Regola di S. Benedetto

 

Capitolo IV - Gli strumenti delle buone opere: ... nell'eventualità di un contrasto con un fratello, stabilire la pace prima del tramonto del sole. E non disperare mai della misericordia di Dio.

 

Capitolo VII - L'umiltà:

Il quinto grado dell'umiltà consiste nel manifestare con un'umile confessione al proprio abate tutti i cattivi pensieri che sorgono nell'animo o le colpe commesse in segreto, secondo l'esortazione della Scrittura, che dice: "Manifesta al Signore la tua via e spera in lui". E anche: "Aprite l'animo vostro al Signore, perché è buono ed eterna è la sua misericordia".

Capitolo XXXVII - I vecchi e i ragazzi: Benché la natura umana sia incline ad avere misericordia per queste due età, dei vecchi, cioè, e dei ragazzi, è bene che vi provveda anche l’autorità della Regola.

Capitolo XXXIV - La distribuzione del necessario: "Si distribuiva a ciascuno proporzionatamente al bisogno", si legge nella Scrittura. Con questo non intendiamo che si debbano fare preferenze - Dio ce ne liberi! - ma che si tenga conto delle eventuali debolezze;

Capitolo LIII - L'accoglienza degli ospiti: Tutti gli ospiti che giungono in monastero siano ricevuti come Cristo, poiché un giorno egli dirà: "Sono stato ospite e mi avete accolto"....
L'abate versi personalmente l'acqua sulle mani degli ospiti per la consueta lavanda; lui stesso, poi, e tutta la comunità lavino i piedi a ciascuno degli ospiti e al termine di questo fraterno servizio dicano il versetto: "Abbiamo ricevuto la tua misericordia, o Dio, nel mezzo del tuo Tempio".


Capitolo LXIV - L'elezione dell'abate: Il nuovo eletto, poi, pensi sempre al carico che si è addossato e a chi dovrà rendere conto del suo governo e sia consapevole che il suo dovere è di aiutare, piuttosto che di comandare. Bisogna quindi che sia esperto nella legge di Dio per possedere la conoscenza e la materia da cui trarre "cose nuove e antiche", intemerato, sobrio, misericordioso e faccia "trionfare la misericordia sulla giustizia", in modo da meritare un giorno lo stesso trattamento per sé.

 

 


 

6. Beati i misericordiosi

Walter Kasper

Estratto da “Misericordia – Concetto fondamentale del Vangelo – Chiave della vita cristiana

Editrice Queriniana 20168

 

Il messaggio della misericordia di Dio non è una teoria lontana dal mondo e dalla prassi, né esso permette che ci limitiamo a parlare di sentimenti di compassione. Gesù ci insegna ad essere misericordiosi sul modello di Dio (Lc 6,36) Nel discorso della montagna dice beati i misericordiosi (Mt 5,7). Nella lettera agli Efesini leggiamo: «Fatevi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminate nella carità, nel modo in cui anche Cristo ci ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore» (Ef 5,1). Questo motivo della imitatio Dei, dell’imitazione di Dio e del suo modo di agire in Gesù Cristo, è di fondamentale importanza per la Bibbia [1]. Perciò il messaggio della misericordia di Dio ha delle conseguenze per la vita di ogni cristiano, per la prassi pastorale della chiesa e per il contributo che i cristiani devono dare a una strutturazione umanamente degna, giusta e misericordiosa dell’ordine sociale.

 

1. L’amore, il principale comandamento cristiano

 

Nell’Antico Testamento i termini misericordioso e misericordia ricorrono raramente per indicare il comportamento dell’uomo, ma la cosa da essi significata vi è ben presente. Il Sal 15 risponde alla domanda: «Signore, chi abiterà nella tua tenda? Chi dimorerà sulla tua santa montagna?» così: «Colui che cammina senza colpa, pratica la giustizia e dice la verità che ha nel cuore, non sparge calunnie con la sua lingua, non fa danno al suo prossimo e non lancia insulti al suo vicino... Anche se ha giurato a proprio danno, mantiene la parola, non presta il suo denaro a usura e non accetta doni contro l’innocente». In modo simile parla il Sal 112,5: «Felice l’uomo pietoso che dà in prestito, amministra i suoi beni con giustizia».

Dell’ordinamento sociale dell’Antico Testamento, che mira a tutelare i deboli e i poveri, del messaggio dei profeti, che nella loro critica a condizioni ingiuste non lasciano nulla a desiderare e non potrebbero essere più chiari, abbiamo già ampiamente parlato [2]. Il profeta Michea riassume quel che Dio si attende dagli uomini così: «Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che richiede il Signore da te: praticare la giustizia, amare la bontà, camminare umilmente con il tuo Dio» (Mi 6,8; cf. Tb 12,8). Particolarmente sottolineato è il dovere dell’elemosina (Tb 4,7-11; Sir 7,10; 29). Su questa base un ruolo importante svolgono nel giudaismo delle origini le opere di misericordia [3].

Gesù si colloca in questa tradizione anticotestamentaria e giudaica. Specialmente l’enumerazione delle opere di misericordia contenuta nel grande discorso del giudizio universale corrisponde a tale tradizione giudaica: dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, ospitare i senza tetto, vestire gli ignudi, visitare i malati e i prigionieri (Mt 25,35- 39.42-44). Sorprendente è qui il fatto che Gesù menziona, come criterio adoperato nel giudizio, esclusivamente opere dell’amore del prossimo e nessun’altra opera di carattere cultuale. Così facendo egli riprende le parole del profeta Osea: «Misericordia io voglio e non sacrifici» (Mt 9,13; 12,7; cf. Os 6,6; Sir 35,3). Perciò nel discorso della montagna dice: «Se dunque presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono» (Mt 5,23; cf. Mc 11,25). Se ci domandassimo quanto spesso anche noi dovremmo riconciliarci prima di celebrare l’eucaristia, e quanto spesso dovremmo astenerci dal ricevere la comunione, allora prenderemmo realmente sul serio queste parole di Gesù.

Gesù ha spiegato il suo insegnamento con parabole molto eloquenti [4]. Addirittura proverbiale è diventata la sua parabola del buon samaritano: i samaritani non erano allora considerati come ebrei ortodossi; perciò fu una provocazione il fatto che egli portasse come esempio proprio un samaritano ed esortasse: «Va’ e anche tu fa così» (Lc 10,25.37). Nella parabola del servo spietato egli spiega ancora una volta che dobbiamo essere misericordiosi con coloro che ci debbono qualcosa, così come Dio è misericordioso con noi (Mt 18,23- 35). Se Dio usa misericordia con noi e ci perdona, anche noi dobbiamo perdonarci a vicenda ed essere misericordiosi gli uni con gli altri. Nella nostra misericordia diventa concretamente reale per il nostro prossimo la misericordia di Dio; nella nostra misericordia il nostro prossimo presagisce qualcosa del miracolo del regno di Dio, e questo irrompe segretamente. Perciò la misericordia è molto più di una prestazione sociale e molto più di un’organizzazione caritativa o socio-politica (sebbene ovviamente non le escluda).

Non dobbiamo perciò stupirci se Gesù, quando gli fu domandato quale fosse il comandamento più grande, dichiarò nello spirito dell’Antico Testamento l’amore di Dio e l’amore del prossimo (Mc 12,29-31; Mt 22,34-40; Lc 10,25-28) [5]. Questi due comandamenti ricorrono nell’Antico Testamento in due passi distinti (Dt 6,5 e Lv 19,18), però è cosa che corrisponde già alla tendenza dell’Antico Testamento considerarli assieme [6]. In Gesù essi costituiscono pienamente un’unità indissolubile. Inoltre Gesù ha esteso qui il concetto di prossimo al di là degli appartenenti al popolo ebraico e vi ha inglobato tutti gli uomini. Di fondamentale importanza è la stretta unione tra i due comandamenti; non esiste alcun reale amore di Dio senza amore del prossimo. Solo insieme essi sono la sintesi e il compimento di tutta la legge. Insieme essi sono la quintessenza, la somma e il compendio dell’esistenza cristiana.

Agostino formulò molto bene tale loro stretta unione: «Nessuno deve dire: non so che cosa devo amare! Egli deve amare il fratello e amerà l’amore... Che cosa ama dunque l’amore di diverso da quello che noi amiamo mediante l’amore? Tale cosa è, per partire da quello che ci sta più vicino, il fratello... Appunto l’amore del fratello... non è solo da Dio, ma anche Dio... Di qui ne viene che questi due comandamenti non possono essere l’uno senza l’altro» [7].

Se prendiamo sul serio questa mutua appartenenza, allora non dobbiamo neppure risolvere l’amore di Dio nell’amore del prossimo, cosa che potrebbe sfociare in un umanesimo unidimensionale, che perde completamente di vista l’amore di Dio e la relazione con Dio. L’amore del prossimo praticato con la radicalità richiesta da Gesù non è possibile senza la forza che proviene dall'amore di Dio [8].

Anche per Paolo l’amore è il compimento della legge (Rm 13,10; Gal 5,14) e il vincolo della perfezione (Col 3,14). Come Gesù, così pure Paolo riprende il messaggio di Osea ed esorta «per la misericordia di Dio» a rendere a Dio «un culto spirituale», «santo» e a lui «gradito» (Rm 12,1; cf. Ef 5,ls.). Il modo perdonante e misericordioso di agire di Dio in Gesù Cristo deve essere di esempio per il modo di agire dei cristiani: «Siate... benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo» (Ef 4,32; cf. Col 3,12). Ancora una volta non abbiamo a che fare con una motivazione umanistica dell’amore del prossimo, ma con una motivazione adesso espressamente cristologica.

A quali altezze e, nello stesso tempo, a quali concretizzazioni pratiche questa visione cristologica conduca diventa espressamente chiaro soprattutto nell’inno all’amore intonato da Paolo nella prima lettera ai Corinzi (1 Cor 13 ) [9]. Dobbiamo saper scorgere in esso la sua punta e presa di posizione critica verso un’esaltazione entusiastica. Contro tale esagerazione entusiastica, Paolo vuole introdurre come correttivo l’unum necessarium, l’amore. Senza l’amore, senza la carità tutto il resto - profezia, conoscenza dei misteri, sapienza, fede, pure tanti gesti spettacolari di amore - non vale nulla, è senza valore e infruttuoso. Ciò vale anche a proposito della predicazione più raffinata, della teologia più dotta e dell’impegno più zelante per la retta fede, se esso è spavaldo, prepotente, superbo e spietato. Neppure il martirio vale in quanto tale qualcosa; anche eretici, comunisti e altri hanno i loro martiri. Soltanto l’amore, la carità, è il distintivo del vero cristiano [10]. «Se non avessi la carità, sarei come un bronzo che rimbomba o come un cimbalo che strepita», sarei un bel nulla (1 Cor 13,2s.).

Non dovremmo tuttavia parlare di un cantico dei cantici dell’amore. La descrizione della via dell’amore fatta da Paolo è infatti tutt’altro che sentimentale; essa è molto concreta e realistica. La via dell’amore ci è stata insegnata da Gesù Cristo. La via, su cui egli è disceso fino a noi, è l’unica su cui possiamo salire fino a lui [11]. Alla fine tutto il resto passerà, e rimarrà soltanto l’amore; esso è la cosa più grande di tutte (1 Cor 13,13). Se rimarrà soltanto l’amore, rimarranno anche le opere dell’amore; esse sono l’unica cosa che ci rimane nel giudizio escatologico e che noi potremo, per così dire, esibire. Esse sono permanentemente radicate nella parte consistente della realtà e sono perciò un elemento essenziale della trasformazione escatologica di tutta la realtà. Nella follia dell’amore fa già adesso irruzione l’éschaton.

Giovanni sviluppa questi pensieri e li esplicita pienamente sino in fondo. Secondo lui noi siamo amati da Dio (Gv 14,21), affinché ci amiamo a vicenda (Gv 13,34). Di fronte a questa motivazione strettamente teologica egli parla del nuovo comandamento dell’amore come del distintivo dei cristiani: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,34s.). Con ciò egli afferma chiaramente che l’amore è l’elemento specifico della vita cristiana. La sua misura supera qualsiasi normale misura umana e trova il suo criterio nell’amore che Gesù ci ha dimostrato con il dono della propria vita. «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (Gv 15,12s.).

La prima lettera di Giovanni riprende questa affermazione: «Chi dice di essere nella luce e odia il suo fratello, è ancora nelle tenebre..., cammina nelle tenebre e non sa dove va, perché le tenebre hanno accecato i suoi occhi» (1 Gv 2,9 11). «Se uno dice: “Io amo Dio” e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello, che vede, non può amare Dio che non vede. E questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche suo fratello» (1 Gv 4,20s.; cf. 5,3; 2 Gv 5s.). Tutto questo dipende dall’affermazione centrale che Dio è amore (1 Gv 4,8.16).

Quanto ai Padri della chiesa, potremmo addurre innumerevoli testimonianze riguardanti l’importanza fondamentale e centrale dell’amore di Dio e dell’amore del prossimo. Menzioniamo solo due Padri greci. Basilio prese decisamente posizione - in un tempo caratterizzato da una grave crisi economica, che aveva provocato una grande miseria tra vasti strati della popolazione - in favore dei lavoratori salariati nullatenenti, degli schiavi, dei piccoli contadini, degli artigiani e dei commercianti impoveriti. Quando scoppiò una carestia, attaccò usurai e speculatori privi di coscienza e li esortò a condividere la loro ricchezza [12]. Crisostomo smascherò, in modo simile a come aveva fatto Gesù, qualsiasi religiosità ipocrita. Secondo lui l’amore del prossimo è la matrice di tutto il bene e il segno di riconoscimento del cristiano [13]. Perciò egli parla in modo estremamente chiaro ai ricchi e dice loro senza mezzi termini che tutte le loro pratiche religiose non servono a nulla, se essi non praticano la beneficenza [14]. Secondo lui l’amore del prossimo è migliore della pratica di tutte le altre virtù e di tutti gli esercizi di penitenza, migliore anche del martirio [15]. Senza la verginità, egli dice, possiamo contemplare Dio, ma non senza la misericordia [16]. Per lo stesso motivo Tommaso chiama la misericordia, per quanto riguarda le opere esteriori, la «summa religionis christianae» [17].

La beatitudine dei misericordiosi è una concretizzazione dell’amore del prossimo. In Dietrich Bonhoeffer troviamo una bella spiegazione di questa beatitudine: «Questi nullatenenti, stranieri, privi di ogni potere, peccatori, questi seguaci di Gesù vivono con lui ora anche nella rinuncia alla propria dignità, perché sono misericordiosi. Non si contentano della propria distretta, della propria indigenza, ma si rendono partecipi della distretta, della meschinità, della colpa d’altri. Hanno un amore irresistibile per gli umili, i malati, i miseri, per chi è stato umiliato e ha patito violenza, per chi subisce torti ed è estromesso, per chi si tormenta e si affligge; essi cercano chi è caduto nel peccato e nella colpa. Nessuna miseria è troppo profonda, nessun peccato troppo terribile, perché non vi si applichi misericordia. Il misericordioso fa dono del proprio onore a chi è caduto nell’ignominia e se ne fa carico. Si fa trovare presso i pubblicani e i peccatori e si assume volontariamente la vergogna della familiarità con loro. Essi rinunciano al massimo bene dell’uomo, alla propria dignità e al proprio onore, e sono misericordiosi. Conoscono solo una dignità e un onore: la misericordia del loro Signore, della quale soltanto vivono. Egli non si è vergognato dei suoi discepoli, è stato un fratello per gli uomini, portando la loro ignominia fino alla morte in croce. Questa è la misericordia di Gesù, della quale soltanto vogliono vivere coloro che sono legati a lui, la misericordia del Crocifisso» [18].

 

2. «Perdonatevi a vicenda»

e il comandamento dell’amore dei nemici

 

La richiesta dell’amore del prossimo, avanzata da Gesù, non è solo centrale, ma anche radicale, così radicale da togliere il fiato. Nelle antitesi del discorso della montagna Gesù, chiedendo di aspirare alla giustizia perfetta (Mt 5,20), non si spinge solo al di là della tradizione ebraica, ma anche al di là dell’umanamente possibile. «Ma io vi dico di non opporvi al malvagio». Con queste parole egli abolisce il cosiddetto ius talionis, «occhio per occhio, dente per dente» (Es 21,24), e stabilisce al suo posto quest’altra regola: «Se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra» (Mt 5,38-42; cf. Lc 6,29s.). Questo va oltre la normale forza umana e richiede una grandezza e una sovranità umana e cristiana, che spezzano il ciclo del male e il circolo vizioso della violenza e della ritorsione e stabiliscono la pace.

L’apice e il punto culminante della misericordia e dell’amore richiesti sono costituiti per Gesù, nel discorso della montagna, dal comandamento dell’amore dei nemici: «Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano». Egli motiva questa esigenza estrema dal punto di vista umano con il comportamento di Dio verso i peccatori, un comportamento che si spinge appunto fino all’estremo. Egli dice «affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli». «Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,43-48; cf. Lc 6,27-29.32-36). Così nel Padre nostro egli ci insegna a chiedere che Dio ci rimetta i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori (Mt 6,12; Lc 11,4). Gesù ha aggiunto che non dobbiamo perdonare solo sette volte, ma settanta volte sette (Mt 18,21s.), cioè sempre di nuovo e continuamente. Nella parabola del servo spietato ha illustrato questa richiesta (Mt 18,23-35). E pure lui ha perdonato morendo sulla croce: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34). Il diacono e protomartire Stefano ha pronunciato, nel corso della sua lapidazione, la stessa preghiera (At 7,60).

Nell’antichità il perdono, nel senso della remissione, era considerato una virtù dei re, esso è magnanimità che presuppone sovranità. Realmente perdonare lo può solo Dio. «Chi può perdonare i peccati, se non Dio solo?» (Mc 2,7). Perciò il perdono è possibile solo nella forza e in virtù dell’azione salvifica preventiva compiuta da Dio in Cristo (Rm 3,25s.). Esso è possibile solo nella luce dell’affermazione che anche Dio ci ha riconciliati con lui quando noi eravamo ancora suoi nemici (Rm 5,10). E secondo l’esempio di Dio dobbiamo perdonare anche noi: «Rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 6,12; Lc 11,4). E tale perdono è anche necessario, per cui vale la regola: «Siate invece benevoli... perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato voi in Cristo» (Ef 4,32). «Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi» (Col 3,13).

È chiaro: l’amore dei nemici è forse la richiesta umanamente più difficile avanzata da Gesù, e tuttavia esso è nello stesso tempo uno dei comandamenti cristiani più centrali, che affonda le sue radici nell’essenza più intima del mistero cristiano e che rappresenta perciò la specificità del comportamento cristiano [19]. A giudizio dei Padri della chiesa questo comandamento è una specificità e una novità cristiana sia nei confronti dell’Antico Testamento sia nei confronti della filosofia pagana [20]. La seconda lettera di Clemente dice: chi non ama colui che lo odia, non è un cristiano [21]. Tertulliano chiama l’amore dei nemici la «legge fondamentale» [22], per Crisostomo esso è il migliore compendio della virtù [23].

Tuttavia già i Padri della chiesa riconobbero le difficoltà che presenta l’attuazione concreta di questo comandamento, in mezzo alle complessità e alle strutture del peccato di questo mondo. Per trovare una soluzione essi proposero una specie di etica a due piani. Secondo Ambrogio vale questa regola: non ricambiare il male con il male è un dovere; ricambiare il male con il bene è la perfezione [24]. Secondo Agostino la forma più alta di elemosina consiste nel perdonare coloro che hanno mancato contro di noi. Egli è naturalmente abbastanza realista per sapere che una simile virtù manca alla grande massa e che è un dono dei figli perfetti di Dio. Ogni credente deve però tendere ad essa e pregare per essa. Egli deve perlomeno perdonare a coloro che gli chiedono perdono. In questo caso vale la regola che chi non perdona, non sarà neppure perdonato dal Padre celeste (Mt 6,15). Agostino parla di una parola tonante; chi all’udirla non si sveglia, non solo dorme, ma è già morto [25]. Una posizione parimenti graduata troviamo in Tommaso d’Aquino: per amare è necessario preparare il proprio cuore ad amare il proprio nemico, qualora le circostanze concrete lo richiedano; invece amarlo per amore di Dio, indipendentemente da una necessità concreta, non è cosa necessaria alla salvezza, non appartiene alla necessità, ma alla perfezione dell’amore [26]. Possiamo vedere in questi tentativi di gradazione e di attenuazione un realismo cristiano, ma non dovremmo renderci la cosa troppo facile. Per essi l’amore dei nemici pienamente realizzato non è più, come per Gesù, il centro, ma un caso limite, cioè un fine a cui la prassi religiosa cristiana deve tendere [27]. Sostanzialmente più difficile la cosa si fa nel caso della problematica della guerra. Non è possibile limitare, nel caso di guerre, l’amore dei nemici alla richiesta del superamento di sentimenti personali di odio e, quindi, alla disposizione d’animo personale. Gesù vuole l’azione concreta [28].

Non solo il singolo cristiano, non solo gli stati, ma pure la chiesa ha faticato e fatica a praticare il comandamento dell’amore dei nemici. Come si è comportata infatti la cristianità nelle persecuzioni degli ebrei e degli eretici, nel corso delle crociate e delle guerre di religione? Come si è comportata la chiesa con i suoi avversari nel corso di polemiche e di controversie, che furono tutt’altro che oggettive e civili? Anche molte prediche, che incitavano alla guerra, fanno un’impressione macabra. Non solo singoli cristiani, ma anche la stessa chiesa ha assai spesso fallito di fronte al comandamento dell’amore dei nemici. Ideale e realtà sono spesso anche qui molto distanti l’uno dall’altra.

Questioni se ne pongono non solo a proposito del tema della guerra e della pace, ma anche in relazione ai vicini ostili, ai concorrenti nel campo della professione, dell’economia, della politica e in altri campi ancora. Nel campo dell’economia e della politica ci sono inevitabilmente delle situazioni di concorrenza, nelle quali si cerca di mettere in ginocchio e di declassare economicamente e politicamente non il rivale personale, ma il rivale politico e il rivale economico, cosa che, nel mondo concreto in cui viviamo, dobbiamo anche fare. In queste situazioni non possiamo onestamente ignorare le differenziazioni proposte da Agostino e da Tommaso.

Ma - così possiamo ulteriormente domandare - il comandamento dell’amore dei nemici è davvero realistico? Non è qualcosa di utopico e una richiesta esagerata per l’uomo? Come può una madre amare l’assassino di suo figlio? Può perdonarlo? Dove andiamo a finire, se non resistiamo al malvagio, se perdoniamo invece di chiedere giustizia? Così non viene premiato colui che ha commesso un’ingiustizia? Heinrich Heine, Friedrich Nietzsche, Sigmund Freud e altri hanno posto criticamente e polemicamente simili domande; per Freud il comandamento dell’amore dei nemici fa parte di un «credo quia absurdum est» [29].

Ma alla domanda «Dove andiamo a finire, se rinunciamo all’uso della forza e perdoniamo?» possiamo contrapporre un’altra domanda: Dove andiamo a finire, se non c’è più posto per il perdono e per la remissione, e se vogliamo ricambiare qualsiasi ingiustizia fattaci con una nuova ingiustizia, in base al principio «occhio per occhio, dente per dente»? Dopo le spaventose esperienze degli orrori del XX secolo, il problema del perdono e dell’amore dei nemici è diventato di nuovo tristemente attuale e ha portato in vasti ambienti a un cambiamento urgentemente necessario di mentalità. È diventato chiaro che la misericordia, il perdono e la remissione, nonostante siano degli atti quasi sovrumani, sono tuttavia anche atti quanto mai razionali.

Solo se ci si porge di nuovo la mano, superando vecchi steccati, per chiedere perdono e concedere perdono, si possono elaborare conflitti cruenti e traumatici, si può avviare un processo di guarigione delle ferite subite e si può interrompere la spirale della violenza e della ritorsione e il circolo vizioso della colpa e della vendetta (vendetta di sangue). Non possiamo semplicemente dimenticare l’ingiustizia subita, e meno ancora possiamo cercare di nasconderla sotto il tavolo. Se abbiamo fatto un’ingiustizia, dobbiamo onestamente ammetterlo e riconoscerlo. Se lo facciamo, possiamo arrivare a un ricordo riconciliato, nel quale le relazioni sono svelenite e purificate da ogni sentimento di ostilità. Con questo ricordo riconciliato, che sana le ferite del passato, possiamo porre un nuovo inizio e rendere di nuovo possibile un futuro comune [30].

Ciò non vale solo nel campo delle relazioni personali, ma anche nel campo politico. Pensiamo per esempio alla riconciliazione ebraico-cristiana, tedesco-israeliana, tedesco-francese o tedesco-polacca dopo la seconda guerra mondiale. Possiamo pensare pure alle commissioni costituite in Sudafrica, in Irlanda e altrove per stabilire la verità [31]. Infine possiamo pensare alle mutate relazioni ecumeniche e interreligiose, grazie alle quali si sono potute superare in larga misura, ferme restando tutte le differenze oggettive, vecchie ostilità e una mentalità campanilistica e concorrenziale, per fare posto a una collaborazione in favore della giustizia e della pace nel mondo. L’amore dei nemici non è quindi un «credo quia absurdum», ma un «credo quia rationabile est».

 

3. Le opere di misericordia corporale e spirituale

 

Anche il Nuovo Testamento conosce, analogamente alla tradizione ebraica, cataloghi di virtù, di cui è entrato a far parte il comandamento della misericordia e in cui esso è concretamente esplicitato (1 Pt 3,8; cf. Rm 12,8.15; 2 Cor 7,15; Fil 1,8; 2,1; Col 3,12; Eb 13,3). Un catalogo del genere ricorre già nel grande discorso del giudizio universale di Gesù (Mt 25). La tradizione cristiana ha poi spiegato, su questa base del Nuovo Testamento, in che cosa la misericordia concretamente consiste. A questo scopo essa ha distinto sette opere di misericordia corporale e sette di misericordia spirituale e le ha specificatamente illustrate [32].

Le opere di misericordia corporale sono: dar da mangiare agli affamati, dare da bere agli assetati, vestire gli ignudi, ospitare i forestieri, visitare i malati, liberare i prigionieri, seppellire i morti. Quelle spirituali: istruire gli ignoranti, consigliare i dubbiosi, consolare gli afflitti, correggere i peccatori, perdonare chi ci ha offeso, sopportare gli antipatici, pregare per tutti. Nella sua Regola san Benedetto ha allungato l’elenco di queste opere o, come egli le chiamava, di questi strumenti delle buone opere e ha aggiunto un altro punto: «Non disperare mai della misericordia di Dio» [33].

È interessante constatare che, nel caso delle opere di misericordia corporale e specialmente spirituale, non si tratta di violazioni esplicite di comandamenti di Dio. Come nel discorso del giudizio universale di Gesù, così nemmeno qui viene condannato nessun peccatore che abbia assassinato, rubato, commesso adulterio, mentito e ingannato. La condanna di Gesù non riguarda azioni contrarie al comandamento di Dio, ma omissioni del bene. Ancora una volta si tratta della giustizia più grande (Mt 5,20). Secondo tale giustizia si può peccare non solo trasgredendo comandamenti di Dio, ma anche, cosa a cui prestiamo purtroppo troppo poca attenzione, tralasciando di fare il bene.

Perciò nel caso della misericordia si tratta di qualcosa di più della giustizia; si tratta di prestare attenzione e di essere sensibili verso la miseria che concretamente incontriamo. Si tratta di superare l’autoreferenzialità, che rende sordi e ciechi nei confronti dei bisogni corporali e spirituali degli altri. Si tratta di spezzare l’indurimento del cuore verso la chiamata che Dio ci rivolge quando incontriamo la miseria di altre persone [34].

La differenziata enumerazione delle opere di misericordia corporale e spirituale non è né ingenua, né arbitraria. Essa corrisponde alla distinzione di una quadruplice povertà; la povertà più facile da comprendere è quella fisica o economica: non avere un tetto sopra il capo e niente nella pentola, avere fame e sete, non avere di che vestirsi e un rifugio per difendersi dalle intemperie atmosferiche, oggi aggiungeremmo anche essere disoccupati. A ciò si aggiungono le malattie gravi o le gravi disabilità, che non possono essere adeguatamente curate e guarite dalla medicina.

Non meno importante della povertà fisica è la povertà culturale: essa significa nel caso estremo analfabetismo, in caso meno estremo, ma comunque determinante, non avere nessuna o solo poche possibilità di studiare e, quindi, poche prospettive per il futuro, essere esclusi dalla partecipazione alla vita culturale e sociale. Una terza forma di povertà da menzionare è la povertà in fatto di relazioni; essa prende in considerazione l’uomo come essere sociale: solitudine e isolamento, perdita del partner, perdita di familiari o di amici, difficoltà nel comunicare, esclusione colpevole o imposta dalla comunicazione sociale, discriminazione ed emarginazione fino all’isolamento in una cella carceraria o a motivo di un bando. Infine dobbiamo menzionare la povertà spirituale, che nella nostra situazione occidentale rappresenta un problema serio: mancanza di orientamento, vuoto interiore, mancanza di consolazione e di speranza, disperazione a proposito del senso della propria esistenza, smarrimento morale e spirituale fino a crollare psichicamente.

La multiformità e la pluridimensionalità delle situazioni di povertà richiedono una risposta pluridimensionale. L’aiuto materiale è senza dubbio d’importanza fondamentale. Infatti solo se la nuda vita e sopravvivenza fisica è assicurata, si può rimediare anche alla povertà culturale, sociale e spirituale; tuttavia la misericordia cristiana non può e non deve limitarsi ai bisogni fisici. Essa è infatti umanamente degna solo se non confina i bisognosi in una perdurante situazione di dipendenza, ma li aiuta ad aiutarsi da soli. Ciò è possibile solo se si migliorano anche le situazioni culturali, sociali e spirituali di povertà. La caritas cristiana richiede perciò un impegno integrale, che scorge le diverse dimensioni della povertà e le loro reciproche relazioni e che aiuta perciò non soltanto a sopravvivere, ma anche a vivere in una maniera almeno in qualche misura umanamente piena.

Suor Faustina ha descritto molto bene, in una preghiera del 1937, fin dove e a quali profondità una misericordia sensibile e delicata è capace di spingersi, che cosa essa può concretamente significare per un cristiano e che cosa è concretamente capace di realizzare:

 

«Aiutami, Signore, fa’ che i miei occhi siano misericordiosi, in modo che io non nutra mai sospetti e non giudichi sulla base di apparenze esteriori, ma sappia scorgere ciò che c’è di bello nell’anima del mio prossimo e gli sia di aiuto.

Aiutami a far sì che il mio udito sia misericordioso, che mi chini sulle necessità del mio prossimo, che le mie orecchie non siano indifferenti ai dolori e ai gemiti del mio prossimo.

Aiutami, o Signore, a far sì che la mia lingua sia misericordiosa e non parli mai sfavorevolmente del prossimo, ma abbia per ognuno una parola di conforto e di perdono.

Aiutami, o Signore, a far sì che le mie mani siano misericordiose e piene di buone azioni, in modo che io sappia fare unicamente del bene al prossimo e prenda su di me i lavori più pesanti e più penosi.

Aiutami a far sì che i miei piedi siano misericordiosi, in modo che io accorra sempre in aiuto del prossimo, vincendo la mia indolenza e la mia stanchezza. Il mio vero riposo sta nella disponibilità verso il prossimo.

Aiutami, o Signore, a far sì che il mio cuore sia misericordioso, in modo che partecipi a tutte le sofferenze del prossimo. A nessuno rifiuterò il mio cuore. Mi comporterò sinceramente anche con coloro, di cui so che abuseranno della mia bontà, mentre io mi rifugerò nel misericordiosissimo Cuore di Gesù. Non parlerò delle mie sofferenze. Alberghi in me la tua misericordia, o mio Signore.

Tu stesso mi comandi di esercitarmi in tre gradi della misericordia. Primo: nell’azione misericordiosa di ogni specie. Secondo: nel parlare con misericordia; quel che non riesco a fare con le azioni, devo farlo con le parole. Terzo: nel pregare; qualora non possa comportarmi con misericordia né agendo, né parlando, lo posso sempre fare pregando. Estenderò la mia preghiera fino a raggiungere anche i luoghi, in cui non posso essere fisicamente. O Gesù mio, trasformami in te stesso poiché tu puoi fare tutto» [35].

 

4. Nessuna pseudo-misericordia laissez-faire

 

Si può abusare pure della misericordia e della religione. Il comandamento dell’amore cristiano del prossimo e soprattutto dell’amore dei nemici va infatti messo in pratica nelle condizioni del mondo. Ciò può portare a far sì che anche la misericordia diventi, nell’ambivalenza delle situazioni mondane, ambivalente, anzi che venga fraintesa e che di essa si abusi. Essa può essere addirittura erroneamente trasformata nel suo opposto, e la chiamata alla misericordia può essere ridotta a una specie di ammorbidente per l’éthos cristiano.

Una forma oggi molto discussa di una simile pseudo-misericordia consiste nel tutelare, nel caso di un’ingiustizia, più il carnefice che la vittima. Tale indulgenza può essere esercitata a motivo di una erroneamente intesa amicizia o collegialità; essa può essere esercitata anche perché si vuole tutelare un’istituzione - si tratti della chiesa, dello stato, di un ordine religioso o di un’associazione - da conseguenze svantaggiose, che potrebbero derivare dalla scoperta e dalla condanna dell’ingiustizia. Un simile atteggiamento contrasta con lo spirito del vangelo, che si schiera in favore dell’opzione preferenziale per i poveri e per i più deboli. La difesa della vittima deve perciò venire prima della difesa del carnefice.

Esistono anche altri e non meno importanti fraintendimenti della misericordia. Menzionato va soprattutto un punto di vista laissez-faire, che lascia passare e correre tutto. Esso comincia con i genitori che, per un errato senso di misericordia verso i loro figli, cedono loro in tutto. Questo atteggiamento errato si manifesta quando essi chiudono gli occhi su comportamenti sbagliati e peccaminosi, invece di esortarli a convertirsi.

Nel profeta Ezechiele troviamo un accorato ammonimento. Egli dice che se, nel caso di un grave pericolo, la sentinella non suona il corno e non mette in guardia contro di esso, sarà chiamata a render conto del sangue versato. Poi continua: se non parli e non ammonisci il colpevole, dicendogli che morirà per la sua colpa, il colpevole morirà a motivo del suo peccato, «ma della sua morte io domanderò conto a te. Ma se tu avverti il malvagio della sua condotta perché si converta ed egli non si converte dalla sua condotta, egli morirà per la sua iniquità, ma tu ti sarai salvato» (Ez 33,6-9).

Paolo dice chiaramente che l’altro non può esserci indifferente e che noi siamo piuttosto responsabili, per amore e misericordia, gli uni degli altri. Perciò egli non ha paura di ammonire la sua comunità (Rm 12,1) e si appella per questo alla propria altissima autorità (2 Cor 5,20). Ricorda che tutti i cristiani sono responsabili a vicenda e che devono prendersi cura gli uni degli altri: «Istruitevi e ammonitevi a vicenda» (Col 3,16). Perciò nel Nuovo Testamento si parla di correzione fraterna (1 Ts 5,11.14; 2 Ts 3,15; 2 Tm 2,25; Tt 1,13; 2,15). Se tale esortazione (παράκλησις) non viene fatta con spavalderia, ma con la consapevolezza della propria fallibilità, allora essa è un’opera di misericordia [36]. Perciò la misericordia può anche essere una medicina amara necessaria [37]. A volte essa deve fare male, così come il medico deve fare male quando opera e taglia non per nuocere, ma per aiutare e per guarire [38].

Un ulteriore grave fraintendimento della misericordia è quello che induce a disattendere, in nome della misericordia, il comandamento divino della giustizia e a concepire l’amore e la misericordia non come il compimento e il superamento della giustizia, ma come un suo declassamento e una sua abrogazione. Perciò non possiamo andare contro, per una misericordia sentimentalmente fraintesa, a comandamenti elementari della giustizia. Non possiamo consigliare, per una falsa misericordia, di abortire o aiutare a farlo, qualora la nascita di un bambino disabile appaia inaccettabile per la madre o per il bambino. E tanto meno possiamo aiutare attivamente per compassione un malato inguaribile a suicidarsi, al fine di “liberarlo” dai suoi dolori e dalle sue sofferenze. Una simile misericordia non imita la misericordia di Dio, ma ignora piuttosto il comandamento «Non uccidere» (Es 20,13; Df 5,17).

Non rendersi colpevole di una falsa misericordia non significa comportarsi senza misericordia con persone che, nella loro situazione, trovano difficoltà a osservare il comandamento di Dio o che si sono rese addirittura colpevoli. Per amore di una misericordia rettamente intesa bisognerà piuttosto spiegare loro il comandamento di Dio, facendolo ovviamente con misericordia. Bisognerà aiutarli con la parola e con l’azione a osservarlo nella loro spesso complessa e difficile situazione, come devono fare in modo particolare i centri ecclesiali di consulenza. Qualora gli uomini si siano macchiati di una colpa, che spesso grava sulla loro anima per tutta la vita, dobbiamo assumere un atteggiamento pastorale verso di loro, così come ha fatto Gesù con i peccatori. Non dobbiamo giudicarli duramente, ma aiutarli non a rimuovere la loro colpa, ma a riconoscerla e poi a confidare nella sempre più grande misericordia di Dio e nella sua disponibilità a perdonare.

La stessa cosa succede nel caso del rapporto della misericordia con la veracità. Questa questione diventa attuale, per esempio, quando si tratta di dire a un malato grave o a un moribondo la verità sulla sua situazione. Nascondergli per una malintesa misericordia la verità o prospettargli addirittura speranze irrealistiche è cosa che non lo aiuta realmente, ma che gli impedisce di guardare in faccia la realtà e di affrontare nel modo umanamente e spiritualmente giusto la sua situazione. In simili situazioni la vera misericordia non spiattellerà in faccia in modo duro e crudele la verità, ma la comunicherà con sensibilità e amore (Ef 4,15); la dirà in modo da aiutare il malato ad accettarla e a confrontarsi con essa. Per questo bisogna essere capaci di immedesimarsi negli altri e avere tatto umano e spirituale.

 

5. Incontrare Cristo nei poveri

 

Gesù parla della dimensione più profonda della misericordia praticata nel suo grande discorso del giudizio. Egli dice: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, lo avete fatto a me» (Mt 25,40; cf. 25,45). Da ricco che era, divenne povero per noi (2 Cor 8,9) e assunse la forma di uno schiavo (Fil 2,1). Non solo solidarizzò con i poveri, ma si identificò con essi, per cui possiamo incontrarlo in essi.

Agostino parla incessantemente della motivazione cristologica dell’amore del prossimo. Nelle sue opere egli cita - così si è calcolato - più di 275 volte Mt 25 [39]. In un sermone scrive (in uno stile latino denso, quasi intraducibile e per questo solo parafrasabile): Che hai dato se non quello che hai ricevuto da me? Dai cose terrene, ricevi cose celesti. Hai dato del mio, io mi dono a te. Cristo si è donato a te, non dovremmo anche noi cristiani donare Cristo, che ci viene incontro in coloro che sono nel bisogno? Cristo nutre ed è per amor tuo nel bisogno; dona ed è bisognoso. Se dona a te, tu ricevi, e se egli è nel bisogno, non vorrai fargli dei doni? Cristo è bisognoso quando il povero è bisognoso. Colui che vuole donare a tutti la vita eterna si è degnato di ricevere nei poveri cose temporali. Incontrerai Cristo, che siede in trono in cielo. Aspettalo quando egli è sotto i ponti, aspettalo quando ha fame e trema dal freddo, aspettalo come forestiero [40].

Così l’hanno vista tutti i grandi santi della caritas cristiana e così essi sono vissuti: il diacono Lorenzo, Martino di Tours, Nicola di Mira, Elisabetta di Turingia, Camillo de Lellis, Vincenzo de’ Paoli, Damiano de Veuster. Nel caso di Madre Teresa di Calcutta all’inizio del suo cammino troviamo un’esperienza di Cristo, che dobbiamo dire mistica e che ella fece incontrando un moribondo [41]. Ella espresse questa dimensione cristologica, che potremmo anche dire mistica, dell’amore del prossimo in una preghiera:

 

«Mio Signore, fa’ che io possa vederti oggi e ogni giorno nei malati e, mentre li accudisco, che io possa avvicinarli a te. Anche se ti nascondi dietro le sembianze poco invitanti della persona irritata, esigente, scriteriata, fa’ che io possa comunque riconoscerti. Com’è dolce servirti.

O cari malati, come mi siete doppiamente cari, perché rappresentate Cristo, e quale privilegio è il mio di potervi accudire. Signore, dammi questa fede tangibile, perché il mio lavoro non sia mai monotono. Troverò la gioia nel soddisfare speranze ed esaudire i desideri di tutti i poveri che soffrono.

Anche se nascosto sotto il poco attraente travestimento dell’irascibile, dell’esigente e dell’irragionevole, fa’ che tuttavia io possa continuare a riconoscerti e a dire: Gesù, mio paziente, quanto è dolce servirti.

Signore, dammi questa visione di fede, e il mio lavoro non sarà mai monotono. Troverò sempre la gioia nel soddisfare i capricci e nell’appagare i desideri di tutti i poveri che soffrono» [42].

 

Le parole di Gesù e tutti i santi menzionati ci mostrano in che consistono in fondo l’amore cristiano del prossimo e la misericordia cristiana. Essi non consistono solo in un amore generale degli uomini, contro il quale, qualora esso non si esaurisca in parole vuote, ma si trasformi in azioni concrete, non c’è nulla da obiettare. Essi non consistono solo nella compassione per il sofferente, cosa che, rispetto alla durezza di cuore e all’egoismo, è già molto; e non consistono neppure in idee che si prefiggono di cambiare il mondo. La Bibbia è assai realistica sotto questo aspetto e dice: «I poveri li avrete sempre con voi» (Gv 12,8). La misericordia cristiana consiste in fondo nell’incontrare nei sofferenti lo stesso Gesù Cristo. Essa non è perciò in primo luogo una questione della morale, ma è una questione della fede in Cristo, della sequela di Cristo e dell’incontro con Cristo. Essa riguarda, come mostra la parabola del samaritano misericordioso, il sofferente che incontro concretamente, di cui mi sono fatto prossimo e che dipende dal mio aiuto (Lc 10,25-37). In questo povero mi si fa incontro lo stesso Gesù Cristo.

Con questo non mettiamo in discussione il fatto che l’amore del prossimo ha delle conseguenze sociali e politiche, che vanno al di là del campo individuale e di cui dovremo ancora diffusamente parlare [43]. Ma un impegno sociale e politico può naturalmente essere credibile solo se esso non avanza solo delle richieste nei confronti di altri o di istituzioni statali ed ecclesiali, ma vive in modo concreto ed esemplare nel proprio campo e nel proprio ambiente personale la sequela di Cristo e la proesistenza cristiana. Tale testimonianza farà scuola e indurrà anche altri a impegnarsi concretamente. Perciò l’identificazione con Gesù Cristo nei poveri si spinge al di là del singolo incontro ed è importante per altri e per la chiesa.

 

6. Misericordia come esistenza cristiana in rappresentanza

 

L’unione personale con Gesù Cristo significa partecipazione alla sua proesistenza; perciò la misericordia cristiana è in ultima analisi esistenza cristiana in rappresentanza. Lo possiamo mostrare osservando i diversi piani di significato della chiamata di Gesù alla sequela [44]. La chiamata alla sequela significa qualcosa di più di un invito ad andare dietro a Gesù e ad accompagnarlo nelle sue peregrinazioni. La sequela include la comunione di vita e la comunione nella missione (Mc 3,14 par.), alla fine significa anche comunione nel destino, nella passione e nella croce. «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mc 8,34 par.). Come Gesù si è fatto servo di tutti, così devono fare anche i suoi discepoli. Chi tra i suoi discepoli vuole essere primo, sia il servo di tutti (Mc 10,45; cf. Gv 13,15). Come nel caso di Gesù Cristo, così questo conmorire con Cristo può arrivare sino alla sequela della croce e al dono della vita per amore suo (Me 8,34s. par.).

La sera prima della propria passione Gesù diede un esempio concreto ai suoi discepoli. Come egli compì verso di loro il servizio più umile prestato dagli schiavi e lavò loro i piedi, così devono fare anch’essi (Gv 13,14s.). I suoi discepoli, gratificati da Gesù, devono fare a loro volta della loro vita un dono per gli altri. Ciò può arrivare anche fino all’estremo. Nessuno ha infatti un amore più grande di colui che dà la sua vita per i suoi amici (Gv 15,13; cf. Gv 12,25s.). L’esistenza del discepolo sarà concepita, come l’esistenza di Gesù, come essere per altri, come proesistenza.

La partecipazione alla morte in rappresentanza vicaria e alla risurrezione di Gesù Cristo attraverso il battesimo (1 Cor 12,13; Gal 3,28) e attraverso la partecipazione alla celebrazione dell’eucaristia (1 Cor 10,16s.) riprende dopo la Pasqua in modo nuovo e approfondito questa idea. Essere in Cristo significa essere nel corpo di Cristo con e per gli altri. «Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui» (1 Cor 12,26). Perciò vale la regola: «Portate i pesi gli uni degli altri: così adempirete la legge di Cristo» (Gal 6,2). Paolo vuole perciò farsi schiavo di tutti per guadagnare il maggior numero possibile di persone. «Mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno» (1 Cor 9,22). Egli si logora e si consuma, e concepisce questo fatto come un sacrificio per la fede della sua comunità (Fil 2,17; cf. 2 Cor 12,15). Ministero apostolico e pastorale significa consumarsi nel senso letterale del termine e rendere presente in esso la passione di Gesù Cristo, la sua morte e la sua risurrezione in favore degli altri. L’esistenza apostolica non si verifica solo a parole, ma con tutta la propria esistenza. Perciò l’idea della rappresentanza vicaria è diventata un concetto chiave dell’esistenza cristiana [45].

L’idea della sequela come rappresentanza vicaria ha assunto varie forme nel corso della storia [46]. Dapprima nei martiri, il cui sangue divenne il seme di nuovi cristiani [47], poi negli eremiti e nei monaci, nei monaci iroscozzesi itineranti, che peregrinavano e non avevano una patria per amore di Cristo e della missione (peregrinatio propter Christum), poi ancora nella sequela di Gesù in povertà e umiltà intrapresa da Francesco d’Assisi.

Da Bernardo di Chiaravalle in poi si sviluppò una mistica soggettivamente interiorizzata di Cristo, che voleva imitare e interiorizzare, con una partecipazione soggettivamente empatica, l’amore di Dio rivelato nella passione di Gesù. Bernardo di Chiaravalle è spesso rappresentato mentre Cristo si china dalla croce verso di lui e lo abbraccia. Egli espresse il senso di questo evento in questa frase: «Mentre diventiamo conformi al Cristo che si dona, veniamo trasformati - Transformamur cum conformamur» [48]. Ritroviamo questa spiritualità nella mistica di Meister Eckhart, Giovanni Taulero, Enrico Susone e nella Imitatio Christi di Tommaso da Kempis, infine nel libretto degli Esercizi di Ignazio di Loyola, nel quale la meditazione, l’imitazione e l’intima partecipazione alla vita e alla passione di Gesù costituiscono la base dell’unità di vita contemplativa e attiva.

Questa mistica della croce entrò anche nell’arte. Mentre le rappresentazioni bizantine e romaniche della croce mostravano Gesù come il Pantokrator vittorioso, il gotico lo presenta come l’uomo dei dolori. Pensiamo in modo particolare alle croci della peste del tardo Medioevo, con cui per secoli persone in difficoltà si identificarono e mediante le quali poterono trovare sollievo. Questa spiritualità poté anche essere tradotta, nelle devozioni della Via crucis, nella religiosità popolare cristiana. Meditando piamente e con viva partecipazione sulla passione e morte di Gesù i fedeli potevano identificarsi con le stazioni della Via crucis. A Wangen nell’Allgäu, la località in cui sono nato, si pratica la devozione del Salvatore imprigionato. Essa risale a forme più antiche di devozione medievale e fu promossa nel XVIII secolo dalle visioni di Crescentia Höss di Kaufbeuren, canonizzata nel 2001. Chi non si identificherebbe con molteplici forme di prigionia: prigionieri di guerra e carcerati, internati in campi di concentramento, prigionieri politici, persone inchiodate al letto e su una sedia a rotelle, schiavi di abitudini peccaminose, persone messe all’angolo e cacciate in una situazione senza vie di uscita da forme finanziarie di incatenamento o da forme di altro genere?

Questo identificarsi con la passione e morte di Gesù poté anche condurre su sentieri sbagliati. Già nella devotio moderna e nel pietismo, poi in misura piena nell’illuminismo, la cristologia dell'imitatio si sganciò dal fondamento sacramentale oggettivo ed ecclesiale e divenne la gesuologia dell’imitatio. Gesù divenne il modello degno di essere imitato; ciò che originariamente era fondato nell’indicativo dell’azione salvifica sacramentalmente mediata divenne adesso l’imperativo di una sequela morale di Gesù [49]. Un altro pericolo fu la riduzione individualistica dell’imitatio Christi. Essa corse il pericolo di dimenticare che il carattere inclusivo della rappresentanza vicaria di Gesù significa che noi siamo attivamente inseriti nella sua rappresentanza, che la rappresentanza si spinge al di là dell’unione personale intima con lui e che deve diventare discepolato per gli altri.

Paolo si dichiarò disposto ad accollarsi la maledizione della dannazione in rappresentanza dei suoi fratelli ebrei (Rm 9,2). Questa affermazione esercitò un lungo influsso nella tradizione mistica. Sappiamo che molti santi sopportarono il deserto e la notte oscura della fede e dell’abbandono di Gesù da parte di Dio in rappresentanza vicaria di coloro che erano prigionieri della notte della lontananza da Dio e della mancanza di fede. Questa idea ricorre in modo particolare nella mistica del Carmelo, di Giovanni della Croce [50].

Teresa di Lisieux espresse costantemente questa idea della mistica del Carmelo. Vuole offrirsi come olocausto all’amore. Vede nell’amore la propria vocazione e il proprio posto nella chiesa quale corpo mistico di Cristo. Voleva gettare i fiori dell’amore dal cielo sulla chiesa sofferente per spegnerne le fiamme; voleva gettarli sulla chiesa militante per aiutarla a conseguire la vittoria [51]. Già adesso prega per i suoi fratelli che non credono. Con questo atteggiamento fu disposta ad attraversare il lungo tunnel, nel quale passò in rappresentanza attraverso gli orrori della moderna eclissi di Dio. Perciò prega per i suoi fratelli miscredenti, affinché scorgano il raggio luminoso della fede [52]. Teresa di Lisieux, che tanto avrebbe desiderato andare in terre di missione, volle aiutare i missionari con la preghiera e il sacrificio [53]. A suo giudizio lo zelo di una carmelitana deve abbracciare tutto il mondo [54].

In questa tradizione carmelitana si colloca anche Edith Stein/suor Benedetta della Croce. Durante la persecuzione degli ebrei, scatenata al tempo del nazismo, percorse, in rappresentanza del popolo ebraico, al quale sapeva di appartenere permanentemente, la via delle camere a gas di Auschwitz [55]. Massimiliano Kolbe era animato dallo stesso spirito, quando sacrificò volontariamente la propria vita a favore di un altro prigioniero, un padre di famiglia. Anche Madre Teresa visse, dopo iniziali luminose esperienze mistiche, fino alla morte in una oscurità mistica. Nota è la sua affermazione: «Se dovessi mai diventare una santa, sarò certamente una “santa dell’oscurità”. Mi assenterò di continuo dal paradiso per accendere una luce per coloro che sulla terra vivono nell’oscurità» [56].

Possiamo pensare anche a poeti come Léon Bloy, Charles Péguy e ad altri, che superarono la riduzione individualistica dell’idea della rappresentanza vicaria e affermarono la sua dimensione ecclesiale e universale. Essi concepirono nuovamente la rappresentanza vicaria come il centro della vita cristiana e l’esistenza cristiana come proesistenza. Dietrich Bonhoeffer espresse bene questo senso profondo della rappresentanza vicaria. Secondo lui, quello di cui il mondo soffre è la lontananza da Dio. E a proposito di questa sofferenza dice: «La sofferenza va sopportata affinché passi. O il mondo deve sopportarla e perire per causa sua, oppure essa cade su Cristo e viene in lui superata. Cristo soffre perciò in rappresentanza per il mondo. Soltanto la sua sofferenza è una sofferenza redentrice. Ma pure la comunità sa adesso che la sofferenza del mondo ha bisogno di uno che la porti. Perciò alla sequela di Cristo la sofferenza cade su di lui, ed egli la sopporta, mentre è a sua volta sorretto da Cristo. La comunità di Gesù Cristo sta in rappresentanza del mondo davanti a Dio seguendo sotto la croce» [57].

Nell’attuale situazione di diaspora, in mezzo a un mondo secolarizzato questa spiritualità dell’intercedere per altri e dell’entrare al posto di altri potrebbe spezzare l’orientamento di molte comunità verso il proprio interno e diventare la direttiva spirituale per oggi e per domani. Perciò un amore del prossimo vissuto in modo radicale richiama la dimensione ecclesiale, un tema a cui dobbiamo ora dedicarci.

 


[1] M. Buber, Nachahmung Gottes, in WW 11 1964, 1953-1965; U. Luz, Das Evangelium nach Matthäus (EKK 1/1), Neukirchen 1985, 312 [trad. it., Il vangelo di Matteo 1, Paideia, Brescia 2006].

[2] Cf. sopra cap. 3.

[3] Bill I, 203-205; IV, 559-610.

[4] Cf. sopra cap. 4.

[5] Per l’interpretazione e la storia dell’interpretazione cf. J. Gnilka, Das Evangelium nach Markus (EKK II/2), Neukirchen 1979, 162-168 [trad. it., Marco, Cittadella, Assisi 1987]; U. Luz, Das Matthäusevangelium (EKK 1/3), Neukirchen 1997, 269-285.

[6] Per l’interpretazione ebraica cf. Bill I, 900-908.

[7] Agostino, De trinitate VIII, 8 [trad. it., in Opere di sant’Agostino 4, Città Nuova, Roma 19872]. Molti altri passi in T.J. van Bavel, Love, in A. Fitzgerald, Augustine through Ages. An Encyclopedia, Grand Rapids/ MI - Cambridge 1999, 510s.

[8] Cf. U. Luz, Das Matthäusevangelium (EKK1/3), cit., 275s. A K. Rahner dobbiamo delle penetranti riflessioni (anche se alla fine un po’ unilaterali) sull’unità fra amore di Dio e amore del prossimo e sulla sua importanza attuale: K. Rahner, Uber die Einheit von Nächstens- und Gottesliebe, in Schriften VI, Einsiedeln 1965, 277-298 [trad. it., Unità dell’amore di Dio e del prossimo, in Nuovi Saggi 1, Paoline, Roma 1967, 385-412]; cf. anche Io., Das “Gebot” der Liebe unter die anderen Geboten, in Schriften 5, Einsiedeln 1962, 494-517 [trad. it., Il comandamento dell’amore fra gli altri comandamenti, in Saggi di spiritualità, Paoline, Roma 1966, 373-4081.

[9] Cf. W. Schrage, Der erste Brief an die Korinther (EKK VII/3), Zürich 1999, 273-373, specialmente la sintesi 319s.

[10] Agostino, In evangelium Ioannis 76, 2 [trad. it., in Opere di sant’Agostino 24/2, Città Nuova, Roma 19862].

[11] Leone Magno, Tractatus 74.

[12] Basilio, Omelia 6.

[13] Crisostomo, Commento a Matteo, Omelia 18, n. 8 [trad. it., Commento al vangelo di san Matteo, Città Nuova, Roma 1967].

[14] Basilio, Predica ai ricchi 3.

[15] Crisostomo, Commento a Matteo, Omelia 77, n. 5s. [trad. it. cit.].

[16] Crisostomo, Commento a Matteo, Omelia 47, n. 4 [trad. it. cit.].

[17] Tommaso d’Aquino, Summa theologiae II/II, q. 30, a. 4 ad 2.

[18] D. Bonhoeffer, Nachfolge, München 197110, 86 [trad. it., Sequela, Queriniana, Brescia 20082, 103-104].

[19] U. Luz, Das Matthäusevangelium (EKK1/3), cit., 307ss.

[20] Atenagora, Supplica per i cristiani 11 [trad. it., Supplica per i cristiani, Paoline, Alba 1965]; Tertulliano, A Scapula 1 [trad. it., in Opere apologetiche, Città Nuova, Roma 2006]; Origene, Contro Celso 59-61 [trad. it., Contro Celso, Morcelliana, Brescia 2000].

[21] 2 Clem 13s. [trad. it., Seconda di Clemente ai Corinti, in I Padri apostolici, Città Nuova, Roma 1976,215s.].

[22] Tertulliano, Sulla pazienza 6 [trad. it., in Opere catechetiche, Città Nuova, Roma 2008].

[23] Crisostomo, Commento a Matteo, Omelia 18, n. 3 [trad. it. cit.].

[24] Ambrogio, Sui doveri 48, nn. 233-239 [trad. it., in Tutte le opere di sant’Ambrosio 13, Biblioteca Ambrosiana - Città Nuova, Milano - Roma 1977].

[25] Agostino, Enchiridion 73s. [trad. it., in Opere di sant’Agostino 6/2, Città Nuova, Roma 1995].

[26] Tommaso d’Aquino, Summa theologiae II/II, q. 25, a. 8; cf. a. 9.

[27] U. Luz, Das Matthäusevangelium (EKK 1/3), cit., 314s.

[28] Ibid., 315; sulla questione della guerra cf. più avanti cap. 7.

[29] Ibid., 316.

[30] Al riguardo cf. il documento della Commissione Teologica Internazionale, Memoria e riconciliazione. La chiesa e le colpe del passato, in Osservatore Romano (08.03.2000) [anche in Il papa chiede perdono. Purificare la memoria, Piemme, Casale M. 2000],

[31] Cf. al riguardo, M. Zulehner, Gott ist größer als unser Herz, Ostfildern 2006, 146-152.

[32] Cf. Catechismo della chiesa cattolica, 2447.

[33] Regola di san Benedetto IV, 74 [in Vita di san Benedetto e la regola, Città Nuova, Roma 2001],

[34] C. Schönborn, Wir haben Barmherzigkeit gefunden. Das Geheimnis göttlichen Erbarmens, Freiburg i. Br. 2009, 129s. [trad. it., Abbiamo ottenuto misericordia. Il mistero della Divina misericordia, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2011].

[35] Tagebuch der Schwester Maria Faustyna Kowalska, Parvis 1990, 80s. [trad. it., Diario di suor Maria Faustina Kowalska, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2000].

[36] H. Schlier, Vom Wesen der apostolischen Ermahnung, in Die Zeit der Kirche, Freiburg i. Br. 1958, 74-89 [trad. it., Il tempo della chiesa, il Mulino, Bologna 1966].

[37] Ireneo, Adversus haereses III, 25, 7 [trad. it., in Contro le eresie e altri scritti, Jaca Book, Milano 1981, 298-299].

[38] Efrem Siro, Inni contro i falsi maestri 1.

[39] A. Fitzgerald, Mercy, works and mercy, in Augustine through the Ages, cit., 558.

[40] Agostino, Sermo 38, 8 [trad. it., in Opere di sant’Agostino 29, Città Nuova, Roma 1979].

[41] Cf., per esempio, la biografia di N. Chawla, Mutter Teresa. Die autorisierte Biographie, München 1997.

[42] Madre Teresa, Worte derLiebe, Freiburg i. Br. 19775,117.

[43] Cf. più avanti cap. 8.

[44] K.-H. Schelkle, ngerschaft und Apostelamt, Freiburg i. Br. 1957 [trad. it., Discepoli e apostolato, Paoline, Roma 1966]; H.D. Betz, Nachfolge und Nachahmung Jesu Christi im Neuen Testament, Tübingen 1967; M. Hengel, Nachfolge und Charisma. Eine exegetisch-religionsgeschichtliche Studie zu Mt 8,21s. und Jesu Ruf in die Nachfolge (Beihefte zur Zeitschrift für die neutestamentliche Wissenschaft und die Kunde der älteren Kirche 34), Berlin 1968 [trad. it., Sequela e carisma. Studio esegetico e di storia delle religioni su Mt 8,21 s. e la chiamata di Gesù alla sequela, Paideia, Brescia 1990]; D. Bonhoeffer, Nachfolge, cit. [trad. it. cit.].

[45] K.-H. Menke, Stellvertretung. Schlüsselbegriff christlichen Lebens und theologische Grundkategorie, Freiburg - Einsiedeln 19972.

[46] U. Luz - K.S. Frank - J.K. Riches - H.J. Klimkeit, Nachfolge Jesu, in TRE 23, 678-713.

[47] Tertulliano, Apologeticum 50, 14 [trad. it., L’apologetico, Città Nuova, Roma 1967].

[48] Bernardo di Chiaravalle, Cantus 62, 5. Cf. Bernardo di Chiaravalle, Rückkehr zu Gott. Die mystischen Schriften, a cura di B. Schellenberger, Düsseldorf 20022, 27-33.

[49] K.-H. Menke, Jesus ist Gott der Sohn, Regensburg 2008, 291-299.

[50] Sul tema della kenosi e della notte nella mistica cf. P. Rheinbay, Voller Pracht wird die Nacht, weil dein Glanz sie angelacht, in G. Augustin - K. Krämer, Gott denken und bezeugen (FS Walter Kasper), Freiburg i. Br. 2008, 384-386.

[51] Teresa di Gesù Bambino, Selbstbiographische Schriften, Einsiedeln 19586, 203 [trad. it. cit.]. In merito cf. H.U. von Balthasar, Schwestern im Geist. Therese von Lisieux und Elisabeth von Dijon, Einsiedeln 1970, 316-320 [trad. it., Sorelle nello spirito. Teresa di Lisieux e Elisabetta di Digione, Jaca Book, Milano 1978]; Id., Was dürfen wir hoffen?, Einsiedeln 1989, 83-86 [trad. it., Sperare per tutti, Jaca Book, Milano 1989].

[52] Teresa di Gesù Bambino, Selbstbiographische Schriften, cit., 219s. [trad. it. cit.].

[53] lbid., 226s.266 [trad. it. cit.].

[54] Ibid., 269 [trad. it. cit.].

[55] R. Leuven, Heil im Unheil. Das Leben Edith Steins. Briefe und Vollendung (Edith Steins Werke 10), Druten - Freiburg i. Br. 1983, 166: «Venite, andiamo per il nostro popolo». Al riguardo: A. Ziegenaus, Benedicta a Cruce - Jüdin und Christin, in L. Elders (ed.), Edith Stein. Leben, Philosophie, Vollendung,rzburg 1991, 129-143, spec. 137ss.

[56] Madre Teresa, Komm, sei mein Licht, a cura di B. Koodiejchuk, München 2007.

[57] D. Bonhoeffer, Nachfolge, cit., 68 [trad. it. cit.].

 


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15 ottobre 2023                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net/span>