Regola di S. Benedetto

Capitolo III - La consultazione della comunità: Ogni volta che in monastero bisogna trattare qualche questione importante, l'abate convochi tutta la comunità ed esponga personalmente l'affare in oggetto. .......... I monaci poi esprimano il loro parere con tutta umiltà e sottomissione, senza pretendere di imporre a ogni costo le loro vedute.

Capitolo VI - L'amore del silenzio: Dunque l'importanza del silenzio è tale che persino ai discepoli perfetti bisogna concedere raramente il permesso di parlare, sia pure di argomenti buoni, santi ed edificanti, ........ Se infatti parlare e insegnare é compito del maestro, il dovere del discepolo è di tacere e ascoltare. Quindi, se bisogna chiedere qualcosa al superiore, lo si faccia con grande umiltà e rispettosa sottomissione.

Capitolo VII - L'umiltà: Il secondo grado dell'umiltà è quello in cui, non amando la propria volontà, non si trova alcun piacere nella soddisfazione dei propri desideri, ma si imita il Signore, mettendo in pratica quella sua parola, che dice: "Non sono venuto a fare la mia volontà, ma quella di colui che mi ha mandato". Così pure un antico testo afferma: "La volontà propria procura la pena, mentre la sottomissione conquista il premio". Terzo grado dell'umiltà è quello in cui il monaco per amore di Dio si sottomette al superiore in assoluta obbedienza, a imitazione del Signore, del quale l'Apostolo dice: "Fatto obbediente fino alla morte".

Capitolo LXVI - I portinai del monastero
Alla porta del monastero sia destinato un monaco anziano e assennato, ... Quindi, appena qualcuno bussa o un povero chiede la carità, risponda: "Deo gratias!" Oppure: "Benedicite!" e con tutta la delicatezza che ispira il timor di Dio venga incontro alle richieste del nuovo arrivato, dimostrando una grande premura e un'ardente carità.

Capitolo LXVIII - Le obbedienze impossibili
Anche se a un monaco viene imposta un'obbedienza molto gravosa, o addirittura impossibile a eseguirsi, il comando del superiore dev'essere accolto da lui con assoluta sottomissione e soprannaturale obbedienza.

 


 

NELL’OFFICINA DELLA MANSUETUDINE

estratto da "Mansuetudine: volto del monaco" di Anna Maria Cànopi O.S.B. - Edizioni La Scala 1995

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Il capitolo quarto della S. Regola presenta in sintesi i vari aspetti in cui il monaco, come pure il cristiano, deve impegnarsi ad incarnare la mansuetudine evangelica nel quotidiano della sua esistenza consacrata a Dio.

Ci soffermiamo sugli strumenti per le buone opere più significativi al riguardo. Anzitutto i comandamenti di Dio, che si riassumono nel grande comandamento dell’amore e nel rispetto della vita: - Non uccidere - Non commettere adulterio - Non rubare - Non assecondare la concupiscenza - Non dire il falso... -. E poi, di conseguenza, gli strumenti per l’edificazione di un’autentica civiltà cristiana, di una vera città della pace.

“Onorare tutti gli uomini”: è possibile onorare tutti gli uomini se non si è miti, se non si ritengono gli altri superiori a sé e non ci si mette davvero al loro servizio? Onorare tutti gli uomini come immagine di Dio e, più ancora, come una presenza viva del Cristo: questo è il presupposto indispensabile per un cammino di giustizia, nella verità.

“Rinunciare totalmente a se stesso per seguire Cristo”: è il tenersi costantemente nell’atteggiamento di dimissione da sé per seguire Cristo; il lasciare se stessi e consegnarsi a colui al quale già apparteniamo. Se uno non è e non vuole essere mite, può forse mettersi alla sequela di Cristo? Può vivere nella comunione fraterna chi non accetta il giogo della carità?

Le opere di misericordia corporale e spirituale sono tutte opere di mansuetudine. Chi è egoista e troppo occupato a pensare a se stesso, non trova né tempo né modo di pensare agli altri; neanche li vede... Il suo occhio è cosi appannato, così rivolto verso di sé da non saper neppure accorgersi del prossimo che gli vive o gli muore accanto.

“Rendersi estraneo al modo di pensare e di agire del mondo”: la mentalità del mondo è quella della sopraffazione, dell’arrivismo ad ógni costo, del cercare il proprio comodo, del banalizzarsi nella superficialità delle cose, dell’efficientismo a tutti i livelli. Alla radice di tutto questo c’è la ricerca di se stessi, il rovesciamento della prospettiva e del fine dell’uomo secondo il piano divino. È proprio quanto il monaco deve respingere, perché il suo atteggiamento fondamentale, che lo costituisce vero discepolo, è di cercare Dio e non se stesso. Il costume del mondo si oppone radicalmente ad una vita basata sull’umiltà, sull’espropriazione di sé per essere di Cristo e quindi a disposizione di Dio per la salvezza di tutti.

Quanti “rimasugli” - e fossero solo “rimasugli” - della mentalità del mondo troviamo ancora in noi! Dobbiamo diventare sempre più esigenti nella diagnosi del nostro male; dobbiamo acquisire la capacità di volgere uno sguardo franco su noi stessi, per saper smascherare i nostri vizi. Quando confessiamo il nostro peccato, anche se poi per fragilità vi cadiamo ancora, non gli apparteniamo già più, non ne siamo più schiavi. Se vissuta così, ogni tentazione diventa esperienza di grazia.

“Non portare ad effetto i moti dell’ira”: il moto “primo primo” è, per certe nature, quasi inevitabile; poi la volontà riprende però in mano le briglie; se ci si dimette e ci si umilia, non solo non si fa peccato, ma si esercita una maggiore virtù. Lo sappiamo: non si nasce santi; il Signore ci lascia la fatica di diventare tali. Più facciamo fatica e più siamo nella condizione di poterci santificare senza illusioni. La constatazione dei nostri difetti non ci deve scoraggiare, anzi! Le difficoltà spirituali, anche quelle inerenti al nostro temperamento difettoso, irrobustiscono lo spirito. Lavorando cresce la forza. San Benedetto ce lo dice chiaramente: - Prendi le armi fortissime dell’obbedienza, e diventa robusto! -. Ma bisogna subito partire con questa fiducia: Se il Signore mi ha dato questi mezzi, questa natura, è con questi - e non con altri - che io lo devo servire e mi devo santificare.

“Non riservarsi un tempo per sfogare la collera”: vale a dire: non covare uova di serpenti nel cuore. Ogni sera dovremmo proprio fare un’accurata ispezione nel nostro animo per assicurarci che non vi abbia fatto il suo nido il maligno.

“Non tenere inganno nel cuore”: l’inganno è l’arma del maligno, il padre della menzogna. Bisogna aborrire tutto ciò che costituisce violenza alla verità. Cercare invece sempre la piena trasparenza, per poter immergere lo sguardo nell’azzurro terso del regno dei cieli.

“Non dare pace falsa”: la pace falsa data all’abate, a un fratello, a una sorella, è data a Cristo stesso; è come il bacio di Giuda sulla guancia di Gesù, sul suo corpo mistico; è un gesto che insudicia la bellezza immacolata del Cristo e della sua Chiesa.

“Non abbandonare mai la carità”: la carità è la sorgente della verità, della pace, della mitezza, della benevolenza. Chi l’abbandona precipita nel caos delle passioni; demolisce se stesso e gli altri; raggela il senso della vita e da violenza genera violenza senza fine.

“Non giurare...”: giurare è un modo di difendersi e di imporsi. Chi giura fa violenza alla verità, a colui che è la Verità. Dio solo può mettere il sigillo dell’autenticità e della fedeltà sulla sua parola. Se uno è davvero mite, anche se gli altri non credono a ciò che egli afferma, tace e sta tranquillo. Sa che Dio conosce tutto e che egli solo merita di essere pienamente creduto.

"Non fare ingiustizie, ma sopportare con pazienza quelle ricevute”: noi pretendiamo che gli altri non ci facciano mai ingiuria... Non pensiamo che per essere miti, occorre porgere l’altra guancia, sinceramente convinti che siamo ancora ben lontani dal saper subire oltraggi per il Nome di Gesù, come gli apostoli!

“Amare i nemici”: chi non è mansueto aggredisce i suoi veri o immaginari nemici con l’arma dell’ingiuria, della calunnia, dell’inganno e del disprezzo. Se guardiamo a Gesù sulla croce, non possiamo che arrossire di vergogna.

“Non maledire chi ci maledice, anzi benedire”: riconosciamo che parlare bene di chi parla male di noi è cosa molto difficile. Se proprio non ne diciamo male, noi facciamo almeno delle riserve. A volte un certo modo di tacere è già dire male; l’accettare poi che altri dicano male di qualcuno in nostra presenza, è già acconsentire. La mansuetudine è invece un mantello di pazienza e di amore.

Nella rassegna degli strumenti per le buone opere, si possono anche individuare quelli che mettono in guardia contro abitudini favorevoli ai vizi. Ad esempio, chi si dà al vino si mette sulla via dell’incontinenza e quindi della violenza. La voracità è una forma di concupiscenza, di egoismo e di eccessiva attenzione al proprio corpo. Il sonno eccessivo porta al torpore, all’ozio, rovina tante possibilità di bene, di servizio fraterno, di fervore nella preghiera; più si indulge a questo bisogno del corpo, più il corpo si infiacchisce e richiede riposo. Come ci si irrobustisce con l’allenamento nel lavoro e nell’ascesi, così si diventa vigilanti con l’imporsi giuste e sobrie misure di riposo. L’esperienza insegna inoltre che quando uno affonda nell’indolenza, facilmente si esaspera di fronte a qualsiasi anche minima fatica. Non è mai pronto a prestarsi per un servizio; non arriva neppure a vedere se altri hanno bisogno. Nella vita comune invece, non si deve mai stabilirsi da se stessi la misura, né nel poco, né nel tanto, ma consegnarsi con mansuetudine, e stare contenti sapendosi nelle mani di Dio anche quando sembra di essere in balìa degli altri uomini.

“Riporre in Dio tutta la propria speranza”: ecco il vero atteggiamento del mite e del povero. Bisogna saper accettare la sollecitudine della comunità nei propri confronti; sarebbe segno di superbia respingere l’attenzione di cui siamo oggetto da parte dell’abate e della comunità; ma bisogna anche guardarsi dal chiedere di più o ritenere di essere in credito. Questo significherebbe tenere sempre l’amministrazione di se stessi. I poveri dicono “grazie” anche quando viene loro data una sia pur minima cosa. Bisogna imparare a ricevere tutto con umiltà e con gratitudine, senza avanzare pretese, come poveri che si nutrono nella mano stessa di Dio e non temono che quella mano si vuoti e non si offra più al momento del bisogno.

“A Dio, non a sé, attribuire il bene di cui ci si riconosce capaci”: i miti, se vedono in sé qualcosa di buono, lo riferiscono senz’altro a Dio, cantano sempre i\ Magnificat, riconoscendo in tutto colui che suscita il buon volere e l’operare.

“A se stessi, invece, nella consapevolezza d’averlo compiuto, saper imputare il male”: i miti non solo si fanno carico delle proprie colpe, ma sanno anche caricarsi di quelle degli altri. Non dobbiamo scaricare la nostra responsabilità su chi ci vive accanto o sulle situazioni e le circostanze (magari anche sul cattivo tempo!); ma, sull’esempio del Signore Gesù, Servo mite e paziente, caricarci delle debolezze altrui ed essere solidali nel portare le conseguenze dei loro sbagli.

“Vigilare costantemente sulla propria condotta di vita”: questo è necessario appunto per non accondiscendere alle forze istintive ed egoistiche della nostra natura. Se ci si abbandona all’intemperanza, ben presto si diventa aggressivi. Custodire se stessi è impegnarsi seriamente nell’ascesi del corpo e dello spirito.

“Spezzare all’istante contro il Cristo i cattivi pensieri...”: questa è una violenza fatta a se stessi per non essere violenti verso gli altri. Per spezzare i cattivi pensieri manifestandoli al padre spirituale, occorre una grande umiltà, poiché l’aprirsi con sincerità comporta anche l’accettare di sentirsi dire: “Sì, questo è proprio male, questa è roba da buttare via”. Chi non è mite ama difendere anche i suoi luridi stracci.

“Odiare la volontà propria”: chi ama la propria volontà, e se la tiene cara, e se la cova in seno gelosamente, sarà sempre in atteggiamento di ribellione, di ostinazione, di resistenza. Troverà sempre inaccettabili le decisioni degli altri e, di conseguenza, si troverà sempre solo, a fare partito per se stesso. Infatti è incapace di fare comunione.

“Obbedire in tutto agli ordini dell’abate anche se egli stesso agisse diversamente...”: se l’abate appare difettoso, i monaci devono pregare per lui; mai rinfacciargli le sue colpe reali o supposte che siano. Invece di permettersi di giudicare, di criticare, ciascuno pensi a dire: “Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me, peccatore”.

“Amare la castità”: la Regola parla di amore alla castità e poi subito raccomanda il non attaccamento a sé, agli altri o alle cose: “Non odiare nessuno - Non tenere in cuore gelosia - Non agire per invidia...”.

L’amore alla castità può essere inteso come amore all’integrità, alla ricerca della “puritas cordis” che mette al vaglio tutti i sentimenti e che non accetta scorie, attaccamenti adùlteri. L’odio, la gelosia, l’invidia nascono dall’orgoglio, dall’amor proprio, dall’egoismo, da una visione stravolta di se stessi e degli altri. Sono un modo disordinato di amare; l’odio è un amore deteriorato; la gelosia è una specie di ingordigia, quasi un voler ingoiare una cosa o una persona, perché nessun altro ne goda; è un volersi appropriare dell’amore anziché donarlo. Sono tutti atteggiamenti di indocilità e prepotenza. Nulla di più brutto che un cristiano o monaco non casto, perché esso non sarà neppure un uomo buono e mite.

“Non avere spirito di contestazione”: c’è una radice velenosa che deteriora anche le realtà più positive. La contestazione è un altro modo di affermare se stessi, è uno stare sempre in tensione per attaccare gli altri sul loro territorio. Si contende per qualcosa, di poca o molta importanza: talvolta per un’idea, altra volta per un posto. Si mette sempre in gioco la ricerca del proprio comodo o del proprio prestigio. Nella contestazione si manifesta la tenacia di una volontà tiranna che pone sempre se stessa al centro, per far girare tutto attorno a sé.

“Fuggire la superbia”: la superbia (da super..) è di chi si mette al di sopra degli altri e vuole sempre avere la prima e l’ultima parola; è un atteggiamento di autoesaltazione e di disprezzo degli altri; un porsi di fronte agli altri sentendosi superiori. Chi è superbo e altero non accetta mai bene un consiglio, un’osservazione; sembra sempre sdegnato di tutti e per tutto. Il suo cuore si indurisce come la pietra anche davanti a un povero e a un indifeso. Non sopporta nemmeno di vedere negli altri l’umiltà e la mitezza.

“Venerare gli anziani; amare i giovani”: “venerare”: c’è in questo verbo un misto di amore, ammirazione, rispetto carico di considerazione per chi è maturato attraverso una lunga esperienza di vita. Si venera una persona che si stima, che si considera degna di essere ascoltata, imitata. La venerazione è il sentimento che i giovani devono nutrire verso gli anziani.

E poiché i giovani sono ancora all’inizio del cammino di esperienza che gli anziani hanno già fatto, questi ultimi li debbono aiutare accompagnandoli con amore comprensivo, apprezzando anche i loro minimi sforzi, dando loro fiducia, scegliendoli con simpatia nel proprio cuore per le più belle speranze da realizzare nell’avvenire della comunità. Le persone mature e anziane dovrebbero potersi compiacere nel vedere realizzarsi nei giovani le loro più belle e nobili aspirazioni, nel veder magari fiorire su un’altra pianta il fiore che non era sbocciato sui loro rami nella loro stagione.

Il buon rapporto tra generazioni, tra mentalità diverse, richiede che vi sia umiltà vera da entrambe le parti; che vi sia mitezza. Dove invece subentrano l’alterigia, le contese, le gelosie, la sfiducia, non ci può più essere né venerazione, né amore, perciò né pace, né mansuetudine.

“Nell’amore di Cristo pregare per i nemici”: c’è tanto realismo in questo comando. Solo l’amore di Cristo può tanto. La nostra natura ha un istinto di conservazione e di difesa insopprimibile; se vede qualcosa che la minaccia, subito fugge o estrae tutte le sue armi di difesa. Ora, l’amore di Cristo fa sì che al di là di questo istinto vi sia il disarmo, l’accoglienza, l’abbraccio. “Pregare per i nemici” significa portarli davanti a Dio; questo è il modo di amare nell’amore di Cristo, perché noi tutti eravamo nemici ed egli ci ha riconciliati per mezzo del suo amore; egli ci ha vinti abbracciandoci tutti insieme dalla sua croce (cfr Ef 2). Così ci ha presi e ci ha presentati al Padre.

L’amore di Cristo attira, raggiunge, abbraccia quello che la natura respingerebbe. E questo amore di Cristo ci è stato messo nel cuore; l’abbiamo anche noi questo amore; non possiamo quindi scusarci col dire che non siamo in grado di amare i nemici, perché siamo uomini limitati. Anche in noi ormai l’amore è senza misura; l’amore è misericordia.

“Tornare in pace, prima che tramonti il sole, con chi è in discordia con noi”: La fragilità umana può portare, malgrado l’attenzione, anche all’urto, all’offesa, ma l’amore di Cristo deve riavvicinare il più presto possibile; non dobbiamo stare lontani una sola giornata dal nostro fratello, nemmeno da quello che ci rimane ostile. Il tramonto del sole ci trovi sempre nella pace, nella resa totale, pronti a passare dolcemente all’altra sponda della vita, nell’oceano della infinita pace di Dio, riconciliati con tutti e con tutto.

Poiché tutto quello che ci è stato proposto è difficile alla natura, ecco che gli strumenti delle buone opere si concludono così:

“Mai disperare della misericordia di Dio”: questo è l’atteggiamento della più grande mansuetudine; questo è saper credere nella mansuetudine di Dio, saper credere che la mansuetudine di Dio non ha limiti e quindi non temere che ad un certo punto essa non possa più raggiungerci nel fondo della nostra miseria.

Hai solo ancora un istante di tempo per credere? Ecco, metti tutte le tue forze per credere che la mansuetudine di Dio, che la compassione di Dio, che la pazienza di Dio è lì, tutta per te. Ma quanta forza ci vuole per diventare miti!

“Ecco, dunque, gli strumenti dell’arte spirituale. Se noi ce ne serviremo giorno e notte, senza stancarci, per riconsegnarli nel giorno del giudizio, riceveremo dal Signore la ricompensa che egli stesso ci ha promesso...”.

Che cosa ha preparato il Signore per noi? Se stesso. Vale quindi la pena di affaticarci, di perseverare in questa scuola di mansuetudine. La vita monastica è veramente un lavoro fatto con questi strumenti che devono essere usati con assiduità. Guai se si cede: si perde l’allenamento. Bisogna sempre tenersi in esercizio.

“L’officina in cui assiduamente compiremo tutto questo lavoro è l’àmbito del monastero, con la necessaria stabilità nella famiglia monastica”.

Senza la stabilità le energie si disperdono. Sappiamo però che per vivere nella stabilità della fede e dell’obbedienza, occorre proprio la mansuetudine del povero che accetta la sua fatica e la compie umilmente, fiduciosamente, amorevolmente, giorno dopo giorno, e non cede, non viene meno, poiché tiene accesa nel cuore la beata speranza.

 


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15 dicembre 2018                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net