Regola di S. Benedetto

Capitolo XVI - La celebrazione dei divini Offici durante le ore del giorno: " "Sette volte al giorno ti ho lodato", dice il profeta. Questo sacro numero di sette sarà adempiuto da noi, se assolveremo i doveri del nostro servizio alle Lodi, a Prima, a Terza, a Sesta, a Nona, a Vespro e Compieta, perché proprio di queste ore diurne il profeta ha detto: "Sette volte al giorno ti ho lodato". Infatti nelle Vigilie notturne lo stesso profeta dice: "Nel mezzo della notte mi alzavo per lodarti". Dunque in queste ore innalziamo lodi al nostro Creatore "per le opere della sua giustizia" e cioè alle lodi, a Prima, a Terza, a Sesta, a Nona, a Vespro e a Compieta e di notte alziamoci per celebrare la sua grandezza. "

Capitolo XVIII - L'ordine dei salmi nelle ore del giorno: "Ci teniamo però ad avvertire che, se qualcuno non trovasse conveniente tale distribuzione dei salmi, li disponga pure come meglio crede, purché badi bene di fare in modo che in tutta la settimana si reciti l'intero salterio di centocinquanta salmi e con l'Ufficio vigiliare della domenica si ricominci sempre da capo. Infatti i monaci, che in una settimana salmeggiano meno dell'intero salterio con i cantici consueti, danno prova di grande indolenza e fiacchezza nel servizio a cui sono consacrati, dato che dei nostri padri si legge che in un sol giorno adempivano con slancio e fervore quanto è augurabile che noi tiepidi riusciamo a eseguire in una settimana."

Capitolo XIX - La partecipazione interiore all'Ufficio divino: "Sappiamo per fede che Dio è presente dappertutto e che "gli occhi del Signore guardano in ogni luogo i buoni e i cattivi", ma dobbiamo crederlo con assoluta certezza e senza la minima esitazione, quando prendiamo parte all'Ufficio divino. Perciò ricordiamoci sempre di quello che dice il profeta: "Servite il Signore nel timore" e ancora: "Lodatelo degnamente" e ancora: " Ti canterò alla presenza degli angeli". Consideriamo dunque come bisogna comportarsi alla presenza di Dio e dei suoi Angeli e partecipiamo alla salmodia in modo tale che l'intima disposizione dell'animo si armonizzi con la nostra voce."


Tratto dal libro "L'Anaunia e i suoi martiri" - Bibliotheca Civis - X - Trento 1997

L’ OFFICIUM DIVINUM ALL’EPOCA
 DELLA RIFORMA CAROLINGIA

a cura di Alceste Catella - Preside dell'Istituto di Liturgia Pastorale - Padova

Grazie ai missionari strettamente legati alla sede romana (esempio classico S. Bonifacio) e ad uno spirito che guardava a Roma come a modello di tutta la vita, e grazie anche agli sforzi della sede papale, nell’epoca carolingia l’Ufficio romano si afferma in quasi tutte le Chiese d’Europa, mentre il cursus benedettino prevale sugli altri ordinamenti monastici.

1. Una premessa

E abbastanza comune tra gli studiosi segnalare i reciproci influssi tra l’Ufficio romano e la Regola di s. Benedetto; occorre però rilevare che non siamo molto informati, in realtà, sulla natura dell’Ufficio romano che Benedetto conosce e a cui si ispira: era un Ufficio di tipo monastico ovvero di tipo cattedralizio?

La situazione romana al tempo di Benedetto (VI secolo) pare essere caratterizzata dalla presenza di un monachesimo urbano che gestisce le grandi basiliche.

La conseguenza di questo fatto è che il tipo di Ufficio presente è ibrido: ha la struttura oraria monastica caratterizzata da pluralità di sinassi quotidiane (non solo due come nella struttura cattedralizia classica): Notturni, Lodi mattutine, Prima, Terza, Sesta, Nona, Vespri, Compieta; ha acquisito dal monachesimo il “gusto” per i Salmi, ma non punta sulla quantità dei medesimi: per Lodi e Vespri mantiene, dalla tradizione cattedralizia, quei Salmi che meglio caratterizzano la sinassi in rapporto con l’ora del mattino e della sera.

 Questa realtà è frutto di un monachesimo che proviene dall’esperienza dei devoti sviluppatasi nelle città, e anche in Roma a partire dal III-IV secolo: sono dei fedeli che vivono intensamente la vita di preghiera delle loro chiese cattedrali; il loro trasformarsi in gruppi o comunità implicherà l’accoglienza di elementi monastici che passeranno alla cattedrale.

Un ambiente liturgico di tal genere conosce Benedetto, ne assume la struttura fondamentale, opera una revisione del salterio, provvede ad aggiunte caratterizzanti (quali l’innodia a tutte le Ore).

Circa l’influenza che la Regola di s. Benedetto ha avuto sulla Ufficiatura romana occorre fare qualche annotazione.

Un autore irlandese del VII-VIII secolo allorché descrive il cursus benedettino lo presenta come vicinissimo a quello romano, salvo alcune piccole discordanze.

Agli occhi di un irlandese estraneo, se non addirittura contrario, al movimento di romanizzazione che i missionari “gregoriani” stanno inducendo, le due realtà appaiono molto simili. Nel secolo IX Amalario riscontrerà maggiori disuguaglianze fra i due cursus: quello benedettino è rimasto inalterato, non si è ancora trasformato. in realtà non era ancora entrato nella quotidiana e generale pratica di tutti i monasteri. Per altro negli ambienti monastici si erano e stavano creandosi delle consuetudines; quando - nel movimento carolingio - i sinodi e la legislazione di Benedetto di Aniane imporranno la Regola in realtà si tratterà di questa e delle consuetudines. Pertanto il cursus benedettino che entra in vigore è quello della Regola. certo, ma ibridato dai riti e dagli Uffici aggiuntivi recati dalle diverse consuetudines.

Un conto, dunque, è l’Ufficio della Regola, un conto è l’Ufficio chiamato benedettino che è in realtà un “prodotto” del secolo IX.

Per parte sua anche l’Ufficio romano aveva proseguito nella sua evoluzione e appare diverso da quello che ora si celebra nei monasteri formato dalla Regola integrata dalle consuetudines. E' avvenuto qualcosa di simile a quanto s’è verificato per il sacramentario gregoriano adrianeo "supplementato": il cursus della Regola è, in qualche modo, "supplementato" da quanto le legislazioni carolingie ed anianee prevedono. E' sorto quell’Ufficio "benedettino del IX secolo" cui accennavamo sopra.

Solo tenendo presente questi fatti possiamo chiamare "romano-benedettino" l’Ufficio che la riforma carolingia tenterà di imporre a tutte le Chiese d’Europa.

Sta di fatto che per Amalario che scrive dopo la sua venuta a Roma nell’831 l’Ufficio romano e benedettino non sono la stessa cosa:

 

Quamvis a more Romanae Ecclesiae in nonnullis sanctissimi Benedicti constitutio discrepet, absit tamen a nostris mentibus ut in aliquo a fide sanctae atque apostolicae Ecclesiae eum dissentire credimus.

 

Per concludere il quadro descrittivo della situazione occorrerà pure ricordare 1'opera di Crodegango di Metz († 766) per la riforma del clero.

Anch'egli era stato a Roma (753 e 765), anch'egli aveva avuto modo di conoscere l'Ufficio romano dei monasteri urbani a servizio delle grandi basiliche: un simile progetto egli desidera che divenga normativo anche per il clero e per le comunità cristiane dell'impero.

Il capitolo sesto della sua Regola dice:

 

Ut omnes per oras canonicas ad officium divinum veniant. Ad oram divini officii mox ut auditum fuerir signum, relictis omnibus quaelibet fuerint in manibus, qui sic propinquo de illa domo sunr ut ibidem occurrere possint, cum summa festinatione veniant: et si longe ab ipsa ecclesia aliquis fuerit, ita ut ad opus Dei per oras canonicas occurrere non possit, archidiaconus ita esse perpendir, agat opus Dei cum tremore divino ubi tunc fuerit: et praevideat archidiaconus vel primicerius, vel custos ecclesiae ut illa signa horis competentibus sonent.

 

L’opera di Carlo Magno e dei suoi successori proseguirà in questa direzione avviata già sotto il regno di Pipino.

2. Descrizione sommaria dell'Ufficio “romano” agli inizi del secolo IX

Se intendessimo descrivere come la città di Roma celebrava effettivamente l’Ufficio divino in questa epoca dovremmo tracciare una pluralità di quadri e celebrativi e di contenuto.

 Tuttavia, pur potendosi e dovendosi parlare di “uffici romani” tra loro diversi, si può affermare che tale diversità è più da porsi nella scelta dei testi che negli elementi costitutivi dell’Ufficio o nella loro reciproca organizzazione.

Per questo motivo - pur con le necessarie integrazioni - possiamo limitarci ad interrogare Amalario, tanto più che proprio la sua opera servirà a far conoscere e ad impiantare nelle Chiese dell’impero una prassi “romana” di celebrare la preghiera oraria.

Si possono indicare quattro tipi di Notturni: la vigilia domenicale con 18 salmi, 9 letture e 9 responsori; la vigilia feriale con 12 salmi, 3 letture e 3 responsori; la vigilia delle feste dei santi con 9 salmi, 9 letture e 9 responsori; i Notturni di Pasqua e di Pentecoste e le loro ottave, con 3 salmi, 3 letture e 3 responsori.

L’Ufficio vigiliare domenicale comportava tre Notturni. Cominciava con il versetto Domine labia mea aperies detto da chi presiedeva e seguito dal Gloria Patri.

Seguiva il canto del salmo 94 Venite exultemus con un’antifona di invitatorio.

Iniziava a questo punto la salmodia costituita da 12 salmi, senza antifone, divisi in tre gruppi di quattro salmi caduno; a dividere ogni gruppo era il Gloria Patri. L’ assemblea li cantava stando in piedi.

Dopo un versetto di transizione dalla salmodia alla lettura che era cantato, v'erano tre letture ognuna seguita da un responsorio.

Gli altri due Notturni avevano la stessa struttura: il secondo prevedeva 3 salmi con antifone; il terzo 3 salmi con 1’Alleluja in luogo dell’antifona. Le letture con i rispettivi responsori erano tre sia nel secondo che nel terzo Notturno.

La conclusione era costituita dal Te Deum.

E' ancora interessante notare che la salmodia è costituita da una serie di salmi presi nell’ordine con cui si trovano nel salterio (da 1 a 20, esclusi i salmi 4 e 5) e che se ci si accorgeva che il sole stava per levarsi subito si poneva fine ai Notturni per iniziare la preghiera del mattino: le Lodi (officium matutinale); se l’Ufficio notturno, per contro, terminava troppo presto, si attendeva l’aurora per cominciare le Lodi.

Per gli altri tipi di Notturni l’impostazione era simile a quella sopra descritta, eccettuato il numero dei salmi e delle letture. La scelta dei salmi era fatta come per la domenica, in modo che per i Notturni domenicali e feriali si usavano - di seguito - i salmi da 1 a 108 e per i Vespri i salmi da 109 a 147.

La celebrazione delle Lodi mattutine si avviava direttamente dalla salmodia che presentava un insieme di sette salmi e un cantico dell’Antico Testamento. Il modo di inserire le antifone e i Gloria Patri, faceva sì che il gruppo assumeva una struttura quinaria. Si aveva, infatti, il salmo 92 (alle ferie sempre il salmo 50); il salmo 99 (nelle ferie i salmi mattutinali 5, 42, 64, 89, 142, 91); i salmi 62, 66 cantati con un unico Gloria e un’unica antifona; il cantico; i tre salmi laudativi 148, 149, 150 cantati come un unico salmo.

Seguiva una lettura con il versetto, poi il cantico evangelico del Benedictus.

Le preci e l’orazione finale concludevano l’Ufficio, assieme al canto del Benedicamus Domino.

Le ore diurne avevano una struttura tra loro pressoché identica. Dopo una introduzione v’era la salmodia costituita da sezioni del salmo 118.

Seguiva una breve lettura, un responsorio breve, le preci, l’orazione e la conclusione.

I Vespri a prima vista apparivano paralleli alle Lodi: avevano infatti lo schema quinario costruito da cinque salmi, un cantico evangelico il Magnificat, parti introduttive e conclusive analoghe. In realtà i salmi erano scelti - a differenza delle Lodi - con il sistema monastico dell’ordine biblico: così una preghiera nata come preghiera serale del popolo cristiano era divenuta una generica preghiera del pomeriggio e la preghiera della sera era divenuta l’ora di Compieta.

Compieta prevedeva quattro salmi invariabili 4, 30 (vv. da 1 a 6), 90, 133. A caratterizzare l’ora c’era il versetto Custodi me Domine... e il cantico Nunc dimittis.

Per quanto riguarda la celebrazione dei martiri occorre ricordare che essa era essenzialmente “locale”: era limitata al luogo (cimitero, basilica) che ne conservava il sepolcro. Qui si celebravano le “vigilie”, come ancora a metà del sec. VIII ci attesta il Liber Pontificalis a proposito di Gregorio III (731- 741): Disposuit in cimiteriis circumquaque positis Rornae, ut in die nataliciorum eorum, luminaria ad vigilias faciendas... deportentur. Ma le chiese cimiteriali e i loro sepolcri, malgrado la cura dei papi. cadevano in rovina ed erano sempre più a rischio: nel 410 era stato Alarico a saccheggiare Roma, e nel 545 era stato Totila, e ancora Aistulfo nel 755. Paolo I, successore di Gregorio, pensò di mettere al sicuro quelle sacre memorie trasportandole solennemente nell’Urbe:

 

Eadem sanctorum corpora de ipsis dirutis abstulit cymiteriis: quae cum hymnis et canticis spiritualibus infra hanc civitatem Romanam inrroducens, alia eorum per titulos ad diaconias seu monasteria et reliquas ecclesias cum condecenti studuit recondi honore.

 

 Ne seguì che la memoria di un martire, prima cimiteriale, venne celebrata nella chiesa che ne aveva accolte le reliquie, con un doppio ufficio vigiliare.

Ma Gregorio III aveva frattanto maturato una innovazione di capitale importanza: eresse nella basilica di s. Pietro un oratorio in onore del Salvatore, della vergine Maria, degli Angeli, degli Apostoli, dei martiri, dei confessori e di tutti i giusti, e ordinò che ogni giorno - dopo il canto dei Vespri eseguito davanti alla confessione di s. Pietro - i monaci dei tre monasteri addetti alla basilica si portassero nel nuovo oratorio e là celebrassero una vigilia (notturno) con salmi e la Messa in onore dei santi di cui ricorreva la memoria (quorum natalicia fuerint). In altri termini, mentre l’Ufficio quotidiano non prevedeva la menzione dei santi segnati per quel giorno in calendario, Gregorio III istituisce uno speciale Ufficio commemorativo; qualche anno dopo, Adriano I (772-795) confermò e rese definitiva questa prassi. L'Ordo Vallicelliano (del sec. X) vi accenna espressamente:

 

Passiones sanctorum vel gesta ipsorum usque Adriani tempora tantummodo ibi legebantur ubi ecclesia ipsius sancti vel titulus eral; ipse vero a tempore suo renuere iussit, et in ecclesia Sancti Petri legendas esse constituit.

 

Così l’Ufficio feriale - nei giorni “natalizi” dei martiri - si associava ad un Ufficio festivo: il “santorale” veniva ad inserirsi stabilmente nell’Ufficio canonico “de tempore”.

 

3. Analisi di alcuni elementi costitutivi

 

Dopo la rapida presentazione del “cursus” che si andava costituendo al IX secolo e che - pur restando presenti le differenze concernenti le scelte dei testi - si andava imponendo alla Chiese d’Europa, passiamo ad approfondire alcuni degli elementi che lo compongono.

 

a) La struttura celebrativa

 

Ci limiteremo ad esaminare la sequenza costituita dalla celebrazione dei Notturni e delle Lodi mattutine.

Le fonti a nostra disposizione permettono di ricostruire almeno un embrionale “programma rituale” inteso ad organizzare l’insieme dell’azione celebrativa secondo modalità di spazio di tempo e di comportamento.

Il luogo della celebrazione è esplicitamente indicato nella chiesa; essa è un luogo preesistente ma è pure percepito come un luogo che si va ad abitare, che si va a “creare” come spazio simbolico celebrativo. Si dice infatti:  ...ad sallendum parati ingrediuntur monaci, ovvero: ...et sic ingrediuntur ad celebrandum matutinorum laudibus.

L’elemento “tempo” ha abbondanza di indicazioni: la peculiarità di collegamento col tempo propria di questa azione liturgica appare evidente. Si tratta di indicazioni riguardanti il momento cronologico in cui l’azione si svolge: ...pausant autem usque nocte media: ...in media nocte; ...in nocte: in dominica nocte; ...tempore mediae noctis; ...per noctem.

Le indicazioni circa l’elemento “tempo” non svolgono la sola funzione cronologica: ne hanno evidentemente anche una simbolica: quel momento del tempo indicato ha un senso e dà un senso all’azione celebrativa che “in esso” avviene: dal tempo cronologico si passa al tempo simbolico. L’OR (Ordo Romanus: vedere nota fondo pagina) XVIII avverte:

 

Nocturnis autem finitis, si lux statim non supervenerit, faciunt modicum intervallo.. et iterum ingrediuntur ad matutinis laudibus explendas...; ...si autem cottidianis dies fuerint, tempore hiberni, post nocturnis finitis, iterum pausant, usquequo lux apparere incipiat, et sic ingrediuntur ad celebrandum matutinorum laudibus.

 

 Perché il modicum intervallum?, perché l’iterum pausare?

Non crediamo si tratti solamente di motivi “funzionali”: è la presenza della lux, è il suo supervenire, il suo apparire che “crea” il tempo idoneo per porre in atto un’azione liturgica chiamata laudes matutinae e che vuol essere celebrazione di Cristo-luce.

D’altra parte che questo sia il “tema” fondamentale sotteso al programma rituale che andiamo illustrando è confermato dalla scelta della salmodia: come sopra indicato essa è scelta esplicitamente in collegamento con l’esperienza della luce e della attesa della luce.

Anche Amalario - pur con la cautela con cui va accostato il suo linguaggio allegorico - è buon teste di tutto ciò.

Per lui la sequenza rituale costituita dai Notturni e dalle Lodi mattutine domenicali sono una veglia che sfocia nell’incontro con la luce che è il Signore risorto.

 

Restauratio et renovatio status nostrae innocentiae in Christi resurrectione reddita est nobis. Idicirco locuturi... de nocturnalibus et diurnalibus officiis, a dominica nocte, quam Dominus sua resurrectione praetulit ceteris noctibus, incipiendum est.

 

Dunque l’indicazione riguardante il tempo notturno della celebrazione è esigita dal valore simbolico della notte domenicale: è la notte dominica, è la notte eccellente su tutte le altre notti: celebrarvi una veglia significa realmente percorrere un cammino simbolico verso la luce. Amalario, infatti, così ancora dice:

 

Officium matutinale dominicalium noctium ammonet ecclesiasticos viros prospicere quomodo primo posi Christi resurrectionem, fugatis tenebris errorum et vitiorum, primitiva ecclesia surrexerit ad lucem verae fidei...

 

Crediamo che l’attenzione riservata all’elemento “tempo”, la rilevanza che vi è colta, la pregnanza di significati che vi si vede connessa non vada attribuita solamente al fatto che l’esistenza, in quel secolo IX, apparteneva in modo pressoché totale ai ritmi e ai cicli della natura dentro una società contadina; ci sembra che emerga la percezione che quei ritmi (notte-luce, sonno-veglia) hanno una connaturata valenza simbolica, parlano da se stessi all’uomo in cerca di senso, per questo possono divenire “luogo originario” in cui “oggi” risuona la Parola e l’evento accade.

Ci resta ancora da presentare i comportamenti, le azioni che “abitano” quello spazio e quel tempo di cui abbiamo sopra detto.

A svolgere queste azioni è una pluralità di soggetti (attanti): si va dal “noi” comunitario che regge la maggior parte dei verbi indicanti azione a colui che presiede la celebrazione (prior, sacerdos), al cantore cui iussum fuerit invitatorio o che a sede surgit et exaltat vocem in responsorio, alla schola, al lettore, fino al frater cui cura cummissa est, ut semper signum competenti ora insonare debiat.

Comportamenti / atteggiamenti / azioni sono individuabili a partire dai verbi che li designano. La maggior parte appartengono al “codice verbale” (dicuntur, dicitur, cantant, cantatur, legitur, lectio divinarum scripturarum, orant, audire, respondere, psallere, orationem proferre, canitur, decantare...): preghiere, letture, responsori, versetti, invocazioni..., ma anche i corrispondenti atteggiamenti dell’ascolto e della risposta. Va però notato che le azioni verbali recensite, in realtà, attengono piuttosto al “codice musicale”. L’assemblea e i vari ministeri appaiono coinvolti in un’azione liturgica globalmente connotata come “celebrazione solenne in canto” e il canto è chiamato a svolgere diverse “funzioni”: proclamazione didascalica, proclamazione lirica, meditazione, evocazione simbolica, invocazione, supplica, interiorizzazione della supplica... Questa “intensificazione” del “codice musicale” e delle sue funzioni appare ancor più se si pensa che il canto faceva affidamento - come ci informa Amalario - solo sulla voce umana:

 

Nostri canrores non tenent cymbala. neque lyram, neque cytaram manibus, neque cetera genera musicorum... Ipsi cantores sunt tuba, ipsi psalterium, ipsi cytara. ipsi tympanum, ipsi chorus, ipsi cordae, ipsi organum, ipsi cymbala.

 

Minore rilievo paiono avere i verbi che designano atteggiamenti / comportamenti / azioni raggruppabili attorno a “codici non-verbali”. Abbiamo: ingredi, se congregare ad ecclesiam, collegi in unum locum, stare, sedere, surgere, vertere se ad altare...

Oltre ai “codici spazio-temporali” di cui abbiamo trattato sopra, rinveniamo quello “topografico”, quello “odologico”, quello “prossemico”, quello “cinetico”. Ci pare interessante un’annotazione di Amalario dove il codice “cinetico” e quello “musicale” appaiono tra loro fusi e in atto di ”performare” l’assemblea.

 

Ad hoc enim surgit cantor a sede et exaltat vocem in responsorio, ut excitet mentes quae audierunt... ad actiones bonas.

 

In modo ancor più esplicito questo processo di fusione e compenetrazione dei codici Amalario sembra percepirlo allorché osserva:

 

Versus dicitur ille cantus per quem revertitur intentio mentis in aliam intentionem... disponens iter mentis suavi cantilena de uno affectu ad alterum... Iste status mentis in multis ecclesiis denonstratur per statum membrorum. In multis ecclesiis in principio cantus qui vocatur versus, vertit se chorus ad altare.

 

 Osserviamo ancora la concisa ma completa descrizione d’un momento di quello che potremmo definire il “rito d’inizio” dei Notturni: è una piccola “sequenza”, un piccolo “programma rituale”; i soggetti (attanti), le loro azioni, re-azioni (le loro “inter-azioni”) vi risultano presenti e descritti:

 

Et prior statim dicit prolexe: Domine labia mea, sub Gloria patri lente decantantis et in finem Alleluia concludentis.

Cantat statim cui iussum fuerit invitatorio, quod est Venite, exultemus domino, cum antiphona. citeris respondentibus, et omni officio suo quod supra scriptum est complebuntur.

 

A conclusione di questa breve analisi ci sembra di poter dire che essa ha permesso di rintracciare una “sequenza celebrativa” sufficientemente significativa, entro cui le forme “verbali”, le forme “sonore”, le forme di “movimento” sono compresenti e articolate in modo da dar origine ad un vero e proprio “progetto rituale”. Certo, la nostra odierna sensibilità potrebbe attendersi l’esplicitazione di altri “codici”, di altre “funzioni : ad esempio, nulla è detto circa il silenzio, circa la gestualità specifica del presidente quando prega o benedice; non entra in gioco l’uso di cose o realtà simboliche; infine, il codice “musicale”, nella pluralità delle funzioni canore, sembra preponderare a scapito del necessario equilibrio con gli altri codici... Eppure, nel suo insieme, questa “sequenza” che affonda le sue remote origini e nella tradizione monastica e in quella cattedralizia ci appare tuttora pervasa di solennità non meramente formale, bensì adatta a dire efficacemente - in un intreccio di ruoli e di azioni - l’esperienza orante d’una comunità che veglia in attesa della luce che è Cristo.

 

b) Il “trattamento” della parola

 

Proprio le osservazioni sulle “carenze” che si potrebbero addebitare al “programma rituale” proposto alle Chiese del IX secolo per celebrare i Notturni e le Lodi mattutine, ci inducono a dedicare un’attenzione particolare a come è presente e a come viene celebrata la parola.

- Il salterio e il lezionario. Abbiamo già notato come il salterio venga proposto e utilizzato in base ad un doppio criterio: quello della “continuità” e quello della “scelta”. Nella “sequenza rituale” che ci interessa i due criteri sono compresenti: nei Notturni i salmi sono disposti in “continuità” (da 1 a 108), nelle Lodi mattutine i salmi sono “scelti” per il fatto di essere “mattutinali” o “laudativi”.

Per quanto riguarda il ciclo delle letture bibliche possiamo descriverlo sulla base della sua distribuzione nei diversi tempi dell’anno liturgico.

Il ciclo è informato a questo basilare principio: Legitur autetn (cantatur autem) omnis scriptura sancti canonis ab initio anni usque ad finem.

Un altro principio è quello del pluralismo e della differenziazione: gli Ordines indicano il libro biblico da cui trarre la lettura, ma la scelta dei singoli brani concreti come pure la loro lunghezza esatta, in genere è libera.

* Nel periodo preparatorio alla Pasqua si leggeva il Pentateuco, Giosuè, Giudici e Ruth.

* Nella Settimana Santa: lsaia e le Lamentazioni.

* Nel tempo pasquale: le sette lettere cattoliche, gli Atti, l’Apocalisse.

* Da Pentecoste fino all’inizio di dicembre: i Re, i Paralipomeni, i libri sapienziali con Giobbe, Tobia, Giuditta, Ester, Esdra, i Maccabei e i Profeti.

* In Avvento si leggeva il profeta Isaia.

Infine, nel tempo da Natale alla Quaresima erano lette le lettere paoline a cominciare da quella ai Romani.

- Alcune riflessioni. Quando una “sequenza celebrativa” include la lettura di un brano biblico si può pensare che essa sia simile ad ogni altra “sequenza” che contiene in sé la lettura della parola. In apparenza ciò può essere vero, in realtà la lettura della parola può svolgere “funzioni” diverse per rapporto alla ritualità e all’assemblea.

Una delle principali “funzioni” per cui la Bibbia è utilizzata nell’azione celebrativa è quella “educativa o pedagogica”.

Si proclamano dei testi per far conoscere i loro contenuti, farli meglio comprendere in vista di una vita morale coerente.

Stando alle affermazioni di Amalario si dovrebbe pensare che sia il salterio che il lezionario abbiano - nella celebrazione dei Notturni - propriamente questa funzione:

 

In duodecim psalmis imbuitur... memoria sanctorum patrum qui ante legem excoluerunt vineam Domini. Per hunc numerum instruuntur qui ad nocturnale officium occurrunt... Per psalmos opus praedicatorum monstratur, per lectiones doctrina... Cantor... exaltat vocem in responsorio, ut excitet mentes quae audierunt doctrinam, ad actiones bonas.

 

Un’altra funzione della lettura della parola nella liturgia si può definire Come “kerigmatica e anamnetica”. Il termine è applicato dallo Zerfass alla lettura del racconto della Passione/Resurrezione che aveva luogo a Gerusalemme, nel IV secolo, ogni domenica a conclusione dell’Ufficio vigiliare.

E' chiaro che una tale lettura non aveva per scopo quello di “far conoscere” il contenuto della pericope, bensì quello di annunziare quell’evento e di “farne memoria”: tal proclamazione assumeva funzione di “memoriale”.

Crediamo si debba qui notare che precisamente una tale funzione può essere attribuita al canto di salmi “scelti” e fissi che avveniva tutto l’anno nella celebrazione delle Lodi mattutine.

Il confine tra le due funzioni presentate non può essere tracciato con nettezza: è il concreto utilizzo della lettura/proclamazione in “quella” precisa azione liturgica a segnare la differenza. Ma, d’altra parte, è possibile ritenere che la parola proclamata nella liturgia possa essere considerata pura lettura per conoscere? Non diventa essa sempre - proprio perché “atto di parola”, “parola celebrata”- anche “evento”?

Si possono ancora ricordare due funzioni della lettura della parola nella liturgia: quella “paracletica” e quella “dossologica”. La prima è, per così di- re, una graduale “scoperta” dell’assemblea e dei suoi componenti che “sentono” la parola come risposta alle loro attese e necessità; la seconda è intrinseca al fatto di “leggere/proclamare” la parola. Proprio la “sequenza rituale” della lettura/proclamazione della parola (con quanto la compone in ministeri, gesti, movimenti, uso di cose...) rivela l'aspetto “catabatico” dell’azione liturgica: Dio si rivolge a noi nella sua parola. E tuttavia questa sequenza è pure atta a rivelare l’aspetto “anabatico” della liturgia, l’aspetto della “risposta”, invocazione, lode, ringraziamento..., costitutivo di quell’ “evento dialogico” che è la celebrazione.

Allora tutte le modalità attraverso cui si esprime accoglienza e risposta alla parola sono intese a far vivere la “lettura/proclamazione” non solo come eruditio populi o sanctificatio hominis, ma anche come gratuita glorificatio Dei.

È evidente che il canto dei salmi - specie se fatto in piedi, come abbiamo visto si verificava -, esprime assai bene questa dimensione “dossologica”. Possono essere intesi come vera e propria “preghiera celebrata”; d’altra parte, l’antifona e il canto del Gloria Patri finale esprimono proprio questa intenzionalità precisa.

Entro la riflessione sull’uso e sul “trattamento” della parola, va fatto un cenno alla presenza - tra le letture da farsi - di testi narrativi della passio dei martiri.

Mentre ci è ben attestata, per la Chiesa di Roma, l’antica pratica di celebrare le memorie dei martiri, risulta esplicitamente proibita la lettura delle loro passiones durante la liturgia. Il Decretum gelasianum è esplicito:

 

Item gesta sanctorum martyrum, quae multiplicibus tormentorum cruciatibus et mirabilibus confessionum triumphis irradiant. Quis caholicorum dubitet maiora eos in agonibus fuisse perpessos nec suis viribus sed Dei grafia et adiutorio universa tolerasse? Sed ideo secundum antiquam consuetudinem singulari cautela in sancta Romana ecclesia non leguntur, quia et eorum qui conscripsere nomina penitus ignorantur et ab infidelibus et idiotis superflua aur minus apra quam rei ordo fuerir esse putatur.

 

Nell’OR XIII (della prima metà del sec. VIII) non si fa’ cenno alla lettura delle passiones nell’ufficiatura che si svolge in S. Pietro e nell’OR XIV (della seconda metà del VII secolo) che rappresenta gli usi dei monasteri a servizio della basilica di S. Pietro (Ordo lectionum in ecclesia sancti Petri), tale uso è attestato solamente dai codici più tardi appartenenti a recensioni gallicane; sembra un’interpolazione fatta per accattivarsi la benevolenza delle Chiese di Gallia: similiter... passiones martyrum (passio martvrum). Solamente l’OR XII - come già sopra accennato - indicherà la presenza a Roma di questa prassi, attribuendola a una volontà del papa Adriano I. Per parte loro, le Chiese d’Africa, di Gallia, di Milano e della Spagna avevano l'abitudine di leggere le passiones dei martiri fin dal sec. V

 

- I responsori. Vogliamo soffermarci su questo elemento poetico e musicale che seguiva ogni lettura dei Notturni. Ci pare, infatti, che il responsorio contribuisca a fare della lettura/proclamazione della parola una vera e propria celebrazione e non solo la proposta di un testo letto per studiarlo o meditarlo.

Ci pare che ciò sia prodotto dal fatto che il responsorio è una “ripresa” della parola e, contemporaneamente, è una libera, lirica rielaborazione della medesima: una sorta di “spazio aperto” che il “programma rituale” prevede e che viene vissuto attraverso un’esperienza che è sì orante, ma per il tramite del dire e fare qualcosa di intenso e di alto, qualcosa fortemente “sopra le righe”.

Può essere utile seguire rapidamente la genesi e l’evoluzione di quello che diventerà il responsorium prolixum. Con il termine responsorium/responsoria si deve intendere una modalità di canto/lettura del salmo, consistente nel ripetuto inserimento di un’antifona dopo le strofe in cui il salmo medesimo è diviso.

La Regola di s. Benedetto prevedeva che dopo ogni lettura biblica seguisse un responsorium, appunto un salmo cantato nella maniera sopra descritta.

Una esigenza funzionale (abbreviare i Notturni nella stagione in cui l’aurora irrompeva presto) e un’esplosione d’arte poetica e musicale, produssero il “responsorio breve”, composto sul versetto di un salmo “lanciato” dal cantore, ripreso e ripetuto dall’assemblea.

Appare evidente l’ingegnosità di questa costruzione semplice ed incisiva allo stesso tempo: un testo letterario breve programmatico ed allusivo messo in opera per la via dell’espressione musicale.

Come non cogliere davvero qui un momento del “programma rituale” in grado di trasformare l’ascoltatore in orante/celebrante? (da “lettore /ascoltatore modello” in “partecipante modello”?).

Il “responsorio” conoscerà ulteriori sviluppi sia nella sua struttura sia nei suoi contenuti. La prima frase si amplierà: si farà ricorso - per costruirli - ad altri libri biblici oltre che al salterio; si farà ricorso alla centonizzazione nell’intento di costruire una historia da narrare in canto; si applicherà al responsorio una raffinata tecnica musicale capace di mettere in rilievo - con grande espressività il significato delle parole. Sono questi i passi di un cammino che porterà al responsorium prolixum cantato nei Notturni e ai grandi repertori latini di responsori.

Al suo punto più evoluto il responsorio è un elemento celebrativo di natura poetico - musicale alla cui messa in opera cooperano la schola, i solisti e l’assemblea in un intreccio di ruoli che esprimono anche intreccio di movimenti (inizio, ampliamento / ascesa, accoglienza / interiorizzazione / consenso / adesione).

Dopo aver proposto ad ogni membro della Chiesa in preghiera una realtà densa e intensa. attivando al massimo la capacità di contemplazione tramite il canto che si esegue e si ascolta, il responsorio fa’ giungere alla risposta di accettazione e di consenso.

Si sarebbe tentati di aggiungere che il responsorio appare come il momento nel quale - celebrativamente - si lascia il terreno della conoscenza o della riflessione morale di fronte alla parola; il responsorio sembra dire - con la sua realtà di poesia e musica - una sorta di “resa”: accogliere, accettare e non aggiungere altro, perché tutto ciò che bisognava dire è già stato detto, perfettamente.

 

- Gli inni. Questo elemento poetico e musicale, questa modalità di “trattare” la parola sorge assai presto entro la nascente cultura cristiana, ma dobbiamo attendere il sec. VI per vedere entrare nella liturgia gli inni: la Regola di s. Cesario di Arles ci fa’ conoscere un embrione di repertorio innodico e quella di s. Benedetto indica che ogni ora dell’Ufficio prevede un inno e ne indica pure la diversa collocazione a seconda delle ore.

Al contrario, l’Ufficio romano non conosce l’uso generalizzato degli inni fino al sec. Xl: la riforma gregoriana farà sì che le comunità canonicali e poi tutti i chierici mutuino dal monachesimo la prassi degli inni e i repertori innodici. Tali repertori sono venuti formandosi in ambito monastico tra il sec. VII e l’VIII e si sono stabilizzati in età carolingia.

Nelle diverse famiglie liturgiche occidentali, l’inno occupa una posizione diversa secondo le diverse ore dell’Ufficio. Nel cursus monastico e poi in quello romano, esso si trova in apertura del Mattutino e delle ore minori, mentre si trova dopo la salmodia e la lettura breve.

L’inno sembra dunque compiere una doppia funzione: quella di aprire, di “situare” l’orante nel tempo della preghiera (momento cronologico, tempo liturgico, giorno, festa...) e quella di “approfondire” in modo poetico e lirico la preghiera salmodica e la lettura biblica; in questo secondo caso la sua funzione è assimilabile - per certi aspetti - a quella sopra descritta del responsorio.

 

 

Note:

OR = Ordo Romanus, cioè il rituale della chiesa romana contenente l'ordine delle cerimonie e dei riti adoperati in occasione delle solenni processioni papali, dei possessi pontifici, delle feste principali ecclesiastiche, di quelle che si facevano per l'elezione e per la consacrazione del papa o dei vescovi, e le solennissime per la coronazione dei re e degli imperatori.

 

 


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19 dicembre 2015                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net