Regola di S. Benedetto

Capitolo XVII - Salmi delle ore del giorno:
7 L'Ufficio del Vespro comprenda quattro salmi con le antifone, 8 dopo i quali si reciti la lezione, quindi il responsorio, l'inno, il versetto, il cantico del Vangelo (il Magnificat), il Kyrie e il Pater, a cui segue il congedo.

 


Nella Regola non ci sono altre citazioni di Maria


 

PRESENZA DELLA VERGINE NELLA VITA MONASTICA

Pablo Saenz. OSB

Articolo pubblicato su “Cuadernos Monásticos” n. 24 (1973), pp. 41-52.

  

1. Maria e la vita cristiana

Che ruolo gioca la Beata Vergine nella vita del cristiano? Se questa domanda fosse stata posta in un altro tempo, non dico in un altro secolo ma solo qualche decennio o, forse, qualche anno fa, sarebbe sembrata senza dubbio superflua. Sarebbe stato come porre un problema di cui conosciamo quasi istintivamente la soluzione, la cui soluzione è stata appresa insieme ai rudimenti della fede ed è cresciuta, si è rafforzata ed è diventata naturale nella nostra vita. Quale cristiano avrebbe immaginato qualche tempo fa che potesse esserci in un futuro anche solo l'ombra di una difficoltà nel pregare, dopo il Padre Nostro, l'Ave Maria?

Oggi, però, dopo il momento luminoso del Concilio, il mistero di Maria sembra entrare, per molti cristiani, in un cono d'ombra. Il processo religioso che appare con una certa frequenza nei cristiani di oggi, e che non consiste certo in un vero progresso verso forme migliori o in un netto ritorno alle fonti, sembra avvenire anche in relazione al mistero di Maria. Il ruolo della Vergine nella vita cristiana è, in molti luoghi, se non apertamente negato, almeno discusso, indebolito o complicato da considerazioni più o meno teologiche.

Molte e diverse ragioni vengono addotte per giustificare questo fenomeno. Forse il più notevole è la conferma di gravi deviazioni teologiche della devozione mariana. È vero. Bisogna riconoscere che nella storia della mariologia compaiono con una certa frequenza espressioni e paragoni che, presi alla lettera, risultano scorretti, ingiuriosi e perfino addirittura errati [1] . Bisogna anche riconoscere che negli ultimi tempi si è vista con sempre maggiore chiarezza la necessità di affinare le espressioni teologiche e di correggere gli errori. In effetti, il Concilio ha rettificato molte posizioni dubbie. Ma dobbiamo anche riconoscere che è molto importante per il cristiano non perdere l'incalcolabile ricchezza di una sana dottrina mariologica, pena la perdita del vero significato cristiano. Oggi si rischia di buttare via l'oro con le scorie, seguendo il cammino dei luterani dei primi tempi della Riforma, secondo la testimonianza dello stesso Lutero. «In passato – racconta – abbiamo pregato tante giaculatorie e rosari a Maria; ma ora dormiamo così profondamente nella preghiera a Cristo che non preghiamo nemmeno una volta all'anno» [2] . Terribile confessione che rivela una verità indiscutibile: la vita cristiana, senza la presenza di Maria, cessa gradualmente di essere una vita veramente cristiana. Bisogno misterioso di una presenza sempre essenziale da ricordare.

Nei primi secoli dell'era cristiana questa presenza è, certo, meno visibile, ma non per questo meno necessaria. Ricordiamo come appare Maria nella storia della Chiesa: Ella è come l'ombra luminosa della realtà umana del Salvatore. Il disegno della Redenzione non è concepito senza un Redentore nato da madre appartenente al genere umano. Il Signore è il nostro Redentore perché è nato da Maria; È nostro fratello perché è nato da Maria. Si può dire che tutta la Redenzione passa attraverso Maria, che Lei è il punto in cui cielo e terra entrano in contatto, come ci ha ricordato l'Ufficio del Natale. Per avvicinarci al Signore, a Cristo, per essere cristiani, dobbiamo vedere in Lui il Figlio di Dio e il Figlio di Maria: senza il riferimento a Dio, il cristianesimo è assurdo, e senza il riferimento a sua Madre, Cristo non sarebbe più nostro fratello. Non oseremmo chiamare Dio “Padre” se non potessimo chiamare Maria “Madre”. Perché siamo figli di Maria, siamo fratelli di Cristo, siamo figli di Dio. Come Cristo è Dio e uomo, così il cristiano è figlio di Dio e figlio di Maria.

Nasce così la Mariologia, con un forte accento soteriologico (Ndt: relativo a una dottrina o idea di salvezza). Non possiamo riassumere qui le numerose espressioni dei primi scrittori cristiani su questo argomento. Ricordiamo semplicemente come esempio uno dei più antichi: «Uno è il medico - scrive con equilibrata concisione sant'Ignazio di Antiochia - di carne e di spirito, generato e non creato, Dio fatto carne, vera vita nella morte, di Maria e di Dio [3] . Siamo nel II secolo. Il mistero di Maria inizia come fatto teologico necessario e allo stesso tempo come realtà vitale e vivificante della vita cristiana. Nel III secolo, in Oriente soprattutto, ma anche in Occidente, compaiono con sempre maggiore frequenza scritti su Maria, componimenti poetici in suo onore, preghiere a Lei rivolte [4] . Tra questi ultimi appare già un abbozzo del “Sub tuum praesidium” , come primizia della devozione mariana popolare [5] . Già nel IV secolo quasi tutti i Padri dovrebbero essere citati come autori che si occupano seriamente di Maria.

 

2. Maria e la vita monastica

È in questo periodo (IV sec.) di crescita e di sviluppo della coscienza cristiana circa l'importanza del mistero di Maria, che compaiono le prime manifestazioni del monachesimo nella Chiesa. In questo nuovo movimento, contrariamente a quanto ci si poteva aspettare, non si scopre un entusiasmo per la Beata Vergine, simile a quello che emerge negli scritti dei grandi Padri della Chiesa contemporanei. Come si spiega questo avvenimento? Logicamente i monaci, dediti per loro stessa vocazione ad una maggiore interiorizzazione della vita cristiana, avrebbero duvuto scoprire molto presto l'importanza di Maria. Ma, bisogna ammetterlo, non è stato così. Le prime generazioni di monaci, proprio quelli vissuti nel periodo che è stato definito l'età dell'oro della vita monastica, difficilmente parlano di Maria. È possibile il cristianesimo senza Maria, o una vera vita monastica al di fuori del suo mistero?

Qui sorge quasi spontaneo il ricordo delle critiche alla vita monastica che l'accusano di essere una deviazione dalla vera vita cristiana, deviazione promossa da correnti filosofiche o religiose estranee al cristianesimo, come il platonismo o il manicheismo. La vita monastica sarebbe una forma di gnosi dalla quale la Chiesa si è andata affrancando poco a poco nel corso della storia, e questa origine spuria sarebbe ciò che spiegherebbe la grave assenza di Maria, proprio alle sue origini.

È vero che questo tipo di critica non regge ad un esame serio. La vita monastica ha un fondamento evangelico che nessuno può negare. Lunghe generazioni di santi monaci lo hanno proclamato esistenzialmente prima che i Papi e gli studiosi di spiritualità monastica di questo secolo, e lo stesso Concilio Vaticano II [6] , si preoccupassero di chiarirlo. Ma proprio questa certezza che la vita monastica ha un fondamento evangelico è qualcosa che deve farci riflettere profondamente sull'assenza di Maria.

C'è un dato forse di capitale importanza per comprendere il rapporto della prima vita monastica con il mistero di Maria. Partiamo da una realtà: i monaci dei primi secoli sono, se così si può parlare, apparentemente indietro nella comprensione esplicita dell'importanza di Maria, rispetto ai Padri contemporanei. Ricordiamo, come semplice esempio, l'assenza di Maria nella Regola di san Benedetto [7] . Ma accade qualcosa di insolito: non appena i monaci cominciano a scoprire la presenza di Maria, avviene una reazione molto grande. La spiritualità monastica riceve pienamente il contributo della spiritualità mariana come qualcosa di innato, come qualcosa che le appartiene. Si ha l'impressione che questo incontro sia qualcosa di preparato in anticipo, qualcosa che si è sviluppato in profondità.

Se scorriamo velocemente i nomi dei grandi mariologi dall'Alto Medioevo in poi, scopriamo che la stragrande maggioranza sono stati monaci. Limitandoci all'Occidente, pensiamo a Beda il Venerabile, Ambrogio Autperto, Paolo Diacono, Alcuino, Valafrido Strabone, Rabano Mauro, Pascasio Radberto, Odilone di Cluny, Pier Damiani, Anselmo di Canterbury, Eadmero di Canterbury, Ruperto di Deutz, fino a raggiungere Bernardo di Chiaravalle con tutti i suoi successori [8] . Fu soprattutto nel clima dei monasteri che emersero e cristallizzarono le antifone più ispirate, come l'“Alma Redemptoris Mater” e la “Salve Regina”; dove si affermarono e consolidarono le grandi forme di devozione alla Beata Vergine, come l'Ufficio Parvo; dove furono pronunciate e scritte espressioni senza precedenti di fiducia, amore e ammirazione. Ricordiamo, ad esempio, la delicatezza spirituale e la meravigliosa bellezza di un “réspice stellam, voca Mariam” della predica della Natività di San Bernardo.

Percorrendo le opere monastiche medievali sulla Beata Vergine, si ha l'impressione che il monaco sia connaturalmente destinato ad un amore speciale verso Maria, come se la sua stessa professione lo conducesse ad esso, come se la sua vocazione fosse coinvolta nel mistero di Maria. Perché sembra difficile che l'amore di Maria avrebbe potuto germogliare con tanto vigore in campo monastico se questo non fosse stato una terra d'elezione e non vi fosse stato appositamente preparato. E questo ci sembra di capitale importanza.

Ogni vocazione ha qualcosa che non si verifica allo stesso modo nelle altre. La vocazione monastica, come ogni vocazione cristiana, ha qualcosa di proprio, qualcosa di originale, qualcosa che presuppone, da parte di Dio, la grazia di una luce particolare, e da parte del monaco, una risposta alla propria esigenza. È una vocazione. Pertanto, se ci chiediamo se esiste una certa connaturalità tra la vocazione monastica e il mistero di Maria, pensiamo ad un rapporto speciale con Lei. Senza dubbio, il nucleo della fede del monaco nel mistero di Maria è lo stesso di ogni cristiano, ma è anche possibile che Dio lo abbia chiamato a viverlo in modo speciale.

Nell'indagare la relazione che può esistere tra il mistero di Maria e il monaco, è necessario, anche se provvisoriamente, concordare cosa intendiamo con esso. È noto che l'espressione ha attraversato molti secoli e che c'è una certa imprecisione nel significato che le viene attribuito. Qui per “monaco” intendiamo ciò che gli antichi comunemente intendevano. Per dirla con le parole di un vecchio monaco, San Massimo il Confessore, “un monaco è colui che ha separato il suo spirito dal mondo materiale per unirsi saldamente a Dio attraverso l’autocontrollo, la carità, il canto dei salmi e la preghiera” [ 9] . In altre parole, monaco è colui che si è dedicato alla ricerca di Dio in una vita di ascesi, che comprende il silenzio, la solitudine, il lavoro, ecc., e in una vita d'amore, nella preghiera [10] . Gli autori antichi non parlano di nessun altro scopo della vita monastica.

Non lo aggiungiamo neanche noi. Per questo osiamo dire che identifichiamo il monaco con il contemplativo, purché spogliamo il termine contemplazione di tutto ciò che di presuntuoso o di vano vi può aggiungere la piccolezza degli uomini, e lo intendiamo come l'atteggiamento più nobile e umile di cui è capace il cuore umano Ci chiediamo allora quale ruolo abbia la Vergine nella vita del monaco, di quel cristiano che, rispondendo a una chiamata di Dio, ha consacrato la sua vita a cercarlo nel silenzio, nel lavoro, nella preghiera.

Ciò che il Nuovo Testamento ci racconta della Beata Vergine è quantitativamente ridotto: il racconto della nascita del Signore, alcune frasi sparse in tutto il Vangelo, qualche allusione in san Paolo, e la sua presenza sulla croce e nella Chiesa nascente. Ma quelle poche frasi hanno avuto una fecondità spirituale incommensurabile; hanno scoperto un aspetto molto profondo del mistero di Cristo.

Abbiamo detto che il mistero di Maria è essenziale per il cristiano perché coinvolto nel mistero della Redenzione. Ma Maria, poiché è la Madre del Signore, è, in persona, cammino verso il Signore, verso la sua conoscenza e il suo amore. Maria ci mostra un aspetto di Cristo, un aspetto molto importante della sua persona. È come un prisma che ti permette di scoprire la ricchezza dei colori nascosti nella luce bianca. Tutti i santi hanno il compito di indicarci una via nella quale è possibile imitare il Signore, ma la Beata Vergine, posta al vertice dei testimoni dell'Amore, ha per eccellenza quella missione di mostrarci nella sua persona la realtà di Cristo. Perciò, quando guardiamo verso la Vergine, scopriamo qualcosa di Cristo. Parlare con lei è come parlare al Signore attraverso di lei. Ascoltarla è come sentire la voce di suo Figlio.

Tuttavia il dialogo con María ha un carattere molto particolare. Quando ci parla, non lo fa esponendo una dottrina o istruendoci con una predica, ma con il linguaggio più eloquente che sono solite usare le mamme: con la sua vita, con i suoi atteggiamenti, con il suo silenzio, con il suo amore. Quindi, se vogliamo ascoltare quella lingua, abbiamo bisogno di molta attenzione. Quando è Lei che ascolta, colei che accoglie la nostra preghiera, il nostro amore, la nostra vita, lo fa anche in un modo che le è proprio, lo fa come nostra madre, con tutto ciò che comporta l'attenzione di una madre. In entrambi i casi, sia che ascoltiamo sia che parliamo, il dialogo non è semplicemente con una madre, ma con la Madre del Signore, e questo genitivo determina in modo decisivo il nostro colloquio: Maria è del Signore, e anche la nostra partecipazione al mistero di Maria è partecipazione al mistero che unisce l'umanità alla divinità.

Il monaco, chiamato dal Signore a seguirlo da vicino, ha da Lui tracciato il suo cammino, deve imitare un aspetto della sua vita. Questo aspetto, ci sembra, è decisamente simile a quello che Cristo illumina per noi nel mistero di Maria. Se questo è vero, la vocazione del monaco è fondamentalmente dialogo con Maria, nel senso più profondo dell'espressione.

 

3. Incontro

Nel voler stabilire l'esistenza di un rapporto speciale tra la vita monastica e il mistero di Maria faremo riferimento solo ad alcuni aspetti di entrambi. Ciò che ci interessa è scoprire se c'è davvero un incontro profondo e non superficiale, un incontro vero e non una semplice coincidenza. Questo incontro non dovrà essere ricercato nella meta ultima che è la carità, e che è comune a tutta la vita cristiana senza eccezione, ma nei mezzi per raggiungerla, o se si vuole, nei fini intermedi, propri della vocazione monastica. Consideriamo allora alcuni dei grandi temi, quasi luoghi comuni negli scritti dei primi autori monastici, per scoprire il loro parallelismo in Maria.

 

a) Annunciazione

La Regola benedettina si apre con una prospettiva di obbedienza. Per san Benedetto il monaco si realizza, come diremmo oggi, nell'obbedienza. Obbedienza all'abate, al fratello, alla Regola, alla tradizione, alla Chiesa, ovvero sempre obbedienza al Padre. Come quella di Cristo. In questo, la Regola è una codificazione ed un'eco della precedente dottrina monastica. Anche nella vita eremitica l'obbedienza del discepolo al padre spirituale è considerata essenziale. Nel monachesimo antico l’obbedienza è come una componente del ritorno a Dio. Il monaco nasce alla vita monastica con un atto di obbedienza, per un atto di obbedienza. Accetta con gioia la volontà di Dio con un atto generosamente indefinito che, nel corso degli anni, dovrà concretizzarsi con costante accettazione.

In ogni vocazione cristiana c'è il mistero dell'obbedienza. Ma riconosciamo che esso ha un ruolo del tutto speciale nella vita monastica: la realizza, la costituisce, la penetra, le dà la sua grandezza, la illumina. E quando manca, la sua assenza lo corrode, lo distrugge, e lascia solo una caricatura che prima o poi svanisce.

L'obbedienza monastica è, evidentemente, un modo di imitare l'esempio comune a tutti gli uomini: l'obbedienza di Cristo. Ma forse si può dire che questo modo è l'obbedienza di Cristo vista attraverso il prisma di Maria.

Il Vangelo ci mostra Maria nel momento culminante in cui Dio la eleva alla dignità di Madre del Salvatore, come colei che ha il coraggio di dire a Dio un “sì”, un “sì” assoluto. Sembra che il suo esempio vivente ci dica che la cosa più grande e meravigliosa dell'universo consiste nel lasciare penetrare la volontà di Dio nell'anima. La stessa vocazione di Maria si riassume in un sì, si realizza in un sì, un sì misteriosamente indefinito che accoglie la vocazione, la chiamata di Dio fino alle ultime conseguenze, fino alla sua presenza sulla croce e al nuovo incontro della Risurrezione. È il suo modo di realizzare in sé l'obbedienza di Cristo. È il suo modo di entrare nel mistero della Redenzione. È la sua missione molto speciale e il suo segreto.

Fatta eccezione per la grandissima differenza di profondità, c'è una grande affinità tra il “fiat” della Vergine e il “suscipe” del monaco. Il primo è un parto meraviglioso, consumato in un istante con la generosità di un amore incondizionato che non calcola le conseguenze; donazione faticosa quella del “suscipe”, che deve rinnovarsi e confermarsi lungo un cammino arido dove si annida in ogni momento una nuova forma di egoismo. Sono diverse le dedizioni, ma sono misteriosamente unite da un desiderio molto reale di essere di Dio, di lasciare che la volontà di Dio penetri nel profondo del nostro essere.

 

b) Umiltà

“Perché ha guardato l’umiltà della sua serva” (Lc 1,48). La Vergine stessa ci dichiara il segreto dello sguardo di Dio: la sua povertà, il suo nulla. È possibile avvicinarsi alla comprensione della vocazione di Maria solo se prestiamo attenzione a quella condizione preliminare, a quella preparazione del terreno. Dono di Dio anche questa preparazione; Dio è sempre al primo posto. La Beata Vergine sa che Dio ha preparato la sua anima e lo spiega con semplicità a santa Elisabetta: “L’umiltà della sua serva”.

L'umiltà della Vergine non costituisce direttamente la sua grandezza. La sua grandezza è essere Madre di Dio. Ma la sua umiltà è la preparazione immediata alla sua maternità, e la maternità cresce e si sviluppa in lei come un seme in una terra buona. Non potremmo immaginare una Vergine santa che non fosse profondamente, incommensurabilmente umile, lei, la Madre dei miti e degli umili di cuore.

Il Vangelo non ci racconta un atto fondamentale di umiltà parallelo a quello della sua obbedienza, ma ci fa intravedere alcuni silenzi di Maria che ci parlano dell'umiltà serena e profonda del suo canto.

Niente è più chiaro nella primitiva spiritualità monastica dell'eco dell'umiltà di Maria. Se ricordiamo il capitolo settimo della Regola di san Benedetto, in gran parte ripreso da Cassiano, che mira unicamente ad esporre la spiritualità dei Padri del deserto, dovremo dire che l'umiltà è, per la più antica tradizione monastica, la virtù fondamentale. È un programma di vita, che dà consistenza alla “vita pratica” del monaco, e ciò che garantisce che la sua “vita teorica” non si trasformi in qualcosa di puramente immaginativo o scompaia come ideale. È un programma di vita dolorosamente impegnativo, e forse è per questo che corre sempre il rischio di essere relegato come qualcosa di poco importante e che non ha la stessa giurisdizione sui piccoli dettagli di ogni giorno. La verità è che il monachesimo primitivo credeva fermamente che l’umiltà dovesse permeare l’intera vita del monaco, legittimo successore dei “poveri di Yahweh”. Umile davanti a Dio, come il pubblicano del Vangelo, umile fino all'estremo davanti agli uomini, san Benedetto ci descrive nella sua Regola l'immagine del vero monaco.

L'umiltà, fondamentale per comprendere il mistero di Maria, è fondamentale anche per comprendere l'antica concezione della vita monastica. Un'umiltà nello stile di Maria, seria, silenziosa, gioiosa, profonda, che si mescola alle occupazioni di tutti i momenti, che accetta tutte le prove, che ama, come d'istinto, scomparire nel silenzio della vocazione divina. E questo ci porta alle porte dell'Amore [11] .

 

c) Vita nascosta

Il monaco, come appare nella Regola di San Benedetto, è qualcuno che vive intensamente l'assoluto di Dio. L'ultimo grado della scala dell'umiltà lo mostra assorbito dall'incontro con una misericordia infinita: Dio ha occupato tutta la sua attenzione, ha riempito tutta la sua vita. Nel monachesimo nascente questa apertura a Dio è molto chiara. Si esprime soprattutto nella fuga nel deserto, che è più una ricerca dell'assoluto che un rifiuto di qualcosa di brutto. Il monaco ha un istinto spirituale che lo porta alla solitudine. Il suo stesso carisma, la luce della sua vocazione, la sua scoperta esistenziale di Dio, gli mostrano la grande saggezza che sta nello scomparire agli occhi del mondo.

Il tema del monaco che si nasconde dalla gente e che, una volta scoperto, fugge nuovamente in una maggiore solitudine, si ripete instancabilmente fin dalla Vita di sant'Antonio. Certamente una così marcata insistenza su un tema della letteratura monastica significa qualcosa. Niente è più estraneo alla spiritualità del deserto che voler apparire in pubblico, voler influenzare le folle, voler attirare l'attenzione su di sé o cercare qualcosa che abbia a che fare con ciò che oggi chiamiamo pubblicità, non importa quanto sia buono lo scopo prefissato. L’ “ama nesciri et pro nihilo reputari” (Desidera di essere ignorato e di essere ritenuto un nulla) dell’Imitazione di Cristo non fa altro che riprendere una legge molto elementare del monachesimo primitivo.

La solitudine fisica, la mancanza di contatto con il mondo, è per l'antico monaco, anche per l'eremita, in un certo senso sempre relativa. Possono verificarsi circostanze in cui ciò è legittimamente molto mitigato. Ma ciò che non viene mai meno è la profonda inclinazione al deserto interiore, alla vita nascosta, non come disprezzo del mondo ma come scelta di Dio. Questa modalità, questa sottile forma interiore, che permea tutta la spiritualità del monachesimo primitivo, ci apre una prospettiva sulla realtà intima della vita monastica in relazione al mistero di Maria.

Maria non si è mai separata dalla società umana. Non è andata nel deserto guidata da una speciale vocazione di Dio. Ma la sua vocazione più alta aveva il sigillo di ciò che era nascosto, di ciò che era aperto solo a Dio. La sua vita, come la conosciamo dal Vangelo, è come un'ombra della vita del Signore. La sua vocazione, che per sua stessa essenza è aperta a tutta l'umanità, è nascosta nel segreto di una vita come ogni altra vita. Il Signore la circonda con l’involucro dell'ordinario, del quotidiano. Il suo intervento nella vita del Signore è apparentemente così piccolo, così lontano, eppure nessuno come lei partecipa all'opera della Redenzione. Maria non predica, non accompagna il Figlio nelle sue peregrinazioni apostoliche. Il Vangelo non ce la mostra quasi mai mescolata alla folla. Maria non ha alcun comportamento risonante. Lei è presente solo per accompagnare il Signore accanto alla croce. La sua missione più importante è di “essere”, piuttosto che di “fare” qualcosa per Dio.

Pensiamo alla profonda coincidenza di questo aspetto della vocazione di Maria con quella dei primi monaci. Il suo ideale è quello della vita nascosta in Cristo per Dio, quella di una vita che si realizza pienamente nel segreto, che non ha bisogno di alcuna attività speciale per giustificarsi, che si consuma velata in occupazioni apparentemente umili ma che, in fondo, è una meravigliosa partecipazione alla Redenzione del Signore.

 

d) Preghiera

Se la vocazione alla preghiera è una vocazione universale, è anche vero che la vocazione monastica, così come concepita dagli antichi monaci, può chiamarsi specificamente vocazione alla vita di preghiera. Il suo deserto, la sua solitudine, il suo silenzio, la sua vita nascosta sono tanti sforzi per ampliare la capacità dell'anima di accogliere il Signore.

È difficile specificare in cosa consista specificamente la preghiera monastica; c'è il rischio di schematizzare e deformare. Puoi però provare a scoprire alcune delle sue caratteristiche principali. La preghiera del monaco, nella grande varietà che può esistere, è una preghiera che vuole essere un incontro ininterrotto con il Signore, un cammino alla sua presenza. Più che una serie di atti che interrompono altre attività, la preghiera monastica aspira ad essere un clima di comunione costante in cui trovano spazio, a tempo debito, i momenti espressamente dedicati alla preghiera e alle attività necessarie della giornata. Quanti sforzi, quanti espedienti spirituali impiegavano gli antichi monaci per raggiungere l'”apatheia”, la pace spirituale, quella pace che così giustamente è stata considerata il tema dei monaci e che è il vero clima dove fiorisce la preghiera della presenza! Questo tipo di preghiera era per loro così importante che si può dire che fosse ciò che determinava gran parte dell'organizzazione della loro vita e della struttura monastica esterna.

Questo tipo di preghiera ha qualche rapporto con ciò che sappiamo della preghiera di Maria? Se ci proponiamo di esaminare la preghiera della Beata Vergine, certamente non ne scopriremo mai le dimensioni. Il Vangelo, dal canto suo, ci dice poco direttamente al riguardo . Qualcosa però sappiamo. Sappiamo che prima di diventare Madre di Dio, la sua preghiera era una preghiera di speranza, e che quella speranza si trasformava in una convivenza con il Signore, una convivenza che subisce una grandissima evoluzione. Essa comincia con la convivenza fisica, con l'unità quasi fisica del tempo in cui il Signore abitava nel suo grembo santissimo. Così la nascita, l'infanzia e la giovinezza di suo Figlio si allontanano e trasformano quella convivenza fisica. Quando arrivano gli anni della vita pubblica, la distanza è ancora maggiore, e ancora maggiore sulla croce, quando il Figlio non le appartiene più. Ma la “presenza” di Maria è sempre più profonda. La sua vita e la sua preghiera diventano sempre più confuse dal momento iniziale dell'annunciazione, e si aprono alla piena realizzazione dell'eternità. Maria viene assunta in cielo e la pienezza della sua vita si consuma nell'ininterrotta preghiera di gloria.

Preghiera - vita. Questa equazione, avvenuta così meravigliosamente in lei è, in un certo modo, ciò che il monaco con molta umiltà, con molta pazienza, cerca di trovare. In un altro modo, per un'altra strada, per la lunga deviazione dello sforzo di purificare la sua anima. Dolorosamente. Ma nonostante tutto si può dire che da lei il monaco imparò la lezione. Il Vangelo gli ha rivelato il suo modo di pregare mostrandogli il mistero di Maria.

 

e) Colei che spera

Un aspetto caratteristico dell'antica spiritualità monastica è l'enfasi sulla speranza. Basata su un mistero della presenza e della lontananza da Dio vissuti simultaneamente, è come il clima indispensabile del modo monastico di ricercarlo. La presenza palpabile nella fede, nella preghiera, nell'obbedienza, nel silenzio, insieme all'assenza di quel Dio invisibile e lontano che sfugge allo sguardo e ad ogni esperienza sensibile.

La speranza è uno dei temi più necessari degli scritti monastici. Anche se spesso non se ne occupano direttamente, lo si scopre facilmente sotto le espressioni più diverse. Pensiamo, ad esempio, al prologo della Regola di san Benedetto o alla prima Conferenza di Cassiano. Ma non solo le opere monastiche, ma tutta la vita dell'antico monaco ci parla di speranza, anche nei più piccoli dettagli del suo cammino. La sua abitudine, il suo cibo, le sue letture, le sue preoccupazioni spirituali, il suo impegno ascetico, tutto ci dice che ha preso molto sul serio ciò che riguarda la figura di questo mondo, che siamo cittadini del cielo, non di questa terra.

Questa spiritualità con una notevole enfasi sulla speranza, evidentemente fondata su numerosi testi biblici, ed ereditata dalle prime generazioni cristiane, ha avuto la sua realizzazione concreta nella persona di Maria. Maria, prima dell'Incarnazione, riassume la speranza del popolo ebraico, di tutta l'umanità, dell'intero universo che attende misteriosamente la venuta del Salvatore. E Maria, dopo la dipartita del Signore, sintetizza anche tutto il desiderio di consumare l'incontro con il Signore nell'eternità. Nessuno come lei ha atteso la venuta del Signore, né il momento della sua partenza verso di Lui. La sua vita è divisa in due periodi di immensa speranza, interrotti da anni di presenza.

Maria è la Madre della speranza, è il segno di una speranza invincibile, salda nei momenti di pace del ritiro di Nazaret come nei momenti di buio, quando calavano le ombre del pomeriggio del primo Venerdì Santo. Maria è la realizzazione anticipata e perfettissima della speranza della Chiesa. Ecco perché i monaci, quando assumono nella loro vita, con tanto rigore, questo aspetto fondamentale della vita cristiana, quando parlano con tanta insistenza della necessità di vivere con lo sguardo rivolto al cielo, non fanno altro che avvicinarsi al mistero di Maria. L'amore del monaco, come l'amore di Maria, si esprime attraverso la speranza. E tra l'amore e la speranza, la pace [12] .

 

f) Vergine

Chiamare Maria “Santissima Vergine” è per noi una cosa così comune che corriamo il rischio di dimenticare che stiamo rendendo la lode più grande che possiamo dare alla verginità. Sembra addirittura che ne facciamo la prerogativa più importante, la prerogativa per eccellenza di Maria. Sappiamo, però, che non è così, che la cosa più grande di Maria è l'essere Madre di Dio, che la sua maternità è incastonata come una pietra preziosa nel quadro della verginità. Vergine e Madre. I due titoli si completano a vicenda e ci conducono nella profondità del mistero di Maria. Ma, nonostante tutto, l'intuizione cristiana o l'istinto dei fedeli ha scoperto, forse, che il primo dei titoli è qualcosa, in un certo modo, più vicino alla nostra piccolezza, qualcosa di più facile da pronunciare, prima di inchinarsi davanti al mistero della maternità. La verità è che Maria è da secoli la Vergine, la Vergine per eccellenza, la Vergine Santissima.

La verginità, come modo di consacrarsi a Dio, ha nella Chiesa una storia antica quanto lei. Uno schema di questo tipo di consacrazione appare già in San Paolo. Quando appare la vita monastica si coglie subito il valore spirituale della verginità. Questo, o se si vuole, il celibato, che in questo caso ha una valenza simile, è considerato un presupposto necessario della vita monastica, come preparazione ai doni di Dio, come espressione chiarissima dell'essere esclusivamente di Dio [13] . Non è possibile ammettere seriamente altre ragioni decisive per spiegare il celibato nella vita monastica che il desiderio di prepararsi alla venuta del Signore, di occuparsi totalmente delle cose del Signore, come dice san Paolo. Il celibato è un modo per il monaco di dire al Signore che vuole prendere molto sul serio quella sua esigente ripetizione: «tutto il tuo cuore, tutta la tua anima, tutta la tua forza, tutta la tua mente». Il celibato o verginità è, per il monaco, un atteggiamento di preparazione, di attesa. Come per la Santissima Vergine. E poiché tutta la vita del monaco è preparazione alla venuta del Signore, ecco perché il celibato o la verginità non significano per lui uno stato in cui si è più liberi di lavorare in questa o quella attività, ma piuttosto un cuore più libero di attendere l'incontro col Signore. Come la Santissima Vergine.

Ricordiamo che, etimologicamente, la parola “monaco” ha una stretta relazione con il significato delle parole “vergine” o “celibe”. Monaco, “monachos”, è colui che vive solo, il solitario. E la prima solitudine è quella di non avere moglie né marito. La nostra espressione “single” non è altro che una derivazione della parola “solitario”. Essere monaco, essere solo, implica essere celibe, vivere verginalmente. Certamente questa, considerata in sé, non è la cosa più importante della vocazione monastica; molto più importante è la dedizione positiva a Dio. Tuttavia, l’intuizione o istinto cristiano dei primi secoli, come nel caso di Maria, preferiva designare il monaco proprio con quella parola che esprimeva la solitudine della sua verginità, perché sarebbe stata più facilmente compresa come segno di una vita cristiana che doveva essere caratterizzata da una dedizione totale a Dio.

 

Conclusione

Abbiamo delineato molto rapidamente alcuni punti di contatto tra la spiritualità monastica e il mistero di Maria. Non sono certamente gli unici, ma altre questioni importanti rimangono irrisolte. In ogni caso, ai nostri fini, l'immagine evangelica di Maria, la Vergine, l'umile, l'obbediente, colei che prega, colei che aspetta, è una figura troppo vicina all'ideale monastico dei primi monaci perché non sia lecito pensare a una spiritualità mariana implicita, più vissuta che formulata.

Il monaco dei primi secoli aveva senza dubbio la grazia di saper ascoltare, e sappiamo quanto sia importante per il monaco saper ascoltare [14] . E Maria parlava. Parlava molto di nascosto, quasi con la sua sola presenza, come nel Vangelo. Il primo monachesimo ebbe l'enorme merito di scoprire, con la sua sensibilità spirituale, la prima parte del dialogo. Poi, poco a poco, comincia il secondo: i monaci cominciano a parlare a Maria e, di conseguenza, a parlare di Maria. Dialogo fruttuoso che ha segnato tappe fondamentali nella storia dei monaci e della Chiesa.

I tempi di San Bernardo, evidentemente, sono passati. Oggi si avverte o si percepisce in molti luoghi una grave difficoltà a valorizzare il dialogo con Maria. Non è un segreto che la devozione spontanea e gioiosa alla Madre di Dio sia limitata o rallentata. Si potrebbero dare molte ragioni per spiegare questo fatto, ma qui ci limitiamo ad azzardarne una sola, a titolo di ipotesi. La seconda parte del dialogo non si è forse indebolita, proprio perché la prima parte si sta estinguendo? In un tempo che dovrebbe essere di rinnovamento, uno dei modi per ravvivare la vita monastica potrebbe essere quello di riprendere il dialogo con Maria come hanno fatto i nostri Padri, cominciando dall’ascolto esistenziale della sua voce.

La dislocazione, quella grande malattia contagiosa del nostro tempo che invade tutti i campi dell'attività umana, può aver raggiunto in una certa misura la vita monastica. Maria, in modo molto dolce ma molto fermo, insegna al monaco di oggi, come sempre, a essere al suo posto. Uno dei pochissimi apoftegmi dei Padri del deserto che ci parla di Maria riassume in poche parole tutto ciò che questo articolo vorrebbe dire:

«L'abate Poemen un giorno fu sorpreso in estasi. Ritornando in sé, gli fu chiesto dove fosse stato: “Il mio spirito era lì, dove la Santissima Vergine, la Theotokos, stava piangendo presso la croce. E vorrei piangere sempre così”» [15] .

 

Per il monaco forse l’inizio di una seria devozione a Maria non consiste, quindi, in lunghe preghiere rivolte in suo onore o, ancor meno, nel parlare molto di Lei, ma nello sforzo di identificarsi con quella “qualità” che ha determinato la sua vocazione, seguire il suo cammino fatto di umiltà, silenzio, obbedienza, preghiera, speranza. Di una speranza che si apre all'Amore.

 


[1] La questione degli abusi della devozione mariano è una delle preoccupazioni, non solo della Riforma, ma di molti autori cattolici. Si veda a questo proposito il lavoro di H. GRAEF María, trad. castellana di Herder,1967.

[2] Ed. Weimar, t. 36, pag. 152. Citato da H. GRAEF, oc, p. 351.

[3] Efesini 7; PG 5.650.

[4]  Cfr. Corpus marianum patristicum I, raccolto da Sergio ÁLVAREZ CAMPOS, OFM, Burgos 1970. Ed. Aldecoa.

[5] Citato da H. GRAEF, op. cit., pag. 55.

[6] Decreto Perfectae Caritatis 1.

[7] Fatta eccezione per la preghiera quotidiana del Magnificat, di cui la Regola è la prima testimonianza, in essa non si trova nulla che riguardi la Beata Vergine.

[8] Si veda: Devozione e teologia mariana nel monachesimo benedettino di Jean LECLERCQ, in Maria. Studi sulla Santa Vergine, diretti da Hubert du MANOIR, SJ, Parigi1952: t. II. P. 578.

[9] Centurie sulla carità, II Cent. 54; PG 90,1001.

[10] Questi elementi della vita monastica si trovano nel Decreto Perfectae Caritatis n. 7, quando si parla di istituti puramente contemplativi.

[11] RB cap. 7, alla fine.

[12] «La carità nasce dalla pace interiore, e la pace interiore dalla speranza», dice san MASSIMO il CONFESSORE nella sua prima Centuria sulla carità, 2: PG 90,961.

[13] Cfr., ad esempio, l'inizio del libro Basi della vita monastica, di EVAGRIO PONTICO; PG 40,1252ss.

[14] Cfr. RB, inizio del Prologo.

[15] POEMEN 144, PG 65, 357.

 


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5 febbraio 2024                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net