. Falchini, Ed. Qiqajon, Magnano (Vercelli), p. 63.

[3] Francesco d’Assisi, Del comportamento dei frati negli eremi, in Fonti francescane, Edizioni Messaggero, Padova 19823, p. 135.

[4] Doroteo di Gaza, Vita di Dositeo, 7, in Scritti e insegnamenti spirituali, tr. it. L. Cremaschi, Edizioni Paoline, Roma 1980, p. 55.

[5] Clemente Romano, Prima lettera ai Corinti, XIII, 1, in I Padri apostolici, tr. it. A. Quacquarelli, Città Nuova, Roma 1976, p. 57.

[6] Giustino, Dialogo con Trifone, tr. it. G. Visonà, Edizioni Paoline, Milano 1988, pp. 210-211.

[7] Epistola a Diogneto, VI, in I Padri apostolici, tr. it. A. Quacquarelli, Città Nuova, Roma 1976, pp. 357-358.

[8] Ippolito di Roma, La Tradizione apostolica, 42, tr. it. R. Tateo, Edizioni Paoline, Roma 1979, pp. 99-100.

[9] Clemente Alessandrino, Il Pedagogo, 51,2 - 52,2, tr. it. M. G. Bianco, Utet, Torino 1971, p. 426.

[10] Origene, Omelie sulla Genesi, XIII, 3, tr. it. M. I. Danieli, Città Nuova, Roma 1978, p. 205.

[11] Tertulliano, La preghiera, III, 2-3, tr. it. P. A. Gramaglia, Edizioni Paoline, Roma 1984, pp. 160-161.

[12] San Cipriano, A Donato, XV, in Opere, tr. it. G. Toso, Utet, Torino 1980, p. 96.

[13] Agatone, 15, in Vita e detti dei Padri..., op. cit., I, p. 119.

[14] Pacomio, Catechesi a proposito di un fratello che serbava rancore, 60-61, in Pacomio e i suoi discepoli, tr. it. L. Cremaschi, Qiqajon, Magnano (Vercelli) 1988, p. 230.l

 


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20 giugno 2019                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net