Regola di S. Benedetto

Capitolo XXXIII - Il "vizio" della proprietà: Nel monastero questo vizio dev'essere assolutamente stroncato fin dalle radici, sicché nessuna si azzardi a dare o ricevere qualche cosa senza il permesso dell'abate, né pensi di avere nulla di proprio, assolutamente nulla, né un libro, né un quaderno o un foglio di carta e neppure una matita, ...."Tutto sia comune a tutti", come dice la Scrittura, e "nessuno dica o consideri propria qualsiasi cosa".

Capitolo XXXVIII - La lettura in refettorio: Alla mensa dei monaci non deve mai mancare la lettura, né è permesso di leggere a chiunque abbia preso a caso un libro qualsiasi, ma bisogna che ci sia un monaco incaricato della lettura, che inizi il suo compito alla domenica. Dopo la Messa e la comunione, il lettore che entra in funzione si raccomandi nel coro alle preghiere dei fratelli, perché Dio lo tenga lontano da ogni tentazione di vanità.... Nel refettorio regni un profondo silenzio, in modo che non si senta alcun bisbiglio o voce, all'infuori di quella del lettore.... E nessuno si permetta di fare delle domande sulla lettura o su qualsiasi altro argomento, per non offrire occasione di parlare, a meno che il superiore non ritenga opportuno di dire poche parole di edificazione.

Capitolo XLII - Il silenzio dopo compieta: I monaci devono custodire sempre il silenzio con amore, ma soprattutto durante la notte.... appena alzati da cena, i monaci si riuniscano tutti insieme e uno di loro legga le Conferenze o le Vite dei Padri o qualche altra opera di edificazione,... se invece fosse giorno di digiuno, dopo la celebrazione dei Vespri e un breve intervallo, vadano direttamente alla lettura di cui abbiamo parlato e leggano quattro o cinque pagine o quanto è consentito dal tempo a disposizione, perché durante questo intervallo della lettura possano radunarsi tutti, compresi quelli che fossero eventualmente stati occupati in qualche incombenza.  

Capitolo XLVIII - Il lavoro quotidiano: L'ozio è nemico dell'anima, perciò i monaci devono dedicarsi al lavoro in determinate ore e in altre, pure prestabilite, allo studio della parola di Dio.... Dal 14 settembre, poi, fino al principio della Quaresima, si applichino allo studio fino alle 9, quando celebreranno l'ora di Terza, dopo la quale tutti saranno impegnati nei rispettivi lavori fino a Nona, e cioè alle 14. Al primo segnale di Nona, ciascuno interrompa il proprio lavoro per essere pronto al suono del secondo segnale. Dopo il pranzo si dedichino alla lettura personale o allo studio dei salmi. Durante la Quaresima leggano dall'alba fino alle 9 inoltrate e poi lavorino in conformità agli ordini ricevuti fino verso le 4 pomeridiane. In quei giorni di Quaresima ciascuno riceva un libro dalla biblioteca e lo legga ordinatamente da cima a fondo. I suddetti libri devono essere distribuiti all'inizio della Quaresima....Anche alla domenica si dedichino tutti allo studio della parola di Dio, a eccezione di quelli destinati ai vari servizi. Ma se ci fosse qualcuno tanto negligente e fannullone da non volere o poter studiare o leggere (meditare aut legere), gli si dia qualche lavoro da fare, perché non rimanga in ozio. 

 


IL POSTO DEI LIBRI

NELLE PIÙ ANTICHE REGOLE MONASTICHE,

dal IV al VII SECOLO

Le regole monastiche e il libro

di Adalbert de Vogüé

Estratto e tradotto da “Revue Mabillon” 16 (T. 77) - Abbaye Saint-Martin, 2005

Una diversa traduzione italiana è riportata in "Il monaco, il libro e la biblioteca. Atti del Convegno, Cassino-Montecassino, 5-8 settembre 2000",

a cura di O. Pecere, Cassino, 2003, p. 45-64.


Per quanto breve sia, una regola dei monaci che è stata messa per iscritto costituisce un “libro„, o almeno un “libretto„ (libellus). Già Agostino dava questo nome alla piccola legislazione che aveva redatto per i fratelli di Ippona [1]. A loro volta, molti legislatori spagnoli chiamano la loro opera liber [2]. Ma questo “libro„ non basta. Ne suppone o ne raccomanda altri. Cosa ci insegnano dunque le regole monastiche antiche sull'impiego dei libri nei monasteri?

I nomi del libro

Un'osservazione di vocabolario si impone prima di tutto: il termine usuale per parlare dei libri non è liber, ma codex. Cogliendo alcuni esempi, né Pacomio (tradotto da Gerolamo) né i Quattro Padri (Autori della prima Regola di Lérins verso il 400-410) non pronunciano mai la parola liber, mentre il primo parla sei volte di codex o di codices [3] ed anche i suoi confratelli pseudo-egiziani utilizzano questo termine [4]. A loro volta, il Maestro e Benedetto utilizzano liber soltanto una volta ciascuno nelle loro lunghe regole[5], mentre codex ricompare rispettivamente tredici ed otto volte. È per errore che il molto utile Lexique des anciennes règles monastiques occidentales (Lessico delle antiche regole monastiche occidentali) indica una dozzina di utilizzi di liber nel senso di “libro„, mentre i testi sopra citati parlano dell' “uomo libero„[6]. In realtà, gli utilizzi di liber, “libro„, sono abbastanza rari. Normalmente questa parola designa piuttosto l'opera letteraria, mentre codex si applica all'oggetto materiale che è il libro.

Chi si occupa dei libri?

Per cominciare dai fatti più concreti, occorre notare inizialmente che i libri, come il resto degli oggetti che si trovano in un monastero, non appartengono a nessuno in particolare, ma sono il bene comune di tutti i fratelli. La Regola dei Quattro Padri e quella di san Benedetto sono una e l'altra formali su questo punto: nessun codex è di proprietà di qualcuno [7]. Senza dirlo esplicitamente Agostino, nelle due piccole legislazioni che portano il suo nome, suppone che sia così quando prescrive di “rendere i codices„ alla fine delle tre ore di lettura quotidiana [8] o di “chiederli„ ad un certo momento del giorno [9].

È dunque evidente che la comunità monastica deve provvedere alla conservazione ed alla circolazione dei libri e che è la sola a possederli. Fin dalla più antica regola cenobitica, quella di san Pacomio, si vede il legislatore preoccuparsi del locale dove i libri vengono sistemati e dei responsabili che ne sono incaricati. In quest'ambiente pacomiano, i libri possono essere di competenza sia del monastero preso come una totalità, sia di questa o quella casa particolare. Nell’ambito del monastero, sono gli ebdomadari che se ne prendono cura. Uno dei membri del gruppo di servizio passa nelle case all'inizio del giorno e raccoglie le richieste. Terminata la settimana, riprenderà i libri prestati e li rimetterà nel deposito comune, dove saranno a disposizione degli ebdomadari successivi [10].

A livello della casa pacomiana, è il “secondo„ della stessa che si prende cura dei libri. Ogni sera li rimette nella loro “alcova„ o “bacheca„ e ve li chiude [11]. È vietato andare a chiedere un codex in un'altra casa senza avere l'autorizzazione del proprio capo di casa o del secondo [12]. Quando ci si reca alla preghiera o al refettorio occorre avere cura di lasciare il proprio libro chiuso [13].

Le ulteriori regole sono di solito molto meno precise. Il Praeceptum agostiniano parla soltanto dei “custodi della dispensa, del guardaroba e della biblioteca „, non senza fare una distinzione tra questi oggetti: i libri sono distribuiti soltanto ad un'ora determinata, al di fuori della quale le domande non sono esaminate, mentre gli abiti e le calzature possono essere chiesti in qualsiasi momento [14]. La Regola del Maestro, che entra spesso in tanti dettagli, si accontenta di citare il “cassone„ (arca) nel quale il custode delle casse conserva “i vari libri, pergamene e carte del monastero„ [15]. Quanto a Benedetto, egli cita soltanto la bibliotheca da dove provengono i libri che si danno da leggere durante la quaresima. Il significato di questa parola è ancora discusso [16].

Tuttavia, verso la fine della serie delle regole monastiche occidentali, Isidoro di Siviglia si è preso la briga di regolare esattamente il destino dei libri. Chiamati a volte codices, a volte libros, essi fanno parte degli oggetti che detiene il sagrestano (custos sacrarii). Alla maniera di Agostino, ma con precisazioni nuove, Isidoro vuole che si chiedano i libri all’ora Prima e che siano resi dopo il Vespro [17]. Inoltre, mette in guardia i monaci contro la lettura “dei libri pagani e dei volumi eretici„ [18]. Così appare, accanto all’abituale codex ed al raro liber, un terzo termine, del tutto singolare, che designa il libro: uolumen.

 

Il lavoro di copia

Come i monasteri si procurano i loro libri? Alcuni postulanti ne portavano con sé, secondo la Regola dei Quattro Padri [19], ed inoltre sappiamo che monaci e monache effettuavano lavori di copia. A Marmoutier, alle origini del monachesimo gallico, il lavoro di scriba era anche il solo che si esercitasse nella comunità di san Martino: sdegnosamente riservato ai “più giovani„, occupava costoro fin quando erano capaci, come i loro anziani, di “dedicarsi all’orazione„ tutto il giorno [20]. Per lo meno si riconosceva così, in modo implicito, la dignità particolare di questa attività manuale così vicina alla vita dello spirito.

Nonostante questi inizi vistosi, la storia della copia nei monasteri è male illustrata dai documenti. Il Maestro nota bene, di sfuggita, che “gli scribi non completano la lettera che stavano tracciando„, quando sentono il segnale dell'ufficio [21], ma quest'immagine edificante è troppo evidentemente una reminiscenza di Cassiano e degli Apoftegmi [22] perché si possa intravedere semplicemente una caratteristica presa dal vivo. Da parte sua, Benedetto lascia appena intravedere questo genere di lavoro quando prescrive di dare ad ogni monaco, fra gli oggetti necessari, “tavolette e stiletto„ [23]. Il testo più netto è forse quello del gallo Ferréol, poco dopo Benedetto. Esortando, nella sua Regola, i monaci a lavorare manualmente, il vescovo di Uzès sostiene che nessuno deve dispensarsene sotto pretesto d'infermità corporale: se non si è capaci di lavorare ai campi, si può ancora “decorare una pagina con il proprio dito„, in altre parole: “scrivere, ciò che è il lavoro supremo„ [24].

Per quanto riguarda le monache, la Vita di Cesario di Arles ci insegna che, nel suo monastero femminile, allora diretto da sua nipote Cesaria la Giovane, l’abbadessa e le sorelle “copiano i libri divini in una bella forma„ [25], ma questo testo agiografico ci fa uscire dall’ambito delle regole.

L'orario della lettura e del lavoro

Vediamo ora quale impiego si fa dei libri nei monasteri. A tale riguardo, occorre distinguere due tipi di letture: quella che fanno i singoli e quella che viene fatta a dei gruppi od all’intera comunità. Cominciamo con la lettura individuale. Nell'antichità questa era, del resto, più simile alla lettura pubblica di quanto non lo sia oggi, poiché si sa che gli Anziani leggevano, normalmente, a voce alta, anche tra sé e sé.

Il tempo riservato alla lettura privata è di solito di tre ore al giorno. Il più antico orario che ci abbia conservato una regola monastica è quello dell’Ordo monasterii agostiniano, secondo il quale i fratelli leggono ogni giorno da Sesta a Nona, dopo le sei ore di lavoro manuale che hanno riempito la mattina, e proprio prima dell'unico pasto del giorno che si riceve nel mezzo del pomeriggio [26]. Questo modo di alimentare l’anima prima del corpo proviene dal monachesimo egiziano: un apoftegma anonimo ci mostra lo stesso orario osservato da un monaco del deserto delle Celle [27]. Autore probabile dell’Ordo, Alipio avrà raccolto questo programma nel corso del viaggio che aveva appena fatto in Oriente [28].

Lo stesso modo di leggere nel mezzo della giornata, dopo il lavoro e prima del pasto, era già attestato da Gerolamo nel 384, nella sua descrizione famosa dei cenobiti egiziani [29]. La sola differenza era che invece di una durata fissa di tre ore, questi monaci disponevano di tutto il tempo che restava loro dopo il completamento del loro pensum (dovere. Ndt.) di lavoro quotidiano.

Del resto, le tre ore fisse dell’Ordo monasterii agostiniano corrispondono ad un’usanza antica e molto diffusa, che si trova tanto nel Diario di viaggio di Egeria che nella lettera di Pelagio a Demetriade. Soltanto questi due testimoni concordano nel situare le tre ore di lettura quotidiana all'inizio del giorno, e non a metà giornata: è fin dalla mattina, prima di essere presi dalle occupazioni (la vita pubblica cominciava a Terza), che si legge o che si ascolta leggere la parola di Dio. Ciò che Pelagio prescrive alla vergine Demetriade, Egeria lo ha visto fare da parte del vescovo di Gerusalemme, circondato dai catecumeni, dai loro futuri padrini e madrine, da asceti e da cristiani di buona volontà, che ascoltano con lui la lettura della Bibbia, ogni giorno di quaresima, per prepararsi alle feste pasquali [30].

Questa norma delle tre ore di lettura all'inizio del giorno si imporrà generalmente nel monachesimo gallico, e resterà alla base dell'orario più vario delle Regole italiane del Maestro e di san Benedetto. Verso il 400-410 la prima Regola di Lérins, detta dei Quattro Padri, riserva già alla lettura l'intervallo tra Prima e Terza [31]. In seguito, da Terza a Nona, si lavora manualmente. L’attenzione che viene posta riguardo alla mormorazione che accompagna questa legge delle sei ore di lavoro quotidiano lascia indovinare che queste ore non piacciono a tutti [32]. Come stupirsene, quando si sa che i monaci di Marmoutier avevano tutto il loro tempo per leggere e pregare [33], e che Cassiano deplora ancora, verso il 420, l'assenza di lavoro manuale nei monasteri della Gallia? [34] In un simile contesto, Lérins innovava riducendo a tre ore il tempo disponibile per la lettura. Pur garantendo lo splendido successo della fondazione leriniana [35], questa riduzione della lettura a profitto del lavoro ha incontrato resistenze ben naturali.

Una ventina di anni più tardi, nel 427, la Seconda Regola dei Padri conserva questo orario delle origini, ed è soltanto verso la fine del secolo che la Regola di Macario riduce le tre ore di lettura a due: a partire dalla secunda ci si mette a lavorare [36]. Gli ultimi rappresentanti di questa tradizione leriniana presentano l’una e l'altra usanza: la Regola Orientale, compilata nel Giura per i monaci di Agaune verso il 510, fa leggere fino a Terza, mentre la Terza Regola dei Padri, elaborata al concilio di Clermont nel 535, fa cessare la lettura a partire dalla seconda ora [37].

Queste riduzioni del tempo di lettura, ridotto da tre ore a due, possono derivare da necessità economiche più incalzanti che costringono a lavorare maggiormente, ma esse sembrano indicare soprattutto un abbassamento del livello culturale: gli uomini, e più ancora le donne, fanno fatica a rimanere davanti ad un libro durante tre ore. Presto questo abbattimento della capacità di leggere si manifesterà nella regola di san Benedetto: è in quaresima soltanto che i monaci saranno costretti a leggere per tre ore di seguito, come se si trattasse di una rigorosa penitenza, e la sorveglianza alla quale saranno sottomessi durante questo tempo mostra che questo prolungato sforzo pesa ad alcuni [38]. Dopo essere sembrate troppo brevi, le tre ore di lettura sembrano ora troppo lunghe.

Pur rinnovando il monachesimo gallico, Cesario di Arles resta fedele al suo orario. Il tempo che dedica alla lettura non è quello della Regola agostiniana, alla quale deve tanto — da Sesta a Nona —, ma quello di Lérins e dei suoi epigoni: tra Mattutino e la seconda ora per le monache, tra Mattutino e Terza per i monaci [39]. Questa differenza di regime per i due sessi è significativa: le donne sono meno capaci di una lettura prolungata di quanto non lo siano gli uomini. In realtà, anche per le donne, Cesario aveva cominciato col prescrivere le tre ore [40]. Ma questa norma primitiva della sua epistola Vereor è stata mitigata da lui nella Regola delle Vergini, fino a quando la Regola dei Monaci, scritta verso la fine della sua vita, ritorna al tempo di lettura completo. Del resto, le monache non perdono completamente l'ultima ora dell'orario primitivo, poiché si fa loro la lettura fino a Terza mentre iniziano a lavorare [41].

Dopo Cesario, il suo successore Aureliano di Arles mantiene le tre ore di lettura mattutina per le donne e per gli uomini [42], e Ferréol di Uzès, per i suoi monaci, fa lo stesso [43]. È soltanto l'ultimo rappresentante di questa tradizione arlesiana che, per la prima volta in Gallia, istituisce un orario flessibile secondo le stagioni: secondo la Regula Tarnantensis, si legge da Prima a Terza in inverno, come i Galli avevano sempre fatto, ma da Sesta a Nona in estate. Là si riconosce l'influenza dell’Ordo Monasterii africano. Ciò che Cesario di Arles, pur così attaccato ad Agostino, non aveva fatto, la molto eclettica Regola di Tarnant se lo concede: in estate, l'orario di Tagaste si sostituisce a quello della Gallia [44].

Del resto, questo prestito dall'Africa si accompagna, nella Tarnantensis, con un'esitazione sulla durata della lettura. All'inizio del suo capitolo sull'orario, l'autore anonimo, che copia la Regola delle Vergini di Cesario, stabilisce in principio che il tempo di “meditazione spirituale„, cioè di lettura, duri soltanto due ore per tutto l'anno [45]. E di fatto, l'intervallo da Sesta a Nona in estate è occupato non soltanto dalla lettura, ma anche ed in primo luogo dal riposo, che può bene prendere la prima di queste tre ore. È soltanto in inverno che si legge da Mattutino e Prima fino a Terza, cioè circa tre ore [46]. Questa variazione è certamente dovuta al fatto che la durata delle ore non è la stessa in ogni stagione: le ore d'inverno sono più brevi di quelle d'estate. Così la Regula Tarnantensis ci ricorda molto a proposito che le “tre ore„ generalmente assegnate alla lettura sono una quantità che non cessa di variare.

Ciò che abbiamo appena constatato a Tarnant lo si ritrova in Italia ed in Spagna: l'orario varia secondo le stagioni. Se Eugippo, a Napoli, si accontenta di copiare l’Ordo Monasterii agostiniano [47], il Maestro e Benedetto mettono tutti e due la lettura d'inverno all'inizio del giorno [48], secondo l'impiego più comune del cristianesimo antico, e la lettura d'estate a fine pomeriggio (RM) od alla fine della mattinata (RB) [49]. Questi grandi autori italiani, d’altronde, differiscono molto tra di loro: alla semplicità del Maestro si oppone la complicazione di Benedetto, che - cosa unica nel monachesimo antico - sposta le ore dell'ufficio per ottenere i tempi della lettura e del lavoro che gli sembrano opportuni. In inverno, inoltre, aggiunge alle due ore di lettura mattutina il tempo che resta dopo il pasto di Nona, prima del Vespro [50].

Il Maestro e Benedetto differiscono ancora con le loro prescrizioni per la domenica: facoltativa secondo il primo - i monaci hanno vegliato quasi tutta la notte ed hanno bisogno di riposo -, la lettura è obbligatoria in questo giorno a parere del secondo, il cui ufficio notturno ha preso soltanto le ultime ore prima dell'alba [51].

Un'ultima differenza tra le due regole italiane deve essere citata qui, benché non riguardi precisamente l'orario: presso il Maestro la lettura non è un atto individuale, come in Benedetto ed in tutte le regole, ma un'azione collettiva. È per gruppi di dieci che i fratelli la praticano: uno solo legge ad alta voce  e gli altri ascoltano. Questa particolarità è dovuta al numero insufficiente dei libri disponibili, o alla poca fiducia del Maestro nella capacità di leggere e nello zelo dei fratelli per la lettura? In ogni caso, questo modo di leggere in comune, che funge altrove da complemento alla lettura privata [52], si sostituisce a questa nel caso presente. È soltanto, sembra, nei tempi liberi della domenica o della fine delle notti d'inverno [53] che un monaco del Maestro può leggere per conto suo.

Nella Spagna visigota, Isidoro e Fruttuoso concordano nel mettere la lettura tra Terza e Sesta durante l'estate, mentre si legge da Mattutino a Terza in inverno, come pure dopo Nona [54]. Questo orario spagnolo è quasi quello di Benedetto, tenuto conto degli spostamenti degli uffici che abbiamo notato riguardo a quest'ultimo.

Nella Gallia del VII secolo, né le Regole colombaniane né l'anonima Regula cuiusdam Patris tracciano nessun orario. È soltanto presso gli autori colombaniani influenzati da Cesario e Benedetto che si trovano dei programmi: alle monache di Besançon, Donato accorda soltanto un'ora di lettura, mentre quelle di Faremoutiers ricevono da Valdeberto di Luxeuil (Walbert in francese. Ndt.) l'intervallo da Nona a Vespro [55]. La riduzione operata da Donato è sintomatica, tanto più che l'unica ora di lettura che accorda non è neppure garantita: una necessità insistente può costringerle allora a lavorare. È anche vero che un’anziana fa la lettura alle sorelle di Besançon mentre lavorano. Ma questa prescrizione, presa in prestito da Cesario di Arles, manca di precisione: la durata di un'ora, indicata da Cesario, manca in Donato [56]. Riassumendo, questa regola tardiva segna una flessione certa della lettura presso le donne.

 

La lettura a tavola

Passiamo ad un altro momento del giorno dove monaci e monache ricevono la lezione dei libri: l'ora del pasto. In realtà, questa pratica della lettura al refettorio è lungi dall’essersi imposta sempre ed ovunque. Non la si trova né nella Regola di Pacomio né nelle “Regole dei Padri„ leriniani, che si vogliono affiliate al cenobitismo egiziano. Quest'ultimo, come lo nota Cassiano, ignorava la lettura durante il pasto: i monaci dell'Egitto mangiavano in silenzio [57]. Secondo lo stesso autore, è dalla Cappadocia che viene l’usanza di leggere a tavola e questa pratica mirerebbe meno a nutrire i fratelli spiritualmente che ad impedire che chiacchierino e litighino: interpretazione poco lusinghiera, che potrebbe spiegare perché i monaci provenzali - pensiamo ai Leriniani - abbiano ritardato così a lungo a leggere durante il pasto.

Quando situa in Cappadocia l'origine della lettura a tavola, Cassiano fa immediatamente pensare al legislatore cappadociano che è Basilio. Infatti, quest'ultimo cita brevemente questa usanza, ma lo fa soltanto nella seconda edizione delle sue Regole [58], che è restata sconosciuta al pubblico occidentale. Nella Regula basiliana tradotta da Rufino non si trovava nulla di ciò, e questo silenzio del Basilio latino spiega così da parte sua, noi lo vedremo, la comparsa tardiva della lettura a tavola nei monasteri gallici.

Benché le Istituzioni di Cassiano non ne parlino per niente, è nell'Africa romana che si vede inizialmente apparire, nei Latini, la lettura durante i pasti dei monaci. L’una e l'altra delle piccole legislazioni agostiniane, l’Ordo Monasterii ed il Praeœptum, ne parlano come di una cosa che si impone e che esige il silenzio completo mentre si mangia [59]. Lo stesso Agostino faceva leggere alla sua tavola di vescovo [60]. Quando, all'inizio del VI secolo, la Regola di Agostino farà irruzione in Italia e nella Gallia, la lettura durante i pasti si introdurrà con essa nelle Regole di Cesario di Arles e dei suoi epigoni [61], come in quella del napoletano Eugippo [62].

Un po' prima, tuttavia, l'usanza si era già stabilita nei monasteri del Giura. Verso la fine del V secolo, il terzo dei “Padri di Giura„, Eugendo, aveva introdotto questa abitudine a Condat [63]. Da dove gli era venuta? Non si saprebbe dire, ma è chiaro che nessuno degli autori “orientali„ che si veneravano in questo ambiente - Basilio ed i Padri di Lérins, Pacomio e Cassiano [64] -  incitava ad una tale pratica. Né la Regula basiliana tradotta da Rufino, né le Regole dei Padri leriniani, né la legislazione pacomiana la accennavano, come abbiamo detto. Quanto alle Istituzioni di Cassiano, la loro presentazione dell'usanza “cappadociana„ non era affatto incoraggiante. Dunque è altrove che Eugendo ha preso il suo apprezzamento della lettura a tavola, che egli ascoltava con entusiasmo. Forse la Regola di Agostino ebbe qualche influenza, poiché sembra essere stato conosciuta nella Gallia, e più precisamente a Lérins, fin dal tempo dell'abate Fausto a metà del V secolo [65].

Per essere del tutto esatti, peraltro, occorre notare che la lettura a tavola non era completamente ignorata dai “Quattro Padri„ che legiferarono alle origini di Lérins. Appare già nella loro Regola, ma soltanto a proposito di una circostanza particolare: il ricevimento di un ospite al quale si offre il pasto. Questo “fratello straniero„ non mangia con i fratelli del monastero, ma “con il superiore, che saprà edificarlo„. “Nessuno potrà parlare„, aggiunge il secondo dei Padri, “e non si udirà una parola al di fuori di quella di Dio, tratta dal testo scritturale, e di quella del superiore o di coloro ai quali comanderà di parlare„ [66].

Questa lettura biblica, destinata ad impedire le chiacchiere, fa pensare alla finalità che Cassiano assegna alla lettura a tavola dei Cappadoci: impedire le conversazioni inutili e specialmente le discussioni tra commensali. Tuttavia, l'effetto positivo di “edificazione„ non è affatto escluso. Rimane il fatto che la lettura sembra riservata a questi pasti presi con gli ospiti. Nulla indica che abbia luogo durante il pasto della comunità. È soltanto nella recensione Π dei Quattro Padri, elaborata in Gallia nel VI secolo, che le parole ex more aggiunte al testo [67] indicano un impiego generale: questa lettura che si fa al pasto degli ospiti è diventata “usuale„. Certamente la si fa anche al pasto della comunità.

Ritornando a Cesario di Arles, occorre notare che la sua Regola femminile prevede la conclusione della lettura durante il pasto: le sorelle devono allora “meditare„ la Parola di Dio nel loro cuore, pur mangiando [68].  Il legislatore arlesiano, che è stato seguito su questo punto dalla Tarnantensis e da Donato [69], si mostra più esigente nella sua Regola maschile: per gli uomini, non si prevede che la lettura possa terminare [70]. Del resto la vita di Cesario, scritta dai suoi discepoli, ci garantisce che alla propria tavola “si leggeva ogni giorno senza sosta„ [71], ed il suo successore Aureliano, nell’una e nell'altra delle sue Regole, sembra escludere ogni conclusione della lettura al refettorio: “Ogni giorno, sempre, si leggerà mentre si mangia„ [72].

La stessa continuità della lettura a tavola appare presso il Maestro e Benedetto. Le uniche interruzioni che essi prevedono sono le domande poste dall'abate, che così verifica se i fratelli ascoltano attentamente [73], od un breve suo commento “di edificazione„ [74].

La lettura al pasto è ancora attestata in Italia, dopo Benedetto, dalla Regola di Paolo e Stefano [75], e se, in Gallia nella stessa epoca, Ferréol non ne parla per niente, il suo silenzio forse non significa che la lettura sia assente dal refettorio. In compenso, quando si constata che non se ne accenna né nelle regole di Colombano, né nella Regula cuiusdam Patris derivata dall’ambiente colombaniano, questa lacuna sembra tanto più significativa che Valdeberto, discepolo di Colombano, si limita a fare leggere un capitolo della Regola prima del pasto, mentre questo è preso in silenzio [76]. Ad eccezione di Donato, che prende in prestito da Cesario la lettura a tavola, almeno durante una parte del pasto [77], i legislatori franco-irlandesi sembrano dunque ignorare questa pratica.

Il monachesimo dei primi secoli ritorna così, verso la sua fine, ai pasti silenziosi dei suoi inizi: i monaci colombaniani somigliano, a questo proposito, ai pacomiani. Tuttavia il VII secolo vede in Spagna, da Isidoro e Fruttuoso, la continuazione della lettura a tavola [78] che finirà con l’imporsi ovunque dove si adotterà la Regola benedettina [79].

 

Leggere la Regola del monastero

È un capitolo della sua Regola per monache che Valdeberto fa leggere prima del loro pasto, noi lo abbiamo appena visto. Da parte sua, il Maestro vuole che si legga la sua Regola di continuo al refettorio, cosa che si armonizza con l'ampiezza straordinaria di questa legislazione, tre volte più ampia di quella di Benedetto e di gran lunga più lunga di tutte le regole monastiche latine. Più modestamente, Agostino, seguito dalla Tarnantensis, voleva che il suo “libretto„ fosse letto ai fratelli una volta alla settimana [80], mentre Aureliano di Arles e Ferréol prescrivono la lettura della loro Regola all'inizio di ogni mese [81]. Quanto a Benedetto, si limita a chiedere vagamente che si legge la sua Regola in comunità “abbastanza spesso„ [82]. In modo ugualmente vago, il terzo dei Quattro Padri, Pafnuzio, voleva che “si ricordassero questi precetti ogni giorno alle orecchie dei fratelli„ [83].

 

Leggere gli scritti dei Padri

Oltre alla regola del monastero, i monaci devono udire periodicamente la lettura di certe opere dei Padri. Benedetto vi provvede con una lettura che fa fare prima di Compieta. Questa lettura vespertina gli deriva dall’Ordo Monasterii agostiniano, ma egli precisa questa regola, che parlava soltanto di lectiones [84], indicando per esempio due opere particolarmente “edificanti„: le “Conferenze„ di Cassiano e le “Vite dei Padri„ [85].

Un po' più tardi, nello stesso ambiente italiano, la Regola di Paolo e Stefano constata che alcuni scritti degli anziani sono letti ai fratelli “assiduamente„, cioè “ogni giorno„, ma questa volta si tratta più precisamente delle “Regole dei santi Padri„ [86]. In modo simile, Isidoro di Siviglia vorrà che, nella conferenza che riunisce tutti i fratelli tre volte alla settimana dopo Terza, l'abate, se non ha più nulla da dire, faccia leggere i “precetti regolari dei Padri„ [87]. Nel corso di queste riunioni mattutine, inoltre, ciascuno potrà chiedere precisazioni su ciò che non ha compreso nelle proprie letture [88].

 

La lectio divina: leggere la Scrittura

Si legge, dunque, a tutti i fratelli la regola del monastero, come pure le regole e gli altri scritti dei Padri da cui deriva questa regola locale e che la illustrano. Ma i libri che leggono i monaci, in comune o da soli, sono soprattutto quelli della Sacra Scrittura. Quando Benedetto, all'inizio del suo capitolo sull'orario, incomincia dicendo che “i fratelli devono essere occupati in tempi determinati al lavoro manuale ed, ad ore determinate, anche alla lettura divina„ [89], quest'ultima espressione non designa null’altro che la Scrittura. La lectio divina, consiste nell’insieme del testo della Bibbia [90] e nella sua lettura. Quest'espressione, di cui oggi si abusa applicandola ad ogni tipo di lettura spirituale, deve essere presa nel suo senso esatto. È “divina„, propriamente parlando, soltanto la Scrittura ispirata da Dio, i libri dell’Antico e del Nuovo Testamento. Se altre opere possono essere lette nel tempo quotidiano di lectio, è a titolo d'introduzione o di spiegazione di questi Libri Santi.

 

Memorizzare e recitare ciò che si legge: la “meditazione„

Per finire, occorre osservare che la lettura ha, nei monasteri, uno sviluppo di grande importanza: la “meditazione„, cioè la ripetizione di testi imparati a memoria. Con questo esercizio mentale ed orale, che accompagna l’andare ed il venire, il lavoro manuale ed ogni tipo di occupazioni pratiche, il monaco resta costantemente all'ascolto di ciò che ha letto nei libri. L'oggetto principale, se non unico, della “meditazione„ è la Sacra Scrittura, che non ci si accontenta di leggere e memorizzare nel corso delle due o tre ore riservate ogni giorno a questa lettura, ma che ci si ripete in seguito nel corso di tutta la giornata.

Già la Regola di Pacomio prescrive ai monaci di recitare così la Scrittura in diversi momenti: camminando, dando il segnale dell'ufficio, distribuendo i pasti, lavorando [91]. Riassumendo queste prescrizioni, Orsiesi dirà che occorre “meditare„ la Scrittura “sempre„ e “continuamente„ [92].Agostino, da parte sua, nel De opere monachorum, in questo modo valorizza spiritualmente il lavoro manuale [93], ed Isidoro di Siviglia gli farà eco nella sua Regola [94]. In Gallia, allo stesso modo, Cesario vuole che le vergini “non cessino di meditare nel loro cuore„ quando cessa la lettura del pasto, come pure nel corso del loro lavoro manuale. In tal modo, dopo essersi nutriti leggendo, si “rumina„ meditando [95]. Al seguito di Cesario, si vede Aureliano e la Tarnantensis, Ferréol e Donato, come Valdeberto, prescrivere che si “mediti„ o che si “rumini„ al lavoro ed a tavola [96].

In Italia, la regola del Maestro autorizza espressamente la “meditazione dei salmi„ e la “recita delle Scritture„ nel corso del lavoro [97], nonostante la consegna generale del silenzio che dà ai fratelli. Il fatto è che si medita e che si recita ad alta voce. Questi atti violano dunque, almeno materialmente, la legge del silenzio. Omettendo nel suo riassunto queste menzioni della “meditazione„ che faceva il Maestro [98], Benedetto ha fatto scomparire ogni traccia di questo esercizio così importante per il monachesimo dei primi secoli. Presso di lui, meditari consiste soltanto nell’apprendere [99], secondo uno dei significati del verbo latino. Della recita delle Scritture che accompagnano altre azioni, la Regola benedettina non parla mai.

In Spagna, Fruttuoso di Braga non ignora questo prolungamento della lettura che è la “meditazione„ orale dei testi letti. Egli arriva anche fino ad esigere che si mediti a voce alta nelle latrine [100]. Più spesso, tuttavia, è un altro verbo, recitare, che gli serve ad inculcare questo dovere di ripetere incessantemente la Scrittura imparata a memoria [101].

Così, con la memorizzazione e la recita continua dei testi letti, il libro è incessantemente presente ai monaci dell'Antichità. Si può applicare loro globalmente ciò che Gerolamo diceva già di uno di loro, alla fine del IV secolo: “Con la lettura assidua e la meditazione prolungata, aveva fatto del suo cuore la biblioteca di Cristo„ [102].

 

Adalbert de Vogüé, o.s.b.

Abbaye de la Pierre-qui-Vire


NOTE

[1] Agostino, Praec. 8, 2 : Vt autem in hoc libello tamquam in speculo possitis inspicere, riprodotto da Regula Tarnantensis 23, 27. Altrove in hoc libello designa piuttosto un libretto annesso che racchiude le rubriche dell’ufficio: Cesario, Regula virginum 66, 2 ; Aureliano, Regula monachorum, Ordo 1 et Regula virginum, Ordo 1, PL, 68, col. 394B et 404C.

[2] Leandro, Reg. 10, 441 : in libro hoc ; Fruttuoso, Reg. 2, 63 : liber regulae ; Reg. Cons. 9 : in isto libro.

[3] Pacomio, Praec. 25.82.100.101 ; Inst. 2 ; Leg. 7.

[4] Regula quatuor Patrum [RIVP] 4, 11 : sive in rebus siue in codicibus.

[5] Regula Magistri [RM] 28, 43 : in libris suis sanctus Siluester ; RB 73, 4 : quis liber sanctorum catholicorum patrum.

[6] J.-M. Clément, Lexique des anciennes règles monastiques occidentales, t. I, Steenbrugge, 1978 (Instrumenta Patristica, 7A), p. 669 : gli otto liber della prima colonna (liber, libri) sono da trasferire nella seconda (liber, libera).

[7] RIVP 4, 11 : aliquid... in codicibus ultra eum possidere non licebit ; RB 33, 3 : neque aliquid habere proprium... neque codicem...

[8] Ordo monasterii [OM] 3 : ad nonam reddant codices.

[9] Agostino, Praec. 5, 10 : codices certa hora singulis diebus petantur.

[10] Pacomio, Praec. 24-25. Si veda anche Inst. 2 : Si codicem postulauerint, deferant eis [les ecclesiae ministri].

[11] Praec. 101 : Codices qui in fenestra, id est in risco parietis, reponuntur ad uesperum (Gerolamo). Il copto shoushit è tradotto « bacheca » da R. Draguet (Corpus Scriptorum Chris- tianorum Orientalium, 160, p. 31), « alcova » da A. Veilleux (Pachomian Koinonia, t. II, p. 160).

[12] Pacomio, Leg. 7.

[13] Agostino, Praec. 100.

[14] Ibid., 5,9-11.

[15] RM 17, 13 : arcam cum diuersis codicibus, membranis et cartis monasterii.

[16] RB 48, 15 : accipiant omnes singulos codices de bibliotheca. Riguardo l’interpretazione di questa parola in A. Mundô, « Bibliotheca. Bible et lecture du carême d’après saint Benoît », Revue bénédictine, t. 60, 1950, p. 65-92 (bibliotheca designerebbe la Bibbia), si veda la nostra nota in La Règle de saint Benoît, éd. A. de Vogüé, J. Neufville, 6 t., Paris, 1971-1972 (Sources chrétiennes, 181-186), t. I, p. 602. Noi ritorneremo su questa parola (si veda la nota 102).

[17] Isidoro, Reg. 8, 1 : omnes codices custos sacrarii habeat depositos... ; 21, 1 : Ad custodem sacrarii pertinebit... libros quoque instrumentaque cuncta.

[18] Ibid., 8, 2 : Gentilium libros uel haereticorum uolumina monachus legere caueat.

[19] RIVP 4, 11 (si veda la nota 4).

[20] Sulpicio Severo, Vita Mart. 10, 6 : Ars ibi, exceptis scriptoribus, nulla habebatur; cui tamen operi minor aetas deputabatur : majores orationi uacabant.

[21] RM 54, 1 : scriptores litteram non integrent.

[22] Cassiano, Inst. 4, 12 : Apopht. Marc, disc. di Silvano 1.

[23] RB 55,19 : grafium, acum, mappula, tabulas ; cf. 33, 3 : neque codicem, neque tabulas, neque grafium, reminiscenza di Cassiano, Inst. 4, 13.

[24] Ferreol, Reg. 28, 10 : paginam pingat digito, qui terram non praescribit aratro ; 12 : legere, scribere, quod est praecipuum opus. Dello stesso Cassiodoro, Inst. I, 30.

[25] Vita Caes. I, 58 : ut... libros diuinos pulchre scriptitent. La stessa Cesaria è « maestra » in questa arte, precisa la biografia.

[26] OM 3 : a sexta usque ad nonam uacent lectioni et ad nonam reddant codices.

[27] Syst. gr. 20, 14. Cf. Paschase, Apopht. 96, 4 (Poemen e i suoi fratelli). Si veda A. de Vogüé, Histoire littéraire du mouvement monastique dans l’Antiquité, t. III, Paris, 1996, p. 156-159, così come la nostra osservazione in Imaginer la théologie catholique... Mélanges offerts à G. Lafont, J. Driscoll ed., Rome, 2000 (Studia Anselmiana, 129), p. 578, nota 89.

[28] Come l’ha evidenziato A. de Vogüé, « L’horaire de l’Ordo monasterii. Ses rapports avec le monachisme égyptien », in Homo spiritalis. Festgabe fur L. Verheijen o.s.a. zu seinem 70. Geburtstag, hg. C. P. Mayer, Würzburg, 1987, p. 240-258.

[29] gerolamo, Ep. 22, 35, 7 : orationi... et lectionibus uacant... conpletis opusculis (cf. 6 : opus diei statutum est). Si veda Histoire littéraire, op. cit., t. I, Paris, 1991, p. 308-310 (p. 308, nella citazione, dopo 1 Cor 7, 5, aggiungere : « ed alla lettura »).

[30] Egeria, Itin. 46,1-3 (si veda Histoire littéraire, op. cit., t. II, Paris, 1993, p. 48-50) ; Pelage, Ep. ad Dem. 23.

[31] RIVP 3, 10 : A prima hora usque ad tertiam Deo uacetur.

[32] RIVP 3, 11-13.

[33] Sulpicio Severo, Vita Mart. 10, 6 (si veda la nota 20).

[34] Cassiano, Inst. 10, 23 : da ciò deriva il fatto che questi monasteri siano piccoli.

[35] Cassiano, Conl. 11, Praef. 1 : ingenti fratrum coenobio. Raffrontato a Inst. 10, 23 (nota precedente), questo elogio di Lérins implica che vi si facciano lavori manuali.

[36] 2RP 23-24 : usque ad tertiam legant ; Reg. Mac. 10,1 : usque ad secundam. Tuttavia due manoscritti della Seconda Regola hanno secundam al posto di tertiam (si veda A. de Vogüé, Les Règles des saints Pères, t. I, Paris, 1982 [Sources chrétiennes, 297], p. 270).

[37] Reg. Or. 24,1-2 et 3RP 5,1-2, che riproducono rispettivamente la Seconda Regola e quella di Macario.

[38] RB 48,14 e 17-21.

[39] Cesario, Reg. uirg. 19, 1 e 69, 30 ; Reg. mon. 14, 1.

[40] Id., Ep. « Vereor » 7, 3, reminiscenza di Pelagio, Ep. ad Dem. 23.

[41] Cesario, Reg. uirg. 20, 2.

[42] Aureliano, Reg. mon. 28 ; Reg. uirg., Ordo, PL, 68, col. 403C.

[43] Ferreol, Reg. 26, 1.

[44] Reg. Tarn. 9, 5 (estate) e 9 (inverno).

[45] Reg. Tarn. 9, 1 : duabus horis. Ugualmente 9, 10 (lavoratori agricoli) : binis... horis.

[46] Reg. Tarn. 9, 9 : matutinis uel prima transactis [...] usque ad tertiam.

[47] Eugippo, Reg. 1, 10, che riproduce OM 3.

[48] RM 50, 9-17 : a prima usque in tertiam ; RB 48,10 : usque in hora secunda plena, con un complemento a fine giornata (48,13) ed una variante per le quaresima (48,14 : a mane usque tertia).

[49] RM 50, 62-69 : post nonam usque temperius incoata lucernaria ; RB 48, 4 : ab hora autem quarta usque hora qua sextam agent.

[50] RB 48,10 et 13.

[51] RM 75, 3-7 ; RB 48, 22-23.

[52] Così Cesario, Reg. uirg. 20, 2 (si veda la nota 41).

[53] RM 44,12-19 : si può leggere per proprio conto oppure ascoltare la lettura fatta da un altro ; 75, 3-7 (cfr. nota 51).

[54] Isidoro, Reg. 5 ; Fruttuoso, Reg. 4.

[55] Donato, Reg. 20, 1 : A secunda usque ad tertiam, si aliqua necessitas ut operentur non fuerit, uacent lectioni (cf. 9 : non si mormori se occorre lavorare anziché leggere) ; Veldaberto, Reg. 12, 4.

[56] Confrontare Cesario, Reg. uirg. 20, 2 : una de sororibus usque ad tertiam legat ; Donato, Reg. 20, 7 : una de senioribus legat. Cf. A. de Vogüé, « La Règle de Donat pour l’abbesse Gauthstrude », Benedictina, t. 25, 1978, p. 219-313 (si veda pag. 264).

[57] Cassiano, Inst. 4,17.

[58] Basilio, Reg. 180.

[59] OM 7, 1-2 ; Praec. 3, 2.

[60] Possidio, V. Aug. 22, 6 : alla lectio si collegava la disputatio.

[61] Cesario, Reg. uirg. 18, 3 (ammette che la lettura finisca) ; Reg. mon. 9, 1-2 (nessuna cessazione) ; Auréliano, Reg. mon. 49, 1-3 et Reg. uirg. 32 (nessuna interruzione).

[62] Eugippo, Reg. 1, 16-17 (OM 7, 1-2) et 55-56 (Praec. 3, 2).

[63] Vita dei Padri del Giura, 169 : Iste namque illic [ad mensam] post priscis patribus legendi proprie inuexit industriam.

[64] Ibid., 174.

[65] Eusebio Gallicano, Hom. 44, 8 (CCL, 101A, p. 529), citando Agostino, OM 11 e Praec. 8,1.

[66] RIVP 2, 41-42 : non licebit peregrino fratri cum fratribus manducare, nisi cum eo qui praeest, ut possit aedificari. Nulli licebit loqui nec alicuius audiatur sermo nisi diuinus qui ex pagina profertur, et eius qui praeest uel quibus ipse iusserit loqui. Si veda Sources chrétiennes, 297, p. 192.

[67] Π 2, 41-42 : non licebit peregrino cum fratribus edere nisi cum praeposito, ut possit aedificari. Nulli itaque licebit loqui nec cuiquam sermo alius audietur, nisi qui ex diuinis paginis ex more recitatur et eius qui praeest uel quos ipse uoluerit aliquid loqui. Si veda A. de Vogüé, Les Règles des saints Pères, t. II, Paris, 1982 (Sources chrétiennes, 298), p. 589-590.

[68] Cesario, Reg. uirg. 18, 3.

[69] Reg. Tarn. 8, 11 ; Donato, Reg. 33, 3.

[70] Cesario, Reg. mon. 9, 1-2.

[71] V. Caes. I, 62.

[72] Aureliano, Reg. mon. 49, 1-3 ; Reg. uirg. 32.

[73] RM 24, 34-37. Cesario faceva ugualmente con i suoi chierici (V. Caes. I, 47-48 ; II, 24). I monaci del Maestro possono anche porre domande (RM 24, 19).

[74] RB 38,8-9.

[75] Reg. Pauli et Steph. 18, 1-2.

[76] Veldaberto, Reg. 9,10 (silenzio a tavola) e 13 : Ante mensam uero semper capitulum regulae unum aut amplius, si abbatissae placuerit, legatur. Nei giorni di festa, l’abbadessa può permettere di parlare (9, 16-18).

[77] Donato, Reg. 33, 1-5, riproducendo Cesario, Reg. uirg. 18, 2-6.

[78] Isidoro, Reg. 9 ; Fruttuoso, Reg. 3.

[79] Tuttavia, in Spagna nel X secolo, il Libellus a Regula Sancti Benedicti subtractus non ha nulla che corrisponda a RB 38. Si veda Règles monastiques au féminin, éd. L. de Seilhac, Bellefontaine, 1996 (Vie monastique, 33), p. 290.

[80] Agostino, Praec. 8, 2 ; Reg. Tarn. 23, 15.

[81] Aureliano, Reg. mon. 55 e Reg. uirg. 40 ; Ferréol, Reg. 39, 57.

[82] RB 66, 8, riprodotta da Donato, Reg., Prol. 24 ; Libellus a Reg. S. Bened. subtr. 7,13. Quest’ultimo sarebbe da aggiungere alla tavola sinottica del libro La Règle de saint Benoît, éd. A. de Vogüé (Sources chrétiennes, 184), p. 96-100. Quanto a Donato, le note di Prol. 24-26 sono state omesse in A. de Vogüé, « La Règle de Donat », art. cit., p. 239 e inserite per errore p. 245.

[83] RIVP 3, 31, un po’ precisata da Π (Sources chrétiennes, 298, p. 595 ; cfr. p. 558-559).

[84] OM 2, 5 : Et tempore oportuno post lucernarium omnibus sedentibus legantur lectiones.

[85] RB 42, 3 : sedeant omnes in unum et legat unus Collationes uel Vitas Patrum aut certe aliud quod aedificet audientes. Cfr. 42, 5-6.

[86] Reg. Pauli et Steph. 41,1 (regulae Patrum), 3 (sanctorum et beatorum Patrum regulis), 5 (in eorum sanctorum Patrum regulis).

[87] Isidoro, Reg. 7, 2 : praecepta Patrum regularia recensenda sunt. All’inizio (7, 1), reminiscenze di Agostino, Mor. I, 67, che s’ispirava lui stesso a Gerolamo, Ep. 22, 35, 2-3.

[88] Isidoro, Reg. 8, 2.

[89] RB 48, 1 : certis temporibus occupari debent fratres in labore manuum, certis iterum horis in lectione diuina.

[90] Così Ponzio, V. Cypr. 2, 6 ; 7, 4 ; 9, 6 ; Pelagio, Ep. ad Cel., 24, etc. Si veda anche Giustiniano, Nou. 133, 6 : divinis uacare scripturis, da cui si ispira senza dubbio Benedetto in questo caso.

[91] Pacomio, Praec. 3.28.36-37.59-60. Cfr. A. de Vogüé, « Les deux fonctions de la méditation dans les Règles monastiques anciennes », Revue d’histoire de la spiritualité, t. 51, 1975, p. 3-16 (si veda pag. 5).

[92] Lib. Ors. 51 : in earum [scripturarum] semper meditatione uersemur ; haec... pater noster... iugiter meditanda praecepit.

[93] Agostino, Op. mon. 17, 20, citando Sal 1, 2 : in lege Domini meditari.

[94] Isidoro, Reg. 5, 5 : Monachi operantes meditare uel psallere debent.

[95] Cesario, Reg. uirg. 18 e 20.

[96] Aureliano, Reg. mon. 24 e Reg. uirg. 20 (meditatio sancta) ; Reg. Tarn. 8,11 (sanctarum scripturarum meditatio ruminetur) ; Ferréol, Reg. 12, 2 (occulta ruminatione) ; Donato, Reg. 20, 8-10 (meditatio uerbi Dei... de diuinis scripturis semper aliquid ruminate) e 35, 1 (meditatio sancta) ; Veldaberto, Reg. 12, 11 (meditatione psalmorum ac scripturarum recordatione).

[97] RM 50, 26 e 43.

[98] RB 48.

[99] RB 8, 3 : meditationi ; 48, 23 : meditari aut legere ; 58, 5 : meditent. Si veda il nostro articolo citato prima alla nota 91.

[100] Fruttuoso, Reg. 2, 49 Campos : meditare uoce (nelle latrine) ; 7, 193 : meditantibus (alla lavanda dei piedi).

[101] Fruttuoso, Reg. 4, 116 e 140 : recitantes ; 120 : recitando ; 143-144 : recitent. Si veda anche Reg. 1, 35-36 : recitans... recitatione.

[102] Gerolamo, Ep. 60, 10, 9 : Lectione quoque adsidua et meditatione diuturna pectus suum bibliothecam fecerat Christi. Stesso impiego metaforico della parola da parte di Cassiodoro, Inst. 5, 2 : [Didymus] tantos auctores, tantos libros in memoriae suae bibliotheca condiderat. Gli utilizzi concreti del termine da parte di Cassiodoro sono citati da A. Mundô, « Bibliotheca. Bible et lecture du carême », art. cit., p. 73. Malgrado ciò che dice Mundó, noi non siamo persuasi che, presso Benedetto (RB 48, 15 ; si veda la nota 16), bibliotheca significhi « la Bibbia ». Quasi tutti i testi citati da Mundó (p. 74-77), dove la parola ha questo significato, integrano bibliotheca con un appellativo (sacra, sancta, diuina, caelestis) o con un determinativo (ecclesiarum, fidei, hebraeorum, scripturarum, ueteris testamenti, utriusque) che dissipa ogni equivoco, ed altrove il contesto basta ad imporre questo significato. L’ambiguità del testo benedettino ci sembra un indice sfavorevole all’interpretazione che propone Mundó. Quanto al senso ordinario di bibliotheca presso i Padri, oltre ai numerosi testi citati dallo studioso spagnolo (p. 72-73), citiamo a caso Eugippo, Excerpta ex op. Aug., Dedic., PL, 62, col. 559D : cum bibliothecae uestrae copia multiplex integra de quibus pauca decerpsi contineat opera, placuit tamen habere decerpta.


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23 maggio 2017          a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net