Origene
Città Nuova Editrice 1997
CAPITOLO XVIII
Origene si dispone al commento del
Pater
1. È sufficiente quanto abbiamo detto, trattando l’argomento della preghiera,
secondo la grazia di Dio concessaci e proveniente da Lui per mezzo del suo
Cristo (io spero anche nello Spirito Santo: ne converrete procedendo in questo
scritto). Passeremo ormai a un successivo assunto, volendo considerare quanta
potenza racchiuda la preghiera suggerita dal Signore.
La duplice redazione del
«Padre nostro»
2. La prima considerazione è questa: ai più sembrerebbe che Matteo e Luca
abbiano scritto una medesima formula di preghiera, affinché noi così preghiamo.
Il testo di Matteo è il seguente: «Padre nostro che sei nei cieli, sia
santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in
cielo anche sulla terra. Dacci oggi il nostro pane supersostanziale e rimetti a
noi i nostri debiti come anche noi li abbiamo rimessi ai nostri debitori, e non
c’indurre in tentazione, ma liberaci dal Maligno». Quello di Luca: «Padre, sia
santificato il tuo nome, venga il tuo regno, da’ a noi ogni giorno il pane
nostro supersostanziale e rimettici i nostri peccati, poiché anche noi li
rimettiamo a ogni nostro debitore e non c’indurre in tentazione».
I differenti contesti
3. A quegli obiettori va
risposto in primo luogo che le parole, anche se presentano tra loro una qualche
somiglianza, sono poi per il resto chiaramente diverse come risulterà dal loro
esame; secondariamente, poi, va detto che non è possibile che la medesima
preghiera sia stata fatta sul monte dove «salì avendo visto le folle» quando
«postosi a sedere, si accostarono a Lui i suoi discepoli ed aperta la bocca
ammaestrava» (questa preghiera è in Matteo inserita nell’annuncio delle
beatitudini e dei precetti relativi) e «in un certo luogo dove si trovava a
pregare» e «come cessò» disse a uno dei discepoli che aveva chiesto di insegnare
a pregare «come anche Giovanni insegnava ai suoi discepoli». Come è infatti
possibile che le medesime parole siano pronunziate nel contesto di un
lungo discorso senza ogni anteriore richiesta, in risposta alla domanda di un
discepolo? Qualcuno potrebbe ancora obiettare che le due preghiere hanno lo
stesso significato, come fossero una sola pronunziata, ora in un più ampio
discorso ora rivolta ad un discepolo che aveva avanzato tale richiesta. Questi
evidentemente non era presente allorché Gesù disse quanto Matteo riporta, o non
ricordava più le cose già dette. Ma forse è meglio ritenere che siano diverse le
preghiere ed abbiano alcune parti comuni. Cercando poi nel Vangelo di Marco, se
esistesse un’analoga preghiera, non ne abbiamo trovato traccia.
CAPITOLO XIX
Predisposizioni alla
preghiera
1. Poiché, come è stato detto, colui che prega deve innanzitutto mettersi e
prepararsi in un certo modo per poi pregare, vediamo quello che il nostro
Salvatore disse sulla preghiera prima della versione di Matteo: «E quando
pregate, non siate come gli ipocriti perché essi amano fare orazione stando in
piedi nelle sinagoghe e agli angoli delle piazze per esser veduti dagli uomini.
Vi dico in verità che hanno ricevuto il loro premio. Tu invece, quando preghi,
entra nella tua cameretta e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel nascosto e
il Padre tuo, che ti vede nel segreto, ti darà la ricompensa. E pregando non
usate troppe parole, come i pagani. Pensano infatti che nelle loro molte
parole saranno ascoltati. Non rassomigliate dunque a loro: poiché il Padre
vostro sa le cose di cui avete bisogno prima che gliele chiediate. Voi dunque
pregate così».
La preghiera
dell’esibizionista
2. È chiaro perciò che sovente il nostro Salvatore bolla la brama di gloria come
un affetto rovinoso: ciò che ripete anche qui, allontanando dal modo di pregare
degli ipocriti. Opera degli ipocriti è infatti quella di voler vantare tra gli
uomini pietà o magnanimità; occorre invece che, ricordandoci delle parole: «Come
potete credere voi che prendete gloria gli uni dagli altri e non cercate la
gloria che viene da Dio solo?», disprezziamo ogni gloria umana anche se sembri
provenire da qualche bella azione, e cercare la gloria vera e propria che viene
da Colui che solo glorifica chi ne è degno, in modo a lui adeguato e oltre il
merito del glorificato. Pertanto quell’azione che sarebbe stata stimata bella e
lodevole si corrompe allorché crediamo di compierla per essere onorati dagli
uomini e per apparire ai loro occhi. Onde non ne segue da parte di Dio
ricompensa alcuna. Infatti ogni parola di verità di Gesù diventa – anche se
dobbiamo dirlo a malincuore – ancora più veritiera quando viene profferita con
la consueta formula di giuramento. Dice espressamente di coloro che
credono di fare del bene al prossimo a motivo della fama che hanno tra
gli uomini o che pregano nelle sinagoghe e agli angoli delle piazze per essere
visti tra gli uomini: «In verità vi dico: hanno ricevuto la loro ricompensa». Il
ricco infatti, di cui leggiamo in Luca, ricevette i beni nella sua vita terrena,
e, per il fatto di averli già ricevuti, non poté conseguirli più dopo questa
vita. Così chi ebbe la sua ricompensa con il donare a qualcuno o con il pregare,
poiché non seminò in spirito ma nella carne, mieterà la corruzione, non certo la
vita eterna. Orbene, semina nella carne colui che fa elemosina nelle sinagoghe,
nelle strade, per essere onorato dagli uomini facendo elemosina con la tromba
davanti a sé, oppure preferisce star ritto a pregare nelle sinagoghe e agli
angoli delle piazze, affinché, al cospetto degli uomini, sia creduto da coloro
che lo vedono, un uomo pio e santo.
La preghiera del
dilettante
3. Ma anche chiunque
percorre la via larga e spaziosa che conduce alla perdizione, e non contiene
nulla di vero e di retto ma è tutta tortuosa ed angolosa (infatti la sua
linearità è in gran parte incrinata), vi sta non diversamente da colui che prega
agli angoli delle piazze. Nella sua ricerca di diletto si mette non in una sola
ma in parecchie piazze, nelle quali «coloro che muoiono da uomini» per
essersi staccati dalla divinità esaltano e ritengono beati quelli che essi
credono siano pii nelle piazze. Molti sono quelli che pregano sembrando più
amanti del diletto che di Dio, comportandosi nella preghiera quasi come ubriachi
nel mezzo dei simposi e tra le gozzoviglie, e stando veramente agli angoli delle
piazze a pregare. Infatti chi vive secondo il piacere ed ama la via spaziosa
abbandona la stretta ed angusta via di Gesù Cristo, la quale non ha curvature né
segni di angoli.
CAPITOLO
XX
La preghiera nella Chiesa
e nella Sinagoga
1. Se poi c’è diversità tra Chiesa e Sinagoga – l’una, la Chiesa vera e propria,
non ha macchia né ruga né altro di simile, ma è santa ed irreprensibile; in essa
non entra né il nato da cortigiana né l’eunuco o l’evirato, nemmeno l’Egiziano o
l’Idumeo i cui figli soltanto dopo la terza generazione potranno aderire alla
Chiesa; né il Moabita e l’Ammonita se non alla decima generazione compresa e
trascorso che sia un secolo; l’altra, la Sinagoga, è stata edificata dal
centurione prima che venisse Gesù e da Lui ricevesse la testimonianza di una
fede così grande che il Figlio di Dio non trovò nemmeno in Israele –, colui che
ama pregare nelle Sinagoghe è simile a chi prega agli angoli delle piazze. Non
così fa il santo. Infatti non soltanto si diletta di pregare, ma ama la
preghiera, e non nelle Sinagoghe, ma nelle adunanze; non agli angoli delle
piazze, ma nella giusta anche se stretta ed angusta via; non per esser visto
dagli uomini, ma dall’occhio del Signore Iddio. È infatti il figlio maschio che
pensa all’anno gradito del Signore ed osserva il comandamento che dice: «Tre
volte all’anno ogni figlio maschio comparirà al cospetto del Signore Iddio».
Il nascondimento nella
preghiera
2. Prestiamo particolare
attenzione alle parole «per esser visti», poiché nessuna cosa è bella solo per
l’apparenza, come se esistesse solo in apparenza e non nella realtà. Ingannando
l’immaginazione non ci rappresenta l’oggetto fedelmente e realmente. Come nei
teatri gli attori drammatici non sono quello che dicono né quello che appaiono
dalla maschera loro imposta, così anche tutti quelli che simulano colle
apparenze la rappresentazione della bellezza non sono giusti, ma sono i buffoni
della giustizia, che interpretano da soli la loro parte nel proprio teatro che
sono le sinagoghe e gli angoli delle piazze. Chi invece non è ipocrita ma,
deposto ogni estraneo manto, si prepara ad esser gradito nel suo teatro di gran
lunga migliore di ogni altro, entra nella propria cameretta, dove, oltre alla
ricchezza accumulata, ha rinchiuso un tesoro di sapienza e di scienza. E
non guardando affatto fuori, né stando a contemplare le cose esteriori, chiusa
ogni porta dei sensi onde non esser tratto dalle sensazioni né dalla loro
immagine ad aver oppressa la mente, prega il Padre che vede e non abbandona
questo segreto tabernacolo, anzi vi pone la sua dimora insieme all’Unigenito.
Dice infatti: «Io e il Padre verremo a lui e faremo dimora presso di lui». È
chiaro che, se preghiamo in questo modo, intercederemo non solo presso il giusto
Iddio ma anche presso Dio come Padre che non ci abbandona, essendo suoi figli,
ma è presente nel nostro nascondimento e volge ad esso lo sguardo ed accresce la
ricchezza della nostra cameretta, purché ne abbiamo chiusa la porta.
CAPITOLO XXI
La loquacità, nemica
della preghiera
1. Pregando, tuttavia, non usiamo troppe parole, ma quelle che si confanno a
Dio. E diciamo troppe parole quando, non esaminando noi stessi o i termini della
preghiera che facciamo, parliamo delle cose corruttibili o di discorsi e
pensieri bassi, biasimevoli, lontani dalla purità del Signore. Colui che nel
pregare dice troppe parole è già nella disposizione peggiore di quelli che
abbiamo detto appartenere alle sinagoghe ed in una via più pericolosa degli
angoli delle piazze; poiché egli non conserva traccia di bene, anche se
simulasse. Dicono troppe parole, nel senso inteso dal Vangelo, soltanto i pagani
che non hanno l’idea delle cose grandi e celesti da domandare, elevando tutte le
preghiere per cose materiali ed esteriori; è simile perciò al pagano che dice
troppe parole colui che chiede le cose terrene al Signore che abita nei cieli e
più in alto dei cieli.
Pregare bene per ottenere
il vero bene
2. Chi dice molte parole
pare che assomigli a chi dice vane parole e viceversa; senonché nulla in natura
e nei corpi è tutt’uno, ma ciò che si crede costituisca un tutt’uno ha perduto
la sua unità e viene scisso, diviso e distribuito in parecchie parti. Ora, un
tutt’uno è il bene, ma ciò che è turpe costituisce pluralità; una cosa sola è la
verità, molte cose il falso; integra è la vera giustizia, ma molte forme la
simulano; unica è la sapienza di Dio, ma molte quelle «di questo secolo e dei
principi di questo secolo, che stanno per essere annientati»; ed una la parola
di Dio, molte quelle estranee a Dio. Perciò nessuno «con il molto parlare»
eviterà «il peccato» e nessuno «che crede, per il suo molto dire, d’essere
ascoltato» può venire ascoltato. Non diventiamo dunque simili con il nostro
pregare ai pagani che dicono vane o troppe parole o fanno qualunque cosa «a
somiglianza del serpente». Sa infatti il Dio dei santi, essendo Padre, di che
hanno bisogno i suoi figli, perché ciò è degno del pensiero di un padre. Se
qualcuno poi ignora Dio e non conosce le cose di Dio non sa neppure ciò di cui
necessita. Infatti le cose peccaminose sono riservate a coloro che pensano di
averne bisogno. Ma chi ha meditato sui beni che sono migliori e più divini di
quelli di cui è bisognoso, poiché Dio li conosce, da Lui li otterrà. Infatti
sono noti al Padre anche prima di domandarli. Ciò premesso su quanto
precede la preghiera di Matteo, consideriamo ora quello che la preghierainsegna.
CAPITOLO XXII
Liberi di chiamarlo Padre
1. «Padre nostro che sei nei cieli». Converrebbe esaminare piuttosto a fondo il
cosiddetto Antico Testamento semmai vi si può trovare la preghiera di uno che
chiami Dio con il nome di Padre. Noi, almeno per ora, per quanto cercammo, non
abbiamo trovato. Non vogliamo dire che Dio non venga chiamato Padre o che
coloro i quali si sono accostati alla Parola di Dio non siano chiamati figli di
Dio, ma nel senso che nella preghiera non abbiamo in alcun modo trovato quella
libertà di parola dimostrata dal Salvatore nel chiamare Dio: Padre. In molti
passi del Deuteronomio, per esempio, si parla di Dio come di un padre e di
coloro che si accostarono alla parola di Dio come di figli: «abbandonasti Dio
che ti generò e ti dimenticasti di Dio che ti nutrì». E ancora: «non è proprio
egli il tuo padre che ti possedette, ti fece e ti creò»? E di nuovo: «Figli
quelli in cui non c’è fede». In Isaia: «nutrii dei figli e li esaltai; ma essi
mi disprezzarono». Ed in Malachia: «Il figlio onorerà il padre ed il servo il
suo padrone. E se io sono padre, dov’è l’onore a me dovuto? E se sono Signore,
dov’è il mio timore?».
La figliolanza in Cristo
2. Se quindi Dio è
chiamato Padre, e figli coloro che sono stati generati dalla parola della fede
in Lui, pure non è possibile trovare presso gli antichi il concetto di una
figliolanza vera e stabile. Gli stessi luoghi che abbiamo citato, quindi,
dimostrano che quelli che si dicono figli sono sottomessi, poiché secondo
l’Apostolo «fin tanto che l’erede è fanciullo, non differisce in nulla dal
servo, benché sia padrone di tutto ma è sotto tutori e curatori fino al tempo
prestabilito dal padre» peccare perché è nato da Dio».
Il vero figlio è senza
peccato
3. Se certo abbiamo compreso che cosa significhi quel che è scritto in Luca,
cioè: «quando pregate dite: Padre…», temeremo, se non siamo figli legittimi, di
profferire questa parola a Lui, affinché non diventiamo colpevoli oltre agli
altri nostri peccati anche dell’accusa di empietà. Ecco ciò che voglio dire.
Scrive Paolo nella prima lettera ai Corinti: «nessuno può dire – Signore Gesù,
se non per lo Spirito Santo, e nessuno, parlando per lo Spirito di Dio dice –
Anatema a Gesù». Egli chiama con lo stesso nome lo Spirito Santo e lo Spirito di
Dio. Che cosa significhi però «dire per lo Spirito Santo: Signore Gesù»
non è del tutto chiaro, poiché migliaia di ipocriti e ancor più di eterodossi e
talora i demoni, sopraffatti dalla potenza insita in questo nome, usano questa
parola. Nessuno pertanto oserà affermare che qualcuno di tutti questi pronunzi
il nome del Signore Gesù nello Spirito Santo. Perciò non potrebbero dire:
Signore Gesù, perché lo dicono solo dal fondo del cuore coloro che servono il
Verbo di Dio e non proclamano oltre a Lui nessuno Signore nelle loro azioni. Se
tali sono dunque quelli che dicono: «Signore Gesù», forse chiunque pecca, con la
sua trasgressione, bestemmiando il Verbo divino, grida per mezzo delle opere:
«Anatema Gesù!». Chi dunque appartiene a questa schiera dice: «Signore Gesù», e
chi non si comporta come lui: «Anatema Gesù!»; similmente «chiunque è nato da
Dio e non commette peccato», perché partecipa del seme di Dio che distoglie da
ogni peccato, dice con la sua vita: «Padre nostro che sei nei cieli». E «lo
stesso Spirito testimonia insieme a loro che sono figli di Dio e suoi eredi e
coeredi di Cristo», poiché «avendo sofferto con lui, sperano bene di essere
anche glorificati con lui». Perciò non diranno soltanto a metà «Padre
nostro» costoro, il cui cuore – fonte e principio delle opere buone – «anche per
mezzo delle opere crede per ottenere la giustizia, e la cui bocca fa confessione
per esser salvati».
La filiazione come
immagine dell’immagine
4. Pertanto ogni opera loro e pensiero e parola, conformati a Lui dal Verbo
unigenito, imitano l’immagine del Dio invisibile e diventano ad immagine del
Creatore «che fa sorgere il sole sui cattivi e sui buoni e fa piovere sui giusti
e gli ingiusti»; affinché ci sia in essi «l’immagine del Celeste» che è a sua
volta immagine di Dio. Dunque, essendo i santi immagine dell’Immagine, poiché il
Figlio è immagine, rispecchiano la filiazione, divenuti conformi non solo nel
corpo di Cristo che è nella gloria del cielo, ma anche in Colui che si trova nel
corpo. E diventano simili a Chi è nel suo corpo di gloria, trasformati dal
rinnovamento della mente. E se tali sono, dicono interamente: «Padre nostro che
sei nei cieli»; è chiaro che chi commette il peccato, come dice Giovanni nella
sua lettera, «è dal diavolo, perché dal principio il diavolo pecca». E come il
seme di Dio, dimorando in chi è stato generato da Lui, fa sì che non possa
peccare chi si è conformato al Verbo unigenito; così in chiunque pecca risiede
il seme del diavolo e mentre signoreggia sull’anima non permette a colui che lo
possiede di poter operare il bene. Ma poiché «per questo è stato manifestato il
Figlio di Dio, per distruggere le opere del diavolo», è possibile che
coll’avvento nell’anima nostra del Verbo di Dio, distrutte le opere del diavolo,
sia bandita la cattiva radice del seme e diventiamo figli di Dio.
La nostra vita è un
incessante «Padre nostro»
5. Ora, non crediamo che
tali espressioni ci siano state insegnate per dirle soltanto nel momento
stabilito della preghiera, ma se intendiamo quanto fu spiegato da noi a commento
di quel pregare senza interruzione, tutta la vita di noi oranti dica
incessantemente: Padre nostro che sei nei cieli, non avendo affatto sulla terra
la cittadinanza ma completamente nei cieli che sono i troni di Dio, perché il
regno di Dio è fondato in tutti coloro che portano «l’immagine del Celeste»: per
questo sono diventati celesti.
CAPITOLO XXIII
I cieli non sono un luogo
fisico
1. Ma quando si dice che il Padre dei Santi è nei cieli, non si deve pensare che
Egli sia circoscritto da figura corporea e abiti nei cieli. Poiché certamente,
se è circoscritto, Dio si troverà minore dei cieli, in quanto essi lo
contengono. Si deve credere che tutto sia da Lui circoscritto e contenuto
coll’ineffabile potenza della sua divinità. Ma in generale gli indotti pensano
che le espressioni, in quanto vengono prese alla lettera, parlino di un luogo
abitato da Dio; bisogna invece interpretarle come rispondenti alle grandi e
spirituali cognizioni su Dio. Ecco esempi dal Vangelo di Giovanni: «ora avanti
la festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era venuta per lui l’ora di passare da
questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla
fine». E più avanti: «sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che
era venuto da Dio e a Dio se ne tornava». E a un certo punto: «avete
udito che vi ho detto – Io me ne vado e torno a voi. Se voi m’amaste, vi
rallegrereste che io vado al Padre». E di nuovo, dopo altre parole: «Ma ora me
ne vado a Colui che mi ha mandato e nessuno di voi mi domanda: Dove vai?».
Poiché, se queste espressioni si devono accettare come alludenti ad un luogo, è
trasparente anche il significato di questa: «Gesù rispose e disse loro: Se uno
mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio l’amerà e noi verremo a lui e
faremo dimora presso di lui».
Significato spirituale
della visita di Dio
2. Ma non si tratta di una venuta materiale del Padre e del Figlio in chi ama la
parola di Gesù, né si deve interpretare come riferita ad un luogo; ma il Verbo
di Dio, scendendo presso di noi e, data la sua dignità, umiliandosi nel trovarsi
tra gli uomini, si dice che passa da questo mondo al Padre, perché noi pure lo
contempliamo nella sua perfezione, ritornato nuovamente lassù alla propria
pienezza dalla nostra vacuità nella quale si era come annullato. Colà anche noi,
seguendolo come guida, acquistata la pienezza, ci spoglieremo di ogni vacuità.
Vada dunque, dopo aver lasciato il mondo, il Verbo di Dio a Colui che lo mandò e
ritorni al Padre. Anche ciò che è scritto alla fine del Vangelo di
Giovanni: «Non toccarmi poiché non sono ancora salito al Padre», cerchiamo di
intenderlo anche in un senso mistico, interpretando con devota intelligenza in
modo più degno di Dio l’ascesa al Padre da parte del Figlio, ascesa che è più
della mente che del corpo.
Contro l’antropomorfismo
di Dio
3. Mi sono addentrato, pensandolo necessario, in questi particolari relativi
all’invocazione «Padre nostro che sei nei cieli», per rimuovere l’idea un po’
meschina che di Dio hanno coloro che lo credono fisicamente nei cieli e per non
permettere ad alcuno di affermare che Dio è in un luogo di corpi: perché ne
conseguirebbe che Dio è anche corpo; avremmo come corollari i dogmi più empi:
credere che Egli sia divisibile, materiale e corruttibile, perché ogni corpo è
divisibile e materiale e corruttibile. Oppure, coloro che non soffrono di vacue
impressioni, ma affermano di veder chiaramente, ci dicano come è possibile che
un Dio simile sia di una natura diversa dalla materiale. E poiché molti testi
scritturali anteriori alla venuta di Cristo con il corpo sembrano sostenere che
Dio si trova in un luogo corporeo, non mi pare di uscir di argomento se ci
soffermiamo brevemente anche su costoro per togliere ogni dubbio in quelli che,
a causa della loro dose d’ignoranza, mi fanno circoscritto in un piccolo e
angusto luogo il Dio che sta su tutte le cose. E cominciamo dal Genesi: «Adamo
ed Eva», si dice, «udirono la voce del Signore Iddio che camminava nel
paradiso verso il tramonto e si nascosero, Adamo e la sua moglie, dal cospetto
del Signore Iddio in mezzo agli alberi del paradiso». Ci rivolgeremo a coloro
che non vogliono accostarsi ai tesori della Scrittura ma neppure bussano alla
sua porta: possono dimostrare che il Signore Iddio che riempie il cielo e la
terra, che ha, come essi pensano, il cielo come trono materiale e la terra come
sgabello ai suoi piedi, sia racchiuso da un luogo tanto angusto in confronto a
tutto il cielo e la terra, cosicché quello che essi immaginano un paradiso
materiale non sarebbe riempito da Dio ma sarebbe tanto più grande di Lui, per la
sua grandezza, in modo che lo contiene anche a passeggiare e si sente il passo
dei suoi piedi? Secondo costoro, ancora più assurdo è il fatto che Adamo ed Eva,
temendo Dio a causa del loro peccato, si nascondevano dalla vista di Dio in
mezzo agli alberi del paradiso; poiché non si dice che volevano nascondersi, ma
che effettivamente si nascosero. E non riescono a spiegarsi il fatto che Dio
interroghi Adamo dicendo: «Dove sei?».
I cieli di Dio sono i
santi
4. Su questo punto abbiamo detto più che sufficientemente, commentando il libro
del Genesi; senonché anche ora, per non passar completamente sotto silenzio una
così importante questione, basterà ricordare le parole dette da Dio nel
Deuteronomio: «Camminerò in essi ed abiterò in essi». Come infatti Egli passa
tra i santi, così cammina nel paradiso; chiunque pecca si nasconde a Dio e
sfugge alla sua ricerca e s’allontana dalla sua presenza; infatti anche «Caino
se ne andò dal cospetto di Dio e abitò nel paese di Nod ad oriente dell’Eden».
Allo stesso modo, quindi, chi abita nei santi, abita anche in cielo, sia che
«cielo» significhi ogni santo che porti «l’immagine del Celeste», oppure alluda
a Cristo in cui tutti i salvati sono luci e stelle del cielo, o significhi che
Egli là abita in quanto ci sono i santi. È scritto infatti: «Alzai i miei occhi
a te che abiti nel cielo». Ed il passo dell’Ecclesiaste: «Non affrettarti a
profferir parola al cospetto di Dio, perché Dio è su nel cielo e tu in basso,
sulla terra» intende mostrare la distanza di coloro che si trovano nel corpo
dell’umiliazione da chi è presso gli angeli esaltati per l’aiuto dato al Verbo
stesso, e presso le sante Potestà e lo stesso Cristo; non è infatti assurdo che
Egli sia il vero trono del Padre, chiamato con una allegoria «cielo»; la
sua Chiesa invece, chiamata «terra», sia sgabello dei suoi piedi.
Necessità del senso
allegorico
5. Abbiamo aggiunto pochi
passi anche dell’Antico Testamento, che si crede pongano Dio in un luogo, onde
persuadere in tutti i sensi il lettore, secondo la possibilità concessaci, ad
ascoltare la divina Scrittura con senso più elevato e più spirituale quando essa
sembra insegnare che Dio si trovi in un luogo. Ed era conveniente mettere anche
queste citazioni, in relazione con la frase «Padre nostro che sei nei cieli»,
per distinguere da tutte le cose generate l’essenza di Dio; giacché quelli che
non ne partecipano, hanno ricevuto una certa gloria di Dio e potenza di Lui ed
effluvio, per così dire, della divinità.
CAPITOLO XXIV
La santificazione del
nome di Dio
1. «Sia santificato il tuo nome». Sia che si dimostri come uno non possiede
ancora ciò per cui prega o che, ottenutolo ma non essendo durevole, chieda gli
sia conservato, chiaramente sulla base di questa espressione noi siamo invitati
a dire secondo Matteo e Luca: «Sia santificato il tuo nome», come se il nome del
Padre non fosse ancora santificato. Perché allora, dirà qualcuno, l’uomo chiede
che sia santificato il nome di Dio come se non lo fosse già? Esaminiamo che cosa
si intenda per nome del Padre ed il valore di quel «sia santificato».
I nomi indicano
altrettante qualità
2. Ora, il nome è una sintetica espressione per indicare la qualità propria di
chi viene chiamato per nome. Un esempio: c’è una particolare qualità,
propria dell’apostolo Paolo; una propria dell’anima, per cui essa è tale; una
della mente, secondo cui può contemplare le cose; un’altra relativa al corpo,
per cui esso è tale. Ciò che di queste qualità è personalissimo ed
incomunicabile (non c’è infatti in natura un altro in tutto simile a Paolo) si
indica pertanto con il nome di Paolo. Ma siccome per gli uomini mutano le
qualità loro proprie, giustamente nella Scrittura mutano anche i nomi. Cambiando
infatti la qualità di Abràm, chiamato Abraàm, e quando mutò quella di Simone,
questi ebbe nome Pietro, e Saulo, persecutore di Gesù, fu chiamato Paolo. Dio
invece, che è sempre invariabile ed immutabile, ha di conseguenza sempre uno
stesso nome, quello di «colui che è» com’è scritto nell’Esodo, e qualche analoga
definizione. Ora, poiché su Dio tutti facciamo delle congetture, formandoci
un’idea di Lui, ma non tutti ne comprendiamo l’essenza (pochi infatti o, per dir
così, meno ancora di pochi sono quelli che comprendono completamente la sua
santità), giustamente sappiamo che la nostra concezione di Dio sarebbe che Egli
è santo, affinché ne vediamo la santità nell’esser creatore, provvidente, nel
giudicare, nell’eleggere, abbandonare, abbracciare e respingere, premiare o
punire secondo il merito di ciascuno.
Potenza nel nome di Dio
3. Queste operazioni ed altre simili rappresentano per così dire il contrassegno
della personalità di Dio, dalle Scritture chiamata, secondo me, «nome di Dio»;
nell’Esodo: «Non userai invano il nome del Signore Dio tuo»; e nel Deuteronomio:
«Sia atteso come pioggia il mio precetto, discendano come rugiada le mie parole,
come pioggerella sull’erba, come gocce sulla verzura perché ho invocato il nome
del Signore». Nei Salmi, ancora: «Ricorderanno il tuo nome per tutte le
generazioni». Chi infatti adatta la nozione di Dio a ciò che non deve, usa il
nome del Signore Iddio invano; e colui che può profferire parole che scendono
come pioggia su chi ascolta, muovendo le anime a portare frutti, e dice parole
di consolazione simili a rugiada e sparge, con la foga dei discorsi edificanti,
come una pioggerella utilissima agli ascoltatori o come gocce efficacissime, è
in virtù del nome che è capace di tutto questo. Considerando d’essere bisognoso
che Dio termini l’opera, chiede il suo aiuto, poiché Egli è la vera fonte di
quelle grazie; e chiunque penetra chiaramente nelle cose di Dio, anche se i
misteri della pietà gli sembrano detti da un altro o crede di scoprirli lui, non
fa che ricordarli piuttosto che imparare.
Cosa significa esaltare
il nome di Dio
4. Chi prega deve pensare a queste cose e chiede che sia santificato il nome di
Dio; per questo si canta nei Salmi: «Esaltiamo il suo nome tutti insieme».
Ordina il profeta di raggiungere in perfetta armonia della mente e del pensiero
la vera ed eccelsa conoscenza dell’essenza di Dio. Questo significa infatti
esaltare il nome di Dio insieme, quando uno che ha partecipato all’effluvio
della divinità con l’essere stato accolto da Dio, ed avendo signoreggiato sui
nemici che non possono più rallegrarsi della sua rovina, esalta quella potenza
di Dio della quale fu partecipe; questo concetto è espresso nel Salmo 29 colle
parole: «Ti esalterò, o Signore, perché mi hai tratto in alto e non hai permesso
che i miei nemici si rallegrassero di me». Esalta inoltre Dio colui che dedica
un’abitazione in se stesso, come mostra anche la dedica del Salmo citato: «Salmo
del Cantico per la inaugurazione della casa di Davide».
Una polemica
sull’imperativo
5. Inoltre, a proposito
del «sia santificato il tuo nome» e sull’uso degli altri imperativi, occorre
dire che gli interpreti usano costantemente l’imperativo invece dell’ottativo,
come si vede nei Salmi: «Ammutoliscano le labbra bugiarde che dicono insolenze
contro il giusto». «Ammutoliscano» invece di “oh, se ammutolissero!” e
«L’usuraio vada in cerca di tutti i suoi beni e non vi sia chi l’aiuti» detto a
proposito di Giuda nel Salmo 108, che è tutto una invocazione per Giuda perché
mali simili tocchino a lui. Non avendo Taziano compreso
quell’«ammutoliscano» che non sempre indica un ottativo, ma talora ha la forza
di un imperativo, avanzò le più empie congetture su quella parola di Dio: «Sia
fatta la luce», quasi che Egli avesse desiderato più che comandato che
fosse fatta la luce; perché – dice lui con empio sentimento – Dio era nella
tenebra. Gli si deve rispondere, chiedendo come interprete allora anche queste
parole: «Germini la terra erba del pascolo» e «si raduni l’acqua sotto il cielo»
e «Producano le acque rettili animati e viventi» e «Produca la terra animali
viventi». Per potersi reggere solidamente, Dio prega che si raduni in un solo
luogo l’acqua posta sotto il cielo? O per partecipare di ciò che la terra
germina, prega: «Germini la terra»? Che bisogno poi aveva, analogamente a quello
della luce, degli acquatici, dei volatili, dei terrestri, da pregare anche per
questi? E se anche per Taziano è assurdo che Dio pregasse per queste cose,
enunciate in termini imperativi, perché alla stessa guisa non si deve intendere
quel: «Sia fatta la luce», detto non esortativamente ma imperativamente? Mi è
parso necessario, dal momento che la preghiera è detta in tono imperativo,
ricordare le false interpretazioni di Taziano, per coloro che vengono ingannati
e che hanno accolto la sua empia teoria. Anche noi una volta le abbiamo provate.
CAPITOLO XXV
Un regno tutto interiore
1. «Venga il tuo regno». «Se il regno di Dio», secondo il detto del Signore e
Salvatore nostro, «non viene con apparato, né diranno – Eccolo qui o eccola là»,
ma «il regno di Dio è dentro» di noi; «vicina è infatti la parola, molto vicina,
nella nostra bocca e nel nostro cuore» dimora presso di lui». E credo si intenda
per regno di Dio una condizione di beatitudine dell’anima superiore e
l’ordine dei saggi pensieri, e per regno di Cristo si intendano i discorsi a
salvezza di chi li ascolta, e le perfette opere di giustizia e delle altre
virtù: parola e giustizia è anche il Figlio di Dio. In ogni peccatore
spadroneggia invece il principe di questo secolo, poiché ogni peccatore è
dominato dal presente secolo malvagio, in quanto non si dà «a colui che ha dato
se stesso per i nostri peccati al fine di strapparci al presente secolo
malvagio, secondo la volontà del nostro Dio e Padre» Ora, colui che è
tiranneggiato dal principe di questo secolo è pure in dominio del peccato, dal
momento che vuole peccare; onde Paolo comanda di non essere più sottomessi al
peccato che vuole regnare su noi: «Non regni dunque il peccato nel nostro corpo
mortale per ubbidire alle sue concupiscenze».
Un regno sempre
perfettibile
2. Ma dirà qualcuno, di
fronte ad ambedue le espressioni: «sia santificato il tuo nome» e «venga il tuo
regno», che, se chi prega lo fa per essere ascoltato e una qualche volta viene
esaudito, quando per lui sarà santificato (abbiamo spiegato come) il nome di
Dio, verrà per lui allora anche il regno di Dio. E se questo otterrà, perché
converrà ancora pregare per le cose che già ci sono, come se non ci fossero
ancora, dicendo: «Sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno»? In questo
caso, non dovrebbe più qualche volta dire: «Sia santificato il tuo nome, venga
il tuo regno». La risposta è questa. Chi prega per ottenere il discorso della
scienza e della sapienza, giustamente pregherà sempre per questi doni, anche se
avrà percepito, per esser stato esaudito, più principi di sapienza e di scienza,
conoscendo anche solo in parte quanto potrebbe ora possedere, mentre si
manifesterà il perfetto abolendo quello che è in parte allorquando la mente si
fisserà a faccia a faccia senza ostacolo dei sensi nelle cose spirituali. Allo
stesso modo, per ciascuno di noi non è possibile che sia completamente
santificato il nome di Dio né che si stabilisca interamente il suo regno, se non
venga anche Colui che è perfetto di scienza e di sapienza, e forse lo è pure
delle altre virtù. Ora, noi ci mettiamo in cammino verso la perfezione se,
protendendoci «verso quelle cose che stanno dinanzi», dimentichiamo «quelle che
stanno dietro».
Un regno che esclude il
peccato
3. Inoltre sul regno di
Dio bisogna dire ancora che come non c’è «comunanza tra la giustizia e
l’iniquità» né «comunione tra la luce e le tenebre» né «armonia tra Cristo e
Belial», così non può coesistere il regno del peccato con il regno di Dio. Se
dunque vogliamo esser sudditi di Dio «non regni affatto il peccato nel
nostro corpo mortale», né prestiamo ascolto agli inviti del peccato che chiama
la nostra anima alle opere della carne e alle cose non di Dio; ma, facendo
morire «le membra che sono sulla terra», portiamo i frutti dello Spirito,
affinché, quasi in un paradiso spirituale, il Signore passeggi in noi e regni su
di noi unicamente con il suo Cristo sedendo alla destra della potenza spirituale
che noi preghiamo di ottenere, e rimanendovi finché tutti i nemici che portiamo
in noi diventino «sgabello dei suoi piedi» e renda vano in noi ogni dominio e
potenza e forza. Tutto ciò può avverarsi per ciascuno di noi ed essere annullato
«l’ultimo nemico, la morte», perché anche di noi dica Cristo: «Dov’è il tuo
pungiglione, morte? Dove, o inferno, la tua vittoria?». Quindi la nostra
«corruzione» si rivesta ormai della santità e «incorruttibilità» in castità e
completa purità; la nostra «mortalità» si circondi della «immortalità» del
Padre, annientata che sarà la morte, cosicché noi, sotto il governo di Dio, ci
troviamo senz’altro tra i tesori di rigenerazione e di risurrezione.
CAPITOLO XXVI
Diventare come quelli del
cielo
1. «Sia fatta la tua volontà come nel cielo anche sulla terra». Luca dopo «Venga
il tuo regno», tacendo il resto, continua: «il pane nostro supersostanziale dà a
noi ogni giorno». Perciò l’espressione da noi riportata, trovandosi solo in
Matteo, l’esaminiamo dopo quelle che l’hanno preceduta. Poiché ci troviamo, noi
che si prega, ancora sulla terra, comprendendo che in cielo si fa la volontà di
Dio da parte di tutti i celesti abitanti, preghiamo che anche noi, essendo della
terra, facciamo in tutto la volontà di Dio: il che avverrà se nulla
operiamo contro la sua volontà. Ora, come in cielo c’è la volontà di Dio, si
compia anche per noi sulla terra; divenuti simili a quelli del cielo, poiché a
somiglianza di quelli portiamo l’immagine del Celeste, erediteremo il regno dei
cieli. E quelli che saranno dopo di noi in terra, pregheranno di diventare
simili a noi che ormai saremo del cielo.
Significato esteso alle
altre petizioni
2. Si potrebbe interpretare la parte riportata soltanto da Matteo: «come in
cielo anche sulla terra» come sottintesa nelle precedenti petizioni, onde ci
verrebbe comandato di dire così, pregando: «Sia santificato il tuo nome come in
cielo, anche sulla terra. Venga il tuo regno come in cielo, anche sulla terra.
Sia fatta la tua volontà come in cielo, anche sulla terra». Il nome di Dio,
infatti, è santificato tra quelli del cielo e per loro si attua il regno di Dio
ed è fatta in essi la volontà di Dio; cose tutte che mancano a quelli della
terra, ma possono toccarci se, per conseguirle, ci rendiamo degni di Dio che
porge ascolto a tutte queste cose.
Cristo è il cielo e la
Chiesa la terra
3. Qualcuno potrebbe investigare su quel «Sia fatta la tua volontà, come in
cielo anche sulla terra», dicendo: «Ma come può essere fatta la volontà
di Dio in cielo, ove ci sono “gli spiriti del male”onde “anche in cielo è ebbra
la spada di Dio”»? Se preghiamo che sia fatta la volontà di Dio sulla terra così
come è fatta in cielo, non forse sconsideratamente chiediamo che restino sulla
terra anche quelle cose per noi infeste, poiché discendono dal cielo anch’esse,
per cui molti sulla terra diventano malvagi a causa degli spiriti del male che
li sopraffanno e che sono nel cielo? Chi quindi interpretando allegoricamente il
cielo e identificandolo nel Cristo; la terra, invece, interpretandola come la
Chiesa – quale trono è infatti così degno del Padre come Cristo e quale
sgabello dei piedi di Dio se non la Chiesa? –, facilmente scioglierà la
questione, affermando che ognuno che appartenga alla Chiesa deve pregare di
accettare la volontà paterna come l’aveva accettata Cristo che era venuto a fare
la volontà del Padre suo e tutta l’aveva fatta. Può infatti chi si sia unito a
Lui diventare uno spirito solo con Lui, per questo accettando la sua volontà,
cosicché essa si compia in cielo come si compie anche in terra poiché «colui che
si unisce al Signore – dice Paolo – è uno spirito solo con Lui». E penso che non
debba essere trascurata questa interpretazione da parte di chi l’avrà un po’
attentamente considerata.
Cristo farà della terra
un cielo
4. Chi invece la impugna, citerà ciò che alla fine di questo Vangelo è detto dal
Signore dopo la sua risurrezione, agli undici discepoli: «Fu data a me ogni
potestà come in cielo, anche sulla terra». Avendo infatti potestà sulle cose del
cielo, dice di averla ricevuta anche per la terra: infatti le cose del cielo
sono state illuminate anche prima da parte del Verbo, ma alla fine del mondo
anche le cose della terra, per mezzo della potestà data al Figlio di Dio,
imitano quelle che in cielo sono perfette e su cui ricevette la potestà il
Salvatore. Vuole pertanto prendersi i discepoli come cooperatori nella preghiera
al Padre, affinché, essendo state le cose della terra conformate su quelle che
nel cielo sono soggette alla verità e al Verbo, con il potere che ricevette come
in cielo così anche in terra, le conduca al felice fine che ha tutto quanto è a
Lui soggetto. E chi interpreta che il cielo sia il Salvatore e la terra la
Chiesa, facendo del cielo il primogenito di tutta la creazione, sul quale riposa
il Padre come su un trono, potrebbe dedurre che è l’«uomo» di cui si rivestì e
che si permeò di quella potenza del Verbo, a dire dopo la risurrezione, per il
fatto di essersi umiliato e divenuto obbediente fino alla morte: «Fu dato
a me ogni potere, come in cielo, anche in terra», avendo l’«umanità» del
Salvatore ricevuto la potestà delle cose celesti che sono in potere
dell’Unigenito, affinché sia in comunione con Lui, mescolata alla sua divinità e
formi una sola cosa con Lui.
L’uomo santo ha già il
cielo sulla terra
5. Poiché la seconda interpretazione non risolve il dubbio su come si faccia la
volontà di Dio in cielo, dal momento che lottano gli spiriti del male celesti
con quelli terrestri, si può risolvere così la questione. Colui che sta ancora
sulla terra, ma ha la cittadinanza nel cielo e lassù ammassa tesori poiché ivi
ha il suo cuore e porta l’immagine del Celeste, non per il posto che occupa egli
non è più sulla terra, ma per le sue disposizioni interiori; e non appartiene al
mondo di quaggiù, ma del cielo e di un mondo celeste migliore di quello. Anche
gli spiriti del male che ancora dimorano nel cielo ma hanno la cittadinanza
sulla terra e in ciò che loro s’oppone fanno guerra agli uomini e ammassano
tesori sulla terra, e portano l’immagine del terreno «che è la prima
delle opere del Signore fatta perché se ne dilettino gli angeli», non sono
celesti né abitano nel cielo a causa della loro inclinazione al male. Quando
allora si dice: «Sia fatta la tua volontà, come in cielo, anche sulla terra»,
non bisogna credere che siano nel cielo coloro che a causa della loro superbia
precipitarono insieme a colui che cadde dal cielo a guisa di fulmine.
Anche il peccatore, se è
terra, deve diventare cielo
6. E forse dicendo il
Salvatore che si deve pregare affinché sia fatta la volontà del Padre come in
cielo così anche sulla terra, non comanda assolutamente di fare preghiere per
quelli che sono posti in luogo terrestre, affinché diventino simili a quelli che
stanno in una dimora celeste, ma vuole che si chieda che tutte le cose della
terra, cioè le peggiori e che hanno comunanza con le terrestri, assomiglino a
quelle migliori e che hanno la cittadinanza nei cieli, essendo tutte divenute
cielo. Il peccatore, infatti, dovunque si trovi, è terra in cui – data questa
affinità – in qualche modo si trasformerà se non si pente; chi invece fa la
volontà di Dio e non trasgredisce le spirituali leggi di salvezza, è cielo. Sia
che quindi siamo ancora terra a motivo del peccato, preghiamo che anche su di
noi si estenda così la volontà di Dio disposta ad emendarci, come toccò a
quelli che prima di noi furono fatti cielo o sono cielo; e se agli occhi di Dio
noi non siamo più considerati terra, ma cielo, chiediamo perché a somiglianza
del cielo, anche sulla terra – cioè sui cattivi – si compia la volontà di
Dio in ordine a quel permutarsi della terra in cielo, per cui non esista più
terra ma tutto diventi cielo. Poiché se stando all’interpretazione data
si fa la volontà di Dio anche in terra come è fatta in cielo, la terra non
resterà più tale. Per esprimermi più chiaramente con un altro paragone:
se si compie la volontà di Dio per i temperanti e similmente si compie per i
dissoluti, i dissoluti diventeranno temperanti; o, se si compie la volontà di
Dio per i giusti e anche per gli ingiusti, gli ingiusti saranno giusti. Per
questo, qualora si faccia sulla terra anche la volontà di Dio come è fatta nel
cielo, tutti saremo cielo. «La carne che non è utile ed il sangue» ad essa
affine «non possono ereditare il regno di Dio», ma si dirà che lo ereditano se
da carne, terra, polvere e sangue diventeranno sostanza celeste.
CAPITOLO
XXVII
Quale pane si deve
chiedere
1. «Il pane nostro supersostanziale da’ a noi oggi» o, secondo Luca, «il pane
nostro supersostanziale da’ a noi di giorno in giorno». Poiché certuni pensano
che noi siamo invitati a chiedere il pane per il corpo, è giusto che, rimossa
subito la loro erronea opinione, stabiliamo la verità sul pane sostanziale.
Bisogna rispondere a costoro perché mai Colui che dice di chiedere cose celesti
e grandi – non essendo celeste il pane che ci viene dato per la nostra carne né
grande preghiera è quella di chiederlo – ordini di elevare al Padre la supplica
per quello che è terreno e piccolo, come se Dio secondo loro si fosse
dimenticato dei suoi insegnamenti.
Il pane che assimila a
Cristo
2. Ma noi che seguiamo il Maestro stesso che dà lezioni sul pane, ci
dilungheremo alquanto sull’argomento. Dice nel Vangelo di Giovanni a coloro che
erano venuti a Cafarnao a cercare di Lui: «In verità, in verità vi dico – Voi mi
cercate non perché avete veduto dei segni, ma perché avete mangiato del pane e
siete stati saziati». Chi infatti mangiò dei pani benedetti da Gesù e ne fu
saziato, a maggior ragione cerca di comprendere più profondamente il Figlio di
Dio e tende a Lui. Perciò giustamente dice quando insegna: «Adoperatevi non per
il cibo che perisce, ma per il cibo che rimane per la vita eterna, cibo che il
Figlio dell’uomo vi darà». Ora, a quelli che l’avevano ascoltato avendolo in
merito interrogato, dicendo: «Che dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?»,
Gesù rispose e disse loro: «Questa è l’opera di Dio: che crediate a colui che
egli ha mandato»; Dio infatti «mandò il suo Verbo e li guarì», riferendosi a
quelli che erano malati, come sta scritto nei Salmi; con la fede nel Verbo,
attuano le opere di Dio, che sono cibo duraturo per la vita eterna. Inoltre: «Il
Padre mio dà a voi il pane che viene dal cielo, quello vero. Poiché il pane di
Dio è quello che discende dal cielo e dà vita al mondo». E il pane vero è quello
che ciba l’uomo vero, fatto a immagine di Dio, e chi se ne nutre diventa persino
simile al Creatore. Per l’anima, che cosa c’è di più nutritivo del Verbo? Per la
mente che la riceve, che cosa di più prezioso della sapienza di Dio? Che cosa ha
maggior affinità con la natura razionale, se non la verità?
Cristo è il pane vero
3. E se qualcuno obietta con il dire che Cristo non potrebbe insegnare a
chiedere il pane supersostanziale come se si trattasse di un altro genere di
pane, badi come anche nel Vangelo di Giovanni ora si parli di una cosa diversa
da Lui, ora invece come fosse Lui stesso il pane. Nel primo caso: «Mosè diede a
voi il pane del cielo, non quello vero, ma il Padre mio vi dà il pane vero dal
cielo»; a quelli invece che gli chiesero: «Dacci sempre di questo pane»,
riferendosi a Sé, risponde: «Io sono il pane di vita, chi viene a me non avrà
fame, e chi crede in me non avrà mai sete». E più oltre: «Io sono il pane
disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane, vivrà in eterno e il pane poi
che io darò è la mia carne, che darò per la vita del mondo».
Il pane della Parola
4. E poiché ogni cibo è chiamato «pane» dalla Sacra Scrittura, come appare da
ciò che è scritto di Mosè: «Non mangiò pane per quaranta giorni e non bevve
acqua»; inoltre varia e diversa essendo la Parola che sostanzia e non potendo
tutti nutrirsi di saldi e incrollabili insegnamenti divini, volendo perciò dare
un cibo per la lotta adatto ai più perfetti, dice: «Il pane che io darò è
la mia carne che io darò per la vita del mondo». E più avanti: «Se non mangiate
la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete la vita in
voi. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna ed io lo
risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue
è vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me ed io
in lui. Come il Padre vivente mi ha mandato ed io vivo a cagion del Padre, così
chi mi mangia vivrà anche lui a cagion di me». E questo è il vero cibo, la carne
di Cristo, il quale, essendo Parola, diventò carne, come sta scritto: «E la
Parola divenne carne». E quando ne mangiamo e ne beviamo, allora «abitò in noi».
Quando poi viene distribuito, si adempie quanto è scritto: «Vedremo la sua
gloria». «Questo è il pane disceso dal cielo. Non come mangiarono i padri, e
morirono. Chi mangia di questo pane vivrà in eterno».
Il cibo dei perfetti
5. E Paolo, rivolgendosi ai Corinti, ancora fanciulli, che camminavano alla
maniera umana, dice: «Vi ho dato del latte come bevanda, non del cibo, poiché
non eravate ancora da tanto, anzi non lo siete neppure adesso, perché
siete ancora carnali». E nella lettera agli Ebrei: «E siete giunti al punto che
avete bisogno di latte, non di cibo solido. Infatti chiunque usi il latte, non
ha esperienza della parola della giustizia, poiché è bambino, ma il cibo solido
è per uomini fatti, per quelli cioè che per via dell’uso hanno i sensi
esercitati a discernere il bene e il male». Io inoltre penso che anche le
parole: «L’uno crede di poter mangiare di tutto, mentre l’altro, che è debole,
mangia legumi» non siano principalmente dette riguardo al cibo del corpo,
ma anche riferite alle parole di Dio che nutrono l’anima; giacché quello che è
radicato nella fede e perfetto può prendere di tutto. Ciò significano le parole:
«L’uno crede di mangiare di tutto»; a quello invece che è più debole e non
interamente formato bastano alimenti di dottrina più semplice che però non
infondono il completo vigore. Questo si vuole indicare con la parola: «l’altro
invece che è debole, mangia legumi».
Il banchetto dei semplici
6. Sono dell’avviso che quanto è detto nei Proverbi di Salomone insegni che
colui il quale a causa della sua semplicità non intende il contenuto
solido e piuttosto elevato delle dottrine senza tuttavia errare nei suoi
giudizi, sia migliore di colui che si rivolge alle cose con maggior zelo,
profondità, e ampiezza, ma non penetra la ragione per cui tutto è in pace e in
armonia. Le parole del testo sono: «È meglio essere invitato a mangiare
verdure con amicizia e grazia che un vitello di stalla con odio». Spesso quindi
accettammo di essere ospiti ad un familiare e semplice banchetto offerto con
coscienza pura presso quelli che di più non sapevano dare, piuttosto che sedere
a livello di superbi discorsi contro la scienza di Dio, che hanno sì una buona
dose di probabilità ma che proclamano una dottrina diversa da quella del Padre
del Signore nostro Gesù, che ha dato la legge e i profeti. Orbene,
affinché per penuria di alimenti non ci ammaliamo nell’anima né agli occhi di
Dio moriamo per fame della parola del Signore, chiediamo al Padre il pane vivo
che è come dire supersostanziale, obbedendo all’insegnamento del Salvatore
nostro, credendo e vivendo più rettamente.
Il vocabolo
epioúsios, supersostanziale
7. Ma ora bisogna esaminare la parola «supersostanziale». Innanzitutto occorre
sapere che il termine epioúsios non viene citato da nessun scrittore
greco né da alcun filosofo e non è nemmeno usato nella lingua parlata dal
popolo, ma sembra essere stato coniato dagli Evangelisti. Sono concordi pertanto
Matteo e Luca su questa parola che riportano indifferentemente. I traduttori del
testo ebraico hanno fatto la stessa cosa anche per altri termini. Infatti quale
scrittore greco avrebbe usato la voce enotízou o l’altra akoutístheti,
invece di eis tà óta déxai o akoúsai póiei. Un termine simile a
epioúsios è scritto da Mosè, ed è parola di Dio: «E voi sarete per me il
popolo eletto (perioúsios)». Ora, sembra che entrambi i termini siano
formati da ousía: l’uno a significare il pane che si muta nella Sostanza,
e l’altro il popolo che sta attorno alla Sostanza e comunica con essa.
Significati e valori di
sostanza
8. I filosofi affermano che la sostanza propriamente detta sia il fondamento
essenziale delle cose incorporee, quelle il cui essere non muta e non riceve
aumento né soffre diminuzione. Diversamente si comportano le cose corporee, per
cui esiste accrescimento o mancamento, per il fatto di esser labili e di aver
bisogno di un qualcosa che le sostenga e le sostenti, cosicché, se a un certo
punto sopraggiunge più di quanto è fuoriuscito, si ha l’accrescimento; se di
meno, una perdita. Se poi alcune cose corporee non hanno nessun apporto,
sono, per dir così, in pura diminuzione. Altri filosofi che suppongono la
sostanza come accessoria nelle cose incorporee, ma fondamento in quelle
corporee, la definiscono così: sostanza è la materia prima di cui e per cui è
fatto ciò che esiste; oppure è la materia di cui constano i corpi; e quanto di
consistente hanno i nomi delle cose, o il primo stadio di esistenza,
indeterminato; o ciò che preesiste alle cose oppure ciò che riceve tutti i
mutamenti e le alterazioni, mentre esso è senza alterazioni, secondo il proprio
principio. È ancora ciò che persiste attraverso ogni alterazione e mutamento:
secondo costoro poi la sostanza non ha qualità né figura, conformemente al suo
principio, né possiede una grandezza prestabilita, ma s’informa ad ogni qualità,
come a un posto che le si adatta. Chiamiamo propriamente qualità le forze e gli
aspetti in genere, cui s’uniscono il moto e il configurarsi delle cose. Dicono
che la sostanza non partecipi di nessuna qualità, a causa del suo principio; ma
che sia inseparabile da qualcuna di esse per via dell’accidente o sia
altrettanto in grado di ricevere tutti gli influssi dell’agente ogni
volta che questo influisce e produce mutamento. Ha insita infatti una forza che
tutto pervade, cosicché sarebbe causa di ogni qualità e delle operazioni
inerenti. Dicono sia mutevole in tutto e per tutto, e completamente divisibile,
e che ogni sostanza può aderire a qualsiasi altra, una volta unita, s’intende.
La Parola di Dio pane
dell’anima
9. Ora, poiché nella nostra ricerca sulla sostanza, portativi dal pane
supersostanziale e dal popolo eletto, abbiamo detto queste cose per distinguere
i significati del termine sostanza; trattandosi però – lo vedemmo prima – di
pane spirituale che noi dobbiamo chiedere, necessariamente crediamo che la
sostanza debba essere affine a questo pane, affinché come il pane dato per il
nutrimento del corpo si cambia nella sostanza di colui che se ne ciba; così il
Pane vivo e disceso dal cielo, dato alla mente e all’anima, renda partecipe del
proprio vigore chi si è dato per essere nutrito. Così sarà il pane
supersostanziale che noi chiediamo. E inoltre, a quel modo che chi si nutre è
più o meno in forze a seconda della qualità del cibo, se solido e fatto per gli
atleti o a base di latte e di verdure, così è per la Parola di Dio: sia che
venga somministrata come latte adatto ai fanciullini o come verdura fatta per i
deboli o come carne opportuna per chi lotta, ciascuno di coloro che si
nutrono, in proporzione con cui si sono disposti nei confronti del Verbo,
acquista un multiforme potere, questo o quel carattere. C’è poi un cibo
che è ritenuto tale, ma è nocivo; un altro che è velenoso ed un terzo che non si
può prendere; tutto questo va riferito anche alla varietà delle dottrine che si
credono portatrici di nutrimento. Pane supersostanziale è dunque quello
adattissimo alla natura razionale ed affine alla stessa sostanza, recante salute
e vigore e forza all’anima e rendendo partecipe della propria immortalità –
immortale è infatti il Verbo di Dio – chi se ne ciba.
Cibo per gli angeli
10. Questo pane supersostanziale mi pare che venga chiamato nella Scrittura con
altro nome «albero di vita», per cui chi «avrà allungato la mano e ne avrà
preso, vivrà in eterno». E con un terzo nome tale legno è detto «sapienza di
Dio» da Salomone con queste parole: «Legno di vita per chi l’abbraccia e sicuro
per quelli che vi si appoggiano come al Signore». E poiché anche gli angeli si
nutrono della sapienza di Dio, divenuti capaci, in virtù della contemplazione
della sapienza secondo verità, ad assolvere la loro particolare missione, si
legge nei Salmi che anche gli angeli se ne nutrono e con gli angeli hanno
parte gli uomini di Dio, detti Ebrei, e siedono quasi allo stesso banchetto.
Questo è il significato del versetto: «L’uomo si cibò del pane degli
angeli». E non sia così meschina la nostra mente a credere che gli angeli
abbiano sempre a nutrirsi – e con gli angeli partecipino gli uomini – di un pane
materiale, quello di cui si narra che discese dal cielo su coloro che sono
usciti dall’Egitto, e nemmeno credere che quel pane fosse lo stesso che
mangiarono gli Ebrei insieme agli angeli, che sono spiriti ministri di Dio.
Un nutrimento comune agli
angeli e ai santi
11. Mentre cerchiamo un significato di quel «pane supersostanziale», di
quell’«albero della vita», di quella «sapienza di Dio», e del nutrimento comune
agli uomini santi e agli angeli, non è inopportuno che citiamo anche quanto è
scritto nel Genesi: «tre uomini si presentarono ad Abramo e mangiarono di tre
misure di fior di farina impastata per fare i pani cotti sotto la cenere»;
questo è detto in senso scopertamente figurativo, potendo i santi far parte
talora del cibo spirituale e razionale non soltanto agli uomini, ma anche alle
potenze divine, indubbiamente o per giovare loro o per mostrare ciò che poterono
procacciarsi a loro nutrimento. Gli angeli godono e si pascono di questa
dimostrazione e diventano più zelanti a recare in ogni modo aiuto per il futuro
e far sì che acquisti migliore e maggiore intelligenza delle cose colui che già
prima era fornito di quella dottrina che è cibo e di cui godeva, per così dire,
con il nutrirsene. Non dobbiamo meravigliarci se l’uomo nutre gli angeli, quando
proprio anche Cristo confessa di stare davanti alla porta a bussare, affinché
entrato in casa di colui che gli ha aperto, insieme banchetti delle sue cose per
dare Lui in seguito delle proprie sostanze a chi per primo ha nutrito, come gli
permettevano le sue possibilità, il Figlio di Dio.
Il cibo malsano di Satana
12. Chi dunque, partecipando del pane supersostanziale, rafforza il cuore,
diventa figlio di Dio; colui invece che si pasce del serpente, non è diverso
dall’Etiope spirituale, ed è mutato lui stesso in serpente a causa dei lacci
dell’animale; udirà così il rimprovero del Verbo anche se dice di voler essere
battezzato: «Serpenti, razza di vipere, chi vi insegnò a fuggire dall’ira che
verrà?». Davide così parla del corpo del serpente divorato dagli Etiopi: «Tu
spezzasti il capo ai mostri marini sulle acque. Tu spezzasti il capo del
serpente e lo desti in pasto al popolo degli Etiopi». E se non c’è
contraddizione nel fatto che, sussistendo nella sostanza il Figlio di Dio e pure
il suo Avversario, uno di essi diventi cibo del tale o del tal altro
uomo, perché esitare ad ammettere che ciascuno di noi può almeno tra tutte le
potenze migliori o peggiori ed anche tra gli uomini, cibarsi di tutto questo?
Pietro, mentre voleva unirsi al centurione Cornelio ed a quanti si erano
raccolti con lui a Cesarea, per partecipare alle genti la Parola di Dio, vede
«un recipiente calato per le quattro estremità giù dal cielo, in cui era ogni
genere di quadrupedi, di rettili, e fiere della terra»; quand’ecco gli venne
comandato di alzarsi per ucciderli e cibarsene. «Tu sai – disse dopo aver
rifiutato – che mai nulla di comune o immondo entrò nella mia bocca», ammonito
così a non chiamar nessun uomo comune o immondo perché ciò che era stato
purificato da Dio non doveva Pietro ritenerlo comune. Dice infatti il testo: «Le
cose che Dio ha purificato non farle tu immonde». Dunque il cibo puro e quello
impuro, distinti secondo la legge di Mosè con i nomi di parecchi animali posti
in relazione coi diversi costumi degli esseri razionali, ci dicono che alcuni
cibi sono nutrienti, altri hanno virtù contrarie, finché dopo averli purificati
tutti o almeno alcuni di ogni singola specie, Dio non li renda nutrienti.
L’oggi
anticipa il domani dei secoli futuri
13. E stando così le cose, e talmente grande essendo la diversità degli
alimenti, uno solo è al di sopra di tutti quelli nominati: il pane
supersostanziale, per cui si deve pregare onde divenirne degni e, nutriti dal
Verbo divino che in principio era presso Dio, diventare Dio. Dirà
qualcuno che epioúsios è formato da epiénai (sopraggiungere),
cosicché noi siamo invitati a chiedere il pane adatto al secolo che verrà
affinché Dio, anticipandolo, già ce lo dia, in modo da elargirci ciò che ci sarà
dato in un domani, interpretando «oggi» come il secolo presente, «domani»,
quello venturo. Ma essendo migliore, almeno a parere mio, la prima accezione,
esaminiamo il significato di sémeron del testo di Matteo, o del
kath’heméran scritto in Luca. È un uso comune nelle Scritture quello di
«oggi» per dire «ogni secolo»; per esempio: «Questi è il padre dei Moabiti che
durano fino al giorno d’oggi» e: «Questi è il padre degli Ammoniti che durano
fino al giorno d’oggi»; e ancora: «E questa voce si è divulgata tra i Giudei
fino al dì d’oggi». Anche nei Salmi: «Oggi se udite la sua voce, non indurite i
vostri cuori». In Giosuè poi è detto in modo esplicito: «Non staccatevi dal
Signore nei giorni presenti». Se dunque «oggi» significa «tutto questo secolo»,
forse «ieri» è il «secolo passato»; così abbiamo congetturato su quanto è
scritto nei Salmi e nella lettera agli Ebrei di Paolo. Nei Salmi: «Mille
anni agli occhi vostri sono come il giorno di ieri che è passato» Cristo ieri ed
oggi: Egli è anche nei secoli». Non c’è da meravigliarsi se per Dio un intero
secolo equivale alla durata di un solo nostro giorno, credo anzi anche di meno.
Le feste ebraiche,
simboli di feste eterne
14. Bisogna inoltre considerare se quanto si dice delle feste o delle assemblee
descritte per giorni o mesi o stagioni o anni si riferisce a secoli. Se
infatti la legge «ha un’ombra delle cose che verranno»
necessariamente i molti sabati sono l’ombra di molti giorni e
le lunazioni sono poste ad intervalli di tempo, effettuate da non so quale luna
in congiunzione con un certo sole. E se il primo mese ed il decimo giorno di
esso fino al quattordicesimo, e la festa degli azzimi che va dal quattordicesimo
al ventunesimo racchiudono l’ombra di cose che verranno, chi è sapiente e amico
di Dio al punto da vedervi il primo dei molti mesi ed il suo decimo giorno,
ecc.? Che bisogno c’è di parlare della festa delle sette settimane di
giorni e del settimo mese il cui novilunio è il giorno delle trombe, e il decimo
quello della propiziazione, essendo tutte note a Dio solo che le ha stabilite? E
chi si addentrò nella mente di Cristo al punto da comprendere i sette anni della
libertà dei servi degli Ebrei e della remissione dei debiti e del divieto
di coltivare la terra santa? E v’è ogni sette anni una festa detta Giubileo;
figurarsela fino ad un certo punto un po’ profondamente o le leggi che in essa
veramente si saranno compiute non è possibile a nessuno se non a chi abbia
scrutato il disegno del Padre sulla disposizione di tutti i secoli secondo i
suoi ininvestigabili giudizi e le sue impercorribili vie.
Il mistero dei secoli a
venire
15. Sovente nel confrontare due passi dell’Apostolo, mi venne un dubbio sulla
fine dei secoli durante i quali una volta sola è apparso Gesù per cancellare i
peccati: verranno ancora secoli dopo questo? I testi suonano così, quello della
lettera agli Ebrei: «Ma ora una volta sola, alla fine dei secoli, con la propria
immolazione è stato manifestato per annullare i peccati»; e quello della lettera
agli Efesini: «Per mostrare nei secoli che verranno l’immensa ricchezza della
sua grazia nella benignità verso di noi». Congetturando su così profonda
materia, penso che come la fine dell’anno è l’ultimo mese dopo il quale c’è
l’inizio di un altro mese; così forse quando parecchi secoli avranno colmato per
così dire un anno di secoli, sarà la fine del presente secolo, dopo i quali
hanno da venire certi altri secoli, il cui inizio è il secolo venturo ed
in quelli futuri Dio mostrerà la ricchezza della sua grazia in benignità. Il
grandissimo peccatore e bestemmiatore dello Spirito Santo, essendo stato
dominato dal peccato in tutto il presente secolo ed in quello futuro dall’inizio
alla fine, dopo tutto questo sarà giudicato in un modo che io ignoro.
Al di sopra dei secoli
l’impegno quotidiano
16. Quindi, uno che considera queste cose e va con il pensiero alla settimana di
secoli per contemplare un sabato santo; ad un mese di secoli onde veda il santo
novilunio di Dio; ad un anno di secoli onde scorga anche le feste dell’anno,
quando deve «ogni maschio comparire al cospetto del Signore Dio»; ad analoghi
anni di siffatti secoli onde intravveda il settimo anno santo; e scorrendo con
la mente sette settimane di secoli onde lodi Chi pose tali leggi, come può
costui dare importanza alla più piccola parte di un’ora quotidiana di un secolo
così grande? Non farà di tutto, diventato degno di questa vita, di ottenere il
pane supersostanziale nel giorno di oggi, per riceverlo anche «di giorno in
giorno»? Ormai, da quanto è stato detto, è chiaro il significato del «di giorno
in giorno». E colui che oggi prega Dio che è dall’infinito e dura
all’infinito, non solo per quanto appartiene ad «oggi», ma anche in certo modo
per le necessità «di giorno in giorno» sarà capace di ottenere da «colui che
può» elargire «al di là di quel che domandiamo o pensiamo», per parlare
iperbolicamente, le cose che sono al di sopra di ciò che «occhio non vide, né
orecchio udì, né è salito in cuor d’uomo».
Il pane
nostro
17. Mi pare assai
necessario aver esposto queste cose onde capire, quando preghiamo che ci venga
dato dal Padre del Cristo il pane supersostanziale, le espressioni «oggi» ed
anche «di giorno in giorno». Infine, se consideriamo quel «nostro» nel valore
con cui è impiegato nell’ultimo Vangelo – poiché non si dice: «il nostro
pane supersostanziale dà a noi oggi», ma «il nostro pane supersostanziale dà a
noi di giorno in giorno» – bisogna esaminare come questo pane è «nostro».
Insegna proprio l’Apostolo che sia la vita, sia la morte, sia le cose future,
tutto è dei santi. Ma non è necessario parlarne ora.
CAPITOLO XXVIII
I debiti che abbiamo
1. «E rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li abbiamo rimessi ai nostri
debitori» o, come dice Luca, «e rimetti a noi i nostri peccati poiché anche noi
li rimettemmo a ogni nostro debitore». E dei debiti parla anche l’Apostolo:
«Rendete a tutti ciò che dovete: Il tributo a chi dovete il tributo, la gabella
a chi la gabella, il timore a chi dovete il timore, l’onore a chi spetta. Non
abbiate altro debito con alcuno se non d’amarvi gli uni gli altri». Siamo dunque
debitori perché abbiamo non soltanto obblighi nel dare, ma anche nel dire una
parola di bene e nel compiere siffatte azioni; ché anzi dobbiamo avere verso gli
altri una disposizione di questo genere. Questi debiti certamente li
soddisfiamo coll’adempiere i comandi della legge divina o non li soddisfiamo,
disprezzando la santa parola e rimanendo quindi debitori.
E quelli che non sappiamo
di avere
2. La stessa cosa bisogna pensare dei debiti verso i fratelli che sono stati
rigenerati con noi in Cristo, secondo la parola della nostra religione, e verso
quelli che hanno il nostro stesso padre e la stessa madre. E c’è un debito anche
verso i cittadini ed un altro comune a tutti gli uomini, specialmente se sono
ospiti ed hanno l’età del nostro padre; un altro debito verso quei tali che è
giusto onorare come figli o fratelli. Chi quindi non soddisfa i debiti verso i
fratelli, resta debitore di ciò che non ha fatto. Così pure se manchiamo agli
uomini nelle cose che noi dobbiamo loro in virtù dello spirito di sapienza che
si estende a tutto il genere umano, maggiore diventa il debito. Ma anche nelle
cose che riguardano noi stessi, dobbiamo sì servirci del corpo, ma non consumare
le carni del corpo coll’amore al piacere; dobbiamo poi dedicare una certa cura
all’anima e provvedere alla vigoria del pensiero e della parola, onde sia senza
il pungiglione ed utile e non affatto vana. E se noi tralasciamo i doveri che
abbiamo verso noi stessi, più grave diventa questo debito.
I debiti verso Dio e gli
angeli
3. Ed oltre a ciò, poiché siamo sopra ogni cosa fattura ed immagine di Dio,
dobbiamo conservare verso di Lui una certa disposizione amandolo «con tutto il
cuore, con tutte le forze e con tutta la mente». Qualora trascuriamo ciò,
restiamo debitori verso Dio peccando contro il Signore. Chi, per questa colpa,
pregherà per noi? «Se un uomo commette peccato contro un uomo, si pregherà pure
per lui. Ma se pecca contro il Signore, chi pregherà per lui?», come Eli dice
nel primo libro dei Re. Siamo poi anche debitori a Cristo che con il proprio
sangue ci riscattò, come ogni servo è debitore a chi lo comprò del tanto denaro
da questi versato. Abbiamo un debito anche verso lo Spirito Santo, che paghiamo
quando «non lo contristiamo, nel quale siamo stati suggellati per il giorno
della redenzione»; e non contristandolo portiamo i frutti che attende da noi:
poiché ci viene in aiuto e vivifica la nostra anima. E se non sappiamo con
precisione chi sia l’angelo di ciascuno di noi, che «vede il volto del Padre nei
cieli», è tuttavia evidente a chi rifletta che anche verso di lui abbiamo un
piccolo debito. E se noi «siamo sulla scena del mondo di fronte agli angeli e
agli uomini», va tenuto presente che come colui che è in teatro deve recitare o
fare quella tal parte davanti agli spettatori e, non facendola, è punito
come se abbia offeso tutto il teatro, così anche noi di fronte a tutto il mondo,
a tutti gli angeli e al genere umano siamo debitori di quanto, volendo,
apprenderemo dalla sapienza.
Debiti particolari
4. A parte questi debiti che sono rivolti a tutti, c’è un debito della vedova
cui la Chiesa provvede, un altro del diacono ed un terzo del presbitero, mentre
quello del vescovo è gravissimo ed è sollecitato dal Salvatore di tutta la
Chiesa, e punito se non venga sciolto. E già l’Apostolo chiamò debito
quello comune tra uomo e donna, scrivendo: «Il marito renda alla moglie ciò che
le è dovuto e lo stesso faccia la moglie verso il marito». E soggiunge: «Non vi
private l’un dell’altro». Che bisogno ho io di enumerare quanti debiti abbiamo,
potendo coloro che leggono quest’opera collezionarne di propri in base a quanto
s’è detto? Se non sciogliamo questi debiti, resteremo insolvibili; se li
paghiamo, ne saremo liberati. Ma non è possibile che chi vive in questa vita,
sia privo di debiti ogni ora della notte e del giorno.
Il pagamento dei debiti
5. E nella condizione di debitore, uno o paga o non paga. Può darsi che in
questa vita si paghi il debito, ma che anche non si paghi. Ci sono di quelli che
non devono più nulla a nessuno, altri invece che pagando moltissimo riescono ad
estinguere una piccola parte del debito; ed altri che pagando un poco aumentano
sempre più il debito. Forse c’è quello che non paga nulla, ma resta debitore di
tutto. E chi ha pagato tutto così da non essere più debitore, ci impiega del
tempo, avendo però bisogno di una cancellazione dei debiti precedenti e
potendola ragionevolmente ottenere, se dopo un certo tempo si è comportato in
modo da non aver più quel debito per cui, siccome non aveva pagato, restava
vincolato. E quelle forze contrarie impresse nell’anima superiore
sono il «chirografo che è sfavorevole a noi» per cui saremo giudicati, a guisa
di libri scritti, per dir così, da tutti noi quando «tutti compariremo davanti
al tribunale di Cristo onde ciascuno riceva la retribuzione delle cose fatte
quando era nel corpo, secondo quel che fece sia di bene che di male». Di questi
debiti se ne discorre anche nei Proverbi: «Non dare te stesso in garanzia nei
debiti, vergognandotene in volto, poiché se non avrai con che soddisfare,
porteranno via la coperta tua che è sotto la tua schiena».
Indulgenza verso i nostri
debitori
6. Ma se sono così tanti quelli verso cui siamo indebito, certamente abbiamo
pure qualcuno che debba a noi. Alcuni infatti hanno dei debiti verso di noi,
perché siamo il loro prossimo; altri perché loro concittadini, oppure perché
padri; alcuni devono come a figli, ed oltre a questi, come donne a mariti, o
come amici ad amici. Ora, se alcuni dei moltissimi nostri debitori si fossero
mostrati piuttosto trascurati nel rimettere quanto ci devono, saremmo portati a
trattarli con indulgenza e senso di umanità, memori dei numerosi personali
debiti in cui fummo negligenti, non solo verso gli uomini, ma anche verso Dio
stesso. Ricordandoci infatti di non aver pagato i debiti che avevamo, anzi di
aver commesso una frode essendo passato il tempo in cui bisognava che li
avessimo estinti nei riguardi del nostro prossimo, saremo più larghi verso
coloro che erano nostri debitori e non hanno soddisfatto il debito. Soprattutto
se non dimentichiamo le nostre trasgressioni contro la legge di Dio e le parole
d’ingiustizia pronunziate contro l’Altissimo, sia per ignoranza della verità sia
per mala sopportazione degli eventi che dipendettero dalle circostanze.
La parabola del servo
infido
7. Ma se non vogliamo essere più indulgenti verso coloro che ci sono debitori,
soffriremo come colui che non condonò al conservo i cento denari: era stato
prosciolto, secondo i fatti esposti nel Vangelo; il padrone, avendolo
imprigionato, esigette da lui ciò che prima gli aveva condonato, dicendogli:
«Cattivo servitore, e pigro: non dovevi aver pietà del tuo conservo come anch’io
l’ebbi di te? Buttatelo in prigione, finché non renda tutto quanto deve». E
soggiunse il Signore: «Così farà anche per voi il Padre celeste, se non
perdonate, ciascuno, al proprio fratello dall’intimo del vostro cuore».
Si devono perdonare quelli che, avendo peccato spesso verso di noi, dicono
d’esser pentiti delle colpe. Infatti è scritto: «se il tuo fratello ha peccato
contro te sette volte al giorno, e sette volte torna a te, dicendo – mi pento –,
gli perdonerai». Non siamo aspri verso quelli che non si pentono: costoro fanno
del male a se stessi: «Chi rigetta la disciplina odia se stesso». Ma anche in
questi casi, occorre procurare di avere ogni attenzione per chi è completamente
traviato da non accorgersi dei propri mali, ma è colmo di una ubriachezza più
perniciosa di quella causata dal vino: l’ubriachezza da tenebra del male.
È in nostro potere
rimettere i debiti
8. E quando Luca dice: «Rimetti a noi i nostri peccati», poiché i peccati sono i
debiti che noi abbiamo ma che non paghiamo, dice la stessa cosa di Matteo, che
sembra escludere chi vuole perdonare soltanto ai debitori che si pentono, e dice
che è stato il Salvatore a comandare di aggiungere, pregando: «poiché anche noi
li rimettemmo ad ogni nostro debitore». Certamente tutti abbiamo potere di
rimettere i peccati commessi contro di noi, come appare dalle parole: «Come
anche noi li rimettemmo ai nostri debitori» e dalle altre: «poiché anche noi li
rimettemmo ad ogni nostro debitore». Chi ha ricevuto da Gesù il soffio dello
Spirito Santo come gli Apostoli (e si può riconoscere dai frutti perché ha
ricevuto lo Spirito Santo ed è diventato spirituale, essendo come il Figlio di
Dio portato a fare ogni azione secondo ragione) perdona ciò che perdonerebbe Dio
e non assolve i peccati che sono incurabili. Poiché è ministro di Dio –
il solo che ha potere di rimettere i peccati – come lo erano i profeti perché
dicevano non quello che volevano loro, ma Dio.
Quali peccati non sono
rimessi
9. E si leggono queste parole nel Vangelo di Giovanni sulla remissione dei
peccati operata dagli Apostoli: «Ricevete lo Spirito Santo; a quelli cui
rimettete i peccati, sono loro rimessi, a quelli cui li ritenete, sono stati
ritenuti». Chi però accoglie senza discernimento queste parole, potrebbe
rimproverare agli Apostoli di non perdonare a tutti, affinché a tutti Dio
perdoni; ma di ritenere i peccati di qualcuno, cosicché per mezzo loro anche da
parte di Dio sarebbero ritenuti. È utile servirci di un paragone tratto dalla
Legge per poter comprendere il perdono dei peccati dato da Dio agli uomini per
mezzo degli uomini stessi. I sacerdoti della Legge non possono compiere
sacrifici in remissione di certe colpe di coloro in nome dei quali si offrono le
vittime. Ed il sacerdote che ha il potere su certi involontari peccati od offre
sacrificio per le colpe volontarie, mai sarà che offra olocausti per adulterio o
deliberato omicidio o per altra più grave colpa e peccato. E così pertanto
anche gli apostoli ed i sacerdoti, fatti simili agli Apostoli secondo il grande
Sommo Sacerdote, avendo ricevuto la scienza della divina terapia, sanno,
ammaestrati dallo Spirito, per quali peccati bisogna offrire vittime e quando ed
in qual modo, e conoscono i casi in cui non si devono far sacrifici. Anche il
sacerdote Eli, saputo che i figli Ofni e Finees peccavano, poiché non poteva far
nulla per rimettere i loro peccati, confessa di non avere speranza che questo si
possa ottenere: «Se commette peccato un uomo contro un uomo, pregheranno anche
per lui; ma se pecca contro il Signore, chi pregherà per lui».
Abusi nel perdono delle
colpe
10. Alcuni, arrogandosi,
non so come, poteri oltre la dignità del sacerdote, forse perché non conoscono
la scienza sacerdotale, si vantano di poter rimettere anche la colpa
dell’idolatria e perdonare l’adulterio e la fornicazione; sciolgono persino il
peccato che porta alla morte, pregando per quelli che hanno osato commetterlo.
Non conoscono infatti quel che è detto: «C’è un peccato che porta alla morte,
non intendo dire che si preghi per quello». Bisogna ricordare anche il
fortissimo Giobbe che offriva sacrificio per i figli, dicendo: «Che i miei figli
non abbiano nella loro mente il peccato di cattivi pensieri contro Dio». Infatti
egli offre sacrificio per i peccati dubbi o che non sono saliti fino alle
labbra.
CAPITOLO XXIX
La vita dell’uomo è
tentazione
1. «E non c’indurre in tentazione, ma liberaci dal Maligno». Luca non ha: «ma
liberaci dal Maligno». Se il Salvatore non ci comanda di pregare per
l’impossibile, mi pare che convenga investigare perché mai noi siamo
invitati a pregare di non essere indotti in tentazione, quando la vita degli
uomini sulla terra è tutta una tentazione. Per il fatto di essere sulla terra
avvolti nella carne in lotta contro lo spirito, «la sapienza di essa è nemica a
Dio, non potendo affatto sottomettersi alla legge di Dio», noi ci troviamo in
tentazione.
Nessuno sfugge alla
tentazione
2. Da Giobbe abbiamo appreso attraverso quelle parole: «Forse che la vita degli
uomini sulla terra non è una tentazione?» che la vita umana sulla terra è una
tentazione sola. La stessa verità è nel Salmo 17: «Per te sarò liberato dalla
tentazione». Ma anche Paolo, scrivendo ai Corinti dice che Dio concede non di
essere immuni da tentazione, ma di non venir tentati oltre le nostre forze:
«Tentazione non vi ha colti se non umana; or Iddio, fedele, non permetterà che
siate tentati oltre le vostre forze, ma darà insieme alla tentazione anche la
via di uscirne, onde possiate sopportarla». Poiché la nostra lotta è con la
carne che ha desideri contrari allo spirito e lo avversa con la vita di tutta la
carne – espressione equivalente per indicare la parte che in noi domina,
chiamata cuore – (qualunque sia la lotta di quanti sono tentati in umane
tentazioni); oppure lottiamo come atleti provetti e temprati che ormai
non hanno più guerra con il sangue e la carne, né sono provati in umane
tentazioni ormai messe sotto i piedi; i nostri combattimenti sono «contro i
principati, contro le potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebre,
contro le forze spirituali della malvagità»; orbene, non sfuggiamo alla
tentazione.
Dio c’entra nella
tentazione?
3. Che significa dunque il comando del Salvatore di pregare a non indurci in
tentazione, dal momento che Dio stesso quasi ci tenta? Dice infatti Giuditta,
rivolgendosi non soltanto agli anziani del suo popolo, ma a tutti quelli che
avrebbero letto queste parole: «Ricordatevi di quanto operò con Abramo e quanto
tentò Isacco e tutto quello che accadde a Giacobbe che pasceva in Mesopotamia di
Siria il gregge di Laban, fratello di sua madre; poiché non come purificò
costoro per provare il loro cuore, Colui – il Signore – che flagella per
emendarli quelli che gli si avvicinano, castigherà anche noi». Anche Davide,
quando dice: «Molte sono le afflizioni dei giusti», conferma che questo è vero
per tutti i giusti. L’Apostolo, a sua volta, negli Atti dice «perché attraverso
molte tribolazioni dobbiamo entrare nel regno di Dio».
Anche gli Apostoli furono tentati
4. E se non afferriamo il
significato, che sfugge ai più, del pregare per non cadere in tentazione,
dobbiamo dire che gli Apostoli non erano ascoltati nella loro preghiera, poiché
soffrirono innumerevoli mali in tutta la loro vita, «in molti maggiori travagli,
in più numerose battiture, in prigione oltre misura, spesso nella morte». E
personalmente Paolo «ricevette dai Giudei cinque volte quaranta colpi meno uno,
tre volte fu battuto con le verghe, una volta fu lapidato, tre volte fece
naufragio, una notte ed un giorno passò in alto mare», uomo «tribolato in tutti
i modi, esitante, perseguitato, atterrato» e che confessa «fino a questo momento
abbiamo fame e sete, siamo ignudi e siamo schiaffeggiati, non abbiamo stabile
dimora e ci affatichiamo lavorando con le nostre proprie mani; ingiuriati,
benediciamo; perseguitati, sopportiamo; diffamati, esortiamo». Ora, non avendo
gli Apostoli ottenuto esaudimento nella preghiera, uno che sia da meno, quale
speranza ha, pregando, di essere ascoltato da Dio?
La tentazione è sempre in
agguato
5. È scritto inoltre nel Salmo 25: «Provami, o Signore, e tentami; passa al
fuoco i miei reni e il mio cuore». Ora, uno che non penetri
nell’intenzione del Salvatore allorché invita a pregare, penserà che contrasti
con quanto il nostro Signore insegnò sulla preghiera. Ma quanto mai uno ha
pensato che gli uomini fossero senza tentazione, dopo averne fino in fondo
compreso il motivo? E c’è forse un momento in cui si è pensato di non combattere
contro il peccato? È povero quell’uomo? Stia attento «che non rubi e non
spergiuri il nome di Dio». È ricco? Non disprezzi: può infatti «pur essendo
pieno, diventare menzognero» e nella sua superbia dire: «Chi mi vede?». Nemmeno
Paolo «ricco di ogni dono di parole e di ogni conoscenza» è esente dal pericolo
di peccare d’orgoglio per questi doni; ha bisogno anzi del pungiglione di Satana
che lo schiaffeggia affinché non si insuperbisca. Anche se uno si riconosca
perfetto ed eviti i mali, sappia ciò che è detto nel secondo libro dei
Paralipomeni, a proposito di Ezechia: che cadde dalla vetta del suo cuore
superbo.
Ricchi e poveri sono
accomunati nella tentazione
6. Poiché non molto
abbiamo detto del povero, se uno pensa che non esista tentazione nella povertà,
sappia che l’insidiatore s’aggira «per abbattere il povero e il misero» e
soprattutto perché, secondo Salomone, «il povero non sostiene la
minaccia». Che bisogno c’è inoltre di ricordare i molti che a causa delle
ricchezze materiali non bene amministrate hanno avuto lo stesso posto insieme al
ricco del Vangelo, nel luogo della pena? Ed i numerosi che, sopportando
ignobilmente la povertà, con un’umile vita più da schiavi che da uomini santi,
restarono delusi nella speranza del cielo? Nemmeno coloro che stanno nel mezzo
di questi estremi, cioè tra la ricchezza e la povertà, solo perché posseggono
moderatamente, sono completamente esenti dal peccare.
Anche i sani e i malati
sono a rischio
7. Ma colui che è sano nel corpo e sta bene crede di trovarsi fuori da ogni
tentazione per il fatto stesso di avere e di godere della salute. E quali altri,
che non siano sani e vigorosi, commettono il peccato di «rovinare il tempio di
Dio»? Non lo si oserà dire, essendo chiaro a tutti il significato di questo
passo. E qual uomo che sia malato ha fuggito gli inviti a distruggere il tempio
di Dio, dal momento che è in ozio per tutto il tempo della malattia e totalmente
disposto ad accogliere pensieri di azioni impure? Ma che bisogno c’è di
dire quanti altri pensieri lo agitano, se non sorvegli «con ogni guardia» il suo
cuore? Molti, infatti, vinti dai travagli e non sapendo sopportare virilmente le
malattie, si trovano ad essere allora più infermi nell’anima che nel corpo; e
molti anche, vergognandosi di portare fieramente il nome di Cristo, volendo
evitare il disonore, sono caduti in una vergogna eterna.
La gloria non preserva
dalla tentazione
8. Però qualcuno pensa che cessi d’esser tentato perché ricevette gloria dagli
uomini; ma quelle parole: «hanno dagli uomini la ricompensa», non sono forse
facilmente rivolte a coloro che si insuperbiscono, come d’un tesoro, della fama
di cui godono presso la maggioranza? Forse non suona come un rimprovero l’altra
frase: «Come potete avere fede voi, che prendete gloria gli uni dagli altri e
non cercate la gloria che viene da Dio solo?»? Ma perché dovrei enumerare i
peccati di superbia di quelli che passano per nobili e lo strisciante servilismo
dei cosiddetti ignobili ai piedi di coloro che si credono superiori – servilismo
che è dovuto alla loro ignoranza ed allontana da Dio quelli che non hanno vera
amicizia, ma simulano soltanto la cosa più bella che ci sia tra gli uomini:
l’amore?
Tentati, ma non
sopraffatti
9. Dunque, come è già stato detto: «tutta la vita dell’uomo sulla terra è una
tentazione»; perciò preghiamo di esser liberati dalla tentazione non nel senso
di non venir tentati (che questo è impossibile, soprattutto per quelli sulla
terra), ma se tentati, di non soccombere. Colui che soccombe nella tentazione,
vi entra, penso, avvolto nelle sue reti in cui, per la salvezza di quelli che
già erano caduti, entrò il Salvatore «osservando tra le grate», come è detto nel
Cantico dei Cantici. E si rivolge a quelli che sono caduti nelle reti e sono
entrati in tentazione, e dice loro, come alla sua sposa: «Levati, amica mia,
bella mia, colomba mia». Questo dirò ancora, a dimostrare che ogni nostro
momento è propizio per esser tentati: neppure colui che medita giorno e notte la
legge di Dio e cerca di tradurre in pratica quanto è detto: «La bocca del giusto
mediterà la sapienza» è lontano dall’esser tentato.
La tentazione di chi
studia la Scrittura
10. C’è bisogno di nominare anche quanti, nel dedicarsi all’esegesi delle divine
Scritture, interpretarono male il contenuto della Legge e dei Profeti e si
cacciarono in dottrine empie ed atee, stolte e ridicole? E quelli che caddero in
simili errori sono innumerevoli, mentre apparentemente non meritano il
rimprovero di negligenza nei loro studi. Simile sorte toccò anche a molti
interpreti degli scritti apostolici ed evangelici, che con la propria
insensatezza si creano un Figlio o un Padre diversi da quello vero proclamato e
conosciuto dai santi. Colui, infatti, che non ha su Dio o sul suo Cristo una
cognizione conforme al vero, si è staccato dal vero Dio e dal suo Unigenito; e
non è neppure vera adorazione quella per il Dio creato dalla sua follia e
scambiato per Padre e Figlio. Ma poiché non si accorge della tentazione insita
nell’interpretazione delle Sacre Scritture, eccone il risultato: non si arma né
si aderge contro la lotta che lo sovrasta.
Dio non può esporre alla
tentazione
11. Bisogna quindi pregare non d’essere senza tentazioni – cosa impossibile –,
ma di non venir presi nel laccio della tentazione: destino che tocca a quanti vi
sono impigliati e sono stati vinti. Poiché dunque fuori di questa Preghiera è
scritto: «affinché non entriate in tentazione» (il cui significato può esser
chiaro in base a quanto s’è detto), e nella Preghiera a Dio Padre noi
dobbiamo dire: «Non ci indurre in tentazione»; è bene che vediamo come si possa
pensare che Dio induca in tentazione colui che non ha pregato o che non è
ascoltato. Chi entra in tentazione viene vinto: allora è assurdo credere che Dio
tragga qualcuno in tentazione, perché equivarrebbe ad esporlo ad una sconfitta.
E la stessa aporia resta, comunque uno interpreti le parole: «Pregate per non
entrare in tentazione». Se infatti è male cadere in tentazione – preghiamo
perché non dobbiamo soffrirne –, come non è assurdo pensare che Dio, buono, che
non può portare frutti di male, getti uno in braccio ai mali?
Polemica antimarcionita
12. Sembra quindi utile fare un confronto con queste parole di Paolo
nell’epistola ai Romani: «dicendosi savi, son divenuti stolti ed hanno mutato la
gloria dell’incorruttibile Iddio in immagini simili a quelle dell’uomo
corruttibile e d’uccelli e di quadrupedi e di rettili; per questo Iddio
li ha abbandonati nelle concupiscenze dei loro cuori alla impurtà, perché
vituperassero tra loro i loro corpi». E più avanti: «Perciò Iddio li ha
abbandonati a passioni infami, poiché le loro femmine hanno mutato l’uso
naturale in quello che è contro natura; e similmente anche i maschi, lasciando
l’uso naturale della donna, si sono infiammati». E poco oltre di nuovo: «E
siccome non si sono curati di ritenere la conoscenza di Dio, Iddio li ha
abbandonati ad una mente reproba, perché facessero le cose che sono
sconvenienti». Senonché si devono citare tutti questi testi per coloro che
operano divisioni nella divinità, e domandare loro – siccome ritengono il Padre
buono del Signore nostro diverso dal Dio della legge – se Iddio, che è buono,
trae in tentazione chi non ha ottenuto esaudimento dalla preghiera; e se il
Padre del Signore abbandona «alle concupiscenze dei cuori» quelli che in qualche
modo prima hanno peccato «all’impurità, perché vituperino tra loro i corpi»; se,
come essi dicono, dimenticando di giudicarli e di punirli, «li abbandona a
passioni infami ed a una mente reproba perché facciano le cose sconvenienti».
Costoro sembra che si trovino nelle concupiscenze dei loro cuori, perché Dio ve
li ha consegnati; che siano caduti nelle passioni infami, perché fu Dio a darli
in loro potere; che siano incappati in una mente reproba, perché Dio li ha
consegnati ad essa così condannati.
La tentazione è per la
sazietà del peccato
13. Ma so bene che questa condizione molto li tormenta; per cui, foggiandosi un
Dio diverso da quello creatore del cielo e della terra – siccome trovano nella
Legge e nei Profeti molte analogie – hanno affermato che quegli che pronunziava
simili parole non era buono. Ma ormai attraverso la difficoltà sollevata su quel
«non c’indurre in tentazione», in suffragio del quale abbiamo citato le
espressioni dell’Apostolo, dobbiamo vedere se anche noi troviamo delle
soddisfacenti soluzioni a queste incongruenze. Penso che Dio si prenda
cura di ciascun’anima razionale, mirando alla sua vita eterna; essa ha sempre il
libero arbitrio e può di per sé trovarsi nella condizione ideale per salire fino
alla vetta del bene o a discendere in vario modo, a causa della negligenza, a
questo o a quell’abisso di male. Ora, poiché una guarigione rapida ed accelerata
produce in certuni un senso di leggerezza sulla gravità del male in cui sono
caduti, perché ritenuto facile a curarsi, cosicché dopo il ristabilimento
potrebbero piombare una seconda volta nella malattia; logicamente in campo
spirituale, Dio trascurerà quel crescere fino ad un certo punto del male,
permettendo che trabocchi moltissimo come fosse inguaribile, affinché con questa
stasi nel male, con la sazietà del peccato che hanno assaporato, essendo
satolli, si accorgano del danno; ed odiando ciò che prima avevano abbracciato,
possano con la guarigione godere più stabilmente della salute delle anime loro,
venuta dall’essersi curati. Quale «la moltitudine che era tra i figli d’Israele
arse di brama, e sedutasi piangeva, e con essa i figli d’Israele dicevano – Chi
ci darà da mangiare delle carni? Ci ricordiamo dei pesci che mangiavamo in
Egitto gratuitamente, dei cocomeri, dei poponi, dei porri, delle cipolle e
dell’aglio. Ora la nostra anima è arida. Non c’è che manna davanti ai nostri
occhi» cospetto dicendo: Perché siamo noi usciti dall’Egitto?».
La pedagogia di Dio nel
permettere la tentazione
14. Guardiamo dunque a questa narrazione storica, se l’abbiamo citata con
profitto per sciogliere la contraddizione insita nella petizione: «non c’indurre
in tentazione» e nelle parole dell’Apostolo. Avendo arso di brama la moltitudine
che era tra i figli d’Israele, pianse, ed i figli d’Israele con essa. È evidente
che per tutto il tempo che non ebbero desideri, non potevano sentire sazietà né
esser liberati dalla sofferenza. Ma Dio che è buono ed ama gli uomini, avendo
dato loro quanto bramavano, non lo fece per lasciare in essi desiderio;
perciò dice che avrebbero mangiato le carni non per un giorno soltanto: ché
sarebbe infatti rimasta la voglia delle carni nell’anima infiammata ed arsa, se
per poco ne avessero gustato. Ma neppure per due giorni dà loro quanto
desiderano; volendo invece far venir loro a nausea la brama, non sembra che
prometta, ma – a chi è in grado di capire – che minacci attraverso quei doni
stessi che apparentemente dispensa dicendo: «neppure cinque giorni soli
passerete a mangiare le carni né il doppio o quattro volte tanto, ma mangerete
al punto da cibarvi di carne per un mese intero finché dalle narici, insieme
alla pestilenziale malattia, esca ciò che era creduto bello per voi, e il suo
biasimevole e turpe desiderio. Lo scopo è di separarvi dalla vita senza più
appetiti ed una volta usciti, come puri da ogni desiderio, ricordando attraverso
quali sforzi ve ne siete liberati, far sì che non cadiate più. Un altro scopo è
quello di lasciarvi cadere nei mali se – qualora ciò avvenga in lungo giro di
tempo – dimenticandovi di quanto avete sofferto per colpa del desiderio,
non prenderete cura di voi stessi e non accetterete la Parola che libera
completamente da ogni male. In seguito, desiderando i beni della creazione,
nuovamente potrete chiedere di ottenere per la seconda volta ciò che bramate; ma
avendo a nausea l’oggetto dei vostri appetiti, volerete allora verso il bello e
verso il cibo celeste, che avete disprezzato con il tendere alle cose peggiori».
Il peccatore è punitore
di se stesso
15. Identica sorte
soffriranno quindi «coloro che hanno mutato la gloria dell’incorruttibile Iddio
in immagini simili a quelle dell’uomo corruttibile, e d’uccelli e di quadrupedi
e di rettili» passioni infami (passioni non solo naturali, ma ripugnanti alla
natura) si bruttano e s’impinguano della carne come se allora non avessero più
un’anima né una mente, ma fossero una carne sola; mentre nel fuoco e nella
prigione non ricevono ricompensa dell’errore, ma quasi un beneficio perché si
purificano dei mali del loro errore, facendo insieme salutari sforzi propri
degli amanti del piacere. Onde sono liberati da ogni lordura e sangue, in mezzo
a cui insudiciandosi e deturpandosi, non potevano pensare una via di salvezza
alla loro rovina. «Laverà pertanto Dio l’immondezza dei figli e delle figlie di
Sion, e purificherà del sangue in mezzo a loro, con spirito di giustizia e
spirito di ardore. Perché egli avanzerà come fuoco che fonde e come erba dei
lavandai», lavando e purificando quanti sono bisognosi di tali rimedi per non
voler Dio degno di «una loro più seria conoscenza».
Il rimanere nella
tentazione favorisce la conversione
16. Vedi se appunto per questo Dio non abbia indurito il cuore del Faraone,
perché egli potesse dire quello che asserì dopo d’essere stato indurito: «Giusto
è il Signore, io e il mio popolo siamo empi». Per più lungo tempo aveva bisogno
dell’indurimento e per più lungo tempo occorreva soffrisse alcune afflizioni
perché non si giudicasse come un male l’indurimento, quando troppo presto se ne
fosse liberato, e così si rendesse meritevole di indurimento maggiore. Invero
se, come è detto nei Proverbi: «non ingiustamente si tendono le reti agli
uccelli», Iddio ha ragione di gettarci nella rete secondo che è scritto: «Tu mi
facesti cadere nella rete»; ora se anche il più trascurabile degli uccelli, il
passero, non cade nella rete senza la volontà del Padre (in quanto che quello
che cade nella rete vi cade per il mal uso delle ali, che gli sono state date
per elevarsi), domandiamo nella nostra preghiera di nulla fare che dal retto
giudizio di Dio diventiamo meritevoli di essere indotti in tentazione. In essa
viene indotto chi da Dio viene abbandonato all’impurità nei desideri del suo
cuore; ognuno che si abbandona a passioni ignominiose e ognuno che è abbandonato
al suo animo depravato, si da fare cose sconvenienti, perché non ha dato prova
di portare Dio con sé.
Utilità della tentazione
17. Ecco l’utilità della tentazione. Quello che la nostra anima ha in se
ricevuto è nascosto a tutti, anche a noi stessi, tranne che a Dio. Tutto ciò è
reso manifesto dalle tentazioni, affinché il nostro particolare essere non
rimanga più occulto, e noi conosciamo noi stessi e con la buona volontà abbiamo
coscienza delle nostre malizie, si da rendere grazie a Dio per i beni derivatici
dalle tentazioni. Ci vengono le tentazioni perché si renda noto qual mai siamo e
siano svelati i pensieri reconditi del nostro cuore, come ce lo indicano le
parole del Signore nel libro di Giobbe e nel Deuteronomio. Ivi è scritto: «Pensi
che io per altro scopo con te ho trattato se non perché tu appaia giusto?».
E nel Deuteronomio: «Ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, ti ha
fatto mangiare la manna e ti ha condotto nel deserto; dove abitano il serpente
mordente, lo scorpione e il rettile, perché siano conosciuti i pensieri del tuo
cuore».
18. E se vogliamo ricordarci ancora della storia, dobbiamo rilevare che la
ragione di Eva divenne così facile all’inganno e debole nel raziocinio allorché
essa, anziché obbedire a Dio, diede ascolto al serpente. Si manifestò quale era
anche prima, quando il serpente le si avvicinò, dal momento che con la sua
astuzia aveva scoperto la sua fragilità. Parimenti in Caino la malvagità non
cominciò ad esistere quando uccise suo fratello, perché già prima Dio, il
conoscitore dei cuori, non aveva rivolto gradevole sguardo a Caino e ai suoi
sacrifici ; ma la sua malvagità divenne palese nel momento che tolse la vita ad
Abele. Inoltre, se Noè non avesse bevuto il vino della vigna che aveva piantato
e se dopo di ciò non si fosse ubriacato e non avesse scoperto le sue nudità, non
si sarebbe manifestata la procacia e l’empietà di Cam riguardo a suo padre, né
il rispetto e la venerazione dei suoi fratelli verso il genitore. Del pari
l’insidia che Esaù tese a Giacobbe sembra originata dall’avergli rubata la
benedizione del padre; ma già prima essa aveva radici nella sua anima impura e
iniqua. E la radiosa purezza di cui Giuseppe era dotato, così da non essere mai
sopraffatto dalla passione, ci sarebbe stata sconosciuta, se la sua padrona non
si fosse invaghita di lui.
19. Nei tempi, pertanto, intermedi, mentre le tentazioni si susseguono, stiamo
saldi e prepariamoci a tutto quello che ci potrà accadere, in modo che qualunque
cosa sopravvenga, non ci si possa accusare di essere stati impreparati, ma
invece si veda che siamo disposti nel modo più guardingo alle circostanze.
Quello che ci difetta a causa dell’umana fragilità, se faremo quello che è in
nostro potere, lo compirà Dio che «per coloro che lo amano fa sì che tutte le
cose cooperino per il bene», cioè con coloro di cui con infallibile prescienza
ha previsto quello che diventeranno.
CAPITOLO XXX
Liberaci dal maligno
1. Con la domanda: «Non ci indurre in tentazione» Luca sembra a ragione avere
insegnato anche questa: «E liberaci dal maligno». Con tutta verosimiglianza il
Signore con il discepolo, già progredito, usò una forma più compendiosa, mentre
per la moltitudine, che aveva bisogno di istruzione più lineare, usò una forma
più aperta, Dio ci libera dal maligno, non perché il nemico non ci assalga in
nessuna maniera e non entri in lotta contro di noi, con le sue arti di ogni
genere e per mezzo dei servitori della sua volontà, ma perché fronteggiando ogni
evento possiamo riportare vittoria. Così va intesa la parola: «Numerose sono le
tribolazioni dei giusti, ma da tutte egli li libera». Dio ci libera dalle
tribolazioni, non perché non ci vengano più tribolazioni (anche Paolo dice:
«tribolati in tutto, ma non schiacciati»), ma perché, pur essendo nella
tribolazione, per il soccorso divino non siamo schiacciati. Essere nella
tribolazione, secondo il modo di parlare ebraico, significa una situazione, in
cui ci si viene a trovare, prescindendo dalla nostra volontà; essere schiacciato
è invece uno stato, che dipende dalla nostra volontà, che si lascia vincere e
sopraffare dalla tribolazione. Paolo bene ha detto: «tribolati in tutto ma non
schiacciati». A mio avviso, a questa osservazione corrisponde la parola del
Salmo: «Nella tribolazione tu mi hai dilatato». Infatti la gioia e la serenità
dello spirito, che nel tempo delle calamità ci vengono da Dio, per l’aiuto e la
presenza del Verbo divino, consolatore e salvatore, [nella Scrittura] hanno il
nome di dilatazione.
2. Simile cosa è da intendere quando uno è liberato dal maligno. Dio liberò
Giobbe, non perché il diavolo non ottenne licenza di affliggerlo con molteplici
tentazioni (la ottenne infatti), ma perché in tutto quello che gli sopravvenne
egli non peccò davanti al Signore e si mostrò giusto. Colui che aveva detto:
«Forse Giobbe. teme Dio per nulla? Non hai tu alzato un riparo tutt’intorno a
lui, alla sua casa e a tutto quello che gli appartiene? Non hai tu benedetto
l’impresa delle sue mani, e moltiplicato il suo bestiame sulla regione? Ma tu
stendi, ti prego, la mano e colpisci la sua roba: di certo ti benedirà in
faccia», fu come calunniatore di Giobbe che venne coperto di vergogna. Infatti
Giobbe, pur avendo sofferto tanti mali, non bestemmiò contro Dio, come aveva
detto l’avversario, bensì invece, anche lasciato in balia del tentatore,
continuò a benedire il Signore, E quando la moglie gli dice: «Di’ una parola
contro il Signore e muori», la rimprovera con queste parole: «Tu parli proprio
come una donna stolta! Certo, il bene lo riceviamo da Dio, il male non lo
dobbiamo ricevere?».
Una seconda volta il diavolo dice al Signore riguardo a Giobbe: «Pelle per
pelle! Quello che l’uomo possiede lo darà per la sua vita. Ma stendi la tua
mano, tocca le sue ossa e la sua carne, per vedere se ti benedirà in faccia».
Vinto dall’eroico campione della virtù, il diavolo si è dimostrato menzognero.
Giobbe invero, benché abbia sofferto durissime prove, resistette, senza che con
le labbra peccasse davanti a Dio. Sostenne vittorioso due combattimenti e non
occorse che affrontasse il terzo combattimento. Il triplice combattimento era
riservato al Salvatore, come è descritto dai tre evangelisti; e il Salvatore,
considerato come uomo, tre volte vinse il nemico.
3. Dopo aver accuratamente esaminato e ponderato in noi stessi queste parole per
poter domandare a Dio con giusto intendimento di non entrare in tentazione e di
essere liberati dal maligno, siamo degni, per aver ascoltato Dio, di essere
ascoltati da lui. Domandiamogli dunque, qualora siamo tentati, di non essere
messi a morte; colpiti dalle infuocate frecce del maligno, di non rimanervi
bruciati. Sono bruciati da esse quelli i cui cuori, secondo uno dei dodici
profeti, «sono divenuti come forno». Ma non ne sono bruciati quelli che con lo
scudo della fede spengono i dardi infuocati dal maligno scagliati contro di
loro. Effettivamente hanno in loro fiumi di acqua zampillante verso la vita
eterna, che non consentono il sopravvento del fuoco del maligno, ma lo spengono
facilmente per il diluviare di pensieri divini e salutari, che sono scolpiti
nell’anima di colui che con la contemplazione della verità si studia di divenire
spirituale.
CAPITOLO XXXI
Come ci si dispone alla preghiera
1. Dopo di ciò non mi sembra fuori posto approfondire il problema della
preghiera; trattare con maggiore penetrazione l’argomento sul contegno e sulle
disposizioni che devono esserci nell’orante; sul luogo dove bisogna pregare;
verso quale direzione si debba rivolgere lo sguardo. qualora qualche ostacolo
non si opponga; e così pure sul tempo adatto e preferibile alla preghiera, e di
altre cose consimili. [Per bene intenderei] le disposizioni sono da riferire
allo spirito, il contegno invece è da riferire al corpo. Paolo, come sopra si è
accennato descrive le disposizioni [interiori], quando dice che bisogna pregare
«senza ira, né discussione»; si riferisce invece al contegno con quella
esortazione: «levando le mani pure». Questo mi sembra ricavato dai Salmi, dove
c’è questa espressione: «l’elevazione delle mie mani è come sacrificio
vespertino». A proposito del luogo (dice il medesimo Apostolo): «Voglio che gli
uomini preghino in ogni luogo». Quanto all’orientazione, nella Sapienza di
Salomone è scritto: «Affinché sia noto che bisogna precorrere il sole per
renderti grazie e adorarti al riapparire della luce».
2. A mio avviso, chi si appresta a pregare, se per un po’ di tempo si impegnerà
a raccogliersi internamente si renderà più pronto e attento in tutto lo
svolgimento della preghiera. Del pari avverrà se scaccerà tutto quanto può
distrarla e turbare i suoi pensieri; se si ricorderà per quanto gli è possibile
della maestà di Colui al quale accede; se rifletterà che è vera empietà
avvicinarsi a lui con disattenzione e svogliatezza, quasi con atteggiamento
sprezzante; se allontanerà tutti gli elementi estranei e verrà così alla
preghiera, tendendo per così dire l’anima prima delle mani, elevando a Dio lo
spirito prima degli occhi; se prima di erigersi in piedi solleverà dalla terra
la parte superiore del suo spirito e si presenterà davanti al Signore
dell’universo; se rimuoverà da sé ogni mala ricorda che potrebbe avere di
ingiustizie inferte a suo danno, come egli stesso desidera che Dio non si
ricordi delle sue male azioni e dei peccati, commessi contro molti dei suoi
prossimi, o ancora di tutti i falli di cui ha coscienza d’essere incorso contro
la retta ragione. Non si può mettere in dubbio che, per quanta numerose passano
essere le posizioni del corpo, a tutte sano da preferire quella consistente
nell’elevare le mani e nel rivolgere in alto gli occhi; giacché in tal modo il
corpo reca nella preghiera l’immagine delle qualità che convengono all’anima
nell’orazione. Diciamo che ciò bisogna mettere in atto a meno che alcune
circostanze non lo impediscano. Effettivamente in talune contingenze è
consentito qualche volta pregare convenientemente stando seduti, come ad esempio
quando si soffra un mal di piedi non trascurabile; oppure stando a letto a causa
delle febbri, o altre simili infermità. Analogamente, se ad esempio siamo sulla
nave o se il disbrigo di affari non permette di ritirarsi per la
dovuta preghiera, si può pregare senza averne l’aria.
3. Conviene dunque sapere che quando uno sta per accusarsi davanti a Dio dei
propri peccati, supplicandolo che glieli rimetta, è necessaria anche la
genuflessione. Trova questa la sua figura in Paolo che si umilia e si
sottomette, dicendo: «Perciò io piego le ginocchia davanti al Padre, da cui
deriva ogni paternità in cielo e in terra». La genuflessione spirituale, così
detta perché tutti gli esseri si sottomettono a Dia nel nome di Gesù e si
umiliano davanti a lui, mi sembra che l’Apostolo la significhi con quella
espressione: «Affinché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi in cielo, sulla
terra e negli abissi». Non si può pensare che corpi celesti siano così
conformati da possedere ginocchia corporali, giacche è dimostrato da coloro, che
di ciò accuratamente trattarono, che tali corpi sono sferici. Colui che non
vuole ammettere questa tesi dovrà pure convenire che ogni membro ha la sua
utilità, di modo che nulla da Dio è fatto senza finalità, a meno che egli
resista con impudenza alla ragione. Incappa così in doppia difficoltà, sia chi
dice che le membra del corpo sono state date inutilmente da Dio agli esseri
celesti e non per attuazione di finalità specifiche, sia chi dice che le viscere
e l’intestino compiono le loro funzioni proprie anche negli esseri celesti. È
poi da folle pensare che questi esseri celesti, a guisa delle statue, abbiano
l’apparenza umana sola alla superficie e non nella loro profondità. Tutto ciò ho
messo in risalto nell’esaminare il significato della genuflessione e avendo
sotto gli occhi quel passo scritturale: «Nel nome di Gesù ogni ginocchia si
pieghi in cielo, sulla terra e negli abissi». La stessa cosa è scritta nel
Profeta: «Ogni ginocchio si piegherà davanti a me».
Il luogo della preghiera
4. Quanto al luogo della preghiera, conviene sapere che, qualora si preghi bene,
ogni luogo vi è adatto: «Dappertutto, dice il Signore, offritemi l’incenso». E:
«Voglia dunque che gli uomini preghino in ogni luogo». Perché possa fare le
proprie orazioni più quieto e senza distrazioni, ognuno può scegliere un luogo
particolare e predisposto nella sua abitazione privata se vi è spazio, per così
dire, più santo, e ivi pregare. Prima però dell’esame generale di questo luogo
egli indagherà se nel posta dove si prega nulla di nefando e di contrario alla
retta ragione mai sia stato commesso. Colui che così operò non soltanto se
stesso, ma anche il luogo della sua preghiera personale ha resa tale che Dio
distolga di là il sua sguardo. Nell’approfondire le considerazioni su tale
luogo, devo dire qualche casa, che potrebbe sembrare forse incresciosa, ma che
ad esaminarla accuratamente non è da disprezzare. Si tratta di sapere se sia
santo e puro rivolgersi a Dio nella preghiera nella stanza dove si compie
l’opera della carne, non quella contraria alle leggi ma secondo la parola
dell’Apostolo, per indulgenza e non per comanda. Poiché se non può attendere
alla preghiera come si conviene, se non compie là questo dovere che
temporaneamente, per mutuo consenso, è d’uopo considerare anche questo, se tal
luogo cioè vi si addica.
5. Aggiunge alla utilità qualche cosa di gradevole il luogo della preghiera,
dove i credenti si riuniscano insieme, perché è credibile che ivi potenze
angeliche partecipino alle assemblee dei credenti. Là discende la forza dello
stesso Signore e Salvatore nostro, dove si radunano gli spiriti dei santi, a mio
credere, quelli dei marti che ci hanno preceduto e senza dubbia anche quelli dei
santi ancora in vita, benché ciò non riesca facile a dirsi come avvenga. Se
degli angeli ciò si può arguire dal detto: «L’angelo. del Signore si aggirerà
intorno a coloro che temono Dio e li libererà», se Giacobbe asserisce il vero
non solo nei suoi riguardi, ma anche con riferimento a quelli che sono devoti a
Dio, quando parla dell’«angelo che mi libera da tutti i mali», è credibile che,
allorquando malti sono legittimamente riuniti per la gloria di Cristo, l’angelo
di ciascuno s’aggiri intorno a ognuno di coloro che temono il Signore, se si
trova con l’uomo che ha l’incarico di custodire e di dirigere, di guisa che,
quando i santi sano riuniti, vi sona due chiese, quella degli uomini e quella
degli angeli. Se Raffaele dice del solo Tobia di avere offerto la sua preghiera
in memoriale e poi quella di Sara, che sarebbe divenuta più tardi sua nuora per
il matrimonio con il giovane Tobia, che cosa conviene dire, quando s’avvera il
caso che molti si riuniscono in un medesimo spirito e in un medesimo pensiero e
formano un solo carpo in Cristo? Quanto alla potenza del Signore che è presente
nella Chiesa, Paolo dice: «Essendo radunati voi e il mio spirito con la potenza
del Signore», come se la potenza del Signore fosse non solamente con gli
Efesini, ma anche con i Corinzi. Ora, se Paolo, ancora rivestito di carne
corporea, ha pensato di essere portato con il suo spirito a Corinto, non è
temerario pensare che i beati usciti dai loro corpi vengano in spirito, forse
più celermente di colui che è nel corpo, in mezzo alle assemblee. Per tali
ragioni non si devono tenere in poco conto le preghiere che si fanno nelle
chiese, perché esse hanno veramente qualche casa di eccellente per chi
legittimamente vi prende parte.
6. Come la potenza del Signore e lo spirito di Paolo e degli uomini che a loro
assomigliano e gli angeli del Signore, che si aggirano, che attorniano i santi
si riuniscono e si assembrano con coloro che si congregano in modo legittimo,
bisogna darsi pensiero che, se qualcuno è indegno dell’angelo santo a causa
delle colpe e delle ingiustizie commesse per disprezzo di Dio, non cada in balia
di un diavolo. Un tale uomo, data che sono rari coloro che gli rassomigliano,
non sfuggirà per lungo tempo alla provvidenza degli angeli, i quali per servizio
del divino valere esercitano la sorveglianza sulla comunità e portano a
conoscenza di tutti i falli di quell’uomo. Ma se tali individui divengono più
numerosi e se si radunano alla stregua delle società umane per occuparsi di
affari terrestri, Dio non veglierà più su di loro. Ciò appare chiaro dalle
parole del Signore presso Isaia: «Quando venite per comparirmi innanzi, io, dice
egli, stornerò i miei occhi da voi e, se moltiplicherete le vostre suppliche,
non vi ascolterò». Può pertanto darsi che invece della doppia assemblea, di cui
abbiamo parlato, cioè di uomini santi e di angeli beati, vi sia una doppia
congrega di uomini empi e di angeli malvagi. Allora gli angeli santi e gli
uomini probi potrebbero dire di siffatta riunione: «Io non mi sono assiso nel
sinedrio dei vanitosi e non mi associerò con quelli che commettono iniquità, e
non siederò accanto agli empi».
È per questo, a mio credere, che gli abitanti di Gerusalemme e di tutta la
Giudea, perché caduti in numerosi delitti, sono stati sottomessi ai loro nemici:
i popoli, che avevano abbandonato la legge [di Dio], sono abbandonati e dagli
angeli custodi e dagli uomini santi, che avrebbero potuto salvarli. Così si
permetterà che intere assemblee soccombano talvolta alle tentazioni, affinché
ciò che credano di avere sia loro tolto e, a somiglianza del fico maledetto e
disseccato sino alle radici per non avere dato il suo frutta a Gesù che aveva
fame, esse pure, siano inaridite e private del poco di forza vitale nella fede,
che ancora avevano. Queste delucidazioni mi sono sembrate necessarie
nell’esaminare il luogo della preghiera e per mostrare che il miglior posto per
pregare è proprio quello, dove i santi si radunano in assemblea.
CAPITOLO XXXII
L’orientazione nella preghiera
Ora, sia pure brevemente, bisogna dire qualcosa sul punto del cielo, verso cui
ci si deve rivolgere per pregare. Poiché vi sono quattro punti cardinali, il
settentrione, il mezzogiorno, l’occidente e l’oriente, chi non ammetterebbe
senz’altro che l’oriente intuitivamente manifesta che noi dobbiamo pregare da
quel lato, significando essa, simbolicamente, l’anima con il suo sguardo rivolto
alla levata della luce vera? Se qualcuno preferisce pregare guardando l’apertura
della sua porta, comunque sia l’ubicazione della porta della sua casa,
sostenendo che la vista del cielo per se stesso ha qualcosa di più invitante che
quella dei muri, a meno che nella sua casa non vi sia l’apertura verso oriente,
converrà rispondergli che trattasi di pura convenzione la costruzione delle case
verso questo o quel punto cardinale, ma che per natura quello verso oriente ha
titolo di preminenza sugli altri, e che il criterio della natura è preferibile a
quelli della convenzione. E che è? Colui che prega in un campo non pregherà
piuttosto verso l’oriente, che verso l’occidente? Se dunque per motivo così
ragionevole si deve preferire l’oriente, perché non far questo in ogni luogo? Ma
di tale argomento basta.
CAPITOLO XXXIII
Classificazione della preghiera
1. Penso di dover concludere il mio dire, dopo che avrò trattato sulle forme
della preghiera. Mi sembra pertanto di dovere descrivere quattro forme di
preghiera, che ho trovato sparse nelle Scritture; a norma di queste bisogna che
ognuno componga la sua preghiera. Tali forme sono le seguenti. Dapprima e
nell’esordio della preghiera bisogna secondo le proprie forze rendere gloria a
Dio per mezzo di Cristo, glorificato nello Spirito Santo, che è lodato con lui.
Dopo di ciò ognuno deve far seguire azioni di grazie, rievocando i benefici
largiti a tutti gli uomini e quelli personali ricevuti da Dio. Dopo l’azione di
grazie deve farsi severo accusatore dei propri peccati davanti a Dio e in primo
luogo domandargli guarigione e liberazione dall’abitudine che ci porta al
peccato, e in secondo luogo la remissione delle colpe passate. Dopo la
confessione il quarto punto, per quanta a me sembra, è la domanda dei beni
grandi e celesti, particolari e collettivi, per i familiari e per gli amici.
Infine la preghiera deve concludersi con la glorificazione di Dio, per mezzo di
Cristo nello Spirito Santo.
2. Questi punti, come abbiamo detto, li troviamo menzionati qua e là nelle
Scritture. Il tema della glorificazione si riscontra nel Salmo 103 in quelle
parole: «O Signore mio Dio, sei stato magnificato in maniera sublime. Ti sei
vestito di splendore e di gloria, avvolto di luce come di un manto. Tu distendi
i cieli come un drappo; riempi di acque le sue stanze superiori; rendi le nubi
tuo cocchio; passeggi sulle ali dei venti. Fai dei venti i tuoi nunzi veloci e
del fuoco fiammeggiante i tuoi ministri; hai piantato la terra su basi solide,
sicché non vacillerà per tutti i secoli venturi. Tu la ricopri di acque abissali
come di una veste, le acque ondeggeranno sui monti. Al tuo grido esse fuggiranno
spaurite, al fragore del tuo tuono esse tremeranno». La parte più rilevante di
questo salmo risulta dalla glorificazione del Padre. Chi vuole raccogliere
esempi in maggior numera, può vedere come la dossologia sia diffusa in molti
luoghi [della Scrittura].
3. Per il rendimento di grazie può essere addotto come esempio un tratto del
secondo libro di Samuele, dove David, dopo le promesse fattegli da Natan, è
preso da stupore per i doni di Dio e parla in questi termini: «Che cosa sono io,
o mio Signore, e che cosa è la casa mia, che tu mi hai amato a tal punto? Ma io
mi sano fatto piccolo davanti a te, o mio Signore, e tu hai parlato riguardo
della casa del tuo servo in vista di un lontano avvenire. È questa la legge
dell’uomo, o mio Signore, a Signore Dio. Che altro potrà dirti David? Ora tu
conosci il tuo servo, Signore; per il tuo servo hai compiuto questo e secondo il
tuo cuore hai fatto conoscere al tuo servo tutta questa magnificenza, perché ti
abbia ad esaltare, o Signore, o mio Signore».
4. Esempio di confessione: «Liberami da tutte le mie iniquità». E altrove:
«Fetide e purulente sono le mie piaghe a causa della mia follia. Io sono
avvilito e depresso oltre ogni dire; tutto il giorno mi sono aggirato nella
tristezza».
Un esempio di domanda è nel salmo 21: «Non mi trascinare con gli empi e non mi
perdere con quelli che operano l’iniquità». Si potrebbero citare altri
testi analoghi.
È bene, dopo aver cominciato con la dossologia; finire con la dossologia,
esaltando e magnificando il Padre di tutte le cose per mezzo di Gesù Cristo
nella Spirito Santo «a cui sia gloria nei secoli».
CAPITOLO XXXIV
Epilogo
Secondo le mie forze diligentemente, o verissimi fratelli nella religione di
Dio, Ambrogio e Taziana, ho studiato il problema della preghiera e la preghiera
[del Signore] tramandataci nei Vangeli, specialmente quello che è detto in
Matteo. Non dispero, tendendo verso quello che vi è davanti e obliando quello
che vi sta dietro, pregando nel frattempo per noi, di ottenere ancora maggiori e
più divini pensieri su tutti questi punti da Dio munifico nel dare, e di poter
trattare di questo soggetto con più magnificenza, elevazione e chiarezza.
Presentemente, accogliete questo mio saggio con indulgente benevolenza.
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20 agosto 2015 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net