XLIII - La puntualità nell'Ufficio divino e in
refettorio:
All'ora dell'Ufficio divino, appena si sente il
segnale, lasciato tutto quello che si ha tra le mani, si accorra con la massima
sollecitudine, ma nello stesso tempo con gravità, per non dare adito alla
leggerezza.
In altre parole
non si anteponga nulla all'Opera di Dio".
L - I monaci che lavorano lontano o sono in viaggio:
I fratelli,
che lavorano molto lontano e non possono essere presenti in coro nell'ora
fissata per l'Opera di Dio, se l'impossibilità in cui si trovano è stata
effettivamente accettata dall'abate,
recitino pure l'Opera di Dio sul posto di lavoro,
mettendosi in ginocchio per la reverenza dovuta a Dio.
LVIII - Norme per l'accettazione dei fratelli:
Quando si presenta un
aspirante alla vita monastica, non bisogna accettarlo con troppa facilità, ma,
come dice l'Apostolo: "Provate gli spiriti per vedere se vengono da Dio".....
In primo
luogo bisogna accertarsi se il novizio cerca veramente Dio,
se ama l'Opera di Dio,
l'obbedienza e persino le inevitabili contrarietà della vita comune.
LXVII - I monaci mandati in viaggio:
I monaci, che sono
mandati in viaggio, si raccomandino alle preghiere di tutti i confratelli e
dell'abate; e nell'orazione
conclusiva dell'Opera di Dio si ricordino sempre tutti gli assenti.
La sola vera
opera
Nella regola benedettina
troviamo significativamente che all’amore di Cristo e
all’opus Dei è attribuito uno stesso primato, espresso in
entrambi i casi con l’avverbio
nihil:
«Non anteporre
nulla all’amore di Cristo»[1]
e
«nulla sia anteposto all’opera di Dio».[2]
Questo parallelo, anche e forse soprattutto se non è intenzionale, esprime
qualcosa di profondo sul senso da dare all’espressione
opus Dei:
opus Dei
e amore di Cristo sono la stessa realtà e per questo hanno lo stesso primato.
Questo ci fa già capire
che amore di Cristo qui vuol dire prima di tutto amore di Cristo per me, per noi
e solo dopo mio, nostro amore per Cristo. In questo modo siamo condotti a porci
un interrogativo legato all’espressione stessa
opus Dei: perché chiamare la celebrazione comunitaria della
liturgia delle ore
opus Dei, cioè «opera non dell’uomo ma di
Dio»? Da un punto di vista teologico, la risposta è semplice: perché la liturgia è accoglienza e celebrazione di ciò
che solo Dio opera, solo Dio dona e al quale possiamo corrispondere solo per
dono di Dio.
Il Vangelo di Giovanni
parla sia di opere di Dio al plurale che di opera di Dio al singolare. Al
plurale quando Gesù dice:
Non
credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le
dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere. Credete a
me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere
stesse. In verità, in verità io vi dico: chi crede in me, anch’egli compirà le
opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al
Padre (Gv 14,10-12).
Al singolare nel
passaggio seguente: «Essi dunque gli dissero: “Che dobbiamo fare per compiere le
opere di Dio?” Gesù rispose loro: “Questa è l’opera di Dio [l'opus Dei]: che crediate in colui che egli ha mandato”» (Gv
6,28-29). Ai discepoli che gli chiedono quali siano le opere di Dio, cioè le
opere che gli uomini devono fare
per Dio,
Gesù risponde in modo inaspettato capovolgendo la prospettiva: prima di parlare
di opere degli uomini per Dio, occorre accogliere l’opera di Dio
per l’uomo,
l’opus Dei,
ciò che Dio opera in noi, cioè il dono della fede. E il dono della fede, lo
sappiamo bene, nel senso giovanneo e neotestamentario, non indica solo il
contenuto da credere (cosa credo), ma prima di tutto il dono della relazione con
Dio, il dono della comunione con Dio.[3]
Raggiungiamo così un
dato teologico fondamentale:
l’opus Dei
è ciò che Dio opera in noi, è la grazia, è il dono di Dio, ed esso è comunione,
è alleanza, è riconciliazione. La fede, intesa come adesione a Dio, ci
conferisce un dono, una grazia che è di natura essenzialmente comunitaria. A sua
volta, tale dono, tale grazia si traduce in un’azione di grazie (eucaristia) che
è anch’es- sa essenzialmente comunitaria, sia come forma di preghiera che come
forma di vita.
L’espressione della
regola di san Benedetto
nihil operi Dei
praeponatur non vuole dunque dire «non si anteponga nulla alle
opere che
noi dobbiamo fare per Dio», ma «non si anteponga nulla
all’accoglienza e alla celebrazione di ciò che
Dio fa per noi», cioè all’accoglienza e alla celebrazione
dell’opera di salvezza di Dio in noi, dell’alleanza, della riconciliazione,
della comunione di Dio.
La comprensione di cosa
sia
l’opus Dei in questa prospettiva è radicalmente
trasformata. In essa è ristabilito il primato dell’iniziativa e dell’azione del
Signore. L’accento non è più su come
noi
celebriamo la liturgia delle ore, cioè sulla forma, con tutte le derive
rubriciste o estetizzanti che questo approccio può comportare, ma su quello che
il Signore fa attraverso la liturgia.
In questa prospettiva,
«non anteporre nulla all’accoglienza e alla celebrazione di ciò che Dio fa per
noi» vuol dire prima di tutto lasciarsi continuamente convocare (con-vocare: «chiamare insieme», «riunire insieme») in questa
alleanza per mezzo della parola di Dio, cioè lasciarsi sempre più profondamente
ri-conciliare con il Padre e con i
fratelli. Poi vuol dire rispondere continuamente a questa grazia con il
sacrificio di azione di grazie della celebrazione eucaristica e del suo
prolungamento, la salmodia, la cui natura è essenzialmente comunitaria. Nella
liturgia si celebra la grazia, il dono di Dio, si
rende grazie per la
grazia,
cioè si rende dono per dono e in questo modo diventiamo, in unione con Cristo,
un sacrificio gradito a Dio. Poi vuol dire ancora lasciare esprimere questa
alleanza, questa riconciliazione, questa comunione, lasciare che si manifesti in
una vita che effettivamente diventi
segno di
questa grazia la cui natura è essenzialmente comunitaria: se è questa la grazia
che riceviamo, se effettivamente la accogliamo con cuore aperto e sincero,
allora lo si vedrà nella qualità (e nella fecondità) della nostra vita
comunitaria.
San Benedetto aveva una
chiara consapevolezza di tutto questo. Nella sua regola, infatti, entrambe le
espressioni che abbiamo preso come base, «nulla sia anteposto all’opera di Dio»
(RB, 43,3) e «non anteporre nulla all’amore di
Cristo»
(RB, 4,21; cf.
RB, 72,11 e 5,2), proprio perché mettono al centro della
vita del monaco il carattere essenzialmente comunitario della salvezza, sono
incastonate in un contesto comunitario.
La celebrazione della
liturgia delle ore è per sua natura comunitaria e la regola dispone che tutta la
comunità vi partecipi integralmente e per tutta la sua durata. Solo l’abate può
dispensare il monaco dal parteciparvi per ragioni serie. Ma anche quando i
monaci sono lontani dal monastero devono recitare l’ufficio alle ore fissate, lì
dove si trovano
(RB, 50). Il luogo di visibilità
principale della comunità è la celebrazione comune della liturgia. Ma altre
disposizioni esprimono questa stessa concezione di fondo, per esempio nei
capitoli dedicati alla scomunica dei monaci che hanno commesso delle colpe,
siano esse gravi o leggere
(RB,
23-30; 43-44).
La parola «scomunica» ha
perso oggi lo spessore ecclesiale del suo significato originario. Nella regola
di san Benedetto essa è un’esclusione dalla comunione visibile con uno scopo
medicinale, cioè un mezzo di guarigione, un modo per aiutare il monaco a capire
la vera portata delle colpe che ledono la vita comunitaria, introducono
divisioni, come soprattutto l’orgoglio, il mormorio, la disobbedienza
(RB, 23,1). La scomunica è una pedagogia per aiutare il
fratello recalcitrante a prendere coscienza della gravità delle conseguenze del
suo atteggiamento sulla comunità.[4]
Un isolamento fisico, con la solitudine che esso comporta, aiuta a capire quanto
ancora più grave sia l’isolamento morale nel quale ci si rinchiude separandosi
dai fratelli con atteggiamenti di ripiego su se stessi. Ora, nella regola, la
forma di scomunica più grave riguarda appunto la celebrazione della liturgia.
Essa può andare dalla proibizione di esercitare un ruolo attivo nella preghiera
(intonare salmi, fare le letture)
(RB,
24,2;
44,4-6) all’esclusione pura e semplice dall’oratorio
(RB, 25,1; 44). La nostra preghiera è gradita a Dio solo se
è fatta in unione con Cristo e con il suo corpo che è la Chiesa. Il monaco che
con il suo comportamento ha leso la vita comunitaria deve prendere coscienza
delle conseguenze delle sue azioni attraverso l’esclusione dalla celebrazione
comune della liturgia.
La seconda espressione,
«non anteporre nulla all’amore di Cristo», è a sua volta inserita nel celebre
capitolo 72 della regola che è unanimemente riconosciuto come una delle pagine
più importanti del codice benedettino:
Come
c’è un cattivo zelo, pieno di amarezza, che separa da Dio e porta all’inferno,
così ce n’è uno buono, che allontana dal peccato e conduce a Dio e alla vita
eterna. Ed è proprio questo zelo che i monaci devono esercitare con la più
ardente carità e cioè: si prevengano l’un l’altro nel rendersi onore; sopportino
con grandissima pazienza le loro debolezze fisiche e morali; facciano a gara
nell’obbedirsi scambievolmente; nessuno cerchi il proprio vantaggio, ma
piuttosto ciò che giudica utile per gli altri; si portino a vicenda un casto
amore fraterno; temano Dio con amore; amino il loro abate con sincera e umile
carità; non antepongano assolutamente nulla a Cristo, che ci conduca tutti
insieme alla vita eterna.
Alla luce di tale
contesto appare più chiaramente il senso dell’ingiunzione «non anteporre nulla
all’amore di Cristo»: possiamo dire di stare veramente accogliendo questa
grazia, questa salvezza, questa alleanza, questa riconciliazione; possiamo
veramente dire di non preferire nulla all’amore di Cristo, di non preferire
nulla all’opus
Dei, solo quando realmente ci onoriamo a
vicenda, solo quando realmente portiamo con pazienza le nostre infermità, solo
quando siamo aperti gli uni nei confronti degli altri, non cerchiamo il nostro
interesse, ma quello degli altri, ecc. E il carattere comunitario della salvezza
si traduce in particolare nel «tutti insieme» con il quale questo capitolo si
conclude: i monaci benedettini non cercano una salvezza individuale, ma una
salvezza comunitaria, vogliono giungere tutti insieme,
pariter, alla vita eterna.
Quando ci
si interroga dunque sul carisma o sulla spiritualità del
monachesimo benedettino è in questa preferenza
(nihil preponatur, nihilpraeponere, pariter) che occorre
cercarli: nulla può essere anteposto
all’opera di salvezza del Padre in noi, per mezzo di Cristo nello Spirito Santo,
che è alleanza, riconciliazione, comunione; nulla può essere anteposto
all’accoglienza di questo amore, alla sua celebrazione nella preghiera e in una
vita fraterna che permetta a questa grazia di esprimersi; nulla può essere
anteposto alla comunione, cioè a
questa
comunità di cui faccio parte e alla Chiesa locale nella quale essa è inserita e
alla cui edificazione devo concorrere con tutto il cuore, con tutta l’anima e
con tutte le forze. Infine, nulla può essere anteposto a questo
pariter: occorre avanzare tutti insieme; non c’è vera gioia
se non si giunge al traguardo tutti insieme.
[1]
RB,
4,21:
Nihil amori
Christi praeponere.
Cf.
RB, 72,11:
Christo omnino nihil preponant e
RB,
5,2:
Haec
convenit his qui nihil sibi
a Christo carius aliquid existimant (Questa
(obbedienza) è caratteristica dei monaci che non hanno niente più caro
di Cristo).
[2] RB, 43,3: Nihil operi Dei praeponatur.
[3]
Cf. lGv
1,1-4: «Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito,
quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e
che le nostre mani toccarono del Verbo della vita - la vita infatti si
manifestò, noi l’abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza e vi
annunciamo la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a
noi -, quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi,
perché anche voi siate in comunione con noi. E la nostra comunione è con
il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo,
perché la nostra gioia sia piena».
[4]
Questo spiega perché, per san Benedetto, la condizione
fondamentale perché la pena della scomunica possa essere inflitta è la
capacità di comprenderne la gravità. Cf.
RB,
23,4:
Si vero
neque sic correxerit, si intellegit qualis poena sit, excommunicationi
subiaceat (Ma nel caso che anche questo
provvedimento si dimostri inefficace, sia scomunicato, purché sia in
grado di valutare la portata di una tale punizione); 30,2:
Ideoque, quotiens pueri vel adulescentiores
aetate, aut qui minus intellegere possunt quanta poena sit
excommunicationis (Perciò i bambini e gli
adolescenti e quelli che non sono in grado di comprendere la gravità
della scomunica).
(Le traduzioni dei versetti della Regola nelle note sono state aggiunte dal redattore del sito)
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19 febbraio 2018 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net