XLIII - La puntualità nell'Ufficio divino e in
refettorio:
All'ora dell'Ufficio divino, appena si sente il
segnale, lasciato tutto quello che si ha tra le mani, si accorra con la massima
sollecitudine, ma nello stesso tempo con gravità, per non dare adito alla
leggerezza.
In altre parole
non si anteponga nulla all'Opera di Dio".
L - I monaci che lavorano lontano o sono in viaggio:
I fratelli,
che lavorano molto lontano e non possono essere presenti in coro nell'ora
fissata per l'Opera di Dio, se l'impossibilità in cui si trovano è stata
effettivamente accettata dall'abate,
recitino pure l'Opera di Dio sul posto di lavoro,
mettendosi in ginocchio per la reverenza dovuta a Dio.
LVIII - Norme per l'accettazione dei fratelli:
Quando si presenta un
aspirante alla vita monastica, non bisogna accettarlo con troppa facilità, ma,
come dice l'Apostolo: "Provate gli spiriti per vedere se vengono da Dio".....
In primo
luogo bisogna accertarsi se il novizio cerca veramente Dio,
se ama l'Opera di Dio,
l'obbedienza e persino le inevitabili contrarietà della vita comune.
LXVII - I monaci mandati in viaggio:
I monaci, che sono
mandati in viaggio, si raccomandino alle preghiere di tutti i confratelli e
dell'abate; e nell'orazione
conclusiva dell'Opera di Dio si ricordino sempre tutti gli assenti.
L’OPUS DEI
Di André Louf
Estratto da “L’Opus Dei, un cammino di preghiera”, Abbazia di San
Benedetto- Seregno 2002
CAPITOLO TERZO
LA
REGOLA
DI SAN BENEDETTO
Accostandoci ora alla Regola di san Benedetto, è opportuno non dimenticare il
giudizio che egli stesso — o forse qualche discepolo subito dopo di lui — ha
dato sulla sua opera. Ai suoi occhi, essa offre solo una «piccolissima Regola —
minima —, un minimo di Regola» che può addirsi solo agli inizi dell’esperienza
monastica
(RB
73, 8). San Benedetto rinvia dunque tutti coloro che ambiscono a raggiungere le
«vette della perfezione» a quei monumenti letterari altrimenti rispettabili ai
suoi occhi che sono, dopo la parola di Dio e gli scritti dei «santi Padri
cattolici», alcuni testimoni antichi della tradizione monastica a cui san
Benedetto si riferisce in modo particolare. Declinando l’identità di questi
autori, il santo ci rivela nello stesso tempo le sue fonti. Sono, dice, «le
Conferenze dei Padri e le loro Istituzioni, le Vite dei Padri e la Regola del
nostro Padre san Basilio».
Le «Conferenze dei Padri e le loro Istituzioni» designano l’opera famosissima di
san Giovanni Cassiano, un best-seller del suo tempo, che abbiamo ampiamente
frequentato nel capitolo precedente. Le
Vitae Patrum
rappresentano la versione latina, fra le altre, della Vita di alcuni Padri del
Deserto, tra cui sant’Antonio, e degli Apoftegmi. Quanto alla «Regola del nostro
Padre san Basilio», essa gli è probabilmente nota attraverso la traduzione
latina di Rufino. Di Cassiano e degli Apoftegmi, san Benedetto e i suoi monaci
dovevano essere profondamente impregnati poiché la
Regola
ne consigliava la lettura pubblica tutti i giorni prima dell’Ufficio di compieta
(RB
42). Non c’è dubbio che bisognerà rileggere certi testi della
Regola,
che ci sono d’altronde già così familiari, proprio a partire da quella
Tradizione.
1.
Non preferire nulla
all’Opera di Dio (RB
43, 3)
Questa piccola frase è famosa. San Benedetto se l’è lasciata però uscire dalla
penna quasi incidentalmente e senza troppo prestarvi attenzione, non immaginando
forse a che punto avrebbe avuto successo. Gli è capitato di annotarla mentre
descriveva uno di quei momenti apparentemente anodini, ma a cui egli dà una
certa importanza: quello in cui suona la campana o qualche altro segnale, per
annunciare il tempo della preghiera in comune. In effetti, notiamo innanzitutto
che san Benedetto utilizza il termine
Opus Dei
solo per designare la celebrazione comune, e quindi liturgica, della preghiera.
Padre Hausherr ha tempo fa dimostrato che l’abitudine di riservare questo
termine, Opera di Dio, alla liturgia celebrata in comune si stabilisce nel
momento in cui Pelagio, futuro papa, traduce gli Apoftegmi in latino. San
Benedetto, e la tradizione benedettina dopo di lui, consacreranno per sempre
l’impiego di questo vocabolario. In origine l’espressione «Opera di Dio» (to
ergon tou theou)
designava piuttosto l’insieme della vita monastica, contrapposta alla vita
secolare, condotta in mezzo al mondo. Questo si riscontra nelle
Regole
di san Basilio (Grandi
Regole
85; 86; 95). Ci si accontentava a volte del solo sostantivo:
to ergon,
uso che si ritrova nella tradizione monastica di lingua siriaca:
pûlhana.
A poco a poco, il termine venne a evocare l’Opera di Dio per eccellenza, a cui
nulla doveva essere anteposto, che è quella della preghiera in tutte le sue
forme. Se san Benedetto la riserva di fatto alla preghiera liturgica, si può
pensare che l’espressione mantenesse sotto la sua penna certe connotazioni che
essa possedeva anticamente. In una Regola attribuita a san Macario compare la
stessa formula, ma con la variante
oratio
al posto di
Opus Dei («Nihil orationi praeponendum est», Regola di Macario
9; 14). Essa dunque non evocava chiaramente alcuna opposizione tra la preghiera
liturgica e altre forme di preghiera privata o interiore, ma conservava
un’allusione implicita all’insieme del quadro della preghiera monastica, come
esso è ancora chiaramente dettagliato, per citare un solo esempio, in una
variante della traduzione siriaca dell’Apoftegma Teodoro di Perma 10, segnalato
dallo stesso padre Hausherr: «Notte e giorno, con tutte le loro forze, i monaci
di Scete facevano l’Opera di Dio, ossia l’Ufficio, l’orazione, la lettura e la
meditazione». Come si vede, siamo ancora all’interno dello stesso tipo di
celebrazione monastica della preghiera, sia essa pubblica o privata, che
conosciamo già grazie a san Giovanni Cassiano. Non c’è nessuna ragione di
supporre che san Benedetto pensi ad altro quando evoca l’Opera di Dio. «Non
preferire nulla all’opera di Dio». La formula enuncia un valore assoluto, che
possiede due altri equivalenti nella
Regola:
«Non preferire nulla a Cristo»
(RB
72, 11), o «all’amore di Cristo»
(RB
4, 21); e: «non preferire nulla agli ordini dell’abate»
(RB
71, 3). La persona di Cristo, l’obbedienza al suo rappresentante e l’Opera della
preghiera, ecco tre preferenze assolute che reggono e ordinano tutta la vita del
monaco. Questa preferenza per l’Opera della preghiera si esprimerà d’altronde
concretamente. Innanzitutto, l’incarico di dare il segnale dell’Opera di Dio è
teoricamente riservato all’abate in persona, allo stesso titolo di quello di
proclamare il vangelo, di cantare o recitare la prima colletta all’Ufficio, di
accogliere gli ospiti e lavare loro i piedi. Non è possibile alcun dubbio:
annunciare l’ora della preghiera in comune riveste un’importanza senza pari agli
occhi di san Benedetto, che d’altronde non risparmia nessun particolare per
descrivercene il risultato nel comportamento del monaco: «appena (mox)
egli avrà sentito la campana, abbandonerà tutto quello che aveva tra mano, e
accorrerà in gran fretta
(summa cum festinatione)».
San Benedetto sembra rendersi conto di forzare un po’ la nota, perché si
affretta ad attenuarne l’effetto: «con gravità, tuttavia, per non dare spazio
alla dissipazione». Tale sollecitudine per accorrere alla preghiera era già
stata consigliata da Giovanni Cassiano, che riferisce il famoso esempio della
lettera che il copista, si racconta, non aveva terminato di tracciare in simile
occasione
(Instituta
4, 12).
Certo, non bisogna riderne. Non si tratta assolutamente di un esercizio di
dominio della volontà, ma di un gesto concreto per esprimere l’amore per la
preghiera, il cui fascino non cessa di scavare il cuore. Soprattutto, il lettore
l’avrà forse già notato, ci ritroviamo qui di nuovo davanti alla famosa Regola
d’oro enunciata dall’Apoftegma Antonio 1. Ciò che riveste qui tale importanza
non è forse tanto la preghiera, che in ogni modo non era assente dal lavoro o
dalla
lectio,
è piuttosto il fatto di interrompere il lavoro in favore della preghiera,
interruzione che crea il ritmo dell’alternanza. Interrompere così il corso delle
proprie occupazioni, sette volte tra giorno e notte, e riportarle costantemente
all’unico necessario della preghiera, costituisce un obiettivo importante e
primordiale. In questo modo, la scansione della vita monastica vorrebbe, per
così dire, forzare dolcemente le cose a sfociare in Dio per mezzo della
preghiera. Anche il sonno della notte si prenderà in modo tale — il monaco
dormirà vestito! — da essere sempre pronti ad alzarsi al primo segnale e
accorrere all’oratorio, cercando di superare discretamente i propri fratelli e
incoraggiando coloro che si mostrassero negligenti, anche qui con il rischio di
mancare alla gravità e di provocare dissipazione
(RB
26).
2.
Liturgia comune e Liturgia privata
a. I due tempi della Liturgia in comune
Come celebravano l’Ufficio i monaci di san Benedetto? È quasi certo che la
struttura di quell’Ufficio corrispondeva approssimativamente agli elementi che
abbiamo individuato presso i monaci d’Egitto, grazie al minuzioso rapporto di
Cassiano. Quella struttura era caratterizzata, si ricorderà, da un’alternanza
tra ascolto silenzioso dei salmi e tempi di pausa, consacrati alla preghiera
interiore. Non sembra che san Benedetto abbia praticato la salmodia alternata
tra due cori che si rispondono, come la conosciamo oggi. I salmi erano sia
modulati da un lettore — quello che san Benedetto chiama
«imponere psalmum»
—
o
antifonati,
ossia i presenti intervenivano intercalando tra i versetti del salmo brevi
antifone derivate da esso. Queste antifone svolgevano un ruolo assai importante
in funzione della preghiera silenziosa che sarebbe seguita: dovevano, diciamo
così, raccogliere e concentrare il sentimento dominante del salmo, e miravano
anche a toccare i cuori e ad accendervi la preghiera.
Dopo ogni salmo seguiva un tempo relativamente breve di preghiera silenziosa. Il
capitolo 20 della
Regola
è probabilmente consacrato a quella preghiera —
«in conventu»,
dice san Benedetto, ossia «durante la sinassi» — mentre il capitolo 52, che
tratta dell’oratorio, descrive piuttosto la preghiera personale e solitaria,
quella che viene praticata al di fuori di qualsiasi contesto liturgico. Quando
la preghiera segue al salmo, deve essere breve, ricorda san Benedetto, e tutti
si alzeranno al segnale del superiore, rubrica liturgica che ricorda
letteralmente le ingiunzioni di san Giovanni Cassiano e di san Pacomio in una
simile occasione (Cassiano,
Inst.
2, 7; Pacomio,
Reg.
6). Si trattava senza dubbio di uno stesso rito liturgico, nel corso del quale
preghiera vocale e preghiera silenziosa si succedevano alternativamente.
Quanto all’attenzione che deve essere accordata alla recitazione del salmo, san
Benedetto sembra ricordarsi della
Regola
di sant’Agostino quando essa parla dello spirito che va accordato alla voce
(Regola,
7). Ma l’allusione al ricordo di Dio ovunque presente, e soprattutto degli
angeli in presenza dei quali il monaco salmeggia, suggerisce l’esistenza, da
qualche parte, di un legame e di un passaggio misterioso tra il coro dei monaci
e quello degli esseri celesti, tra la liturgia della terra e la liturgia del
cielo.
Quanto alla pausa consacrata alla preghiera interiore, san Benedetto ne riassume
il clima e le disposizioni in cui il monaco si accosterà a essa con la parola
‘reverentia’,
più difficile da tradurre con precisione di quanto sembri a prima vista.
Ritroviamo questo termine nel capitolo 52, quando san Benedetto giustificherà
l’atmosfera di pace e di silenzio che deve regnare nell’oratorio con la frase
tanto densa:
«et habeatur reverentia Deo».
Questa ‘reverentia’
esprime un
sentimento
di rispetto e di filiale venerazione, che il monaco prova anche altrove;
innanzitutto nella liturgia, quando si menziona la Santa Trinità, per esempio
(RB
9; 11); oppure nella vita di tutti i giorni, quando esegue un ordine dell’abate
(RB
57; 65). Lo stesso capitolo 20 riassume d’altronde in poche righe tutti i temi
che la tradizione prebenedettina ha sviluppato riguardo la preghiera: brevità,
soprattutto purezza — menzionata in tre riprese! — e lacrime di compunzione. Ma
san Benedetto getta già un ponte verso la liturgia privata che potrà seguire
alla liturgia comune, se il monaco lo desidera, ossia qualora un tocco della
grazia divina lo spinga a prolungare alquanto questa preghiera che, durante la
sinassi celebrata in comune, dovrà necessariamente rimanere breve.
b. I due tempi della Liturgia privata
Infatti, esattamente come per Cassiano, i due elementi della celebrazione
notturna — salmi e preghiere — potranno prolungarsi una volta che l’Ufficio in
comune sarà terminato nell’oratorio. Per quanto concerne innanzitutto la
salmodia privata, è in questo senso, sembra, che bisogna tradurre il versetto 3
del capitolo 8 della
Regola,
in cui san Benedetto descrive l’occupazione del monaco durante l’intervallo che,
in inverno, separa la fine delle vigilie dalla celebrazione delle lodi. Diamo
prima il testo in latino, perché la nostra argomentazione si svilupperà a
partire appunto dall’originale:
«Quod vero restat post vigilias a fratribus qui psalterii vel lectionum aliquid
indigent, meditationi inserviatur».
Con un’unanimità impressionante, i traduttori moderni della
Regola
vi vedono un momento riservato allo studio della Bibbia, in favore dei monaci
che avessero bisogno sia di rinfrescare la propria memoria, sia di perfezionare
le proprie conoscenze esegetiche
[1].
Se fosse proprio così, sarebbe l’unica volta in cui la
Regola
prenderebbe un po’ l’andamento di una
Ratio studiorum
moderna. Soprattutto, sarebbe attribuire al termine
meditatio,
che è un termine strettamente tecnico del vocabolario monastico primitivo, un
significato che non vi assume mai. Fino agli scritti di Cassiano,
meditatio,
spesso precisata dall’aggettivo
spiritualis,
designa sempre una lettura privata, interiore e sapida, diciamo una
‘ruminazione’, di un versetto del salterio o di un altro testo della Scrittura.
Nel presente brano non può rivestire un significato diverso.
'Psalterium vel lectio
designano con tutta la chiarezza richiesta quello che sarà l’unico oggetto di
questa
meditatio,
e l’insieme costituisce semplicemente, come presso i monaci d’Egitto, la
continuazione in privato di quello che si è appena terminato nell’oratorio,
ossia la recitazione dei salmi seguita da una lettura della Bibbia.
E in questo senso, sembra, che va inteso anche il verbo
indigere.
Non si tratta tanto di un’esigenza intellettuale o didattica, ma di un bisogno
spirituale che spinge interiormente il monaco desideroso di prolungare la
salmodia. Nel latino patristico d’altronde,
indigentia
assume spesso esplicitamente il significato di ‘desiderio’ (e perfino di
‘desiderio carnale’).
(Vedi Blaise-Chirat,
Dictionnaire du latin chrétien,
Turhnout 1954; in sant’Agostino,
“indigentia carnalis“ : Serm. Dom.
1, 15, 42).
Terminato l’Ufficio della notte, ci sono dei fratelli ancora sospinti dal
desiderio di continuare la salmodia. Il confronto con il brano in cui il
Maestro, nella sua
Regola,
descrive le occupazioni dello stesso momento della giornata, basta per
confortare la validità di questa interpretazione. A meno che l’abate stesso
voglia continuare a fare una lettura ad alta voce per l’insieme dei monaci,
precisa il Maestro, ognuno potrà ricevere il permesso
«aut legendi aut audiendi aut aliquid meditandi»,
sia di leggere per conto suo, sia di ascoltare qualche lettura fatta da un altro
fratello, sia di ruminare a parte qualche testo sacro. Ed ecco la norma che
dovrà seguire nella scelta da operare:
«sua sponte quod delectatus fuerit frater»,
quello che gli avrà spontaneamente fatto piacere, ossia quello verso cui si
sentirebbe interiormente attratto da un tocco che viene dallo Spirito Santo. Per
il Maestro, si tratta del monaco ormai abbandonato alla spontaneità della sua
gioia interiore, e che dovrebbe sentirsi libero di prolungare una salmodia o una
lettura che gli avrà toccato il cuore. Sono d’altronde numerosi i testi della
tradizione monastica che descrivono la dolcezza delle «veglie private» che fanno
seguito alla celebrazione liturgica. Il cistercense Gilberto di Hoyland (XII
secolo) descrive così la preghiera silenziosa, solitaria e fervida che occupa le
ore notturne e di cui le vigilie in chiesa sono soltanto le primizie (quaedam
primitiae):
«Non ha bisogno di parole, questa preghiera che è sorretta da un affetto puro.
L’amore da solo fa abbastanza rumore alle orecchie del Signore. Non ha bisogno
del rumore delle parole. Esse possono risvegliare il principiante, ma sono di
inceppo a chi prega perfettamente»
(CC
23, 3;
PL
184, 120). La stessa spontaneità presiederà a un eventuale prolungamento della
preghiera interiore. Durante la sinassi liturgica, lo abbiamo visto, essa è
sempre breve, ma potrebbe prolungarsi se qualche tocco della grazia divina
facesse nascere il desiderio di continuarla o di ritornarvi, una volta terminato
l’Ufficio. Sotto la penna di san Benedetto, questa non è d’altronde una
raccomandazione insistente; è appena un suggerimento, formulato per di più con
un’infinità di precauzioni. In due riprese, nei capitoli 20 e 52, là dove si
tratta di questa eventuale preghiera privata, san Benedetto utilizza l’avverbio
forte:
se ‘per caso’ un fratello desiderasse per conto proprio e in segreto
[2], ebbene! entri allora solo —
simpliciter,
e non «in tutta semplicità»! — e preghi. L’accento non è tanto sul fatto di
pregare più a lungo, ma, in entrambi i casi, sul tocco della grazia e sul
desiderio (vult)
che essa ha suscitato nel cuore del fratello.
3.
La preghiera ininterrotta
«Non preferire nulla all’Opera di Dio» diventa «Non preferire nulla alla
preghiera» in un altro documento monastico contemporaneo, ossia la
Regula Patrum
2, 21. Si può già presumere che, formulando questa massima in favore della
celebrazione comune dell’Ufficio, san Benedetto non dimentichi affatto che la
sua portata si estende al di là dell’Ufficio e che si applica anche alle altre
occupazioni monastiche le quali, a loro volta, saranno animate interiormente da
quest’Opera di Dio continuata e continua che è la preghiera ininterrotta.
a. Lavoro e preghiera
Il monachesimo egiziano conosceva una certa interpretazione della liturgia,
della
lectio,
della preghiera e del lavoro. Durante le veglie nell’oratorio, come si
ricorderà, i monaci si dedicavano a un piccolo lavoro manuale per evitare il
sonno. D’altronde, durante la giornata, quegli stessi continuavano a ruminare
testi di salmi o della Scrittura durante un lavoro che veniva interrotto, a
intervalli regolari, da stazioni o prostrazioni consacrate alla preghiera
silenziosa. San Benedetto, invece, sembra aver operato una migliore distinzione
tra queste occupazioni diverse, che ricevono ciascuna un luogo appropriato e,
nell’orario della giornata, un momento che è consacrato esclusivamente a esse.
Come per sant’Agostino, l’oratorio è strettamente riservato alla preghiera,
pubblica o privata, e qualunque altra occupazione — implicitamente: ogni lavoro
manuale — ne è escluso
(RB
52, 1; cfr.
Regola di sant’Agostino
II, 2).
Si tratta senza dubbio anche qui di un discernimento e di un equilibrio
tipicamente benedettini, nel senso che è proprio a san Benedetto. Infatti
l’equilibrio tra il tempo consacrato al lavoro e quello disponibile per la
preghiera è stato uno dei problemi più aspramente dibattuti tra i monaci durante
i primi secoli del monachesimo, un dibattito la cui posta in gioco era sempre la
preghiera, che i monaci volevano quanto più ininterrotta possibile. Alcuni
monaci erano giunti addirittura a escludere interamente il lavoro manuale,
considerandolo come contrario alla vita contemplativa. Venivano chiamati
esattamente
Euchiti
in greco, o
Messaliani
in siriaco, ossia «oranti», «uomini di preghiera». Finirono addirittura per
assumere l’aspetto di una setta, dai contorni a tutt’oggi non ben definiti,
della quale alcuni sinodi ecclesiali hanno condannato taluni eccessi nel
linguaggio o nelle pratiche; nel 431, ad esempio, il Concilio di Efeso ratificò
le decisioni prese nei loro confronti da alcuni sinodi locali. Tracce di questa
controversia sono individuabili in diversi apoftegmi. Alcuni di essi, che per
altro sembrano del tutto ortodossi, hanno mantenuto un certo sapore messaliano,
per esempio nel fatto che trattano il lavoro manuale semplicemente per
preterizione. Altri apoftegmi sono esplicitamente antimessaliani, nel senso che
si impegnano a spiegare come lavoro manuale e preghiera possano andare di pari
passo.
Le risposte a questo problema saranno d’altronde sempre sfumate. Cassiano, pur
sostenendo un lavoro manuale che sia di natura tale da rendere più facile il
raccoglimento, lo regolerà in modo abbastanza stretto proibendo, per esempio, il
lavoro dei campi, che egli ritiene incompatibile con una vita contemplativa
seria
(Conferenze
24, 3). Quando san Benedetto scrive la sua
Regola,
nel VI secolo, questa controversia appartiene già un po’ alla storia, prima di
riaccendersi nel XII secolo. La sua posizione personale ha potuto avvantaggiarsi
della parte di verità contenuta in ognuna delle due tendenze: è dunque elastica
e piena di sfumature. Il lavoro manuale rappresenta sicuramente una parte
sostanziale dell’orario benedettino, una parte che si estende facilmente fino a
sei o sette ore al giorno. San Benedetto si mostra anche più aperto di Cassiano
all’eventualità di un lavoro dei campi, che si potrebbe giustificare con la
povertà dei luoghi, ma senza che si possa veramente dire che quello è il genere
di occupazione da lui auspicato per i monaci. Il lavoro manuale, nella
Regola,
deve d’altronde sempre cedere il passo all’Ufficio e alla
lectio divina,
per i quali si riserva espressa- mente un tempo privilegiato in ogni orario,
tempo variabile secondo l’epoca dell’anno. Inoltre, come abbiamo già visto,
appena suona la campana che annuncia l’ora dell’Opera di Dio, il monaco lascerà
cadere tutto quello che ha tra mano per accorrere a quello che, nella mente di
san Benedetto, non deve soffrire alcun ritardo. Se si dimostrasse necessario
uscire per qualche occorrenza del monastero, o qualora il lavoro venisse svolto
a una certa distanza dall’oratorio, non si lasceranno ugualmente passare le Ore
che sono di regola per la preghiera. Sul luogo stesso di lavoro, ci si
raccoglierà per la salmodia, e anche senza omettere le prostrazioni — «flectentes
genua»
(RB
50, 3) —, il che fa capire che le pause per la preghiera silenziosa dovevano
essere rispettate.
Il lavoro stesso sarà d’altronde disseminato di preghiere. Dom Adalbert de Vogüé
ha tempo fa dimostrato che è proprio quello il senso che bisogna dare allo
strumento delle buone opere enunciato come:
«Orationi frequenter incumbere»,
«prosternarsi frequentemente per la preghiera». Il verbo
incumbere
descrive il gesto concreto di stendersi a terra per interrompere brevemente il
lavoro, come facevano i monaci nel deserto, alternando lavoro e preghiera.
Salutare alternanza che, anche qui, mira a nutrire e a mantenere un costante
ricordo di Dio. Come dice l’autore concludendo il suo articolo, «prosternarsi
frequentemente per la preghiera» non ha altro scopo se non di far pregare
incessantemente («Revue d’Ascétique et de Mystique» 41, 1965, pp. 467-472).
Che questa fedeltà alla preghiera, malgrado il lavoro e nel mezzo del lavoro
stesso, non fosse immune da sbavature, san Gregorio ce ne ha conservato un
celebre esempio nel delizioso racconto di un monaco svagato, incapace di restare
in preghiera con i fratelli nell’oratorio, durante le pause che separano i
salmi. Sappiamo che sia Cassiano che Benedetto le volevano brevi. Erano però
ancora troppo lunghe per questo fratello che, dice san Gregorio, «non poteva
restare per l’orazione: appena i fratelli si prosternavano, concentrati nel
pregare Dio, egli usciva e, con la mente assente, si occupava di qualche
faccenda terrestre e temporale». Quando san Benedetto, dopo parecchie
osservazioni rimaste inefficaci, credette di dover intervenire in modo più rude,
scorse un giorno un diavoletto che, ogni volta, tirava il fratello per un lembo
della veste per farlo uscire dalla chiesa. La lezione è chiara: preferire
occupazioni materiali, sia pur ispirate dalla dedizione, a quello che san
Benedetto chiama, secondo la penna di Gregorio e nello stesso capitolo, «la
fatica dell’orazione»
{Dialoghi 2,
4), era dunque un errore bello e buono, riconosciuto come una tentazione.
Anche qui, il ritmo dell’alternanza è importante in sé. Infatti, ogni volta, il
monaco di san Benedetto è in tal modo costretto a fare una scelta. Non che il
lavoro sia opposto alla preghiera. Ma il lavoro, come qualsiasi altra realtà di
questa terra, ha bisogno di essere conquistato al servizio del Regno. Bisogna
che sia riscattato per concretizzare tutte le sue virtualità, ivi compresa la
densità di lode e di preghiera. Il lavoro comporta inevitabilmente degli
obblighi, ma essi devono rivelare un obbligo ancora più fonda- mentale, quello
di tenere il cuore fissato su Dio e incessantemente attratto, anche nel bel
mezzo del lavoro, dalla sua presenza, memore della sua parola, nutrito dal suo
amore.
San Benedetto aiuta così il monaco a «redimere il lavoro», costringendolo a
frequenti ritorni a Dio, quali scelte ripetute e perseveranti nel bel mezzo del
lavoro. A furia di rinnovare ostinata- mente, e amorosamente, queste piccole
scelte, lungo tutta una vita monastica, la preghiera finisce per scaturire
dovunque, per superare tutto quello che prima pareva un ostacolo. Diventa la
compagna fedele di ogni attività, e anche la sua sorgente profonda. Alla fine,
non si saprebbe più dire quale dei due si imponga all’altro: se il lavoro impone
il suo ritmo alla preghiera, o se la preghiera diviene l’obbligo principale, e
totalmente interiore, del lavoro. Il monaco sa solo che, anche assorbito fino a
un certo punto dal suo compito, non cessa di dare, in ogni istante, tutto il suo
cuore e la sua preferenza all’Opera di Dio. Non più soltanto quella a cui egli
accorre sempre più gioioso fin dal primo suono della campana, ma anche quella
che porta in cuore e che lo Spirito Santo non cessa di celebrare segretamente in
lui.
b. Preghiere ‘giaculatorie’
Il legame tra la liturgia pubblica e la liturgia interiore del cuore può
verificarsi anche attraverso numerosi versetti della Scrittura, e
particolarmente del salterio, che san Benedetto mette sulle labbra del suo
monaco, sotto forma di preghiere giaculatorie, adattate a certe circostanze
particolari della vita comunitaria o alla propria esperienza interiore. Parole
ascoltate durante la celebrazione liturgica si trovano così continuamente
investite dall’interno a partire dall’esperienza personale, per divenire
alimento della preghiera.
La constatazione si impone fin dal capitolo 7, in cui quasi ogni gradino sulla
scala dell’umiltà è insieme illustrato e commentato da un versetto della
Scrittura. Sono il profeta o il salmista, e anche Gesù in persona, che parlano
per bocca del monaco umile, «come ha detto Gesù nel salmo»
(RB
7, 3-4; 14-17; 23; 29; 32; 47-48); oppure è lo stesso monaco che deriva le sue
formule di preghiera dall’autore ispirato, «dicendo con il profeta»
{RB
7, 18; 20; 38-39; 41; 43; 50; 52; 53-54; 65-66). Il fenomeno sembra raggiungere
il punto culminante in cima alla scala, dove la preghiera del pubblicano del
vangelo diventa la materia e come il substrato di una preghiera che ormai non si
interrompe più nel cuore del monaco: «Ripetendo senza tregua dentro di sé, nel
suo cuore, quello che diceva il famoso pubblicano del vangelo: “Signore, io non
sono degno, peccatore quale sono, di alzare gli occhi al cielo”»
(RB
7, 65).
Ma ci sono numerosi altri casi in cui san Benedetto ha selezionato un versetto
di salmo a scopo di sottolineare un avvenimento di comunità, trasformandolo in
preghiera; si direbbe: per farne l’esegesi concreta. Così il versetto «Signore,
apri le mie labbra e la mia bocca proclamerà la tua lode» (Sai 50, 17) è stato
scelto per l’apertura dell’Ufficio alle vigilie
(RB
9, 1), come pure per la benedizione del lettore di tavola
(RB
38, 3). Un versetto particolarmente pregnante, il
Suscipe,
«Accoglimi secondo la tua parola, e vivrò: non deludere la mia attesa» (Sai 118,
116), è chiamato a esprimere l’atteggiamento spirituale di base del monaco, nel
momento in cui egli si impegna definitivamente: offerta, disponibilità, attesa
fiduciosa. Un versetto di azione di grazie: «Benedetto sei tu, Signore mio Dio,
perché mi hai aiutato e consolato», parzialmente derivato dal salmo 85, 17 e
lievemente modificato, esprime la riconoscenza del monaco arrivato alla fine del
suo servizio di settimana. Il ministero monastico per eccellenza, l'accoglienza
degli ospiti, è sottolineato da un versetto del salmo 47 : «O Dio, abbiamo
ricevuto il tuo amore in mezzo al tuo tempio» (Sal 47, 10;
RB
43, 15). Reminiscenze della salmodia invadono così tutta la giornata monastica.
Bisogna anche menzionare la ripetizione, sette volte al giorno, del
«Deus in adiutorium meum intende»,
«Dio, vieni in mio aiuto», di cui Cassia- no aveva fatto un elogio così
brillante che doveva essere presente alla mente di ogni monaco dell’epoca
(Conferenze
10, 10). Si ricorderà che Cassiano consigliava la ripetizione frequente e
amorosa di questo versetto di salmo come «la» formula e il metodo per eccellenza
che avrebbe condotto ben presto il monaco alla preghiera ininterrotta
raccomandata dal Nuovo Testamento. Che san Benedetto abbia scelto precisamente
quel versetto non è senza ragione. Questo uso rappresenta d’altronde
un’autentica innovazione, non attestata prima di lui, che la Chiesa di Roma
adotterà a sua volta, alcuni anni più tardi. Con la scelta di questo versetto,
san Benedetto ha voluto indicare, in un modo che non potrebbe essere più chiaro,
che il ritmo settenario degli Uffici liturgici del giorno era totalmente
ordinato alla preghiera continua. Ecco che non è più la preghiera liturgica a
dilagare, per così dire, sulla preghiera privata, ma la stessa preghiera privata
a imprimere il carattere sulla preghiera liturgica e, attraverso le sue formule,
a impregnarla del suo spirito.
Altrettanto si può certo dire della piccola formula greca
Kyrie eleison,
a cui san Benedetto riduce la preghiera di intercessione alla fine delle Ore
minori, quando, per designare questa stessa preghiera a vigilie, lodi e vesperi,
si serve del termine
Litaniae.
Ora, la formula
Kyrie eleison
è una delle tre formule di preghiere
monologistoi
— preghiere brevi o preghiere che comportavano una sola parola — che gli
Apoftegmi raccomandano ai solitari. Ecco ancora un caso in cui alcune formule di
preghiera penetrano nella liturgia a partire dall’orazione silenziosa
individuale, e vi acquistano diritto di cittadinanza. Vale la pena di citare le
altre due formule classiche della preghiera
monologistos.
La prima è
Voitison,
«Aiutami». La ritroviamo nel
Deus in adiutorium
di Cassiano, ripreso da san Benedetto. L’altra veniva chiamata
eucharistó,
«rendo grazie», o
Deo gratias.
Ora, questa formula, frequente nella liturgia, appare anche nella
Regola
come l’orazione giaculatoria raccomandata al portinaio (RB
66, 3), appena un ospite o pellegrino avrà bussato alla porta. L’azione di
grazia per la Parola di Dio ascoltata in comune si congiunge così all’azione di
grazia per il forestiero che si presenta al monastero.
Questi pochi sondaggi permettono dunque di affermare un’evidente continuità tra
preghiera liturgica e orazione silenziosa. Alcune formule di preghiera che
avranno toccato il cuore nella cella sono riutilizzate volentieri nella sinassi.
E viceversa: alcune parole derivate dalla celebrazione liturgica servono a
ingemmare di preghiera tutta la giornata del monaco. Senza che egli se ne renda
conto, queste parole approfondiscono nel più intimo del suo cuore lo spazio in
cui la preghiera potrà sgorgare sempre più liberamente. Fino al giorno in cui,
secondo la bella formula di san Giovanni Cassiano,
«omnis eius conversatio, omnis volutatio cordis una et iugis efficiatur oratio»,
«tutta la sua vita, tutto il suo comportamento e tutto il movimento
(letteralmente: il rivolgimento, l’oscillazione) del suo cuore saranno divenuti
una sola e unica preghiera ininterrotta»
(Conferenze
10, 7).
c. Una Parola divenuta preghiera
Nel cuore di questa doppia liturgia, pubblica e privata, c’è la Parola di Dio. È
al centro dell’una; resta la fonte dell’altra, fonte segreta che sgorga senza
interruzioni. Gli Uffici in comune esistono solo per aiutare ciascuno a prendere
slancio. Una prima Parola di Dio viene proclamata e ascoltata durante le
letture. Un’altra Parola, il canto dei salmi, fa eco e le risponde. Seguono
pause di silenzio e raccoglimento, durante le quali la Parola ricevuta può
risuonare a lungo nel più profondo dell’essere, impregnare il cuore del suo
sapore. Questo momento è quanto mai favorevole allo sbocciare della preghiera,
in cui è altrettanto importante ascoltare la parola proclamata quanto
raccogliersi intorno alla sua eco che continua a risuonare sotto le volte del
nostro cuore, e finisce per attraversarci da cima a fondo.
San Benedetto nota con che gioia il monaco accoglie la Parola di Dio —
«Ascoltare volentieri le sante letture»
(KB 4,55)
—, e anche in che modo si concentra interiormente sulla lettura — «attento
(letteralmente: ‘teso verso’) alla lettura»
(RB
48, 18). La Parola si fa strada in lui. Essa non è solo la spada capace di
ferirgli il cuore, ma anche la chiave che riesce ad aprirlo. Da un cuore che
avrà vibrato al ritmo della Parola, sgorgheranno spontaneamente i sentimenti di
lode, d’amore e di azione di grazie. Il monaco è così un innamorato della
Parola. Essa è per lui nutrimento, viatico, sostentamento. Dato che essa viene
da Dio, è altresì legata con le profondità di ogni uomo. Cela in sé il segreto
di ogni essere davanti al suo Creatore.
L’uomo di preghiera tratta la Parola con venerazione e tenerezza. Quando la
pronuncia di nuovo o la canta come frutto della sua intimità con Dio, essa
diviene per lui una forma di contemplazione. In tutte le tradizioni
ecclesiastiche, il canto liturgico ci ha conservato una sorta di esempio assai
raro e purissimo di una
lectio
o di una
meditatio
che è già divenuta preghiera e contemplazione. Nella Chiesa latina, dove la
maggior parte dei testi liturgici è ancora oggi derivata dalla Bibbia — il che
costituisce insieme una povertà e una ricchezza —, il canto gregoriano ce ne ha
trasmesso un esempio a giusto titolo celebre: canto contemplativo per
eccellenza, in cui il vigore e la densità delle parole sono mirabilmente
valorizzati dalla tecnica, insieme così spoglia e così ricca, del canto modale
tradizionale. I suoi testi furono per molto tempo pregati e assaporati nello
Spirito Santo, prima di essere affidati a una melodia la cui potenza
fascinatrice consente di presentire l’altro mondo da cui sembra uscita.
Nient’altro potrebbe tradurre meglio in forme legate alla sensibilità umana
quanto quello che potrebbe essere una ruminazione spirituale della Parola di
Dio. Nello stesso modo, ogni musica sacra — ivi compresa quella che
ricostruiamo, con esiti più o meno felici, oggi — dovrebbe essere
un’incomparabile tecnica di preghiera e di contemplazione, perché ne sarà stata
in primo luogo il frutto:
«Sola quae cantat audit»,
dirà un giorno san Bernardo
{Sermoni sul Cantico dei Cantici,
1), «L’anima sente veramente solo quello che canta». Ma si potrebbe altrettanto
capovolgere l’adagio: non sa cantare convenientemente se non quello che ha
realmente sentito.
Il canto liturgico, per quanto sia bello e coinvolgente, è però solo una traccia
assai fugace della preghiera interiore, un’eco di quello che fu un giorno, e di
quello che può sempre ridiventare, l’incendio nello Spirito di un cuore che è
stato risvegliato dalla Parola. Il canto deve sempre ricondurre alla preghiera,
ma la preghiera non dovrà più arrestarsi, anche quando i canti della liturgia
avranno cessato di risuonare. Lungo tutta la giornata, il monaco porta nel suo
cuore l’eco di una Parola, e molte volte ritornerà a questa stessa Parola,
durante una lettura in privato della Bibbia per esempio, per risentirne di nuovo
il calore e per rianimare la fiamma del suo cuore. E non è certamente escluso
che il ricordo di certe melodie, felicemente adattate alle parole che esse
sostenevano, siano di potente aiuto.
Il ritmo esteriore, iscritto negli orari della giornata monastica: preghiera,
lectio,
lavoro, diventa così a poco a poco il ritmo interiore di ogni monaco; e la
celebrazione che egli compie con i suoi fratelli in chiesa si ripercuote
instancabilmente sulle volte del suo cuore, in questo tempio interiore dove egli
non cessa di ufficiare davanti al Signore. Questa armonia e questa fecondità
reciproche della cornice esterna quasi sacramentale e della realtà contemplativa
interiore costituiscono — oserei dire — «il» segreto per eccellenza della
tradizione monastica in materia di preghiera. La preghiera esige normalmente
spazi, tempi, segni, forme, in cui non solo deve potersi esprimere, ma grazie a
cui si approfondirà e si interiorizzerà sempre più, senza che tuttavia si debba
né si possa tagliare in alcun momento il legame vivificante che lo unisce a
questi segni sensibili.
4.
La preghiera del cuore
La preghiera infatti è innanzitutto interiore. Essa trova la sua sorgente nel
cuore, che solo è in grado di registrare i tocchi della grazia, perfettamente
identificati da san Benedetto come
affectus divinae inspirationis gratiae
(RB
20), ed è ancora là che deve sbocciare in pienezza. Nessuno avrebbe potuto
dircelo in modo più convincente di san Benedetto stesso che, nel tempo in cui
viveva da eremita nella grotta di Subiaco, giunse a estraniarsi così
completamente dalle forme esteriori della liturgia da dimenticare del tutto il
calendario, e non si rese nemmeno conto che il giorno in cui fu scoperto da un
prete dei dintorni era il giorno stesso di Pasqua. Senza saperlo, san Benedetto
realizzava alla lettera quello che, un secolo e mezzo prima Evagrio, uno dei
Maestri di una tradizione monastica assai contemplativa, aveva sostenuto
scrivendo che «non esistono presso i monaci feste per riempirsi il ventre. La
Pasqua del Signore è il passaggio dal male al bene»
(Ad Monachos,
39 B e 40).
San Benedetto domanderà così al monaco di pregare
in intentione cordis (RB
52, 4). Questa espressione, che abbiamo già incontrato in san Giovanni Cassiano,
non traduce soltanto l’applicazione di un cuore attento: insinua anche una certa
qualità dello sguardo interiore. Parafrasando appena, potremmo tradurla con
«l’occhio del cuore aperto verso l’interiore». Nella sua
Vita di san Benedetto,
san Gregorio dice di lui che «abitava con se stesso», e interpreta questa
espressione così: «Dico dunque che il santo uomo abitava con se stesso, perché,
sempre attento alla propria difesa, sorvegliandosi ed esaminandosi senza tregua
davanti agli occhi del suo Creatore, si astenne dal prostituire verso l’esterno
l’occhio del suo spirito»
(Vita di san Benedetto,
3), dato che qualsiasi attenzione prestata a cose futili veniva sentita
dall’uomo di preghiera come un’infedeltà all’amore.
Un po’ prima nello stesso capitolo, Gregorio aveva scritto che Benedetto «solo,
sotto lo sguardo del testimone supremo, abitava con se stesso». Avere l’occhio
del cuore aperto verso l’interiore significa anche incontrarvi un altro sguardo,
quello di Dio che osserva incessantemente l’uomo, sguardo di cui il monaco deve
ricordarsi per proteggersi da ogni male, al primo gradino dell’umiltà, ma che
incontrerà di nuovo nel cuore della preghiera liturgica nella quale amerà
tenersi «in presenza della divinità e dei suoi angeli»
(RB
19). La menzione della corte celeste — Dio e i suoi angeli — non deve stupirci.
Essa rivela la profonda penetrazione dello sguardo interiore del cuore. Il cuore
ha delle prospettive sul cielo, senza che san Benedetto precisi se è il monaco
che si sente trasportato in un al di là che normalmente sfugge alla sua
percezione o, al contrario, se è la profondità del suo cuore che si apre per
lasciare intravedere qualche riflesso del cielo, alla sorgente abitualmente
nascosta del suo essere.
a. Un cuore ferito
Un’altra immagine di cui san Benedetto si serve, quando parla del ruolo del
cuore nella preghiera, è quella della
compunctio,
della «compunzione» o del «cuore ferito». Il senso originario del termine latino
compungere è «pungere in più punti, ferire, irritare» (in greco
katanussein).
L’antica letteratura cristiana si serve frequentemente di questo verbo per
descrivere un’esperienza ben precisa di Dio e della sua grazia. Il cuore
dell’uomo è sempre il complemento oggetto di questa compunzione o di questa
ferita. L’immagine esprime il fremito interiore provocato da una presenza di Dio
percepita in modo più intenso, da cui nascono sentimenti congiunti di pentimento
e di amore. Essi si traducono spesso in lacrime — di gioia come di tristezza —
che sgorgano spontaneamente da un cuore che è così punto. La compunzione non ha
assoluta- mente niente in comune con il senso di colpa, sterile e paralizzante,
le cui radici affondano nella psicologia di ognuno di noi. Occorre anzi
distinguerlo da esso con molta accuratezza. Essa è al contrario il segno più
certo che lo Spirito Santo è intervenuto toccando il cuore dall’interno.
Per san Benedetto, in effetti, le lacrime vanno spesso di pari passo con lo
sguardo interiore del cuore e il raccoglimento. Nel capitolo sulla preghiera, fa
notare che «non è attraverso l’abbondanza delle parole ma la purezza del cuore e
le lacrime della compunzione che saremo esauditi»
(RB
20, 3). Durante la quaresima, il tempo dell’anno in cui «si conserva la propria
vita in tutta purezza»
(RB
48, 2), si raccomanda al monaco di applicarsi più del solito «all’orazione con
lacrime, alla lettura e alla compunzione del cuore»
(RB
48, 4). Al monaco che prega solo nell’oratorio, fuori dagli Uffici in comune, si
suggerisce di farlo «senza rumore, non a voce alta, ma con lacrime e cuore
attento»
(RB
52, 4). Queste lacrime sembrano dunque totalmente silenziose, effetto appena
percepibile della dolcezza di Dio, che quasi non si traduce all’esterno, ma che
non cessa di impregnare il cuore nel suo raccoglimento interiore.
Infine, nella trilogia degli strumenti più espressamente consacrati all’Opera di
Dio, al capitolo 4 della sua
Regola,
san Benedetto sembra legare intimamente tre strumenti che si susseguono:
«Ascoltare volentieri le sante letture; prosternarsi frequentemente per pregare;
confessare ogni giorno a Dio nella preghiera, con lacrime e gemiti, le proprie
colpe passate»
(RB
4,
55-57).
Questa trilogia comporta, in effetti, le tre tappe fonda- mentali della
preghiera interiore secondo san Benedetto:
lectio, oratio, compunctio.
Per chi è all’ascolto della Parola di Dio, qualcosa avviene nel suo cuore che si
trova ferito, insieme dall’amore di Dio e dal ricordo dei propri peccati. Ma non
si tratta di qualcosa di sterile. Al contrario: colui che incontra Dio
veramente, ha già ricevuto il perdono dei peccati. Il sentimento d’amore
prodotto nel cuore dalla Parola è quello dell’amore misericordioso che perdona
incessantemente e ripristina, rendendolo ancor più meraviglioso, ciò che il
peccato ha alterato. I primi riflessi di una colpevolezza ancora naturale,
qualora ne restassero, sono così come sommersi e guariti in modo durevole. Le
lacrime scorrono, ma lacrime di gioia e di azione di grazie. Esse attestano un
inizio di quell’umiltà e purezza interiore che san Benedetto raccomanda a chi si
prepara all’Opera di Dio: «in tutta umiltà e devozione nata dalla purezza»
(RB
19, 2). Non c’è da sorprendersi allora se il vertice dell’esperienza spirituale,
al dodicesimo grado dell’umiltà, sarà nello stesso tempo il vertice della
preghiera. San Benedetto li riassume entrambi associandoli nell’atteggiamento e
nella preghiera
del pubblicano. È lui che san Benedetto desidera riconoscere nel monaco dal
cuore ferito, che ripete incessantemente, con gli occhi fissi a terra: «Signore,
io non sono degno, peccatore come sono, di alzare gli occhi al cielo»
(RB
7, 65).
b. Un cuore dilatato
Lungo tutto il percorso della vita monastica, il monaco impara a poco a poco
qualcosa di insospettato per lungo tempo. O piuttosto - non si tratta infatti
del frutto dei suoi sforzi - gli viene insegnato qualcosa che finisce per
imporsi dolcemente a lui dall’interno, per gradi e quasi a sua insaputa. Si
tratta di una percezione sempre più chiara della vita di Dio e del suo Spirito
in lui. Basterà citare qui la meravigliosa conclusione del capitolo 7 della
Regola,
a cui conduce la scala dell’umiltà: «Quando dunque il monaco ha superato tutti
questi gradi di umiltà, arriverà a quell’amore di Dio che è perfetto e che
scaccia la paura. Grazie a questo amore, tutto quello che osservava prima non
senza timore, comince- rà a realizzarlo senza sforzo alcuno, come naturalmente,
per abitudine, non più per timore dell’inferno, ma per amore di Cristo e per
l’abitudine stessa del bene e per la gioia data dalle virtù»
{RB
7, 67-69). Ormai qualsiasi costrizione esterna è scomparsa e se, per altri
motivi, sussiste ancora, ha perduto il suo aspetto oneroso e viene ormai sentita
come superflua. Il monaco infatti si trova in pieno accordo con l’amore e la
preghiera che fluiscono in lui come acqua sorgiva. La dolcezza dell’amore lo
guida ora infallibilmente, fino a fargli dimenticare lo sforzo che sarebbe
ancora richiesto.
Uno stesso accento di straordinaria libertà spirituale appariva già alla fine
del Prologo della
Regola,
quando san Benedetto promette al suo discepolo che la via stretta e incassata
degli inizi lascerà ben presto il posto a una via più larga dove gli sarà
concesso di correre nella dolcezza dell’amore: «Non lasciarti subito turbare dal
timore e non fuggire lontano dalla via della salvezza, che inevitabilmente è
stretta agli inizi. Ma avanzando nella vita monastica e nella fede, il cuore si
dilata e si corre sulle vie dei comandamenti di Dio con una dolcezza d’amore
inesprimibile»
(RB
Prologo, 48-49).
Il cuore che si dilata: ecco un’altra immagine forte per esprimere plasticamente
la nuova sensibilità spirituale che il monaco finisce per ricevere nella
preghiera, immagine derivata dal salmo 118, 32. Questa nuova sensibilità è
innanzitutto, dice san Benedetto, «dolcezza inesprimibile», la dolcezza
dell’amore. E ormai questa dolcezza che fa correre il monaco verso la preghiera,
molto più che orari stabiliti una volta per tutte. È ancora questa dolcezza che
consente a ciascuno di percepire la misura esatta della propria preghiera e del
proprio desiderio. Non soltanto essa nutre il fervore con cui il monaco,
dovunque egli sia, accorre alla celebrazione comune dell’Ufficio, non soltanto
lo aiuterà ad anteporre a ogni altra cosa il tempo necessario per la preghiera
in privato, ma finirà per fare di tutta la sua vita una preghiera ininterrotta.
Immensa macchia d’olio che finisce per espandersi dappertutto e impregnare ogni
cosa.
[1]
Ecco qualche esempio: «Per il tempo che resta dopo l’Ufficio di notte,
lo impiegano a imparare i salmi e le lezioni di cui avranno bisogno»
(Dom Calmet, Paris 1847, riedizione). «Che i fratelli a cui manca
qualcosa del salterio o delle lezioni, impieghino questo tempo nello
studio (Benedettini di Farnborough, Paris 1914). «Il tempo che resta
dopo le vigilie, i fratelli lo impiegheranno, secondo la necessità,
nello studio del salterio o nelle lezioni» (A. Savaton, Lille 1950).
«Ciò che poi rimane dopo le vigilie venga impiegato dai monaci che hanno
bisogno di imparare il salterio oppure le lezioni appunto in tale
lettura» (G. Penco, Firenze 1958). «Sarà impiegato nello studio dai
fratelli che hanno bisogno di imparare qualcosa del salterio o delle
lezioni» (A. Dumas, Paris 1961). «Quello che rimane del tempo... sarà
impiegato nello studio del salterio o delle lezioni da quei fratelli che
ne hanno bisogno» (E. de Solms, Paris 1965). «Per quanto riguarda ciò
che rimane dopo le vigilie, i fratelli che hanno bisogno di imparare
qualcosa del salterio o delle lezioni, lo impiegheranno in tale studio»
(A. de Vogüé, Paris 1972).
[2]
Secretius orare,
dice san Benedetto. Ora, in Tertulliano,
De oratione 1, e in Cipriano,
De dominica oratione 4, l’espressione
secreti orare designa propriamente la preghiera privata in
opposizione a quella che viene celebrata in comune.
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21maggio 2024 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net