Regola di S. Benedetto

 

XLIII - La puntualità nell'Ufficio divino e in refettorio: All'ora dell'Ufficio divino, appena si sente il segnale, lasciato tutto quello che si ha tra le mani, si accorra con la massima sollecitudine, ma nello stesso tempo con gravità, per non dare adito alla leggerezza.  In altre parole non si anteponga nulla all'Opera di Dio".

L - I monaci che lavorano lontano o sono in viaggio: I fratelli, che lavorano molto lontano e non possono essere presenti in coro nell'ora fissata per l'Opera di Dio, se l'impossibilità in cui si trovano è stata effettivamente accettata dall'abate, recitino pure l'Opera di Dio sul posto di lavoro, mettendosi in ginocchio per la reverenza dovuta a Dio.

LVIII - Norme per l'accettazione dei fratelli:
Quando si presenta un aspirante alla vita monastica, non bisogna accettarlo con troppa facilità, ma, come dice l'Apostolo: "Provate gli spiriti per vedere se vengono da Dio"..... In primo luogo bisogna accertarsi se il novizio cerca veramente Dio, se ama l'Opera di Dio, l'obbedienza e persino le inevitabili contrarietà della vita comune.

LXVII - I monaci mandati in viaggio:
I monaci, che sono mandati in viaggio, si raccomandino alle preghiere di tutti i confratelli e dell'abate;  e nell'orazione conclusiva dell'Opera di Dio si ricordino sempre tutti gli assenti.

 


 

 

L’OPUS DEI

Di André Louf

Estratto da “L’Opus Dei, un cammino di preghiera”, Abbazia di San Benedetto- Seregno 2002

 


CAPITOLO TERZO

LA REGOLA DI SAN BENEDETTO

 

Accostandoci ora alla Regola di san Benedetto, è opportuno non dimenticare il giudizio che egli stesso — o forse qualche discepolo subito dopo di lui — ha dato sulla sua opera. Ai suoi occhi, essa offre solo una «piccolissima Regola — minima —, un minimo di Regola» che può addirsi solo agli inizi dell’esperienza monastica (RB 73, 8). San Benedetto rinvia dunque tutti coloro che ambiscono a raggiungere le «vette della perfezione» a quei monumenti letterari altrimenti rispettabili ai suoi occhi che sono, dopo la parola di Dio e gli scritti dei «santi Padri cattolici», alcuni testimoni antichi della tradizione monastica a cui san Benedetto si riferisce in modo particolare. Declinando l’identità di questi autori, il santo ci rivela nello stesso tempo le sue fonti. Sono, dice, «le Conferenze dei Padri e le loro Istituzioni, le Vite dei Padri e la Regola del nostro Padre san Basilio».

Le «Conferenze dei Padri e le loro Istituzioni» designano l’opera famosissima di san Giovanni Cassiano, un best-seller del suo tempo, che abbiamo ampiamente frequentato nel capitolo precedente. Le Vitae Patrum rappresentano la versione latina, fra le altre, della Vita di alcuni Padri del Deserto, tra cui sant’Antonio, e degli Apoftegmi. Quanto alla «Regola del nostro Padre san Basilio», essa gli è probabilmente nota attraverso la traduzione latina di Rufino. Di Cassiano e degli Apoftegmi, san Benedetto e i suoi monaci dovevano essere profondamente impregnati poiché la Regola ne consigliava la lettura pubblica tutti i giorni prima dell’Ufficio di compieta (RB 42). Non c’è dubbio che bisognerà rileggere certi testi della Regola, che ci sono d’altronde già così familiari, proprio a partire da quella Tradizione.

 

1. Non preferire nulla

all’Opera di Dio (RB 43, 3)

Questa piccola frase è famosa. San Benedetto se l’è lasciata però uscire dalla penna quasi incidentalmente e senza troppo prestarvi attenzione, non immaginando forse a che punto avrebbe avuto successo. Gli è capitato di annotarla mentre descriveva uno di quei momenti apparentemente anodini, ma a cui egli dà una certa importanza: quello in cui suona la campana o qualche altro segnale, per annunciare il tempo della preghiera in comune. In effetti, notiamo innanzitutto che san Benedetto utilizza il termine Opus Dei solo per designare la celebrazione comune, e quindi liturgica, della preghiera. Padre Hausherr ha tempo fa dimostrato che l’abitudine di riservare questo termine, Opera di Dio, alla liturgia celebrata in comune si stabilisce nel momento in cui Pelagio, futuro papa, traduce gli Apoftegmi in latino. San Benedetto, e la tradizione benedettina dopo di lui, consacreranno per sempre l’impiego di questo vocabolario. In origine l’espressione «Opera di Dio» (to ergon tou theou) designava piuttosto l’insieme della vita monastica, contrapposta alla vita secolare, condotta in mezzo al mondo. Questo si riscontra nelle Regole di san Basilio (Grandi Regole 85; 86; 95). Ci si accontentava a volte del solo sostantivo: to ergon, uso che si ritrova nella tradizione monastica di lingua siriaca: pûlhana. A poco a poco, il termine venne a evocare l’Opera di Dio per eccellenza, a cui nulla doveva essere anteposto, che è quella della preghiera in tutte le sue forme. Se san Benedetto la riserva di fatto alla preghiera liturgica, si può pensare che l’espressione mantenesse sotto la sua penna certe connotazioni che essa possedeva anticamente. In una Regola attribuita a san Macario compare la stessa formula, ma con la variante oratio al posto di Opus Dei («Nihil orationi praeponendum est», Regola di Macario 9; 14). Essa dunque non evocava chiaramente alcuna opposizione tra la preghiera liturgica e altre forme di preghiera privata o interiore, ma conservava un’allusione implicita all’insieme del quadro della preghiera monastica, come esso è ancora chiaramente dettagliato, per citare un solo esempio, in una variante della traduzione siriaca dell’Apoftegma Teodoro di Perma 10, segnalato dallo stesso padre Hausherr: «Notte e giorno, con tutte le loro forze, i monaci di Scete facevano l’Opera di Dio, ossia l’Ufficio, l’orazione, la lettura e la meditazione». Come si vede, siamo ancora all’interno dello stesso tipo di celebrazione monastica della preghiera, sia essa pubblica o privata, che conosciamo già grazie a san Giovanni Cassiano. Non c’è nessuna ragione di supporre che san Benedetto pensi ad altro quando evoca l’Opera di Dio. «Non preferire nulla all’opera di Dio». La formula enuncia un valore assoluto, che possiede due altri equivalenti nella Regola: «Non preferire nulla a Cristo» (RB 72, 11), o «all’amore di Cristo» (RB 4, 21); e: «non preferire nulla agli ordini dell’abate» (RB 71, 3). La persona di Cristo, l’obbedienza al suo rappresentante e l’Opera della preghiera, ecco tre preferenze assolute che reggono e ordinano tutta la vita del monaco. Questa preferenza per l’Opera della preghiera si esprimerà d’altronde concretamente. Innanzitutto, l’incarico di dare il segnale dell’Opera di Dio è teoricamente riservato all’abate in persona, allo stesso titolo di quello di proclamare il vangelo, di cantare o recitare la prima colletta all’Ufficio, di accogliere gli ospiti e lavare loro i piedi. Non è possibile alcun dubbio: annunciare l’ora della preghiera in comune riveste un’importanza senza pari agli occhi di san Benedetto, che d’altronde non risparmia nessun particolare per descrivercene il risultato nel comportamento del monaco: «appena (mox) egli avrà sentito la campana, abbandonerà tutto quello che aveva tra mano, e accorrerà in gran fretta (summa cum festinatione)». San Benedetto sembra rendersi conto di forzare un po’ la nota, perché si affretta ad attenuarne l’effetto: «con gravità, tuttavia, per non dare spazio alla dissipazione». Tale sollecitudine per accorrere alla preghiera era già stata consigliata da Giovanni Cassiano, che riferisce il famoso esempio della lettera che il copista, si racconta, non aveva terminato di tracciare in simile occasione (Instituta 4, 12).

Certo, non bisogna riderne. Non si tratta assolutamente di un esercizio di dominio della volontà, ma di un gesto concreto per esprimere l’amore per la preghiera, il cui fascino non cessa di scavare il cuore. Soprattutto, il lettore l’avrà forse già notato, ci ritroviamo qui di nuovo davanti alla famosa Regola d’oro enunciata dall’Apoftegma Antonio 1. Ciò che riveste qui tale importanza non è forse tanto la preghiera, che in ogni modo non era assente dal lavoro o dalla lectio, è piuttosto il fatto di interrompere il lavoro in favore della preghiera, interruzione che crea il ritmo dell’alternanza. Interrompere così il corso delle proprie occupazioni, sette volte tra giorno e notte, e riportarle costantemente all’unico necessario della preghiera, costituisce un obiettivo importante e primordiale. In questo modo, la scansione della vita monastica vorrebbe, per così dire, forzare dolcemente le cose a sfociare in Dio per mezzo della preghiera. Anche il sonno della notte si prenderà in modo tale — il monaco dormirà vestito! — da essere sempre pronti ad alzarsi al primo segnale e accorrere all’oratorio, cercando di superare discretamente i propri fratelli e incoraggiando coloro che si mostrassero negligenti, anche qui con il rischio di mancare alla gravità e di provocare dissipazione (RB 26).

 

2. Liturgia comune e Liturgia privata

a. I due tempi della Liturgia in comune

Come celebravano l’Ufficio i monaci di san Benedetto? È quasi certo che la struttura di quell’Ufficio corrispondeva approssimativamente agli elementi che abbiamo individuato presso i monaci d’Egitto, grazie al minuzioso rapporto di Cassiano. Quella struttura era caratterizzata, si ricorderà, da un’alternanza tra ascolto silenzioso dei salmi e tempi di pausa, consacrati alla preghiera interiore. Non sembra che san Benedetto abbia praticato la salmodia alternata tra due cori che si rispondono, come la conosciamo oggi. I salmi erano sia modulati da un lettore — quello che san Benedetto chiama «imponere psalmum» — o antifonati, ossia i presenti intervenivano intercalando tra i versetti del salmo brevi antifone derivate da esso. Queste antifone svolgevano un ruolo assai importante in funzione della preghiera silenziosa che sarebbe seguita: dovevano, diciamo così, raccogliere e concentrare il sentimento dominante del salmo, e miravano anche a toccare i cuori e ad accendervi la preghiera.

Dopo ogni salmo seguiva un tempo relativamente breve di preghiera silenziosa. Il capitolo 20 della Regola è probabilmente consacrato a quella preghiera — «in conventu», dice san Benedetto, ossia «durante la sinassi» — mentre il capitolo 52, che tratta dell’oratorio, descrive piuttosto la preghiera personale e solitaria, quella che viene praticata al di fuori di qualsiasi contesto liturgico. Quando la preghiera segue al salmo, deve essere breve, ricorda san Benedetto, e tutti si alzeranno al segnale del superiore, rubrica liturgica che ricorda letteralmente le ingiunzioni di san Giovanni Cassiano e di san Pacomio in una simile occasione (Cassiano, Inst. 2, 7; Pacomio, Reg. 6). Si trattava senza dubbio di uno stesso rito liturgico, nel corso del quale preghiera vocale e preghiera silenziosa si succedevano alternativamente.

Quanto all’attenzione che deve essere accordata alla recitazione del salmo, san Benedetto sembra ricordarsi della Regola di sant’Agostino quando essa parla dello spirito che va accordato alla voce (Regola, 7). Ma l’allusione al ricordo di Dio ovunque presente, e soprattutto degli angeli in presenza dei quali il monaco salmeggia, suggerisce l’esistenza, da qualche parte, di un legame e di un passaggio misterioso tra il coro dei monaci e quello degli esseri celesti, tra la liturgia della terra e la liturgia del cielo.

Quanto alla pausa consacrata alla preghiera interiore, san Benedetto ne riassume il clima e le disposizioni in cui il monaco si accosterà a essa con la parola ‘reverentia’, più difficile da tradurre con precisione di quanto sembri a prima vista. Ritroviamo questo termine nel capitolo 52, quando san Benedetto giustificherà l’atmosfera di pace e di silenzio che deve regnare nell’oratorio con la frase tanto densa: «et habeatur reverentia Deo». Questa ‘reverentia’ esprime un sentimento di rispetto e di filiale venerazione, che il monaco prova anche altrove; innanzitutto nella liturgia, quando si menziona la Santa Trinità, per esempio (RB 9; 11); oppure nella vita di tutti i giorni, quando esegue un ordine dell’abate (RB 57; 65). Lo stesso capitolo 20 riassume d’altronde in poche righe tutti i temi che la tradizione prebenedettina ha sviluppato riguardo la preghiera: brevità, soprattutto purezza — menzionata in tre riprese! — e lacrime di compunzione. Ma san Benedetto getta già un ponte verso la liturgia privata che potrà seguire alla liturgia comune, se il monaco lo desidera, ossia qualora un tocco della grazia divina lo spinga a prolungare alquanto questa preghiera che, durante la sinassi celebrata in comune, dovrà necessariamente rimanere breve.

 

b. I due tempi della Liturgia privata

Infatti, esattamente come per Cassiano, i due elementi della celebrazione notturna — salmi e preghiere — potranno prolungarsi una volta che l’Ufficio in comune sarà terminato nell’oratorio. Per quanto concerne innanzitutto la salmodia privata, è in questo senso, sembra, che bisogna tradurre il versetto 3 del capitolo 8 della Regola, in cui san Benedetto descrive l’occupazione del monaco durante l’intervallo che, in inverno, separa la fine delle vigilie dalla celebrazione delle lodi. Diamo prima il testo in latino, perché la nostra argomentazione si svilupperà a partire appunto dall’originale: «Quod vero restat post vigilias a fratribus qui psalterii vel lectionum aliquid indigent, meditationi inserviatur». Con un’unanimità impressionante, i traduttori moderni della Regola vi vedono un momento riservato allo studio della Bibbia, in favore dei monaci che avessero bisogno sia di rinfrescare la propria memoria, sia di perfezionare le proprie conoscenze esegetiche [1]. Se fosse proprio così, sarebbe l’unica volta in cui la Regola prenderebbe un po’ l’andamento di una Ratio studiorum moderna. Soprattutto, sarebbe attribuire al termine meditatio, che è un termine strettamente tecnico del vocabolario monastico primitivo, un significato che non vi assume mai. Fino agli scritti di Cassiano, meditatio, spesso precisata dall’aggettivo spiritualis, designa sempre una lettura privata, interiore e sapida, diciamo una ‘ruminazione’, di un versetto del salterio o di un altro testo della Scrittura. Nel presente brano non può rivestire un significato diverso. 'Psalterium vel lectio designano con tutta la chiarezza richiesta quello che sarà l’unico oggetto di questa meditatio, e l’insieme costituisce semplicemente, come presso i monaci d’Egitto, la continuazione in privato di quello che si è appena terminato nell’oratorio, ossia la recitazione dei salmi seguita da una lettura della Bibbia.

E in questo senso, sembra, che va inteso anche il verbo indigere. Non si tratta tanto di un’esigenza intellettuale o didattica, ma di un bisogno spirituale che spinge interiormente il monaco desideroso di prolungare la salmodia. Nel latino patristico d’altronde, indigentia assume spesso esplicitamente il significato di ‘desiderio’ (e perfino di ‘desiderio carnale’). (Vedi Blaise-Chirat, Dictionnaire du latin chrétien, Turhnout 1954; in sant’Agostino, “indigentia carnalis“ : Serm. Dom. 1, 15, 42). Terminato l’Ufficio della notte, ci sono dei fratelli ancora sospinti dal desiderio di continuare la salmodia. Il confronto con il brano in cui il Maestro, nella sua Regola, descrive le occupazioni dello stesso momento della giornata, basta per confortare la validità di questa interpretazione. A meno che l’abate stesso voglia continuare a fare una lettura ad alta voce per l’insieme dei monaci, precisa il Maestro, ognuno potrà ricevere il permesso «aut legendi aut audiendi aut aliquid meditandi», sia di leggere per conto suo, sia di ascoltare qualche lettura fatta da un altro fratello, sia di ruminare a parte qualche testo sacro. Ed ecco la norma che dovrà seguire nella scelta da operare: «sua sponte quod delectatus fuerit frater», quello che gli avrà spontaneamente fatto piacere, ossia quello verso cui si sentirebbe interiormente attratto da un tocco che viene dallo Spirito Santo. Per il Maestro, si tratta del monaco ormai abbandonato alla spontaneità della sua gioia interiore, e che dovrebbe sentirsi libero di prolungare una salmodia o una lettura che gli avrà toccato il cuore. Sono d’altronde numerosi i testi della tradizione monastica che descrivono la dolcezza delle «veglie private» che fanno seguito alla celebrazione liturgica. Il cistercense Gilberto di Hoyland (XII secolo) descrive così la preghiera silenziosa, solitaria e fervida che occupa le ore notturne e di cui le vigilie in chiesa sono soltanto le primizie (quaedam primitiae): «Non ha bisogno di parole, questa preghiera che è sorretta da un affetto puro. L’amore da solo fa abbastanza rumore alle orecchie del Signore. Non ha bisogno del rumore delle parole. Esse possono risvegliare il principiante, ma sono di inceppo a chi prega perfettamente» (CC 23, 3; PL 184, 120). La stessa spontaneità presiederà a un eventuale prolungamento della preghiera interiore. Durante la sinassi liturgica, lo abbiamo visto, essa è sempre breve, ma potrebbe prolungarsi se qualche tocco della grazia divina facesse nascere il desiderio di continuarla o di ritornarvi, una volta terminato l’Ufficio. Sotto la penna di san Benedetto, questa non è d’altronde una raccomandazione insistente; è appena un suggerimento, formulato per di più con un’infinità di precauzioni. In due riprese, nei capitoli 20 e 52, là dove si tratta di questa eventuale preghiera privata, san Benedetto utilizza l’avverbio forte: se ‘per caso’ un fratello desiderasse per conto proprio e in segreto [2], ebbene! entri allora solo — simpliciter, e non «in tutta semplicità»! — e preghi. L’accento non è tanto sul fatto di pregare più a lungo, ma, in entrambi i casi, sul tocco della grazia e sul desiderio (vult) che essa ha suscitato nel cuore del fratello.

 

3. La preghiera ininterrotta

«Non preferire nulla all’Opera di Dio» diventa «Non preferire nulla alla preghiera» in un altro documento monastico contemporaneo, ossia la Regula Patrum 2, 21. Si può già presumere che, formulando questa massima in favore della celebrazione comune dell’Ufficio, san Benedetto non dimentichi affatto che la sua portata si estende al di là dell’Ufficio e che si applica anche alle altre occupazioni monastiche le quali, a loro volta, saranno animate interiormente da quest’Opera di Dio continuata e continua che è la preghiera ininterrotta.

 

a. Lavoro e preghiera

Il monachesimo egiziano conosceva una certa interpretazione della liturgia, della lectio, della preghiera e del lavoro. Durante le veglie nell’oratorio, come si ricorderà, i monaci si dedicavano a un piccolo lavoro manuale per evitare il sonno. D’altronde, durante la giornata, quegli stessi continuavano a ruminare testi di salmi o della Scrittura durante un lavoro che veniva interrotto, a intervalli regolari, da stazioni o prostrazioni consacrate alla preghiera silenziosa. San Benedetto, invece, sembra aver operato una migliore distinzione tra queste occupazioni diverse, che ricevono ciascuna un luogo appropriato e, nell’orario della giornata, un momento che è consacrato esclusivamente a esse. Come per sant’Agostino, l’oratorio è strettamente riservato alla preghiera, pubblica o privata, e qualunque altra occupazione — implicitamente: ogni lavoro manuale — ne è escluso (RB 52, 1; cfr. Regola di sant’Agostino II, 2).

Si tratta senza dubbio anche qui di un discernimento e di un equilibrio tipicamente benedettini, nel senso che è proprio a san Benedetto. Infatti l’equilibrio tra il tempo consacrato al lavoro e quello disponibile per la preghiera è stato uno dei problemi più aspramente dibattuti tra i monaci durante i primi secoli del monachesimo, un dibattito la cui posta in gioco era sempre la preghiera, che i monaci volevano quanto più ininterrotta possibile. Alcuni monaci erano giunti addirittura a escludere interamente il lavoro manuale, considerandolo come contrario alla vita contemplativa. Venivano chiamati esattamente Euchiti in greco, o Messaliani in siriaco, ossia «oranti», «uomini di preghiera». Finirono addirittura per assumere l’aspetto di una setta, dai contorni a tutt’oggi non ben definiti, della quale alcuni sinodi ecclesiali hanno condannato taluni eccessi nel linguaggio o nelle pratiche; nel 431, ad esempio, il Concilio di Efeso ratificò le decisioni prese nei loro confronti da alcuni sinodi locali. Tracce di questa controversia sono individuabili in diversi apoftegmi. Alcuni di essi, che per altro sembrano del tutto ortodossi, hanno mantenuto un certo sapore messaliano, per esempio nel fatto che trattano il lavoro manuale semplicemente per preterizione. Altri apoftegmi sono esplicitamente antimessaliani, nel senso che si impegnano a spiegare come lavoro manuale e preghiera possano andare di pari passo.

Le risposte a questo problema saranno d’altronde sempre sfumate. Cassiano, pur sostenendo un lavoro manuale che sia di natura tale da rendere più facile il raccoglimento, lo regolerà in modo abbastanza stretto proibendo, per esempio, il lavoro dei campi, che egli ritiene incompatibile con una vita contemplativa seria (Conferenze 24, 3). Quando san Benedetto scrive la sua Regola, nel VI secolo, questa controversia appartiene già un po’ alla storia, prima di riaccendersi nel XII secolo. La sua posizione personale ha potuto avvantaggiarsi della parte di verità contenuta in ognuna delle due tendenze: è dunque elastica e piena di sfumature. Il lavoro manuale rappresenta sicuramente una parte sostanziale dell’orario benedettino, una parte che si estende facilmente fino a sei o sette ore al giorno. San Benedetto si mostra anche più aperto di Cassiano all’eventualità di un lavoro dei campi, che si potrebbe giustificare con la povertà dei luoghi, ma senza che si possa veramente dire che quello è il genere di occupazione da lui auspicato per i monaci. Il lavoro manuale, nella Regola, deve d’altronde sempre cedere il passo all’Ufficio e alla lectio divina, per i quali si riserva espressa- mente un tempo privilegiato in ogni orario, tempo variabile secondo l’epoca dell’anno. Inoltre, come abbiamo già visto, appena suona la campana che annuncia l’ora dell’Opera di Dio, il monaco lascerà cadere tutto quello che ha tra mano per accorrere a quello che, nella mente di san Benedetto, non deve soffrire alcun ritardo. Se si dimostrasse necessario uscire per qualche occorrenza del monastero, o qualora il lavoro venisse svolto a una certa distanza dall’oratorio, non si lasceranno ugualmente passare le Ore che sono di regola per la preghiera. Sul luogo stesso di lavoro, ci si raccoglierà per la salmodia, e anche senza omettere le prostrazioni — «flectentes genua» (RB 50, 3) —, il che fa capire che le pause per la preghiera silenziosa dovevano essere rispettate.

Il lavoro stesso sarà d’altronde disseminato di preghiere. Dom Adalbert de Vogüé ha tempo fa dimostrato che è proprio quello il senso che bisogna dare allo strumento delle buone opere enunciato come: «Orationi frequenter incumbere», «prosternarsi frequentemente per la preghiera». Il verbo incumbere descrive il gesto concreto di stendersi a terra per interrompere brevemente il lavoro, come facevano i monaci nel deserto, alternando lavoro e preghiera. Salutare alternanza che, anche qui, mira a nutrire e a mantenere un costante ricordo di Dio. Come dice l’autore concludendo il suo articolo, «prosternarsi frequentemente per la preghiera» non ha altro scopo se non di far pregare incessantemente («Revue d’Ascétique et de Mystique» 41, 1965, pp. 467-472).

Che questa fedeltà alla preghiera, malgrado il lavoro e nel mezzo del lavoro stesso, non fosse immune da sbavature, san Gregorio ce ne ha conservato un celebre esempio nel delizioso racconto di un monaco svagato, incapace di restare in preghiera con i fratelli nell’oratorio, durante le pause che separano i salmi. Sappiamo che sia Cassiano che Benedetto le volevano brevi. Erano però ancora troppo lunghe per questo fratello che, dice san Gregorio, «non poteva restare per l’orazione: appena i fratelli si prosternavano, concentrati nel pregare Dio, egli usciva e, con la mente assente, si occupava di qualche faccenda terrestre e temporale». Quando san Benedetto, dopo parecchie osservazioni rimaste inefficaci, credette di dover intervenire in modo più rude, scorse un giorno un diavoletto che, ogni volta, tirava il fratello per un lembo della veste per farlo uscire dalla chiesa. La lezione è chiara: preferire occupazioni materiali, sia pur ispirate dalla dedizione, a quello che san Benedetto chiama, secondo la penna di Gregorio e nello stesso capitolo, «la fatica dell’orazione» {Dialoghi 2, 4), era dunque un errore bello e buono, riconosciuto come una tentazione.

Anche qui, il ritmo dell’alternanza è importante in sé. Infatti, ogni volta, il monaco di san Benedetto è in tal modo costretto a fare una scelta. Non che il lavoro sia opposto alla preghiera. Ma il lavoro, come qualsiasi altra realtà di questa terra, ha bisogno di essere conquistato al servizio del Regno. Bisogna che sia riscattato per concretizzare tutte le sue virtualità, ivi compresa la densità di lode e di preghiera. Il lavoro comporta inevitabilmente degli obblighi, ma essi devono rivelare un obbligo ancora più fonda- mentale, quello di tenere il cuore fissato su Dio e incessantemente attratto, anche nel bel mezzo del lavoro, dalla sua presenza, memore della sua parola, nutrito dal suo amore.

San Benedetto aiuta così il monaco a «redimere il lavoro», costringendolo a frequenti ritorni a Dio, quali scelte ripetute e perseveranti nel bel mezzo del lavoro. A furia di rinnovare ostinata- mente, e amorosamente, queste piccole scelte, lungo tutta una vita monastica, la preghiera finisce per scaturire dovunque, per superare tutto quello che prima pareva un ostacolo. Diventa la compagna fedele di ogni attività, e anche la sua sorgente profonda. Alla fine, non si saprebbe più dire quale dei due si imponga all’altro: se il lavoro impone il suo ritmo alla preghiera, o se la preghiera diviene l’obbligo principale, e totalmente interiore, del lavoro. Il monaco sa solo che, anche assorbito fino a un certo punto dal suo compito, non cessa di dare, in ogni istante, tutto il suo cuore e la sua preferenza all’Opera di Dio. Non più soltanto quella a cui egli accorre sempre più gioioso fin dal primo suono della campana, ma anche quella che porta in cuore e che lo Spirito Santo non cessa di celebrare segretamente in lui.

b. Preghiere ‘giaculatorie’

Il legame tra la liturgia pubblica e la liturgia interiore del cuore può verificarsi anche attraverso numerosi versetti della Scrittura, e particolarmente del salterio, che san Benedetto mette sulle labbra del suo monaco, sotto forma di preghiere giaculatorie, adattate a certe circostanze particolari della vita comunitaria o alla propria esperienza interiore. Parole ascoltate durante la celebrazione liturgica si trovano così continuamente investite dall’interno a partire dall’esperienza personale, per divenire alimento della preghiera.

La constatazione si impone fin dal capitolo 7, in cui quasi ogni gradino sulla scala dell’umiltà è insieme illustrato e commentato da un versetto della Scrittura. Sono il profeta o il salmista, e anche Gesù in persona, che parlano per bocca del monaco umile, «come ha detto Gesù nel salmo» (RB 7, 3-4; 14-17; 23; 29; 32; 47-48); oppure è lo stesso monaco che deriva le sue formule di preghiera dall’autore ispirato, «dicendo con il profeta» {RB 7, 18; 20; 38-39; 41; 43; 50; 52; 53-54; 65-66). Il fenomeno sembra raggiungere il punto culminante in cima alla scala, dove la preghiera del pubblicano del vangelo diventa la materia e come il substrato di una preghiera che ormai non si interrompe più nel cuore del monaco: «Ripetendo senza tregua dentro di sé, nel suo cuore, quello che diceva il famoso pubblicano del vangelo: “Signore, io non sono degno, peccatore quale sono, di alzare gli occhi al cielo”» (RB 7, 65).

Ma ci sono numerosi altri casi in cui san Benedetto ha selezionato un versetto di salmo a scopo di sottolineare un avvenimento di comunità, trasformandolo in preghiera; si direbbe: per farne l’esegesi concreta. Così il versetto «Signore, apri le mie labbra e la mia bocca proclamerà la tua lode» (Sai 50, 17) è stato scelto per l’apertura dell’Ufficio alle vigilie (RB 9, 1), come pure per la benedizione del lettore di tavola (RB 38, 3). Un versetto particolarmente pregnante, il Suscipe, «Accoglimi secondo la tua parola, e vivrò: non deludere la mia attesa» (Sai 118, 116), è chiamato a esprimere l’atteggiamento spirituale di base del monaco, nel momento in cui egli si impegna definitivamente: offerta, disponibilità, attesa fiduciosa. Un versetto di azione di grazie: «Benedetto sei tu, Signore mio Dio, perché mi hai aiutato e consolato», parzialmente derivato dal salmo 85, 17 e lievemente modificato, esprime la riconoscenza del monaco arrivato alla fine del suo servizio di settimana. Il ministero monastico per eccellenza, l'accoglienza degli ospiti, è sottolineato da un versetto del salmo 47 : «O Dio, abbiamo ricevuto il tuo amore in mezzo al tuo tempio» (Sal 47, 10; RB 43, 15). Reminiscenze della salmodia invadono così tutta la giornata monastica.

Bisogna anche menzionare la ripetizione, sette volte al giorno, del «Deus in adiutorium meum intende», «Dio, vieni in mio aiuto», di cui Cassia- no aveva fatto un elogio così brillante che doveva essere presente alla mente di ogni monaco dell’epoca (Conferenze 10, 10). Si ricorderà che Cassiano consigliava la ripetizione frequente e amorosa di questo versetto di salmo come «la» formula e il metodo per eccellenza che avrebbe condotto ben presto il monaco alla preghiera ininterrotta raccomandata dal Nuovo Testamento. Che san Benedetto abbia scelto precisamente quel versetto non è senza ragione. Questo uso rappresenta d’altronde un’autentica innovazione, non attestata prima di lui, che la Chiesa di Roma adotterà a sua volta, alcuni anni più tardi. Con la scelta di questo versetto, san Benedetto ha voluto indicare, in un modo che non potrebbe essere più chiaro, che il ritmo settenario degli Uffici liturgici del giorno era totalmente ordinato alla preghiera continua. Ecco che non è più la preghiera liturgica a dilagare, per così dire, sulla preghiera privata, ma la stessa preghiera privata a imprimere il carattere sulla preghiera liturgica e, attraverso le sue formule, a impregnarla del suo spirito.

Altrettanto si può certo dire della piccola formula greca Kyrie eleison, a cui san Benedetto riduce la preghiera di intercessione alla fine delle Ore minori, quando, per designare questa stessa preghiera a vigilie, lodi e vesperi, si serve del termine Litaniae. Ora, la formula Kyrie eleison è una delle tre formule di preghiere monologistoi — preghiere brevi o preghiere che comportavano una sola parola — che gli Apoftegmi raccomandano ai solitari. Ecco ancora un caso in cui alcune formule di preghiera penetrano nella liturgia a partire dall’orazione silenziosa individuale, e vi acquistano diritto di cittadinanza. Vale la pena di citare le altre due formule classiche della preghiera monologistos. La prima è Voitison, «Aiutami». La ritroviamo nel Deus in adiutorium di Cassiano, ripreso da san Benedetto. L’altra veniva chiamata eucharistó, «rendo grazie», o Deo gratias. Ora, questa formula, frequente nella liturgia, appare anche nella Regola come l’orazione giaculatoria raccomandata al portinaio (RB 66, 3), appena un ospite o pellegrino avrà bussato alla porta. L’azione di grazia per la Parola di Dio ascoltata in comune si congiunge così all’azione di grazia per il forestiero che si presenta al monastero.

Questi pochi sondaggi permettono dunque di affermare un’evidente continuità tra preghiera liturgica e orazione silenziosa. Alcune formule di preghiera che avranno toccato il cuore nella cella sono riutilizzate volentieri nella sinassi. E viceversa: alcune parole derivate dalla celebrazione liturgica servono a ingemmare di preghiera tutta la giornata del monaco. Senza che egli se ne renda conto, queste parole approfondiscono nel più intimo del suo cuore lo spazio in cui la preghiera potrà sgorgare sempre più liberamente. Fino al giorno in cui, secondo la bella formula di san Giovanni Cassiano, «omnis eius conversatio, omnis volutatio cordis una et iugis efficiatur oratio», «tutta la sua vita, tutto il suo comportamento e tutto il movimento (letteralmente: il rivolgimento, l’oscillazione) del suo cuore saranno divenuti una sola e unica preghiera ininterrotta» (Conferenze 10, 7).

 

c. Una Parola divenuta preghiera

Nel cuore di questa doppia liturgia, pubblica e privata, c’è la Parola di Dio. È al centro dell’una; resta la fonte dell’altra, fonte segreta che sgorga senza interruzioni. Gli Uffici in comune esistono solo per aiutare ciascuno a prendere slancio. Una prima Parola di Dio viene proclamata e ascoltata durante le letture. Un’altra Parola, il canto dei salmi, fa eco e le risponde. Seguono pause di silenzio e raccoglimento, durante le quali la Parola ricevuta può risuonare a lungo nel più profondo dell’essere, impregnare il cuore del suo sapore. Questo momento è quanto mai favorevole allo sbocciare della preghiera, in cui è altrettanto importante ascoltare la parola proclamata quanto raccogliersi intorno alla sua eco che continua a risuonare sotto le volte del nostro cuore, e finisce per attraversarci da cima a fondo.

San Benedetto nota con che gioia il monaco accoglie la Parola di Dio — «Ascoltare volentieri le sante letture» (KB 4,55) —, e anche in che modo si concentra interiormente sulla lettura — «attento (letteralmente: ‘teso verso’) alla lettura» (RB 48, 18). La Parola si fa strada in lui. Essa non è solo la spada capace di ferirgli il cuore, ma anche la chiave che riesce ad aprirlo. Da un cuore che avrà vibrato al ritmo della Parola, sgorgheranno spontaneamente i sentimenti di lode, d’amore e di azione di grazie. Il monaco è così un innamorato della Parola. Essa è per lui nutrimento, viatico, sostentamento. Dato che essa viene da Dio, è altresì legata con le profondità di ogni uomo. Cela in sé il segreto di ogni essere davanti al suo Creatore.

L’uomo di preghiera tratta la Parola con venerazione e tenerezza. Quando la pronuncia di nuovo o la canta come frutto della sua intimità con Dio, essa diviene per lui una forma di contemplazione. In tutte le tradizioni ecclesiastiche, il canto liturgico ci ha conservato una sorta di esempio assai raro e purissimo di una lectio o di una meditatio che è già divenuta preghiera e contemplazione. Nella Chiesa latina, dove la maggior parte dei testi liturgici è ancora oggi derivata dalla Bibbia — il che costituisce insieme una povertà e una ricchezza —, il canto gregoriano ce ne ha trasmesso un esempio a giusto titolo celebre: canto contemplativo per eccellenza, in cui il vigore e la densità delle parole sono mirabilmente valorizzati dalla tecnica, insieme così spoglia e così ricca, del canto modale tradizionale. I suoi testi furono per molto tempo pregati e assaporati nello Spirito Santo, prima di essere affidati a una melodia la cui potenza fascinatrice consente di presentire l’altro mondo da cui sembra uscita. Nient’altro potrebbe tradurre meglio in forme legate alla sensibilità umana quanto quello che potrebbe essere una ruminazione spirituale della Parola di Dio. Nello stesso modo, ogni musica sacra — ivi compresa quella che ricostruiamo, con esiti più o meno felici, oggi — dovrebbe essere un’incomparabile tecnica di preghiera e di contemplazione, perché ne sarà stata in primo luogo il frutto: «Sola quae cantat audit», dirà un giorno san Bernardo {Sermoni sul Cantico dei Cantici, 1), «L’anima sente veramente solo quello che canta». Ma si potrebbe altrettanto capovolgere l’adagio: non sa cantare convenientemente se non quello che ha realmente sentito.

Il canto liturgico, per quanto sia bello e coinvolgente, è però solo una traccia assai fugace della preghiera interiore, un’eco di quello che fu un giorno, e di quello che può sempre ridiventare, l’incendio nello Spirito di un cuore che è stato risvegliato dalla Parola. Il canto deve sempre ricondurre alla preghiera, ma la preghiera non dovrà più arrestarsi, anche quando i canti della liturgia avranno cessato di risuonare. Lungo tutta la giornata, il monaco porta nel suo cuore l’eco di una Parola, e molte volte ritornerà a questa stessa Parola, durante una lettura in privato della Bibbia per esempio, per risentirne di nuovo il calore e per rianimare la fiamma del suo cuore. E non è certamente escluso che il ricordo di certe melodie, felicemente adattate alle parole che esse sostenevano, siano di potente aiuto.

Il ritmo esteriore, iscritto negli orari della giornata monastica: preghiera, lectio, lavoro, diventa così a poco a poco il ritmo interiore di ogni monaco; e la celebrazione che egli compie con i suoi fratelli in chiesa si ripercuote instancabilmente sulle volte del suo cuore, in questo tempio interiore dove egli non cessa di ufficiare davanti al Signore. Questa armonia e questa fecondità reciproche della cornice esterna quasi sacramentale e della realtà contemplativa interiore costituiscono — oserei dire — «il» segreto per eccellenza della tradizione monastica in materia di preghiera. La preghiera esige normalmente spazi, tempi, segni, forme, in cui non solo deve potersi esprimere, ma grazie a cui si approfondirà e si interiorizzerà sempre più, senza che tuttavia si debba né si possa tagliare in alcun momento il legame vivificante che lo unisce a questi segni sensibili.

 

4. La preghiera del cuore

La preghiera infatti è innanzitutto interiore. Essa trova la sua sorgente nel cuore, che solo è in grado di registrare i tocchi della grazia, perfettamente identificati da san Benedetto come affectus divinae inspirationis gratiae (RB 20), ed è ancora là che deve sbocciare in pienezza. Nessuno avrebbe potuto dircelo in modo più convincente di san Benedetto stesso che, nel tempo in cui viveva da eremita nella grotta di Subiaco, giunse a estraniarsi così completamente dalle forme esteriori della liturgia da dimenticare del tutto il calendario, e non si rese nemmeno conto che il giorno in cui fu scoperto da un prete dei dintorni era il giorno stesso di Pasqua. Senza saperlo, san Benedetto realizzava alla lettera quello che, un secolo e mezzo prima Evagrio, uno dei Maestri di una tradizione monastica assai contemplativa, aveva sostenuto scrivendo che «non esistono presso i monaci feste per riempirsi il ventre. La Pasqua del Signore è il passaggio dal male al bene» (Ad Monachos, 39 B e 40).

San Benedetto domanderà così al monaco di pregare in intentione cordis (RB 52, 4). Questa espressione, che abbiamo già incontrato in san Giovanni Cassiano, non traduce soltanto l’applicazione di un cuore attento: insinua anche una certa qualità dello sguardo interiore. Parafrasando appena, potremmo tradurla con «l’occhio del cuore aperto verso l’interiore». Nella sua Vita di san Benedetto, san Gregorio dice di lui che «abitava con se stesso», e interpreta questa espressione così: «Dico dunque che il santo uomo abitava con se stesso, perché, sempre attento alla propria difesa, sorvegliandosi ed esaminandosi senza tregua davanti agli occhi del suo Creatore, si astenne dal prostituire verso l’esterno l’occhio del suo spirito» (Vita di san Benedetto, 3), dato che qualsiasi attenzione prestata a cose futili veniva sentita dall’uomo di preghiera come un’infedeltà all’amore.

Un po’ prima nello stesso capitolo, Gregorio aveva scritto che Benedetto «solo, sotto lo sguardo del testimone supremo, abitava con se stesso». Avere l’occhio del cuore aperto verso l’interiore significa anche incontrarvi un altro sguardo, quello di Dio che osserva incessantemente l’uomo, sguardo di cui il monaco deve ricordarsi per proteggersi da ogni male, al primo gradino dell’umiltà, ma che incontrerà di nuovo nel cuore della preghiera liturgica nella quale amerà tenersi «in presenza della divinità e dei suoi angeli» (RB 19). La menzione della corte celeste — Dio e i suoi angeli — non deve stupirci. Essa rivela la profonda penetrazione dello sguardo interiore del cuore. Il cuore ha delle prospettive sul cielo, senza che san Benedetto precisi se è il monaco che si sente trasportato in un al di là che normalmente sfugge alla sua percezione o, al contrario, se è la profondità del suo cuore che si apre per lasciare intravedere qualche riflesso del cielo, alla sorgente abitualmente nascosta del suo essere.

 

a. Un cuore ferito

Un’altra immagine di cui san Benedetto si serve, quando parla del ruolo del cuore nella preghiera, è quella della compunctio, della «compunzione» o del «cuore ferito». Il senso originario del termine latino compungere è «pungere in più punti, ferire, irritare» (in greco katanussein). L’antica letteratura cristiana si serve frequentemente di questo verbo per descrivere un’esperienza ben precisa di Dio e della sua grazia. Il cuore dell’uomo è sempre il complemento oggetto di questa compunzione o di questa ferita. L’immagine esprime il fremito interiore provocato da una presenza di Dio percepita in modo più intenso, da cui nascono sentimenti congiunti di pentimento e di amore. Essi si traducono spesso in lacrime — di gioia come di tristezza — che sgorgano spontaneamente da un cuore che è così punto. La compunzione non ha assoluta- mente niente in comune con il senso di colpa, sterile e paralizzante, le cui radici affondano nella psicologia di ognuno di noi. Occorre anzi distinguerlo da esso con molta accuratezza. Essa è al contrario il segno più certo che lo Spirito Santo è intervenuto toccando il cuore dall’interno.

Per san Benedetto, in effetti, le lacrime vanno spesso di pari passo con lo sguardo interiore del cuore e il raccoglimento. Nel capitolo sulla preghiera, fa notare che «non è attraverso l’abbondanza delle parole ma la purezza del cuore e le lacrime della compunzione che saremo esauditi» (RB 20, 3). Durante la quaresima, il tempo dell’anno in cui «si conserva la propria vita in tutta purezza» (RB 48, 2), si raccomanda al monaco di applicarsi più del solito «all’orazione con lacrime, alla lettura e alla compunzione del cuore» (RB 48, 4). Al monaco che prega solo nell’oratorio, fuori dagli Uffici in comune, si suggerisce di farlo «senza rumore, non a voce alta, ma con lacrime e cuore attento» (RB 52, 4). Queste lacrime sembrano dunque totalmente silenziose, effetto appena percepibile della dolcezza di Dio, che quasi non si traduce all’esterno, ma che non cessa di impregnare il cuore nel suo raccoglimento interiore.

Infine, nella trilogia degli strumenti più espressamente consacrati all’Opera di Dio, al capitolo 4 della sua Regola, san Benedetto sembra legare intimamente tre strumenti che si susseguono: «Ascoltare volentieri le sante letture; prosternarsi frequentemente per pregare; confessare ogni giorno a Dio nella preghiera, con lacrime e gemiti, le proprie colpe passate» (RB 4, 55-57). Questa trilogia comporta, in effetti, le tre tappe fonda- mentali della preghiera interiore secondo san Benedetto: lectio, oratio, compunctio. Per chi è all’ascolto della Parola di Dio, qualcosa avviene nel suo cuore che si trova ferito, insieme dall’amore di Dio e dal ricordo dei propri peccati. Ma non si tratta di qualcosa di sterile. Al contrario: colui che incontra Dio veramente, ha già ricevuto il perdono dei peccati. Il sentimento d’amore prodotto nel cuore dalla Parola è quello dell’amore misericordioso che perdona incessantemente e ripristina, rendendolo ancor più meraviglioso, ciò che il peccato ha alterato. I primi riflessi di una colpevolezza ancora naturale, qualora ne restassero, sono così come sommersi e guariti in modo durevole. Le lacrime scorrono, ma lacrime di gioia e di azione di grazie. Esse attestano un inizio di quell’umiltà e purezza interiore che san Benedetto raccomanda a chi si prepara all’Opera di Dio: «in tutta umiltà e devozione nata dalla purezza» (RB 19, 2). Non c’è da sorprendersi allora se il vertice dell’esperienza spirituale, al dodicesimo grado dell’umiltà, sarà nello stesso tempo il vertice della preghiera. San Benedetto li riassume entrambi associandoli nell’atteggiamento e nella preghiera

del pubblicano. È lui che san Benedetto desidera riconoscere nel monaco dal cuore ferito, che ripete incessantemente, con gli occhi fissi a terra: «Signore, io non sono degno, peccatore come sono, di alzare gli occhi al cielo» (RB 7, 65).

 

b. Un cuore dilatato

Lungo tutto il percorso della vita monastica, il monaco impara a poco a poco qualcosa di insospettato per lungo tempo. O piuttosto - non si tratta infatti del frutto dei suoi sforzi - gli viene insegnato qualcosa che finisce per imporsi dolcemente a lui dall’interno, per gradi e quasi a sua insaputa. Si tratta di una percezione sempre più chiara della vita di Dio e del suo Spirito in lui. Basterà citare qui la meravigliosa conclusione del capitolo 7 della Regola, a cui conduce la scala dell’umiltà: «Quando dunque il monaco ha superato tutti questi gradi di umiltà, arriverà a quell’amore di Dio che è perfetto e che scaccia la paura. Grazie a questo amore, tutto quello che osservava prima non senza timore, comince- rà a realizzarlo senza sforzo alcuno, come naturalmente, per abitudine, non più per timore dell’inferno, ma per amore di Cristo e per l’abitudine stessa del bene e per la gioia data dalle virtù» {RB 7, 67-69). Ormai qualsiasi costrizione esterna è scomparsa e se, per altri motivi, sussiste ancora, ha perduto il suo aspetto oneroso e viene ormai sentita come superflua. Il monaco infatti si trova in pieno accordo con l’amore e la preghiera che fluiscono in lui come acqua sorgiva. La dolcezza dell’amore lo guida ora infallibilmente, fino a fargli dimenticare lo sforzo che sarebbe ancora richiesto.

Uno stesso accento di straordinaria libertà spirituale appariva già alla fine del Prologo della Regola, quando san Benedetto promette al suo discepolo che la via stretta e incassata degli inizi lascerà ben presto il posto a una via più larga dove gli sarà concesso di correre nella dolcezza dell’amore: «Non lasciarti subito turbare dal timore e non fuggire lontano dalla via della salvezza, che inevitabilmente è stretta agli inizi. Ma avanzando nella vita monastica e nella fede, il cuore si dilata e si corre sulle vie dei comandamenti di Dio con una dolcezza d’amore inesprimibile» (RB Prologo, 48-49).

Il cuore che si dilata: ecco un’altra immagine forte per esprimere plasticamente la nuova sensibilità spirituale che il monaco finisce per ricevere nella preghiera, immagine derivata dal salmo 118, 32. Questa nuova sensibilità è innanzitutto, dice san Benedetto, «dolcezza inesprimibile», la dolcezza dell’amore. E ormai questa dolcezza che fa correre il monaco verso la preghiera, molto più che orari stabiliti una volta per tutte. È ancora questa dolcezza che consente a ciascuno di percepire la misura esatta della propria preghiera e del proprio desiderio. Non soltanto essa nutre il fervore con cui il monaco, dovunque egli sia, accorre alla celebrazione comune dell’Ufficio, non soltanto lo aiuterà ad anteporre a ogni altra cosa il tempo necessario per la preghiera in privato, ma finirà per fare di tutta la sua vita una preghiera ininterrotta. Immensa macchia d’olio che finisce per espandersi dappertutto e impregnare ogni cosa.

 


[1] Ecco qualche esempio: «Per il tempo che resta dopo l’Ufficio di notte, lo impiegano a imparare i salmi e le lezioni di cui avranno bisogno» (Dom Calmet, Paris 1847, riedizione). «Che i fratelli a cui manca qualcosa del salterio o delle lezioni, impieghino questo tempo nello studio (Benedettini di Farnborough, Paris 1914). «Il tempo che resta dopo le vigilie, i fratelli lo impiegheranno, secondo la necessità, nello studio del salterio o nelle lezioni» (A. Savaton, Lille 1950). «Ciò che poi rimane dopo le vigilie venga impiegato dai monaci che hanno bisogno di imparare il salterio oppure le lezioni appunto in tale lettura» (G. Penco, Firenze 1958). «Sarà impiegato nello studio dai fratelli che hanno bisogno di imparare qualcosa del salterio o delle lezioni» (A. Dumas, Paris 1961). «Quello che rimane del tempo... sarà impiegato nello studio del salterio o delle lezioni da quei fratelli che ne hanno bisogno» (E. de Solms, Paris 1965). «Per quanto riguarda ciò che rimane dopo le vigilie, i fratelli che hanno bisogno di imparare qualcosa del salterio o delle lezioni, lo impiegheranno in tale studio» (A. de Vogüé, Paris 1972).

[2] Secretius orare, dice san Benedetto. Ora, in Tertulliano, De oratione 1, e in Cipriano, De dominica oratione 4, l’espressione secreti orare designa propriamente la preghiera privata in opposizione a quella che viene celebrata in comune.

 


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21maggio 2024          a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net