Riflessioni
sul
Padre Nostro
A cura di
Don Bruno Maggioni
Estratto da “Padre
Nostro” Editrice Vita e Pensiero 1998
Padre Nostro
La natura missionaria della preghiera
è insita in ogni richiesta
con la quale si pensa all’umanità.
L’amore del Padre non è circolare ma espansivo,
è
guidato dalla gratuità, non dalla reciprocità.
Il Padre Nostro ci è
giunto in due forme: quella di Matteo (6,9-13) e quella di Luca (11,2-4). La
prima è più ampia e strutturata, la seconda, più breve. La diversità fra le due
versioni ci dice che i primi cristiani non erano rigidamente attaccati alle
precise parole, ma alla sostanza. E difatti le parole sono diverse, ma la
sostanza è uguale in tutte e due le versioni.
Matteo ha collocato il
Padre Nostro nel grande discorso della montagna (6,9-13), per suggerire ai
cristiani come pregare, non moltiplicando le parole come fanno i pagani, bensì
rivolgendosi a Dio con sobrietà e umiltà. Luca ha invece collocato il Padre
Nostro in un contesto ancora più bello. I discepoli sono colpiti dal
rapporto che intuiscono esserci tra Gesù e il Padre e
desiderano entrare anch’essi in questo circuito di amore: “Un giorno Gesù si
trovava in un luogo a pregare e quando ebbe finito uno dei discepoli gli disse:
«Signore, insegnaci a pregare»” (11,1). La preghiera che Gesù insegna ai suoi
discepoli sgorga dalla sua preghiera personale. Il Padre Nostro non è
semplicemente una preghiera da recitare. E’ un riassunto dell’intero Vangelo e
ogni sua frase deve essere accuratamente meditata e compresa.
E’ ciò che faremo. Anche
perché il Padre Nostro è una preghiera altamente missionaria. Lo è ciascuna sua
frase e ciascuna sua parola. Il Padre Nostro che ora leggiamo nella versione di
Matteo si apre con un’invocazione e si snoda poi in sette domande: le prime tre
hanno come oggetto il Regno, le ultime tre il perdono e la vittoria sul male, al
centro c’è la richiesta del pane di ogni giorno.
Giustamente si è
osservato che queste domande hanno molti paralleli nelle preghiere bibliche e
giudaiche. La preghiera insegnata da Gesù è profondamente radicata nelle
tradizioni del suo popolo. Ma se le pietre sono antiche, nuova è la costruzione
che ne risulta. Le singole domande si possono rintracciare nella pietà biblica e
giudaica, ma non radunate tutte insieme, né formulate con tale intensità.
Padre Nostro: Padre è il
nome di Dio. L’uomo può rivolgersi a Lui come un figlio, chiamandolo
familiarmente “Padre”, come ha fatto Gesù. La familiarità del rapporto con Dio -
che nasce nei cristiani dalla consapevolezza di essere figli nel Figlio - è
ricordata molte volte nel Nuovo Testamento. È infatti una nota qualificante, che
segnala l’originalità cristiana.
La vera novità, però,
non sta nel rivolgersi a Dio con l’appellativo di Padre (questo avviene anche in
altre religioni), ma nel poter rivolgersi a Lui con lo stesso tono di Gesù,
figli nel Figlio, aspetto questo che Luca col suo semplice “Padre”, senza
aggiunte, sembra sottolineare: il discepolo si rivolge a Dio chiamandolo
semplicemente “Padre”, come ha sempre fatto Gesù.
Il semplice vocativo
“Padre” è infatti il modo costante con cui Gesù si è rivolto a Dio. Ma la
paternità di Dio si esprime al plurale: Padre Nostro.
Il suo amore per tutti
invita gli uomini a fare altrettanto. Il
Padre è insofferente delle discriminazioni: fa sorgere il sole sopra i buoni e
sopra i cattivi (Mt 5,44-45). Si noti l’uso del plurale anche nella domanda del
pane, del perdono e della prova. In ogni richiesta il discepolo deve pensare
all’umanità.
La preghiera cristiana è
una preghiera “espropriata” e “missionaria”. Un’ultima osservazione: i passi
evangelici insegnano costantemente che la risposta dell’uomo
all’amore del Padre che lo raggiunge è la fraternità. L’amore di Dio discende,
ma la nostra risposta non deve anzitutto preoccuparsi di risalire verso di Lui,
bensì di estendersi agli altri. La nostra risposta al Padre è inclusa nel
comportamento fraterno che sappiamo assumere nei confronti di tutti.
L’amore del Padre - come
sempre l’amore di un vero padre - non è circolare, ma espansivo. E’ guidato
dalla gratuità, non dalla reciprocità.
Che sei nei cieli
L’uomo
è sospeso alla memoria di Dio,
e qui
trova la sua grandezza
nonostante la sua piccolezza nei confronti dell’universo.
L’esperienza più profonda dell’uomo biblico
è lo
stupore di essere amato da Dio.
L’invocazione del Padre
Nostro secondo la versione di Matteo non si accontenta di dire “Padre Nostro”,
ma aggiunge subito “che sei nei cieli”. Questa precisazione vuole ricordarci che
Dio è vicino e Signore, creatore e Padre, amore e onnipotenza. Ogni sincero
rapporto con Dio risulta sempre di confidenza e timore, familiarità e
obbedienza. Ma i sentimenti prevalenti sono altri. La consapevolezza che il
creatore del mondo è un Padre ci permette di vedere in ogni cosa e in ogni
evento un dono. E ci fa capire che l’essere da Lui scelti e amati è un’immensa e
gratuita degnazione, cosa che impedisce di trasformare la grazia del suo amore
in spirito di gretto settarismo. E ci conduce inoltre alla fiducia e alla
serenità, al senso della provvidenza, conseguenza questa che Matteo esplicita
subito dopo (6,24-34).
Se qualcuno mi
chiedesse: quale testo biblico può considerarsi il miglior commento alla nostra
certezza che Dio è al tempo stesso Padre e creatore, non esiterei a indicare il
Salmo 8. Non c’è in questo salmo il nome Padre, ma è ugualmente una preghiera
piena di stupore rivolta a un Dio che ha creato il mondo intero, e tuttavia
concentra il suo amore verso l’uomo.
E’ un salmo da leggere
con cura. Il Salmo 8 si apre proclamando la grandezza di Dio: «O Signore,
Signore nostro, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra: al di sopra dei
cieli è la tua magnificenza!». E si conclude allo stesso modo: «O Signore,
Signore nostro, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra». All’interno
di questa duplice proclamazione della grandezza di Dio, che in qualche modo fa
da cornice, il pensiero corre poi all’uomo: «Quando contemplo i tuoi cieli,
opera delle tue dita, che cosa è l’uomo, perché ti ricordi di lui? Eppure tu
l’hai fatto poco meno di un Dio, e ogni cosa hai posto sotto i suoi piedi». Che
cos’è uomo? E’ una domanda importante, una domanda che ogni uomo serio si pone.
Dio solo può rispondere
a questa domanda. L’uomo ne è incapace. L’uomo biblico non chiede a se stesso, o
agli altri uomini, la propria identità, ma a Dio. Per conoscersi guarda in alto.
Ma a ben guardare, la domanda del Salmo non è semplicemente “che cosa è
l’uomo?”, bensì: “che cosa è l’uomo, perché ti ricordi di lui?”. Il salmista si
accorge che l’uomo è piccola cosa. E la meraviglia è che nonostante questo egli
sia oggetto della memoria di Dio. L’uomo è sospeso alla memoria di Dio, e qui
trova la sua grandezza nonostante la sua piccolezza nei confronti dell’universo.
E difatti nel salmo c’è un alternarsi di grandezza e di piccolezza. La grandezza
di Dio è affermata all’inizio e alla fine, è il punto fermo. Da qualunque parte
lo guardi, Dio è grande. Diverso è invece il caso dell’uomo. Ti appare grande o
piccolo, secondo l'angolatura da cui lo osservi.
Se lo confronti con la
immensità dei cieli (ma noi potremmo dire: se lo misuri col tempo, con la morte,
con il susseguirsi delle generazioni, con il numero sterminato degli uomini che
nascono, che vivono un’esistenza che pare insignificante, che muoiono) ti viene
da pensare: cosa conta un uomo? Eppure Dio, esclama il salmista, si ricorda di
lui e l’ha fatto di poco inferiore a se stesso.
Se lo guardi dall’angolatura
di Dio, l’uomo è grande, un solo uomo vale più del firmamento: “tutte le cose
hai posto sotto i suoi piedi”.
Si direbbe, dunque, che
la Bibbia non è giunta ad affermare la grandezza dell’uomo, di ogni uomo,
osservando concretamente l’uomo e la sua capacità di dominare la natura, la sua
distanza dalle cose e la sua superiorità su di esse. La partenza biblica è
teologica: ha accolto la grandezza dell’uomo, di ogni uomo, riflettendo sul
comportamento di Dio, sul suo amore, sulla sua alleanza. Tutto questo è
significativo.
Ci assicura che il
riconoscimento di Dio non è a scapito del senso dell’uomo, ma ne è il
fondamento. L’uomo biblico è affascinato dalla bellezza dell’uomo, e lo
considera un capolavoro che le mani di Dio misteriosamente costruiscono nel
grembo della donna. Ma alla fine l’uomo biblico è convinto che la sua dignità
non sta nella propria bellezza, o nella forza, o nell’intelligenza. E’ l’amore
di Dio che dà dignità all’uomo. L’esperienza più profonda dell’uomo biblico è lo
stupore di essere amato da Dio. Che cosa è l’uomo, perché ti ricordi di lui?
Sia santificato
il tuo Nome
E’
l’amore disinteressato,
solidale, diretto a ogni uomo che trasforma la comunità cristiana
in un
involucro che svela al mondo intero
il
volto del vero Dio.
La prima domanda del
Padre Nostro è “sia santificato il tuo Nome”. Si tratta di un’esperienza un po’
lontana dal nostro modo usuale di parlare, e richiede di essere intesa alla luce
dell’Antico Testamento, in particolare di Ezechiele 36,22-29 e Levitico
22,31-32. Non indica una lode fatta di culto e di parole, quanto piuttosto un
permettere a Dio di svelare, nella sua vita del singolo e delle comunità, la sua
potenza salvifica.
Con questa domanda il
discepolo chiede che la comunità diventi un involucro trasparente, capace di
mostrare, di fronte al mondo, la presenza di Dio. Alla domanda in che modo gli
uomini possono santificare il Nome, i rabbini solevano rispondere: con la
parola, ma soprattutto con la vita.
La vera santificazione
del Nome è il dono della vita.
Ho detto che per
comprendere il significato della domanda “sia santificato il tuo Nome” occorre
riferirsi a un passo del Levitico (22,31-32) e a un passo del profeta Ezechiele
(36,22-29). Nel primo si legge: «Non profanerete il mio nome, perché io mi
manifesti santo in mezzo agli israeliti. Io sono il Signore che vi santifico,
che vi ho fatto uscire dal paese d’Egitto per essere vostro Dio». Già in questo
passo sono indicati tutti i tratti essenziali della santificazione. Sono cinque.
Il primo è che la santificazione è opera di Dio, non dell’uomo: «Sono io il
Signore che vi santifico». Lo dice anche la formula del Padre Nostro (“Sia
santificato il tuo Nome”), con la quale chiediamo a Dio che Egli stesso
santifichi il suo nome.
Il secondo tratto è la
appartenenza al Signore: «Vi ho fatto uscire dall’Egitto per essere il vostro
Dio». Dio libera il suo popolo dalla schiavitù del faraone
per legarlo a sé. Si abbandona una schiavitù per una diversa appartenenza. Santo
è chi appartiene totalmente al Signore.
Il terzo tratto è la
novità: si lascia una schiavitù per un’appartenenza nuova. Santo è chi si lascia
condurre fuori da Dio dalla logica del mondo, dalle idolatrie («vi ho fatto
uscire dall’Egitto»), separato dal mondo non perché non ami il mondo ma perché
non ne accetta il peccato. In questo senso santificare il Nome significa vivere
una separazione.
Il quarto tratto è la
trasparenza: «Perché io mi manifesti santo in mezzo agli israeliti». La comunità
santifica il nome di Dio quando si rende trasparente al suo amore, permettendo
in tal modo al mondo intero di scorgere in lei stessa - nella sua vita, nei suoi
rapporti, nella sua organizzazione - il volto del vero Dio. E’ un concetto,
questo, espresso con forza particolare anche nella nota pastorale dei Vescovi
“Evangelizzazione e testimonianza della carità”: «Tra le caratteristiche della
carità il Vangelo pone in evidenza il suo carattere pubblico, e insieme
trasparente, proprio come la Croce di Cristo è un evento pubblico, che si è
svolto davanti a tutti e nello stesso tempo è l’icona più luminosa dell’amore di
Dio... La visibilità (delle opere che la Chiesa compie) deve essere accompagnata
da una sorta di trasparenza, che non fermi l’attenzione su di sé, ma invita gli
uomini a prolungare lo sguardo verso Dio... Nella sua vita e sulla Croce, in
ogni suo gesto, Gesù è stato la trasparenza del Padre.
Allo stesso modo la
Chiesa, nelle molteplici forme del suo servizio, deve rivelare il volto di Dio,
non anzitutto se stessa» (n. 21). In altre parole il popolo di Dio deve essere -
nel mondo e di fronte al mondo - una sorta di palcoscenico che permette a Dio di
mostrare, visibilmente e pubblicamente, la sua azione. E’ la prima missionarietà
della Chiesa e del cristiano.
Il quinto tratto della
santificazione del nome è un imperativo, che avverte di un’esistenza di una
reale possibilità: «Non profanerete il mio nome». Il popolo di Dio può diventare
un luogo che “oscura” il volto di Dio, nascondendolo anziché svelandolo. In
questo caso il popolo di Dio non è più il luogo della santificazione del Nome,
ma della sua profanazione.
Su quest’ultimo aspetto
insiste molto, quasi con durezza, il passo del profeta Ezechiele: «Così dice
Dio, mio Signore: non è per voi che agisco, o casa d’Israele, per il mio santo
nome, che avete profanato fra le genti dove andaste. Mostrerò santo il mio
grande nome profanato tra le genti, nome che profanaste in mezzo a loro»
(36,22-23). Naturalmente il profeta Ezechiele non si accontenta di questa
sottolineatura. Con pari insistenza ce ne dice un’altra: «Le genti
riconosceranno che io sono il Signore, quando mi si riconoscerà santo per mezzo
vostro, al loro cospetto, e vi prenderò di tra le genti, vi radunerò da tutte le
parti del mondo e vi condurrò al vostro paese... Vi darò un cuore nuovo e
metterò dentro di voi uno Spirito nuovo» (36,24-26). Ma il miglior commento alla
nostra domanda del Padre Nostro è forse racchiuso nella grande preghiera che
Gesù ha rivolto al Padre prima della sua passione (Gv 17). Ecco due affermazioni
che fanno al caso nostro: «Santificali nella verità: la tua parola è verità...
Per loro santifico me stesso, perché siano anch’essi santificati nella verità»
(17,17-19).
Gesù ha santificato il
Padre con la sua perfetta obbedienza, accettando di essere in tutto la
trasparenza del suo amore universale.
Con la sua totale
obbedienza Gesù ha permesso al mistero di Dio di “trasparire”: un’obbedienza
vissuta in tutta la propria esistenza, ma che ha trovato il suo pieno compimento
sulla Croce, dove l’amore di Dio si è manifestato in tutto il suo splendore e in
tutta la sua universale gratuità. E così la Chiesa. Gesù ha pregato perché la
sua comunità venga santificata, il che significa trascinata nel movimento di Dio
e, insieme, separata dal mondo.
Nella sua preghiera Gesù
accentua la separazione dal mondo. Ma bisogna osservare che tale separazione
deriva dalla fedeltà a Dio che è, paradossalmente, una fedeltà all’amore. Il
discepolo è separato dal mondo perché ama veramente il mondo.
Il mondo non si
riconosce nel movimento dell’amore e della solidarietà. E’ l’amore
disinteressato, solidale, diretto a ogni uomo che trasforma la comunità
cristiana in un involucro che svela al mondo intero il volto del vero Dio.
Venga il tuo
Regno
La
prassi missionaria di Gesù
è
sempre caratterizzata
dalla
accoglienza degli esclusi.
Per comprendere la
seconda domanda del Padre Nostro («Venga il tuo Regno») bisogna anzitutto
ricordare che il Regno di Dio è già presente nella nostra storia, ma in modo
ancora incompiuto, come un seme. Il discepolo di Gesù prega perché Dio ne
affretti il compimento. «Vieni, Signore Gesù» era l’invocazione pressante, quasi
impaziente, dei primi cristiani (1 Cor
16,22; Ap 22,20). Ma che cosa significa “Regno di Dio”? Per rispondere occorre
riferirsi a tutta la predicazione di Gesù e a tutta la sua vita.
L’evangelista Marco
introduce la missione pubblica di Gesù con una frase riassuntiva, che tocca
direttamente il nostro argomento (1,14): «Il tempo è compiuto e il Regno di Dio
è vicino, convertitevi e credete al Vangelo». In questa affermazione sintetica e
certamente missionaria, il Vangelo e il Regno sembrano quasi sovrapporsi. Dio è
qui e agisce, ecco la lieta notizia del Regno, dalla quale scaturisce per il
credente un duplice stupore: che Dio ami l’uomo fino a quel punto e che l’uomo
conti fino a quel punto. La lieta notizia del Regno svela contemporaneamente il
volto di Dio e dell’uomo, è al tempo stesso teologica e antropologica.
Se poi si legge questa
notizia nel complesso dell’intero Vangelo e alla luce della prassi di Gesù,
allora si comprende non soltanto che Dio è fra noi, ma che la sua presenza è
carica di novità. In qualsiasi modo Gesù parli del Regno e qualsiasi aspetto
illustri, non manca mai di sottolineare una novità che esige dall’ascoltatore
un’inversione di marcia, un modo nuovo di considerare le cose, a incominciare
dalla stessa azione di Dio. Capire questa novità, e restarne affascinati, è
importante, perché il cristiano non è chiamato ad annunciare un Regno di Dio
come lui lo immagina, ma come Gesù lo ha veramente annunciato. Nuovi, ad
esempio, sono i tratti della misericordia e della universalità. Per mostrare il
Regno di Dio Gesù ha accolto, servito, perdonato. La sua prassi missionaria, che
egli stesso ha indicato come uno specchio dell’amore di Dio, è sempre
caratterizzata dall’accoglienza degli esclusi, a incominciare dai peccatori.
Nella misericordia di
Gesù è poi racchiuso anche il tratto della universalità. La misericordia di Gesù
supera ogni differenza fra gli uomini, travolge ogni barriera emarginante. Gesù,
infatti, Vede l’uomo semplicemente nel suo rapporto con Dio o, meglio, nel
rapporto che Dio ha con lui.
Qui sta la nota
sorprendente del Regno di Dio, che deve qualificare ogni atteggiamento
cristiano. Gesù vede l’uomo davanti a Dio, e le altre cose per lui scompaiono:
se appartiene a una razza o a un’altra, a una cultura o a un’altra, persino se è
giusto o peccatore, Gesù vede l’uomo come Dio guarda quell’uomo: questo è lo
sguardo nuovo che scende nella profondità dell’uomo, cogliendovi quella dignità
che appartiene a ogni uomo. La società del tempo, sia civile che religiosa, si è
ribellata a questo sguardo di Gesù, perché la società ha sempre bisogno di
catalogare gli uomini, dividendoli e separandoli. Ma se si osserva l’uomo come
Dio sta davanti a quell’uomo, allora non si ha più motivo per accettare
differenze, gerarchie e privilegi. E si diventa universali. Questo sguardo è il
Regno di Dio.
Certo la giustizia e il
peccato, la verità e la menzogna non sono la stessa cosa. Se un uomo è nel
peccato bisogna dirgli che è peccatore, se è nell’errore bisogna dirgli che
sbaglia. Ma tutto questo non deve minimamente intaccare la solidarietà nei suoi
confronti, l’accoglienza, il perdono, il coraggio di annunciargli il Regno.
Aiutare l’uomo a sentirsi accolto da Dio, aiutarlo a scoprire il volto
sorprendente del Dio di Gesù Cristo, è pregare «venga il tuo Regno».
A questo punto si
comprende perché Gesù - volendo elencare i segni dell’appartenenza al Regno - vi
abbia incluso anche questo: «Ero straniero e mi avete ospitato».
Straniero significa
l’uomo diverso e distante per razza, cultura, costumi e religione. E’ proprio in
quest’uomo che il Signore Gesù si identifica. E lo fa perché il Regno di Dio è
proprio così. La seconda domanda del Padre Nostro «venga il tuo Regno» - è
davvero impegnativa.
Sia fatta la tua
volontà
Non si
tratta semplicemente
di
compiere delle azioni buone,
ma di
un modo di esistere
che
coinvolge la persona nella sua totalità.
La terza invocazione del
Padre Nostro ripete sostanzialmente le prime due, sottolineandone però
maggiormente l’aspetto morale: «Sia fatta la tua volontà». Diciamo subito che
per volontà di Dio non si deve intendere soltanto i comandamenti, la legge, ma
il disegno di salvezza.
Ma che cosa significa
fare la volontà di Dio? E quale è il preciso contenuto della volontà di Dio? Per
rispondere - o, meglio, per avvicinarci a una risposta - possono bastarci tre
passi evangelici; due di Matteo e uno di Giovanni.
Nel discorso della
montagna si leggono queste parole di Gesù: «Non chiunque mi dice: Signore,
Signore, entrerà nel Regno dei cieli, ma chiunque fa la volontà del Padre mio
che è nei cieli» (Mt 7,21-23). Dunque c’è chi parla continuamente di Dio
(«Signore,. Signore»), ma poi dimentica di fare la sua volontà. C’è chi si
illude di lavorare per il Signore («abbiamo profetato nel tuo nome, cacciato i
demoni e compiuto miracoli nel tuo nome»), ma poi scoprirà, nel giorno del
rendiconto, di essergli sconosciuto («Non vi ho mai conosciuto: allontanatevi da
me»). Con queste forti parole - e con la parabola delle due case che le illustra
- Matteo probabilmente
polemizza con certi entusiasti presuntuosi che avevano sempre sulle labbra il
nome di Gesù, e che poi non concludevano nulla.
C’è il rischio di una
preghiera («Signore, Signore») che non si traduce in impegno («la volontà di
Dio»), o di un accolto che non diventa pratica.
Certo, Matteo non
condanna la preghiera né l’ascolto. E’ anzi convinto che sono la radice della
prassi cristiana. E tuttavia l’essenziale non è l’ascoltare e il dire, ma il
fare. La differenza fra l’uomo saggio che costruisce la casa sulla roccia e
l’uomo stolto che la costruisce sulla sabbia sta appunto nel “fare”. Con una
precisazione: non un qualsiasi fare - neppure cacciare i demoni e operare i
miracoli! -, ma fare la carità, come è appunto detto nel discorso della montagna
e come è ribadito nel grande affresco del giudizio (Mt 25,31-46).
«Le mie vie non sono le
vostre», ripete spesso
la Bibbia. Fra il progetto di
Dio e il progetto dell’uomo non raramente si insinua una tensione. Fare la
volontà di Dio può richiedere - a volte - un totale cambiamento dei nostri
desideri. Un esempio è la preghiera di Gesù nel Getsemani, che riporto nella
versione di Matteo: «E, scostatosi un poco, cadde con la faccia a terra e
pregava dicendo: Padre mio, se è possibile passi da me questo calice. Però non
come voglio io, ma come vuoi Tu» (26,39). Gesù è nell’angoscia e la sua
preghiera la esprime. Non si tratta dell’angoscia del dubbio, ma quella
dell’obbedienza dolorosa. La lacerazione non è fra obbedienza e disobbedienza.
Gesù è costantemente in un atteggiamento di fondamentale obbedienza. Non lo
sfiora il pensiero che l’uomo possa fare la propria volontà anziché quella di
Dio. Nell’imminenza della passione, però, chiede che la volontà di Dio sia, se
possibile, diversa. Si osservi, poi, come l’angoscia non metta in crisi la fede
di Gesù. Anche in questa circostanza Egli non cessa di rivolgersi a Dio con
l’appellativo “Padre”, che è stata la scoperta e la rivelazione più grande che
egli ha fatto ai suoi discepoli.
Nel Vangelo di Giovanni
il tema dell’obbedienza è ancora più fortemente sottolineato. L’evangelista
presenta Gesù come l’obbediente, la trasparenza della volontà del Padre. Suo
cibo è fare la volontà del Padre. Un’immagine, questa, che dice la totalità
dell’obbedienza. Fare la volontà del Padre, e non la propria, è la tensione di
tutta la vita di Gesù, il punto verso cui tutte le sue azioni e le sue parole si
protendono, senza distrazioni. Gesù sembra annullare radicalmente la propria
volontà in una totale obbedienza, ma è proprio in questa obbedienza che egli
ritrova la sua libertà e la sua consistenza di Figlio. Gesù è la “trasparenza”
del Padre. Per questo è portatore di una rivelazione decisiva, nell’ascolto o
nel rifiuto della quale l’uomo gioca il proprio destino.
La conclusione è che la
terza domanda del Padre Nostro fa riferimento a Gesù. Se la si vuole comprendere
si deve guardare a Lui. E se ne deduce che fare la volontà di Dio non è
semplicemente compiere delle azioni buone, ma è un modo di esistere. Coinvolge
la persona nella sua totalità.
Come in cielo
così in terra
Lo
sguardo largo di questa preghiera
sottolinea la signoria universale di Gesù
e di
conseguenza
l’universalità della missione dei discepoli.
L’espressione che
conclude la prima parte del Padre Nostro («come in cielo così in terra») non si
riferisce soltanto alla terza domanda («sia fatta la tua volontà»), ma anche
alle prime due. Può significare semplicemente «dappertutto», e in questo caso
viene sottolineata l’universalità delle prime tre domande: si prega perché Dio
sia dovunque santificato, il suo Regno venga esteso a tutto il mondo e la sua
volontà sia fatta in ogni angolo della terra. Una preghiera, dunque, di grande
respiro. Soprattutto una preghiera missionaria. Lo sguardo largo segnala sempre,
infatti, una passione missionaria. Gesù stesso - come si legge nella conclusione
del Vangelo di Matteo - è ricorso all’espressione «in cielo e in terra» per
indicare la sua signoria universale e, di conseguenza, l’universalità della
missione dei discepoli: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra:
andate, dunque, e ammaestrate tutte le nazioni» (28,18-19).
«Come in cielo così in
terra» può però avere anche un senso più pregnante: come in cielo il nome di Dio
è santificato, il suo Regno perfettamente compiuto e la sua volontà obbedita,
così avvenga sulla terra. Il discepolo chiede al Padre che la terra diventi il
risvolto del cielo. E’ questo un pensiero ricco di prospettive. Significa, ad
esempio, che il cristiano deve guardare verso il mondo di Dio, se vuole
veramente comprendere se stesso e la propria attuale esistenza.
Per valutare nel modo
giusto le cose del mondo il cristiano non desume i suoi criteri valutativi dal
mondo stesso, ma dal Regno di Dio. Per comprendere le cose di quaggiù il
cristiano guarda in alto. Ce lo fa comprendere Gesù stesso parlando della sua
regalità con Pilato: «Il mio Regno non è da questo mondo: se il mio Regno fosse
da questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi
consegnato ai giudei; ma il mio Regno non è di quaggiù» (Gv 18,36).
Il Regno di Gesù è qui,
nel mondo, ma la sua origine viene da altrove. E così è il cristiano: vive nel
mondo, ma le regole del proprio vivere le mutua da un’altra parte - dal mondo di
Dio -, la sua regola di vita obbedisce a un’altra logica. Si può leggere «come
in cielo così in terra» anche da un’altra angolatura.
Pregare perché la terra
assomigli al cielo significa riconoscere che la pienezza è nel cielo, non qui:
un modo di pensare, questo, che relativizza il mondo. Questo non è il nostro
tutto. Siamo fatti per una patria che è altrove.
Al tempo stesso, però,
questo modo di pensare dà importanza al mondo, a questo mondo: la vita terrena
non è la pienezza del Regno, questo è vero, ma può esserne il riflesso! Le cose
del mondo futuro si preparano qui, ora. Di più: si possono anticipare qui,
pregustarle, sia pure in modo incompiuto. Un riflesso, non la pienezza della
luce. Ma anche il semplice riflesso di una grande luce è già luminoso!
Due passi del Vangelo
possono aiutarci a chiarire questi pensieri. Il primo è il canto degli angeli
nella notte di Natale (Le 2,14): «Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in
terra agli uomini che Egli ama». Sono parole da considerare con attenzione, a
incominciare dalla loro forma. Si tratta di due brevi frasi disposte in modo che
il pensiero passi continuamente dall’alto al basso: i cieli e la terra, Dio e
gli uomini, la gloria e la pace. Risulta così con evidenza che la pace fra gli
uomini è la contropartita terrestre della gloria che Dio ha nei cieli.
E’ soprattutto, però,
nella grande preghiera di Gesù che si legge nel cap. 17 del Vangelo di Giovanni
che tutto si chiarisce. Gesù prega perché il dialogo di conoscenza e di amore
che circola fra Lui e il Padre venga esteso alla comunione dei discepoli fra
loro. L’amore vicendevole è il risvolto umano, terrestre, già ora possibile, del
mondo divino.
Il nostro pane
quotidiano
In un tempo in cui si moltiplica l’ingiustizia per quanti non
hanno
la possibilità di sfamarsi,
il “nostro pane quotidiano”,
la richiesta più umile fra le domande del Padre Nostro,
diventa pegno e dovere di solidarietà,
perché la carità
non può tollerare che vi siano fratelli nell’indigenza.
La richiesta del pane è
la più umile delle domande del Padre Nostro, ma si trova al centro (è infatti la
quarta delle sette domande), e questo ne dice l’importanza.
Dalla formulazione della
domanda del pane traspare un vivo senso della dipendenza da Dio: il pane è
«nostro», frutto del nostro lavoro, e tuttavia lo si chiede al Padre come un
dono.
E’ un primo tratto
importante, da esprimere non soltanto nella preghiera, ma nella vita.
La Bibbia si è accorta
da sempre che l’orgoglio dell’uomo di fronte ai frutti del proprio lavoro non
raramente conduce alla violenza e all’ingiustizia, e ancora più frequentemente
alla dimenticanza di Dio, come avviene quando l’uomo attribuisce a se stesso -
soltanto a se stesso - ciò che invece è dono. Si legge nel libro del
Deuteronomio: «Guardati dal dire nel tuo cuore: la mia forza e la robustezza
della mia mano mi hanno procurato questo benessere. Ricordati del Signore tuo
Dio, poiché Lui ti ha dato la forza di procurarti questo» (8,11-18).
Accanto al senso della
dipendenza da Dio, un vivo senso di fraternità.
Il cristiano che recita
il Padre Nostro prega al plurale, chiede il pane comune, il pane per tutti, non
soltanto per se stesso. Questo tratto rinvia all’esempio della prima comunità di
Gerusalemme, di cui parla Luca nel libro degli Atti degli Apostoli. Due volte
Luca precisa che «avevano tutto in comune» e che «vendevano le loro proprietà»
(2,44; 4,32).
Non si tratta di
un’abolizione della proprietà, ma del desiderio di condividere fra tutti le
proprie sostanze. Un desiderio che sorgeva spontaneo da una duplice convinzione:
che Dio è Padre di tutti e che il Signore Gesù è morto per tutti. Luca precisa
poi che i beni emersi in comune venivano distribuiti «a ciascuno secondo le sue
necessità» (4,35).
E’ dunque chiaro che
l’ideale perseguito non era quello della povertà volontaria, ma quello di una
carità che non può tollerare che vi siano fratelli nell’indigenza. E infine Luca
annota che «erano un cuor solo e un’anima sola» (4,32).
Quest’ultima annotazione
è fondamentale per comprendere le due facce inseparabili della fraternità
cristiana, che è insieme interiore ed esteriore, coinvolge l’anima e la vita. La
sua radice è nel cuore dell’uomo. «Cuore e anima» non è tanto un’espressione che
dice l’interiorità, quanto piuttosto la totalità: cuore ed anima designano il
“centro” della persona. Potremmo parafrasare così: tutta la persona - a partire
dal suo centro o dalle sue radici - deve protendersi nella fraternità.
Dalla domanda del pane
traspare un vivo senso di sobrietà. Si chiede al Padre il pane sufficiente per
oggi, nulla di più. Nessun inutile affanno, nessuna passione per l’accumulo. Il
Regno al primo posto, il resto quanto basta.
Il contrario di questa
sobrietà è l’affanno, come spiega Matteo in un passo che costituisce un diretto
commento al Padre Nostro: «Per la vostra vita non
affannatevi per quello che mangerete o berrete: per il
vostro corpo di come vestirete... Cercate prima il Regno di Dio e la sua
giustizia, e tutte queste altre cose vi saranno date in più...
Basta a ciascun giorno
il proprio affanno» (6,25-34). Affannarsi per accumulare è idolatria. Non è
nell’accumulo che va posta la sicurezza della vita. L’affanno - che cosa
mangeremo? che cosa indosseremo? - è contro l’uomo, perché lo priva della gioia
di vivere. Perennemente insoddisfatto, insicuro, l’uomo cade nell’esasperazione
del lavoro e dell’accumulo e, quindi, nella schiavitù.
La domanda del pane
rinvia anche all’episodio anticotestamentario della manna: «Mosè disse loro:
nessuno ne avanzi per domani. Ma essi non ascoltarono Mosè e alcuni ne presero
di più per l’indomani: sorsero dei vermi e si corruppe» (Es 16,19-21). La
lezione del miracolo della manna non è soltanto la fiducia nel dono di Dio, che
ogni giorno pensa al suo popolo, ma anche - e forse ancora di più - la
proibizione dell’accumulo: si deve soltanto raccogliere il cibo che basta per un
solo giorno. L’accumulo imputridisce.
Come conclusione di
quanto detto riporto l’intelligente preghiera di un antico saggio, che si legge
nel libro dei Proverbi: «Due cose ti chiedo, non negarmele prima che io muoia:
allontana da me falsità e menzogna, non darmi povertà o ricchezza, ma fammi
gustare il mio pezzo di pane, perché, saziato, non abbia a insuperbire e dica:
chi è il Signore? Oppure, trovandomi in povertà, non rubi e bestemmi il nome del
mio Dio» (30,7-9).
Rimetti a noi i
nostri debiti
L’uomo
è debitore per essenza.
La
domanda del perdono
è
perciò il modo giusto di stare davanti a Dio,
nella
preghiera come nella vita quotidiana.
La domanda “rimetti a
noi i nostri debiti” suppone che in noi sia vivo il senso della colpa. Qualora
mancasse, la domanda del Padre Nostro perderebbe la sua verità: uno stereotipo,
una parola rituale, non più una vera domanda. Purtroppo non si tratta di una
consapevolezza scontata, perché il problema non è di riconoscere semplicemente i
propri limiti o i propri sbagli, ma di avere la chiara percezione delle proprie
colpe morali, responsabili, liberamente commessi: azioni che offendono Dio, non
solo se stessi o gli altri. Questa percezione “teologica” delle proprie azioni è
già dono di Dio. E difatti è quando sente i passi e la voce del Signore che
Adamo prende coscienza della sua disobbedienza; è quando è raggiunto dalla
parola dei profeta che Davide avverte la gravità del proprio peccato. La
Scrittura è convinta che non si misura rettamente il proprio debito, se ci si
confronta con se stessi o con gli altri: occorre confrontarsi con la Parola di
Dio. Può succedere di essere ciechi al punto da non più vedere le proprie colpe,
come già accadeva ad alcuni della comunità di Giovanni (1
Gv 1,8). E c’è persino chi vede le responsabilità
degli altri e non le proprie.
Confrontandosi con la
Parola di Dio si avverte che il debito - anzi i debiti, al plurale - non è
soltanto questione di precise trasgressioni della legge, che pure ci sono: e le
molte omissioni? Il padrone della parabola dei talenti esige più di quanto ha
dato: condanna il servo perché pigro e dimissionario, non perché particolarmente
cattivo: non ha sperperato, semplicemente non ha trafficato. E ad essere
tagliato e bruciato è l’albero che non porta frutto (Le 13,6-9). Bastano queste
poche annotazioni per dirci che la domanda del Padre Nostro mette in questione
l’uomo nella sua interezza. In questione è lo slancio in avanti, verso Dio («con
tutto il cuore, con tutta la mente e con tutte le forze»), non soltanto il male
che si fa.
La versione di Matteo
non parla direttamente di peccati, ma di debiti, una metafora che ricorre con
frequenza nel parlare di Gesù, anche se non sempre vi si trova la parola
precisa: per esempio nella parabola del creditore senza pietà (Mt 18,23ss),
dell’amministratore astuto (Le 16,1-8), dei talenti (Mt 25,14-30), dei due
debitori (Le 7,41ss), dell’uomo trascinato in tribunale (Le 12,51ss) al quale
conviene accordarsi lungo la strada per non essere gettato in prigione. Il fatto
che l’immagine del debito ritorni con frequenza nel parlare di Gesù suggerisce
che per Lui essa si prestava bene a ritrarre la situazione dell’uomo: davanti a
Dio, ma anche di fronte agli altri. L’uomo è per essenza debitore: di fronte a
Dio, dal quale ha tutto ricevuto, senza aver nulla in cambio da ridare. E di
fronte agli altri: quante sono le cose ricevute (a incominciare dalla propria
esistenza!), che non si possono restituire?
Il vocabolo
opheilema dice l’obbligo che sorge di
fronte a qualcosa che si è ricevuto. Penso che è su questo ricevuto che debba
concentrarsi la nostra attenzione. Non immaginiamo un Dio che vuole di ritorno
qualcosa per sé, bensì un Dio che vuole si capisca che ciò che si possiede è
ricevuto, dono, e dunque qualcosa per cui ringraziare e, soprattutto, qualcosa
da non trattenere egoisticamente per se stessi.
E’ per questo che il
servo della parabola, che si è visto condonare un debito immenso, avrebbe
dovuto, a sua volta, condonare un piccolo debito al suo compagno di lavoro (Mt
18).
A questo punto la
metafora del debito - che sin qui si è rivelata molto utile - non basta più. E’
in gioco qualcosa di diverso dalla semplice cancellazione di un debito
materiale. Se si esce dalla metafora - che è commerciale e giuridica - per
coglierne il significato reale, si comprende che qui si tratta di un debito che
è un’offesa. Non tocca i beni del creditore, ma la persona. Il “peccato” è il
rifiuto di un dono, non semplicemente l’insolvenza di un debito.
Si diceva che l’uomo è
debitore per essenza. La domanda del perdono è perciò il modo giusto di stare
davanti a Dio, nella preghiera come nella vita. E’ l’atteggiamento assunto dal
pubblicano: «O Dio, abbi pietà di me» (Le 18,13). Enumerare puntigliosamente le
proprie opere, come ha fatto il fariseo, non serve: non si raggiungerà mai, in
ogni caso, la parità fra il ricevere e il restituire, e il debito rimane.
L’unica soluzione aperta all’uomo è la domanda del perdono. Se il mondo regge è
perché Dio lo perdona sempre. Racconta un’antica storia ebraica che Dio, dopo
aver creato il mondo, non riusciva a farlo stare in piedi: lo metteva dritto e
cadeva, lo metteva dritto e cadeva. Allora Dio creò il perdono e glielo pose
accanto, e il mondo stette in piedi. Anche la domanda del perdono è formulata
alla prima persona plurale: rimetti a noi i nostri debiti. Perché al plurale?
Probabilmente per più motivi. Il soggetto primario della preghiera è la
comunità: il Padre Nostro è una preghiera corale. E’ anche vero, inoltre, che ci
sono colpe comunitarie, collettive, non solo individuali. Tuttavia non è questa
la direzione principale della domanda: in tal caso sarebbe stato preferibile
dire il “nostro peccato”, anziché i “nostri peccati». Il peccato collettivo non
relega in secondo piano la responsabilità personale, come a volte sembra di
avvertire quando si parla dei peccati della società, colpa di tutti e di
nessuno.
Nel Padre Nostro è
anzitutto in questione la mia e la tua responsabilità. Si dice nostri perché si
tratta, appunto, dei miei e dei tuoi peccati. Ma il motivo principale del
plurale è un altro, comune a tutte le richieste del Padre Nostro: si chiede
perdono per sé e per tutti.
Anche la domanda del
perdono è missionaria. Neppure qui il cristiano si isola. Chiedere perdono per
gli altri è la preghiera che lo stesso Gesù sulla Croce ha rivolto al Padre (Le
23,34). La preghiera del perdono è di per sé la più umile delle preghiere, ma è
anche la preghiera che più delle altre rischia di diventare retorica. Non così
nel Padre Nostro, dove la domanda è sobria, schietta, oserei dire piena di
dignità. Nessuna traccia di aggettivi o avverbi che dicano la nostra
umiliazione, né si suggerisce di fare un qualche gesto penitenziale, come
battersi il petto e simili. Al Padre Nostro basta un semplice verbo
all’imperativo: «rimetti». Ovviamente l’imperativo non dice qui la pretesa,
certo però la confidenza, e soprattutto l’urgenza: quando il bisogno è
impellente non c’è spazio per inutili parole, si domanda e basta. Sobrietà
ammirevole e ricca, tanto ricca da farci capire - come dimenticarlo? - che siamo
“figli” anche se peccatori, e che il perdono lo stiamo chiedendo a un Padre, non
a un padrone.
Come noi li
rimettiamo ai nostri debitori
Quale
che sia il significato del “come”,
il
perdono ai fratelli è di assoluta importanza
e si
collega con quello di Dio
in
senso stretto e necessario.
La quinta domanda del
Padre Nostro non si limita a chiedere il perdono di Dio, ma allarga il discorso
aggiungendo: «Come noi li rimettiamo ai nostri debitori». Il perdono di Dio e il
nostro perdono ai fratelli sono dunque legati da un “come”. Certamente questo
“come” non significa che il nostro perdono costituisca la ragione, la misura e
il modello del perdono di Dio. Sarebbe un modo capovolto di guardare Dio! Il suo
perdono precede sempre il nostro, incondizionato, gratuito e senza misura.
Tuttavia il “come” pone
fra i due perdoni un legame stretto e decisivo. Lo ribadiscono diversi testi
evangelici. Per esempio Matteo in una sorta di breve commento allo stesso Padre
Nostro. Fra tutte le frasi che poteva scegliere da commentare, ha scelto proprio
la nostra: «se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre
vostro celeste perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli uomini,
neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe» (6,14-15).
Lo stesso concetto
ritorna anche più avanti, sia pure con parole diverse: «Col giudizio col quale
giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete
misurati» (7,2).
Lo stesso pensiero,
infine, riappare in un’affermazione di Marco (11,25), che sembra un’eco del
Padre Nostro: «Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno,
lo perdonate, perché il Padre vostro che è nei cieli perdona a voi i vostri
peccati».
A questo punto si può
già trarre una prima conclusione. Comunque si intenda il significato preciso di
quel “come”, resta fermo che il perdono ai fratelli è di assoluta importanza. Il
legame col perdono di Dio è stretto, addirittura in un certo senso necessario.
Anche il perdono dato, e non solo il perdono ricevuto, è decisivo.
Ma che cosa significa
rimettere i debiti? E quali debiti? La formulazione del Padre Nostro è negativa,
ma il suo contenuto non può che essere positivo. E’ sempre il Vangelo che lo
dimostra. In un passo in cui si parla del perdono, Matteo (5,44) dice di amare i
nemici e di pregare per loro. Il verbo amare non può che avere il contenuto
pieno dell’amore. E’ dunque partecipazione, solidarietà, preoccupazione, aiuto.
E’ molto più del semplice perdonare.
E anche il verbo pregare
suggerisce un atteggiamento positivo: pregare significa desiderare il bene del
proprio nemico. Matteo non parla di nemici, ma di “persecutori”, termine che
generalmente indica il nemico della comunità, dei cristiani come tali, non
semplicemente il nemico personale. E il plurale (amate, pregate) sembra voler
dire che l’intera comunità è invitata a perdonare, non soltanto i singoli. E si
conclude, infine, sottolineando che il perdono è necessario, se si vuole essere
figli di quel Dio che fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi.
In un passo che si può
dire parallelo, Luca (6,27.33-35) non parla solo di amare e pregare, ma aggiunge
«far del bene» e «benedire». La positività del rimettere i debiti è qui ancora
più chiara. E poi Luca non parla del nemico come persecutore, ma come colui che
maledice, odia, maltratta. Si tratta dunque di una figura di nemico più
generale, e anche più quotidiana.
Il Padre nostro non
precisa di che si tratta: dice semplicemente «i nostri debitori». E nemmeno
precisa quali debiti. Ma proprio questa non precisione dice l’ampiezza e
l’universalità del perdono: si tratta di rimettere qualsiasi torto, qualsiasi
danno ricevuto, chiunque l’abbia fatto. Abbiamo lasciato in sospeso il tentativo
di precisare ulteriormente il significato di quel “come”, che pone un legame
stretto tra il perdono di Dio e il nostro. Un passo evangelico, che sembra fatto
apposta per aiutarci, è la parabola che si legge in Mt 18,21-35. E’ una
narrazione a tre quadri.
Nel primo si racconta
che un servo aveva un debito immenso, del
tutto inverosimile tanto è grande. Avendo supplicato un rinvio del pagamento, il
padrone gli condona l’intero debito. Il gesto del padrone va oltre la domanda
del servo. La risposta di Dio è sempre oltre la misura della domanda, oltre le
aspettative e le speranze, oltre il giusto. Nulla viene detto sulle qualità del
servo, se buono e fedele, se abile nel lavoro, se ha reso grandi servizi. Si
dice soltanto che ha «supplicato». A spingere il padrone a rimettere il debito,
dunque, sono state la sua grandezza d’animo e la sua compassione, non i meriti
del servo. Il secondo quadro ci riporta nel mondo degli uomini. La relazione non
è più fra il servo e il padrone, tra l’uomo e Dio, ma fra uomo e uomo. Qui la
scena è inaspettata: il servo perdonato incontra un collega che gli deve pochi
denari, viene a sua volta supplicato, ma non si muove a compassione, esige il
pagamento del debito fino all’ultimo. Come è
possibile, dopo un tale condono ricevuto, non essere capace, a propria volta, di
una piccolissima remissione? Chiunque si sarebbe aspettato che il servo
-sopraffatto dalla gioia e dalla gratitudine - avesse ritenuto normale perdonare
a sua volta un piccolo debito. Ma il servo non ha compreso la fortuna che gli è
capitata. Il perdono ricevuto non lo ha rigenerato, né rincontro con la gratuità
di Dio gli ha allargato lo spirito. Non ha capito che accettare di essere
perdonati significa entrare in un circolo nuovo di rapporti, nel quale i criteri
dello stretto dovuto diventano inadeguati.
Se ci si ricorda di
essere stati perdonati, non si può più essere i difensori della rigida
giustizia, al punto da volerla imporre anche a Dio. Chi si fa difensore della
rigida giustizia, non è più un annunciatore del volto nuovo e sorprendente del
Dio di Gesù, ma l’annunciatore ripetitivo di una figura ovvia di Dio, rigida,
triste, troppo simile a come gli uomini se la immaginano per avere la forza di
stupirli.
Nel terzo quadro tutto
sembra capovolgersi. Il servo prima perdonato, ora non lo è più. Certo resta
fermo che il perdono di Dio precede, del tutto gratuito e senza misura. Su
questo la parabola è chiara: il perdono fraterno è la conseguenza del perdono di
Dio, che ne costituisce la motivazione e la misura («come io ho avuto
compassione di te»). Tuttavia il perdono generoso di Dio non può confondersi con
l’indifferenza.
Che l’uomo estenda il
perdono ricevuto o lo tenga per sé, agli occhi di Dio non può essere la stessa
cosa. Il perdono fraterno va preso sul serio. Non è la ragione del perdono di
Dio, però è il luogo della sua verità. Se non dai il perdono, significa che non
hai compreso il perdono ricevuto. E’ come se il perdono di Dio dentro di te
svanisse. Il perdono al fratello non è la condizione perché Dio, a sua volta, ci
perdoni. E’ però la prova che il perdono di Dio l’abbiamo veramente ricevuto,
accolto, e che veramente ci ha trasformato.
Non ci indurre in
tentazione
La
prova di cui si parla
non è
semplicemente quella dell’uomo in generale,
ma
quella del discepolo, del missionario
che ha
fatto del Regno
l’unica ragione della sua vita.
Nella sesta domanda del
Padre Nostro chiediamo a Dio di «non indurci in tentazione». Il verbo indurre ci
sorprende, persino ci infastidisce. La tentazione non può venire da Dio. Già
nelle prime comunità cristiane qualcuno lo pensava, e Giacomo nella sua lettera
ribatte con decisione: «Nessuno, quando è tentato, dica: sono tentato da Dio;
perché Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male» (1,13).
Meglio sarebbe, e anche più fedele al testo originario, tradurre: «Non lasciarci
soccombere nella tentazione».
Al posto di tentazione,
poi, si potrebbe usare il termine “prova”. La parola greca dice ambedue le cose.
Si dice che la prova purifica e affina lo spirito, fortifica la fede. Può essere
vero.
Tuttavia la prova è
anche pericolosa. Qui nel Padre Nostro se ne sottolinea la pericolosità, e
perciò si chiede a Dio di venirci in aiuto. Non si chiede a Dio di evitarci le
prove, ma di venirci in aiuto.
«Non è forse una
tentazione la vita dell’uomo sulla terra?» si chiede Giobbe (7,1). Ha ragione.
La vita è tutta una prova. Ma quali prove? Sono molte e di vario genere.
Ci sono le prove
eccezionali e ci sono le prove quotidiane. Nella spiegazione della parabola del
seminatore, Luca dice: «Quelli sulla roccia, sono coloro che, dopo averla
ascoltata, accolgono la Parola con gioia: costoro non hanno radici e per un
certo tempo credono e nel tempo della prova crollano». Luca non parla qui di
prove eccezionali, come potrebbe essere una persecuzione o una grande
tribolazione. Egli sa che per spiegare i cedimenti di molti cristiani non è
necessario riferirsi alla persecuzione. Bastano le prove comuni, la monotonia
della vita, il logorio del quotidiano. Per spegnere gli entusiasmi, anche i più
genuini, a volte basta il tempo che passa. Luca adopera qui un verbo che
significa: staccarsi, sfaldarsi, cedere.
Le immagini suggerite
esprimono efficacemente quanto la semplice vita quotidiana possa sfiancare e
spegnere. E’ come un tarlo che giorno dopo giorno, senza apparenti mutamenti,
svuota di ogni consistenza la fede. Il pericolo di questa prova è grande, perché
frequente perché subdola. Si cede senza rendersi conto, si viene meno e non lo
si sa. Occorre, allora, vigilare e pregare per non trovarsi a terra senza
accorgersi di essere caduti, per non lasciarsi, cioè scivolare piano piano quasi
inavvertitamente verso la perdita della fede. Romano Guardini - in un suo libro
molto bello che ha per titolo “Le età della vita” - scrive che nessuno è
dispensato dal vigilare e pregare continuamente, perché «a costituire una
tentazione che spegne ogni entusiasmo, anche nel campo della fede, non sono solo
le grosse tribolazioni, ma può essere anche il semplice passare del tempo.
La trascuratezza del
vigilare sulla propria fede è la strada per perderla a poco a poco, quasi
inavvertitamente. E’ proprio il tempo che passa a indebolire, a far perdere
freschezza, a costituire una tentazione di fronte alla scoperta del proprio
limite, tanto maggiore quanto più l’uomo invecchia».
Ho sottolineato la prova
quotidiana, normale, perché è la più frequente e la più subdola.
Tuttavia ii Padre Nostro
intende anzitutto una prova più precisa. Di fatti non parla di prove al plurale,
ma di prova al singolare. Di che si tratta?
Per rispondere alla
domanda - come sempre quando si vuole comprendere il Padre Nostro - dobbiamo
guardare a Gesù Cristo. Egli è stato sottoposto alla prova nel deserto (Mt 4,l
ss): si trattava di decidere se condurre la propria
missione secondo la parola di Dio, o secondo la logica del mondo.
Gesù è stato poi
sottoposto alla prova nella passione: si legga l’episodio del Getzemani. Le due
prove sono congiunte, al punto che si potrebbe parlare di una sola prova in due
tempi.
Nel primo momento la
prova viene dal fascino del mondo, che vorrebbe far credere al discepolo che la
logica della parola di Dio è inefficace, improduttiva, certo non adeguata alla
missione che si intende svolgere.
Nel secondo momento -
quello decisivo - la prova sembra venire da Dio stesso, il cui volto appare così
diverso da come siamo soliti immaginarlo: un volto certamente sorprendente e
bellissimo e tuttavia anche sconcertante: è il volto del Crocifisso. In ambedue
i momenti, lo spazio della prova è la stessa identità del Regno, è il suo modo
di farsi presente nella storia. Paradossale, ma verissimo: la prova accompagna
sempre il Regno di Dio. Scaturisce, per così dire, dal suo interno, dalla sua
natura di piccolo seme, dal suo modo di crescere sotto la terra, dal suo totale
rispetto della libertà dell’uomo (che pare debolezza). Se davvero il Regno è di
Dio, non dovrebbe essere più grandioso, apparire in modo più convincente,
irrompere nella storia e mutarla? E’ proprio vero: è lo stesso Regno di Dio che
crea lo spazio per la prova.
Si comprende allora che
la prova - o la tentazione - di cui si parla nel Padre Nostro, non è
semplicemente la tentazione dell’uomo che si dibatte nelle molte difficoltà
della vita. E’ la tentazione del discepolo, del missionario che ha fatto del
Regno il suo principale desiderio, l’unica ragione della sua vita.
Se la tentazione è così
strettamente congiunta alla natura del Regno di Dio, allora si deve anche
concludere che Dio non può evitarci questa prova. L’incontro con il Crocifisso è
necessario, se si vuole veramente conoscere chi è Dio. Ma se non può sottrarci
alla prova, il Padre può aiutarci a non soccombere. Anzi, può aiutarci a
scorgere la bellezza del Crocifisso, così da rimanerne stupiti anziché
scandalizzati.
Ma liberaci dal
male
Il cristiano sa
che il male che c’è nel mondo e nell’uomo
non si spiega soltanto con la cattiveria dell’uomo.
E sa che va combattuto
a partire dal cuore stesso dell’uomo.
«Ma liberaci dal male» è
l’ultima invocazione del Padre Nostro. Si chiede la liberazione da quale male?
Il termine greco può essere tradotto in due modi: liberaci dal male, oppure
liberaci dal maligno. E’ una indeterminazione intelligente, perché tutti e due i
significati sono veri. Il cristiano sa che il male, che c’è nel mondo e negli
uomini, non si spiega soltanto con la cattiveria dell’uomo. C’è un tentatore che
spinge al male. Ma il cristiano sa anche che non tutto il male è da attribuirsi
al tentatore: il male viene da noi.
La formula del Padre
Nostro non dice «liberaci da questo o quel male, da questa o quella cosa
cattiva», ma «dal male», con l’articolo: dunque il male nel suo significato
complessivo o, forse meglio, nella sua radice.
Non è certo il caso di
elencare qui le molte forme del male, sono tante e le conosciamo.
Più utile chiarire
alcuni atteggiamenti che il cristiano deve assumere di fronte al male. Se questi
atteggiamenti mancassero, la domanda del Padre Nostro perderebbe la sua verità:
non più una invocazione sincera, ma stereotipa, abitudinaria.
II primo atteggiamento è
l’umiltà di riconoscersi peccatori. La serenità poggia sulla certezza del
perdono di Dio, non sull’illusione di essere senza peccato. E’ questione di
verità e di lealtà. L’uomo ha la tendenza a scusarsi: il male fa parte della
natura dell’uomo, si sente dire. Il male è inevitabile, è necessario. Non colpa,
ma limite. Il Vangelo non ragiona così. Il male è nostro. Non va combattuto
fuori, nelle cose, negli altri, ma in noi stessi. Una frase di Gesù è in
proposito lapidaria: «Dal di dentro, cioè dal cuore degli uomini, escono le
intenzioni cattive: fornicazioni, furti, omicidi, adulteri, malvagità, inganni,
impudicizia, occhio cattivo, bestemmia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose
vengono fuori dal di dentro» (Me 7,21-23).
Accanto all’umiltà, un
atteggiamento di vigilanza: perché il nostro cammino non può mai dirsi
definitivamente confermato in una direzione. Deviare è sempre possibile.
Qualsiasi uomo, dovunque si trovi, qualsiasi cosa abbia fatto, può sempre
correre il pericolo di tornare indietro. E’ anche questione di prendere
coscienza della propria debolezza: il male è forte, conserva sempre il fascino.
Per questo si chiede a Dio: liberaci dal male. Nessuno vince il male da solo.
Occorre l’aiuto di Dio. Del resto il verbo “liberaci” è forse troppo debole. Il
senso letterale del verbo greco è “strappar via”, come se noi fossimo attaccati
al male, incollati, incapaci di scrollarcelo di dosso. Il male è qualcosa che si
accumula, si appesantisce, ci tira sempre più giù. E tuttavia una incrollabile
fiducia. Il Padre Nostro si è aperto con il nome del Padre e termina con la
parola male. Qui sta la drammaticità dell’esistenza cristiana, tesa - e contesa
- tra il Padre e il male. Ma nessuna paura, perché il Padre è più forte del
male. Nessuna angoscia, perché il perdono del Padre è più grande del male,
persino più certo, più pronto.
Abitualmente concludiamo
il Padre Nostro dicendo: «Ma liberaci dal male». Gli antichi preferivano, però,
un’altra traduzione, altrettanto corretta: «ma liberaci dal Maligno».
Sulla presenza del
maligno, il tentatore, si possono dire molte cose. Ma noi stiamo a quanto dice
il Vangelo. Satana ha tentato anche Gesù. In che modo? Rispondere a questa
domanda è importante per comprendere il senso di “ma liberaci dal maligno”. Sono
note le tentazioni di Gesù nel deserto. Qui Satana non cerca (almeno
apparentemente) di distogliere Gesù dal suo compito messianico, ma gli
suggerisce piuttosto di svolgerlo servendosi del prestigio e della potenza.
Satana cerca di distogliere Gesù dall’obbedienza alla parola di Dio, non subito
e direttamente dal suo compito messianico. Anzi: moltiplicare i pani, gettarsi
dal pinnacolo del tempio e dominare il mondo vengono suggeriti, appunto, come
una strada convincente per affermare la propria messianicità. Satana è furbo, e
non dice direttamente di disobbedire a Dio. Piuttosto suggerisce di interpretare
a modo nostro la volontà di Dio.
E difatti a ben guardare
la tentazione è sottile. Per due volte Satana si rivolge a Gesù dicendogli: «Se
sei Figlio di Dio...». Per Gesù essere Figlio si esprime nell’obbedienza e nella
dedizione al Padre. Per Satana invece l’essere Figlio significa poter disporre
della potenza divina a piacimento e per la propria gloria.
La pericolosità della
tentazione sta anche nel fatto che Satana non parla a nome proprio, non oppone
la parola di Dio alla propria saggezza, ma si sforza - ingannando - di partire
dalle Scritture, pretendendo presentarsi con il sostegno della stessa parola di
Dio: nel deserto Satana cita le Scritture. E’ sorprendente, ma è proprio così. E
qui sta la pericolosità della tentazione, in questa furbizia del maligno. La
tentazione è suggerita da Satana, ma proviene al tempo stesso
dall’interno, da una distorta lettura delle Scritture
sempre possibile, che può persino portare a una capovolta concezione della
gloria di Dio. In ogni caso, il Vangelo sa molto bene che la tentazione di
Satana nel deserto ha trovato altri portavoce. Per esempio, gli avversari, che
per “tentarlo” gli chiedevano un “segno dal cielo”, cioè una convincente
affermazione di potenza.
Oppure la folla, che lo
circonda e pretende strumentalizzarlo, piegandolo alle proprie attese. O anche,
e direi soprattutto, lo stesso discepolo: «Gesù, voltatosi e guardando i
discepoli, rimproverò Pietro e disse: via da me, Satana! Perché non ragioni
secondo Dio, ma secondo gli uomini» (Me 8,33). Pietro, volendo distogliere Gesù
dalla via della Croce (ancora una volta non si tratta di distogliere il Cristo
dal suo compito messianico, bensì di indicargli una via più facile per
svolgerlo) ripropone esattamente la tentazione di Satana nel deserto. Una
tentazione sottile, che viene dal di dentro del gruppo. Una tentazione definita
satanica («via da me, Satana») ma che poi - in realtà - non è altro che un
“ragionare da uomini”. Ciò che viene da Satana e colpisce al cuore la verità di
Gesù può apparire ragionevole al punto che il discepolo se ne fa portavoce senza
accorgersi, se non addirittura pensando di servire il Signore. Se così, è
veramente importante pregare continuamente dicendo al Padre: «Liberaci dal
Maligno».
I mille volti del
Padre Nostro
Il pane per ogni giorno,
il perdono dei peccati,
la forza per vincere il male:
questi i bisogni dell’uomo
che il Cristo ha individuato
e che affida alla forza dell’orazione.
Dopo aver meditato il
Padre Nostro domanda per domanda, quasi parola per parola, è bello volgersi
indietro per contemplarlo nelle sue qualità fondamentali, nelle strutture che lo
sorreggono e gli imprimono uno stile inconfondibile. Sono molte, ma dobbiamo
accontentarci soltanto di alcune.
Il
Padre Nostro è una preghiera ammirevole per la sua sobrietà: non c’è una parola
di troppo né aggettivi ingombranti. Già il saggio Qohelet diceva che la
preghiera deve essere di poche parole. Poche, ma vere. A che serve moltiplicare
le parole? Le parole inutili stancano Dio e gli uomini. E difatti Gesù ha
insegnato il Padre Nostro proprio per contrapporsi alle interminabili preghiere
dei pagani, «i quali credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate
dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno, ancor prima di
chiederle».
Il Padre Nostro è una
preghiera di domande, non di lode, né di ringraziamenti. Semplicemente di
domande. E questo è splendido. Si pensa - a volte - che la preghiera di domanda
sia la più umile, la più interessata delle preghiere, in un certo senso persino
indegna dell’uomo maturo. Forse.
Personalmente penso
invece che sia la preghiera più vera, quella che fotografa l’uomo nelle sue
dimensioni più reali: il pericolo, l’impotenza, la paura e il bisogno.
Proprio perché è una
preghiera fatta di domande, soltanto di domande, il Padre Nostro è la preghiera
dell’uomo. Però dell’uomo autentico, semplificato, che chiede le cose
necessarie, non cose inutili e ingombranti, non le cose di troppo: il Regno di
Dio, il pane di ogni giorno, il perdono, la vittoria sul male.
I
bisogni dell’uomo sono tanti. Così - per lo meno -
pensiamo noi. Il Padre Nostro, però, ne indica soltanto tre: il pane per ogni
giorno, il perdono dei peccati, la forza per vincere il male. Perché questi tre
e non altri? Evidentemente perché il Padre Nostro li considera essenziali e
sufficienti.
Con questa scelta la
preghiera di Gesù ci invita ad un chiarimento della nostra vita: ci dice quali
sono i veri bisogni, invitandoci a indugiare su questi e a lasciar perdere gli
altri, perché inutili, indotti e frastornanti.
La preghiera del Padre
Nostro è la preghiera dell’uomo semplificato. Una condizione, questa,
assolutamente necessaria perché la preghiera del Padre Nostro trovi la sua
verità.
Il
Padre Nostro è la preghiera del discepolo di Gesù, di
un uomo, cioè, che vive tutto raccolto nell’attesa del Regno di Dio. Il
discepolo è un uomo che prende molto sul serio l’avvertimento evangelico:
«Cercate prima il Regno di Dio e la sua giustizia, e il resto vi sarà dato in
più».
“Cercare” è un verbo che
esprime un desiderio sentito, sincero, un modo di vivere appassionato e
concentrato. Chi si disperde in molte cose, sembra cercare molto, ma in realtà
non cerca nulla. Un simile uomo è tutto il contrario del discepolo. E sulle sue
labbra il Padre Nostro non dice nulla: parole, formule, ma non domande vere.
Le prime tre richieste
del Padre Nostro esprimono un solo grande desiderio: «Venga il tuo Regno».
Se chi le recita non
desidera il Regno, tutto si affloscia: il Padre Nostro diventa una formula
abituale, una confusa domanda generale in cui si chiede a Dio tutto e niente.
Se un uomo non desidera
Dio, che senso può avere per lui quel «Venga il tuo Regno?». Il Padre Nostro è
una preghiera che richiede delle condizioni di verità che non sono di tutti. Il
Padre Nostro è una preghiera impegnativa.
Pur essendo la preghiera
del cristiano, anzi del vero cristiano, il Padre Nostro può dire qualcosa anche
all’uomo non cristiano: non però all’uomo qualunque, all’uomo senza qualità, ma
all’uomo insoddisfatto delle cose che ha e che raggiunge: un uomo che cerca una
pienezza che non trova e che tuttavia continua a desiderare e a cercare.
Anche quest’uomo - senza
accorgersi, senza parole - esprime a modo suo il grande desiderio: «Venga il tuo
Regno».
Il Padre Nostro è la
preghiera dei figli. Giustamente la liturgia della Messa lo introduce con queste
parole: «Obbedienti alla parola del Salvatore e formati al suo divino
insegnamento, osiamo dire...» Osiamo: recitare il Padre Nostro è, difatti, un
modo coraggioso di stare davanti a Dio. E’ il coraggio dei figli. Se il
cristiano prega con tanta dignità davanti al Padre, a testa alta, non è perché è
arrogante, ma perché si sente autorizzato dalla parola del Signore. Egli sa che
si tratta di un coraggio regalato, ricevuto, non scoperto in noi stessi in nome
di non so quale dignità. La sua radice è la dignità di essere figli come Gesù: e
questo è un puro dono, che non si può vantare come cosa propria, ma della quale
si può solo ringraziare. Pregare il Padre con dignità e coraggio, con
confidenza, è un modo di ringraziarlo e di riconoscerlo “Padre”.
| Ora, lege et labora | San Benedetto | Santa Regola | Attualità di San Benedetto |
| Storia del Monachesimo | A Diogneto | Imitazione di Cristo | Sacra Bibbia |
20 agosto 2015 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net