Capitolo XXXIII - Il "vizio" della proprietà: Nel monastero questo vizio dev'essere assolutamente stroncato fin dalle radici, sicché nessuna si azzardi a dare o ricevere qualche cosa senza il permesso dell'abate, né pensi di avere nulla di proprio, assolutamente nulla, né un libro, né un quaderno o un foglio di carta e neppure una matita, ...."Tutto sia comune a tutti", come dice la Scrittura, e "nessuno dica o consideri propria qualsiasi cosa".
Capitolo XXXVIII - La lettura in refettorio: Alla mensa dei monaci non deve mai mancare la lettura, né è permesso di leggere a chiunque abbia preso a caso un libro qualsiasi, ma bisogna che ci sia un monaco incaricato della lettura, che inizi il suo compito alla domenica. Dopo la Messa e la comunione, il lettore che entra in funzione si raccomandi nel coro alle preghiere dei fratelli, perché Dio lo tenga lontano da ogni tentazione di vanità.... Nel refettorio regni un profondo silenzio, in modo che non si senta alcun bisbiglio o voce, all'infuori di quella del lettore.... E nessuno si permetta di fare delle domande sulla lettura o su qualsiasi altro argomento, per non offrire occasione di parlare, a meno che il superiore non ritenga opportuno di dire poche parole di edificazione.
Capitolo XLII - Il silenzio dopo compieta: I monaci devono custodire sempre il silenzio con amore, ma soprattutto durante la notte.... appena alzati da cena, i monaci si riuniscano tutti insieme e uno di loro legga le Conferenze o le Vite dei Padri o qualche altra opera di edificazione,... se invece fosse giorno di digiuno, dopo la celebrazione dei Vespri e un breve intervallo, vadano direttamente alla lettura di cui abbiamo parlato e leggano quattro o cinque pagine o quanto è consentito dal tempo a disposizione, perché durante questo intervallo della lettura possano radunarsi tutti, compresi quelli che fossero eventualmente stati occupati in qualche incombenza.
Capitolo XLVIII - Il lavoro quotidiano: L'ozio è nemico dell'anima, perciò i monaci devono dedicarsi al lavoro in determinate ore e in altre, pure prestabilite, allo studio della parola di Dio.... Dal 14 settembre, poi, fino al principio della Quaresima, si applichino allo studio fino alle 9, quando celebreranno l'ora di Terza, dopo la quale tutti saranno impegnati nei rispettivi lavori fino a Nona, e cioè alle 14. Al primo segnale di Nona, ciascuno interrompa il proprio lavoro per essere pronto al suono del secondo segnale. Dopo il pranzo si dedichino alla lettura personale o allo studio dei salmi. Durante la Quaresima leggano dall'alba fino alle 9 inoltrate e poi lavorino in conformità agli ordini ricevuti fino verso le 4 pomeridiane. In quei giorni di Quaresima ciascuno riceva un libro dalla biblioteca e lo legga ordinatamente da cima a fondo. I suddetti libri devono essere distribuiti all'inizio della Quaresima....Anche alla domenica si dedichino tutti allo studio della parola di Dio, a eccezione di quelli destinati ai vari servizi. Ma se ci fosse qualcuno tanto negligente e fannullone da non volere o poter studiare o leggere (meditare aut legere), gli si dia qualche lavoro da fare, perché non rimanga in ozio.
DALLO SCRIPTORIUM
SENZA BIBLIOTECA ALLA
BIBLIOTECA SENZA SCRIPTORIUM
di Guglielmo Cavallo
Estratto da: “DALL'EREMO AL CENOBIO
La civiltà monastica in Italia dalle origini all’età di Dante”.
Autori vari. Prefazione di Giovanni Pugliese Carratelli
Libri Scheiwiller – Milano 1987
Monachesimo antico e libri
Alle origini del monachesimo, nell’Oriente cristiano, l’asceta che si ritira nel
deserto o in zone impervie e inaccessibili, il santo che non opera tra gli
uomini per tendere e affilare anima e lineamenti nella solitudine, l’anacoreta
che rinuncia al mondo, di solito non dispone di libri. Senza alcuna pretesa di
segnare linee di demarcazione precise in una realtà complessa, articolata e
mutevole quanto a forme, gradi, fasi di vita monastica, risulta comunque ch’è
soprattutto nelle pratiche ascetiche esercitate a contatto, diretto o indiretto,
con individui e comunità o nell’organizzazione economica e sociale del cenobio
che il libro, come lavoro e come prodotto, trova il suo primo spazio
nell’esperienza del monachesimo. E invero, nell’arco di tempo, grosso modo, tra
l’inizio del secolo IV e quello del VI, il lavoro di trascrizione o il possesso
di un manoscritto per il monaco è soprattutto mezzo di sostentamento o merce di
scambio: Vite antiche di asceti e di santi non lasciano dubbi al riguardo. Tra i
monaci della cerchia di Pacomio, che vivono nella Tebaide, 'chi lavora la terra
da contadino, chi fa il giardiniere, chi il fabbro, chi il panettiere, chi il
falegname, chi il gualcheraio, chi intreccia grossi panieri, chi fa il
conciatore di pelli, chi il calzolaio, chi il calligrafo, chi fabbrica piccoli
cestelli’: scriver libri perciò è un mestiere come qualsiasi altro. Ritiratosi
nel deserto, Evagrio monaco, versato nel tracciare un tipo particolare di
scrittura, 'come scriba si applicava nel corso dell’anno solo per il valore dei
cibi che consumava’ (del resto, la committenza libraria a singoli monaci risulta
anche altrimenti documentata); il monaco eresiarca Hieracas ancora a novant’anni
e fino al giorno della morte, sostenuto da una buona vista, vive dallo scriver
libri; nella
Vita di Ilarione,
il santo cerca di pagare con un codice dei Vangeli scritto da giovane il viaggio
per mare dalla Libia alla Sicilia per sé e per il discepolo Zanano, né egli
stesso e quest’ultimo posseggono altri beni se non 'quel codice e i vestiti che
portano indosso’; Marco Diacono ha come unica risorsa di vita il mestiere di
scriba; nel deserto, il monaco Simeone, di lingua latina, non ha altra
attitudine che la
manum librariam:
gli si fa scrivere perciò qualche libro in quella lingua in modo da dargli, come
retribuzione, il necessario per vivere. Anche nelle cerchie di Girolamo e di
Rufino i monaci trascrivono libri (anche di letteratura profana!) per ricavarne
guadagno. D’altro canto, la rinuncia al proprio egoismo e a sia pur modesti beni
materiali può esser segnata, in una vita santa, dalla rinuncia al libro: il
monaco caritatevole, ‘di chinarsi su di un libro non ha la possibilità, giacché
il suo amore per gli uomini lo distoglie dalle letture’, e ‘se un confratello
gli fa dono di un libro, subito lo vende’, giacché la sua scelta di vita gli
impone soprattutto di ‘prendersi pietosa cura di chi è nel bisogno’. Vi sono
regole che sanciscono l’inconciliabilità tra
propositum
monastico e il possedere ‘aliquid ... in codicibus’.
La cultura del monachesimo primitivo, soprattutto nel deserto, è fondata
sull’insegnamento orale, sui ‘detti’ più che sullo scritto; e dunque, anche se
una trascrizione di libri va ammessa, questa è mestiere, έργόχειρου (come lo
chiama Marco Diacono), attività produttiva; e il libro stesso è merce, valore,
prodotto, soprattutto all’interno del circuito socio-economico e culturale del
cenobio, dove il lavoro occupa un posto fondamentale (e talora esclusivo, come
nelle comunità pacomiane). Né trascrizione e libri devono essere altro: negli
apophtegmata patrum,
al monaco che gli dice ‘sono scriba’ il vecchio abba risponde ‘Tu sai...’, e
aggiunge, ‘lo scriba ha bisogno di rendere umile il cuore, perché il suo lavoro
reca con sé l’orgoglio’; e non può trattarsi che dell’orgoglio della conoscenza,
sempre in agguato, nell’antica concezione monastica, quando si pratichino
strumenti della cultura scritta. Veicolato da un ‘fitto reticolo di relazioni’
che introduce in Occidente tracce, suggestioni, caratteri culturali del
monachesimo orientale, è questo il modello cui si ispirano ‘istituzioni’ e
‘regole’ di vita monastica in Occidente. Anche qui - se ne ha testimonianza -
nelle prime comunità si scrivevano libri destinati alla vendita. Ma il posto che
i vari
praecepta
dànno, più che in Oriente, alla
lectio,
di certo imponeva che l’attività di copia fornisse alla comunità stessa i testi
sacri necessari. Nelle
Institutiones
di Cassiano, i monaci risultano avere
codicem, tabulas, graphium,
e vi si attesta ch’essi si dedicano all’opera dello scrivere ‘intra cubilia
sua’, vale a dire in celle separate: il che, se da una parte conferma
l’esistenza di una trascrizione di libri (ancora una volta, innanzi tutto, come
opus manuum
e per ricavarne
compendia lucrave),
d’altra parte indica che non vi era ancora uno spazio comune ‘attrezzato’ ad
essa riservato. Nella cosiddetta
Regula
Magistri
s’incontra solo un generico riferimento a
scriptores
intenti al loro lavoro. Infine v’è da dire della più significativa e duratura
delle ‘regole’ occidentali, quella di san Benedetto: nella Montecassino delle
origini e nei primi cenobi benedettini lo scrivere, pur se da ammettere, altro
non doveva essere che opera manuale come qualsiasi altra; e ai monaci, che pur
erano dotati di
graphium
e
tabulae,
non era tuttavia consentito di utilizzare a fini individuali ‘neque codicem
neque tabulas neque graphium’. Trarre altre e più vaste implicazioni dalla
Regula
benedettina è scorretto. Più in generale, se si vuol parlare in quest’epoca di
scriptorium,
va precisato che si trattava di semplice lavoro di trascrizione da parte di
monaci della comunità, ma non v’era uno spazio fisico, architettonico,
specificamente organizzato per un'attività coordinata di manifattura libraria.
Quando l’angolo visuale si sposti dalla trascrizione alla conservazione dei
libri, ci si trova di fronte a modi assai lontani da quelli sottesi al concetto
di biblioteca. Testimonianze e regole di vita cenobitica - sempre tra i secoli
IV- VI pur facendo di solito riferimento alla distribuzione di libri d'uso
comunitario e alle ore dedicate alla lettura, risultano mute riguardo a vere e
proprie biblioteche. Nei
praecepta
pacomiani si parla di codici riposti, dopo la lettura, 'in fenestra, id est in
risco parietis’, vale a dire in uno spazio ricavato nella parete e in qualche
modo strutturato a guisa di rudimentale armadio, nel quale peraltro risultano
conservati anche oggetti diversi d’uso domestico. Ed è il medesimo
fenestra
che viene adoperato nelle
Vitae patrum
per
indicare
lo spazio, assai modesto, nel quale si trovano i libri, peraltro limitati alle
Sacre Scritture. Né pare vi sia stata una qualche figura specifica di
bibliotecario: addetto ai
codices
risulta il
secundus
vale a dire chi, nell’organizzazione cenobitica, era ‘secondo’ soltanto al
praepositus domus,
al ‘padre’ della comunità. Nel primo monachesimo occidentale è dunque questo,
ancora una volta, il modello che ha agito. Nella
Regula Magistri
i libri risultano affidati a uno dei fratelli, ‘cuius diligentiam abbas
agnoverit’, preposto anche alla custodia dei
ferramenta monasterii
e di varie arcae, ciascuna con
determinati oggetti d’uso artigianale domestico cultuale, riuniti ‘in un unico
stanzino’ ; ed è assai interessante notare che tal
Regula
menziona ‘arcam cum diversis codicibus, membranis et cartis monasterii’, in
pratica una cassetta o armadiolo o stipo, in cui si trovavano, insieme ai libri,
anche i fogli di pergamena non ancora utilizzata e documenti. Si coglie qui,
nella sua fase larvale, quella che sarà la connessione strettissima di
scriptorium,
biblioteca e archivio nell’alto Medioevo; ma lo ‘stanzino’ descritto dalla
Regula Magistri,
nel quale si ammassano arnesi e cassette di oggetti diversi, non rappresenta
certo una biblioteca (o alcun altro spazio funzionale alla cultura scritta), né
il
frater-custode
che vi sovrintende, è un bibliotecario. E ancora: nella
Regula
di san Benedetto, la quale prescrive che tutti in tempo di Quaresima ricevano in
lettura (ma senza che si dica a cura o da parte di chi) ‘codices de
bibliotheca’, non si vuol significare altro, con quest’ultima espressione, che
‘codici della Bibbia’, i quali si devono ritenere conservati in qualche modesto
ripostiglio. Un po’ più tardi, in Isidoro di Siviglia, si legge che ‘omnes
codices custos sacrarii habeat deputatos’ e che essi, distribuiti al mattino,
siano restituiti ‘post vesperam’; nessun cenno, dunque, a un preciso spazio o
modo di conservazione dei libri o a un membro della comunità ad essi
specificamente addetto. In ultima analisi - anche se referenti storici e
lineamenti istituzionali del primo monachesimo non sempre si lasciano
individuare, definire, interpretare - par comunque certo che tra gli asceti e
nelle prime comunità monastiche circolavano libri/testi assai scarsi,
soprattutto o soltanto quelli necessari alla
lectio,
peraltro limitata a pochi scritti, in pratica la Bibbia, i libri liturgici e di
edificazione, le stesse regole (di certo non v’erano invece manuali scolastici,
giacché nel monachesimo antico la sola istruzione consigliata è
l’alfabetizzazione); il trascriver libri era inteso non come accumulo
bibliotecario, ma in special modo come mestiere o come lavoro all’interno dei
meccanismi di funzionamento dell’economia monastica; infine, a distribuire e
ritirare i libri stessi, riponendoli dopo l’uso in un qualche rudimentale
armadiolo, era un membro della comunità ad essi preposto, ma che non svolgeva
una specifica funzione di bibliotecario. Non a caso è in quest'epoca 'senza
biblioteca' che nasce quel tipo di codice-biblioteca rozzo nella manifattura,
miscellaneo e disomogeneo nel contenuto, plurivalente nelle funzioni. Sarà
necessario ancora qualche tempo prima che il monachesimo giunga a un nuovo
atteggiamento mentale verso il libro, i suoi contenuti, le forme organizzative
della produzione scritta.
In uno spaccato come quello emerso, Vivario, il monastero fondato da Cassiodoro
nei pressi di Squillace in Calabria intorno al 554, rivela i contorni di una
diversità stridente, inconciliabile con il tipo di cultura ‘scienter nescius et
sapienter indoctus' dei coevi, rudi cenobi del primo monachesimo e della stessa
osservanza benedettina. Un'indagine ravvicinata può cogliere il significato di
una proposta rimasta sostanzialmente senza séguito immediato (ma che più tardi,
sia come partizione disciplinare degli studi liberali sia come programma di
letture, il Medioevo accoglierà). Nelle
Institutiones
di Cassiodoro - è vero - non si trova alcun capitolo dedicato agli aspetti
organizzativi del lavoro di copia o della conservazione bibliotecaria; ma lo
spiccato e continuo interesse che Cassiodoro stesso mostra verso tutta una serie
di questioni testuali, codicologiche, grafiche ed estetiche della produzione
scritta di Vivario e i ripetuti cenni a una biblioteca e ad arredi bibliotecari
dimostrano che v'erano uno
scriptorium
(pur con l’avvertenza ch'era qualcosa di diverso da quello che viene più tardi a
strutturarsi nelle fondazioni monastiche medievali) e un adeguato sistema di
conservazione dei libri. I codici venivano preparati in quaternioni o anche in
senioni, avendo cura talora - quando si trattava di raccogliere materiali di
varia estrazione - di annettere alcuni fascicoli vacui alla fine per scrivervi
aggiunte. La tipologia di ciascun manoscritto variava in funzione del testo e
dell’uso cui i codici stessi erano destinati: v'erano libri maestosi della
Bibbia, quali, in nove volumi, la
Vetus
Latina,
o, in un unico manufatto a guisa di
Pandette,
la
Vulgata
in cinquantatré senioni, o l'altra Bibbia, nella versione esaplare, contenuta
nel
codex grandior
di novantacinque quaternioni; ma v'erano anche libri quali il
codex pugillaris,
tipico manuale scolastico, non a caso contenente un compendio della retorica di
Fortunaziano; si adoperavano scritture di modulo differenziato, vergando
littera clariore
codici di particolare qualità testuale e tecnica, come lo stesso
codex grandior,
e
minutiore manu
manoscritti come quello della
Vulgata,
ove si voleva contrarre una
lectio copiosa;
veniva messa in atto, a seconda dei casi, tutta una serie di strumenti ausiliari
di lettura e consultazione, come sommari iniziali, partizione del testo in
capitoli e distinzione in
cola
e
commata,
segni di interpunzione, richiami in rosso alle citazioni bibliche in altri testi
e tavole esplicative dei richiami stessi, note 'a forma di grappolo' (giacché -
scrive Cassiodoro - 'si corpus nostrum indiget per membra cognosci, cur lectio
cum suis partibus videatur confusa derelinqui?'). E a questo stesso criterio di
funzionalità rispondeva la prassi, quasi maniacale a Vivario, di riunire i testi
in
corpora/libri
organici, sì che le opere (o le parti dell’opera) di un autore o gli scritti di
più autori di uno stesso genere potessero, raccolti in un unico volume o in
pochi tomi, esser letti o consultati più facilmente. Infine, anche la rilegatura
era tenuta in rilevante considerazione, giacché i monaci avevano a disposizione
un album di modelli dipinti, ‘multiplices species facturarum in uno codice
depictas’, tra cui scegliere il tipo di rivestimento,
tegumentum,
da dare a ciascun manoscritto: una
species depicta
tra i modelli di rilegatura di Vivario pare essersi conservata in un foglio
singolo inserito in un manoscritto più tardo, il Paris, lat. 12190 scritto a
Corbie nel secolo VIII. Non meno attenta era la cura ‘critica’ dedicata al
testo: vi era praticata la collazione con esemplari antichi, eseguita con
l’ausilio di una voce leggente;
l’emendatio
- ispirata a un rigoroso equilibrio tra antichità della ‘tradizione manoscritta’
e corretta restituzione del testo - era regolata da norme precise; come recitano
le avvertenze di Cassiodoro, il ricorso ai codici antichi è d’obbligo, ‘nec illa
verba tangenda sunt, quae interdum contra artem quidem humanam posita
reperiuntur, sed auctoritate multorum codicum vindicantur’, o ancora, ‘regulas
igitur elocutionum, id est quadriga Messii, omnimodis non sequaris, ubi tamen
priscorum codicum auctoritate convinceris’, ma altrove, quando la distrazione o
l’incompetenza degli amanuensi (antiquarii,
librarii, scriptores)
ha lasciato nel testo
vitia, delicta,
errori che ne compromettono la stessa comprensione, non si può non correggere, e
dunque ‘secundum regulas artigraphorum quae tamen sunt emendanda percurre, ne
articulatae vocis pulchra modulatio peregrinis litteris maculata absona potius
et indecora reddatur’, o, con ulteriore insistenza, ‘quod si tamen aliqua verba
reperiuntur absurde posita ... intrepide corrigenda sunt’. L’intento ultimo di
Cassiodoro è una
decora correctio,
con l’occhio rivolto anche all’estetica del libro, quando raccomanda che certe
correzioni siano eseguite in maniera tale che la scrittura del revisore, per
l’esecuzione accuratissima delle lettere, non si distingua da quella,
professionale,
dell’antiquarius.
Era questo il modo di lavorare - ‘scrivere’, se si vuole - a Vivario. Di questa
stessa attività era parte integrante, necessaria, la biblioteca,costituita da
armaria
numerati, nei quali erano riposti i codici acquisiti dall’esterno o prodotti
nello stesso monastero, di contenuto sacro o profano, latini o greci (a questi
ultimi era adibito un appostato
armarium,
l’ottavo). Cassiodoro distingue fra i suoi libri personali e quelli della
biblioteca del monastero, ma v’è da credere che la raccolta privata abbia finito
con il confluire in quella comunitaria. Quest’ultima nel suo complesso, intesa
come autori e opere che ne costituivano il repertorio, si può indirettamente
ricostruire, almeno nelle linee fondamentali, attraverso quanto Cassiodoro
stesso nelle
Institutiones
dice dei libri che a Vivario si trascrivevano leggevano conservavano (mentre è
da avvertire, d’altro canto, che non tutti i libri elencati nell’opera erano
nella biblioteca del monastero). V’erano le Sacre Scritture e commentari a
queste, testi ed escerti patristici, atti conciliari, scritti di storia
soprattutto antiquaria o ecclesiastica, opere geografiche e mediche, ed ancora,
più strettamente connessi con l’impostazione filologica e letteraria data da
Cassiodoro agli studi monastici, trattati di grammatica, retorica, dialettica,
né mancavano testi di aritmetica, geometria, musica, astronomia: lo
strumentario, insomma, delle arti del Trivio e del Quadrivio. V’erano pure,
ovviamente, le opere di Cassiodoro stesso (tra i manoscritti che riverberano più
o meno direttamente esemplari vivariensi di queste, è il caso di ricordare
almeno il Bamberg. Mise. Patr. 61, scritto a Montecassino nel tardo secolo VIII,
copia, se non diretta, certo la più prossima all’edizione definitiva e ufficiale
delle
Institutiones,
‘licenziata’ dall’autore a Vivario; o il Paris. Mazarine 660, prodotto a
Nonantola nel primo secolo IX, il quale riverbera un altro ramo di tradizione
delle
Institutiones
stesse, sempre partito dal monastero vivariense: si tratta, nell’uno e
nell’altro caso, di codici forniti di illustrazioni diversamente interessanti).
Ma, oltre ad autori e testi esplicitamente citati nelle
Institutiones,
non si può escludere, ed è anzi da credere, che nella fondazione di Cassiodoro
si conservassero anche altri testi (si è ritenuto, tra l’altro, che vi si
trovasse un esemplare della
Historia Augusta).Tali
sistemi e tecniche di produzione del manoscritto, cura ‘filologica’ del testo,
modi di conservazione e utilizzazione del patrimonio librario, tanto divaricati
dalle pratiche del monachesimo pacomiano o benedettino, nel porsi come lavoro
intellettuale e non semplicemente manuale, ripercorrevano esperienze delle
scuole tardo-antiche cristiane, alle quali la comunità di Vivario si mostra
direttamente ispirata: si pensi a Cesarea (per la quale si dispone di congrua
documentazione), ove già nella cerchia di Origene e, dopo la sua morte, di
Pamfilo ed Eusebio, si trascrivevano testi scritturali e patristici, si
allestivano edizioni critiche praticando
l’emendatio
e la collazione a due voci, si aveva cura della biblioteca accrescendone la
consistenza, redigendone un indice letterario di autori e opere, rinnovandone
gli esemplari deteriorati dal tempo o dall’uso. E del resto, il primo intento di
Cassiodoro, intorno al 536, era stato quello di fondare a Roma, confortato da
papa Agapito, una scuola pubblica di studi teologici, con annessa biblioteca,
sul modello di quelle di Alessandria e di Nisibis; alle quali - anche se non se
ne trova esplicito cenno nelle
Institutiones -
non si può non aggiungere, come qui s’è fatto, la Cesarea origeniana, che del
Didaskaleion di Alessandria costituiva la più diretta iterazione e
continuazione. L’aprirsi di anni tragici e oscuri - la guerra tra Bizantini e
Goti - aveva troncato sul nascere l’iniziativa; ma l’intento era rimasto sempre
vivo, concretandosi nella fondazione, ormai non più pubblica ma monastica, di
Vivario.
Resta da chiedersi: che ne fu dei manoscritti di Vivario? Il monastero risulta
in difficoltà già negli ultimi anni del VI secolo, né sopravvisse ancora per
molto; le esperienze di lavoro furono vanificate dagli eventi; il patrimonio di
libri e di testi emigrò altrove, forse al Laterano, disperdendosi comunque in
mille rivoli (in particolare, si ritiene che alcuni manoscritti siano stati
acquisiti da Benedetto Biscop a Roma e di qui portati in area anglosassone). Né
risulta facile indentificare testimoni superstiti, nonostante le
Institutiones
documentino assai largamente - s’è visto - aspetti formali e contenutistici dei
libri di Vivario. E anzi i tentativi di individuare in questo o quel manufatto
un prodotto scritto o conservato nel monastero sono da guardare, in generale,
con diffidenza; solo alcune attribuzioni - ove confortate da convergenti
risultanze grafiche, codicologiche, testuali, storico-artistiche - possono
essere accolte, ma sempre non senza cautela (e del resto, non a caso, ‘gran
parte delle attribuzioni, delle suggestioni e delle ipotesi degli studiosi sulla
biblioteca di Vivario sono state smentite nel corso del tempo‘). L’unico
manoscritto che, per concorde valutazione di storici e paleografi, è considerato
un prodotto sicuro (o quasi) del monastero di Cassiodoro è il Vat. lat. 5704; e
invero questo riporta la traduzione dal greco, fatta proprio in quel monastero,
del
Commento al Cantico dei Cantici
di Filone di Carpasia, peraltro con l’erronea attribuzione del testo ad Epifanio
vescovo di Cipro, quale data dalle stesse
Institutiones,
mostrando anche, il medesimo manoscritto, altri caratteri, tecnici e testuali,
che ne confortano un’origine da Vivario. Ultimamente, nella serie di interventi
che costituisce una ‘revisione letteraria‘ della traduzione ‘letterale‘ dal
greco contenuta nel Vat. lat. 5704, si è voluto vedere la mano dello stesso
Cassiodoro. Tra i manoscritti di Vivario non conservati direttamente, ma che
hanno lasciato tracce nella storia dei testi e/o nella produzione libraria, va
ricordato il
codex grandior,
riverberato più tardi dal Laur. Amiat. I, la cosiddetta ‘Bibbia Amiatina‘,
manoscritto imponente, vergato da almeno sette mani, prodotto tra il 690 e il
716 per ordine dell’abate Ceolfrido a Wearmouth-Jarrow, le fondazioni
anglosassoni che furono ‘important literary, scribal, and artistic centres
during the later seventh and eighth centuries‘: nonostante dubbi e
contestazioni, è comunque da più parti riconosciuto che il modello
estetico-formale (se non contenutistico) della ‘Bibbia Amiatina’ è stato il
codex grandior
di Cassiodoro; il quale sembra aver lasciato tracce di portata anche più vasta
nella cultura scritta anglosassone di quell’epoca. Nella teca libraria che fa da
sfondo all’immagine di Esdra si può intravedere la tipologia degli ‘scaffali’
della biblioteca di Vivario: i libri erano ordinatamente collocati, i titoli
posti all’esterno e visibili, le ante degli
armaria
aperti. Se si vuole, nella figura di Esdra si può identificare lo stesso
Cassiodoro, e - oltre ai nove volumi delle Sacre Scritture posti
nell’armarium,
secondo la strutturazione di una delle Bibbie di Vivario - si possono vedere il
codex grandior
sulle sue ginocchia e la
Vulgata,
meno voluminosa perché scritta
minutiore manu,
ai suoi piedi. Sempre a terra, strumenti necessari alla manifattura libraria -
si distinguono almeno un compasso, un raschietto, uno stilo - completano questo
mondo di cultura scritta.
Certamente, nell’Occidente romano, Cassiodoro e Vivario, nella loro funzione
mediatrice di materiali e meccanismi della cultura tardo-antica, cristiana e
profana, restano un fatto isolato nel contesto del monachesimo dell’epoca, tanto
più ove si pensi all’organizzazione stessa di quella cultura, tutta ispirata ad
esperienze di scuole greche e orientali, dove gli studi sulle Sacre Scritture si
erano innestati sul sostrato filologico ed esegetico di tradizione
ellenistico-romana. Piuttosto, sarà più tardi che, attraverso le
Institutiones,
gli interessi di Vivario avranno un’incidenza altrimenti rilevante nella cultura
monastica, anzi nella stessa formazione della biblioteca come scelta di titoli.
Tornando alla tarda antichità, sono comunque da evitare schemi rigidi o
distinzioni artificiose, giacché la realtà, nel suo complesso, è assai sfumata.
Nei suoi coinvolgimenti aristocratici, non sempre il monachesimo poteva
rinunciare a quella ch’era stata una consuetudine di sempre di certe classi: il
rapporto con il libro come strumento di cultura, e, come tale, perciò da
trascrivere o far trascrivere, leggere, emendare, dedicare. In questa
prospettiva, sia pure in scala ridotta, trova una sua collocazione nel primo VI
secolo un’altra esperienza, quella di Eugippio e dei monasteri del Castello
Lucullano (attualmente Pizzofalcone) a Napoli, la quale s’iscrive in un contesto
assai più limitato di quello che sarà l’orizzonte di Cassiodoro, ma lungi nel
contempo da certe impostazioni pacomiane o benedettine. Il monastero lucullano è
quello intitolato a San Severino, del quale lo stesso Eugippio scrive una Vita;
e nel cenobio libri/testi (almeno agostiniani) si raccolgono, si annotano e se
ne fanno edizioni o escerti, si trascrivono a uso interno o su richiesta
dall’esterno. Quel che va immediatamente rilevato è lo sfondo aristocratico
dell’attività culturale a San Severino. Eugippio proveniva forse da una famiglia
dell’aristocrazia romana e comunque ‘moved in the very best social circles’; e
perciò dedica i suoi
Excerpta
ex operibus
sancti Augustini
alla matrona Proba, donna colta, forse figlia di Quinto Aurelio Simmaco e in tal
caso, perciò, legata da parentela a Cassiodoro e a Boezio. In questa rete di
relazioni sociali si colgono gli aspetti di un monachesimo nel quale vive la
tradizione del libro colto, pur se riconvertito in termini cristiani. Ma si
possono ammettere, e in quali limiti, uno
scriptorium
e una biblioteca a San Severino? Nell’epistolario di Fulgenzio di Ruspe v’è una
lettera inviata da Cagliari a Eugippio, nella quale una richiesta di libri
sembra fare riferimento all’uno e all’altra (‘obsecro ut libros quos opus
habemus, servi tui describant de codicibus vestris’); ma è da avvertire che nel
monastero non molti dovevano essere gli addetti al lavoro di trascrizione
(peraltro il termine
servi
forse indica, piuttosto che monaci, amanuensi al servizio di Eugippio), né va
ritenuto consistente il patrimonio bibliotecario o il repertorio di testi (il
quale par limitato, in pratica, a scritti di sant’Agostino, ma pochi a giudicare
da quelli utilizzati negli
Excerpta),
tanto più ove si pensi che gli stessi libri di opere agostiniane per gli escerti
erano stati forniti ad Eugippio da più parti - ‘praestantibus amicis’ - e che
questi abbia potuto attingerne anche dalla biblioteca di Proba. In ultima
analisi, pur dovendosi ammettere a San Severino un’attività di copia, fors’anche
di qualità più o meno elevata, sembra che questa si svolgesse, almeno in parte,
grazie a modelli che venivano dall’esterno ‘in prestito’; sicché di una
biblioteca si deve parlare con cautela. A disposizione dei monaci v’erano di
certo solo alcuni libri necessari alla
lectio,
distribuiti da chi v’era preposto e conservati alla meglio: la cosiddetta
Regula
Eugippii, ove
ne sia giusta l’attribuzione a quest’ultimo, si limita soltanto a un fugace
cenno al riguardo. La produzione libraria di San Severino è andata perduta,
salvo forse un manoscritto (l’ipotesi va ulteriormente verificata), il Sessor.
13 della Biblioteca Nazionale di Roma, ch’è l’esemplare più antico del
De Genesi ad litteram
di sant’Agostino e nel quale risultano trascritte anche annotazioni forse
dovute, nel suo esemplare-modello, alla mano dello stesso Eugippio; ma si hanno
tracce di libri di quel monastero - ivi prodotti o conservati, anche dopo la
morte di Eugippio - in note o sottoscrizioni di manoscritti più tardi. Si
possono ricordare le testimonianze più sicure: il Paris, lat. 12168 del secolo
VIII, che reca le
Quaestiones in Heptateuchum
e le
Locutiones in
Heptateuchum
di sant'Agostino, si dimostra discendere da un manoscritto adoperato da Eugippio
nella compilazione degli
Excerpta;
il Paris, nouv. acq. lat. 1443 del secolo IX, contenente le
Epistulae
dello stesso sant’Agostino, risulta trascritto da un codice corretto dalla mano
di un certo Fausto con l’aiuto di un esemplare del monastero di San Severino; il
cosiddetto ‘codex Epternacensis’ dei Vangeli del secolo VII-Vili conserva
ricordo che il suo modello era stato collazionato nel 558 con un esemplare,
assai più antico, ‘de bibliotheca Eugipii’.
Fino a qualche anno fa si attribuivano allo
scriptorium/'biblioteca’
di Eugippio, considerandone coeva la datazione, i codici Bamberg. Patr. 87
(sant’Agostino,
Epistulae,
De haeresibus,
De cura pro mortuis gerenda, Enchiridion),
Casin. 150 (Ambrosiaster) e Vat. lat. 3375
(Excerpta
delle opere di sant’Agostino dello stesso Eugippio). Tuttavia, ricerche più
recenti hanno accertato che tali manoscritti furono annotati da un prete Donato
che scrive in parte i codici di Bamberga e del Vaticano, che interviene con
correzioni nel primo di questi ultimi, che dichiara di aver letto, ‘infirmus’,
il codice cassinese nel 570 in ‘aedibus beati Petri in Castello Cuculiano’ : il
che significa che i tre manoscritti in questione si possono continuare ad
attribuire, è vero, al Castello Lucullano, ma né a San Severino né all’inizio
del VI secolo; e invece essi furono prodotti un po’ più tardi e per cura del
prete Donato forse in un monastero dedicato a san Pietro (ma l’espressione ‘in
aedibus beati Petri’ resta ambigua). Da lasciare aperta è la questione se
direttamente a monte di tali manufatti vi siano stati esemplari scritti o
conservati nel monastero di Eugippio, al quale comunque è lecito riferire, in
ultima analisi, almeno gli escerti agostiniani (la questione si pone anche per
un’altra opera sicuramente ‘letta’ da Donato a San Pietro nel 562, la traduzione
di Rufino del Περί άρχώυ origeniano, a quanto documenta una copia del secolo X,
il cod. 225 della Biblioteca Municipale di Metz).
Quando si vogliano annodare le fila del discorso nel suo complesso, va detto che
il primo monachesimo fu sostanzialmente un monachesimo senza biblioteca, ma nel
quale, altresì, il concetto di
scriptorium
non può essere riportato a un preciso referente spaziale e organizzativo.
Nell’esperienza monastica tardo-antica - a parte la trascrizione e la lettura di
qualche testo di edificazione o di
regulae
- il libro fu, da una parte, lavoro materiale, mezzo di sussistenza nella
secessio
anacoretica, ma soprattutto nella forma di vita comunitaria del cenobio, da
Pacomio a san Benedetto, e dall’altra strumento di cultura quando l’adesione al
monachesimo non volle essere - come nel caso di molti ‘figli dell’aristocrazia
romana’ - rinuncia a un passato di studi. In quest’epoca, dunque, il lavoro di
copia non è stato ancora trasformato in ‘pia penitenza’. La fondazione di
Cassiodoro a Vivano, vagamente anticipata da Eugippio e da certe istanze
culturali
del monastero di San Severino, venne a rappresentare il momento culminante del
tentativo di trasferire in una realtà cenobitica - ma ispirata a un modello di
scuola cristiana filologico-letteraria piuttosto che a un genuino
propositum
monastico - le antiche consuetudini di trascrizione o traduzione di autori e
opere, conservazione di libri, lavoro critico ed esegetico sui testi L'invasione
longobarda
del 568, nel marcare la fine della tarda antichità, segnava l’inizio
di nuove
esperienze di organizzazione della cultura scritta nell'Italia monastica.
L’organizzazione degli scriptoria
e la formazione
delle biblioteche
Dopo le convulsioni della prima età longobarda, che vide la distruzione o la
destabilizzazione degli insediamenti monastici in buona parte d'Italia
(nel 577
Montecassino fu rasa al suolo e nel secolo VII Vivario si può considerare
scomparsa), ricomincia quella lenta opera di riorganizzazione del monachesimo,
spesso
confortata dagli stessi Longobardi ormai saldamente al potere e favorita
dall’iniziativa missionaria dei
peregrini Scotti:
Bobbio, si vedrà, venne a rappresentare il punto di incontro di tali istanze. Ed
è in questa fase che
si
assiste al
formarsi
e consolidarsi di quelli che saranno
scriptorium
e biblioteca nella realtà cenobitica altomedievale. Ma a che nuove esperienze si
delineassero, si deve
postulare
un passo fondamentale, un mutamento di rotta rispetto a quello ch'era stato il
rifiuto della cultura di tipo tradizionale, non solo profana ma anche
cristiana,
già del primo monachesimo orientale, fatto proprio da san Benedetto e da quanti
si riconoscevano nella sua
Regula.
Una volta avvenuto il mutamento di rotta, infatti, scrittura e libro vennero a
perdere la ristretta valenza di mezzi di sostentamento o strumenti di
edificazione per assurgere man mano a forme di sapere, valori da utilizzare e
trasmettere, in un'epoca, inoltre, nella quale - scomparsa ormai la scuola
antica - quella monastica ne prendeva il posto
insieme
all’altra di carattere vescovile ed ecclesiastico; e tal tipo di scuola doveva
necessariamente esser legata a uno
scriptorium
e a una biblioteca. Fu perciò nella fase
che
si
può
datare a partire dal VII secolo che l’attività di trascrizione e di manifattura
del libro - trasformata in pia penitenza' perché ormai priva di qualsiasi
motivazione materiale - trovò una sua organica collocazione nello
scriptorium ;
nel contempo, il crescente ruolo sociale, politico ed economico assunto dai
monasteri-alcuni finirono con l'assurgere a vere e proprie signorie abbaziali -
veniva a determinare un diverso atteggiamento mentale verso la cultura scritta,
si trattasse di libri, considerati valore patrimoniale oltre (e più) che
strumenti di cultura, 0 di documenti, garanzia di diritti, dipendenze, possessi.
Il che non poteva non far scattare meccanismi di conservazione, non solo
bibliotecaria, ma anche archivistica.
Prima di andare oltre è da chiedersi: come erano strutturati e funzionavano uno
scriptorium
e una biblioteca in un monastero nell'alto Medioevo e fino, grosso
modo,
al secolo XII? Quello del libro medievale è un 'monde complexe’: si
possono
soltanto rilevare alcune linee fondamentali. La produzione del libro - s’è
accennato - era tutta interna allo stesso monastero. Monaci educati all’arte
dello scrivere lavoravano in un apposito (e spesso assai ampio) locale, lo
scriptorium,
in numero che variava in relazione all'importanza che lo
scriptorium
stesso rivestiva nel monastero, alle esigenze della comunità, alle eventuali
committenze esterne, queste ultime per lo più anch’esse monastiche (o
ecclesiastiche). Poteva trattarsi - anche se il Medioevo non ne ebbe precisa
coscienza - di una 'scuola scrittoria’, quando nella trascrizione dei libri si
seguivano norme grafiche (ed estetiche) rigorose ed unitarie imposte da un
'maestro’, o di un 'centro scrittorio', quando nello scrivere v'era una più o
meno ampia libertà di scelte o di modi sofistici. Negli
scriptoria
fortemente organizzati si poteva giungere a tale sintonia grafica tra i singoli
amanuensi, da rendere assai difficile la distinzione tra mani diverse: s’è
notato, a tal proposito, che nella Montecassino del tardo secolo XI -
caratterizzata da forme scrittorie rigidamente canoniche, la beneventana di tipo
cassinese - non v’è alcun amanuense che si sottoscriva (il nome dì Leone scriba
nel
Lezionario
Casin. 99 di età desideriana è dovuto a una seconda mano!), segno di una
coscienza grafica unitaria. Fu comunque questo tipo di organizzazione,
determinata da nuove esigenze, che impose, a partire al più tardi dal secolo
VIII, il passaggio da un’attività scrittoria individuale nelle celle, quale
documentata nel monachesimo antico, a quella collettiva entro un unico spazio.
Quanti operavano nello
scriptorium
erano di regola monaci interni alla comunità; solo di rado veniva ad aggiungersi
qualche elemento esterno: proprio nella stessa Montecassino del secolo XI, la
mano che scrive, sicuramente nel cenobio medesimo, il san Girolamo,
Super duodecim prophetas
Casin. 93, si dimostra educata in altra regione; e alla medesima epoca, a Santa
Scolastica di Subiaco, Guittone, con ogni verisimiglianza un laico legato da
vincoli al monastero, verga il
Sacramentario
Vallic.
b
24. Detto in maniera piuttosto grossolana, la manifattura del libro iniziava con
la preparazione della pergamena, adoperando di regola pelli di vitelli, pecore,
capre, giovani o nati da poco o addirittura feti nel caso di manoscritti
pregiati; ogni pelle, dopo adeguata immersione in un bagno di acqua e calce,
veniva tesa su un telaio, ripulita dalle scorie sui due lati (pelo e carne) e,
una volta asciugata, poteva essere ulteriormente levigata con pietra pomice; si
passava quindi alla confezione dei fascicoli, il più delle volte quaternioni, i
quali venivano rigati, secondo sistemi e tipi diversi, utilizzando un legnetto
appuntito guidato da una sbarra, o anche strumenti metallici, che avevano
comunque come punti di riferimento una serie di forellini praticati sui margini
a distanza regolare con una specie di compasso; seguivano la scrittura,
correlata al tipo di rigatura, ed eventualmente l’ornato, secondo una
programmazione degli spazi più o meno precisa in relazione alla qualità del
prodotto; infine i fascicoli, ordinatamente numerati o segnati con opportuni
rinvii man mano che procedeva la trascrizione del testo, venivano rilegati tra
assi di legno ricoperte di cuoio di solito decorato con fregi, né mancavano
talora rilegature fatte con piatti in avorio, argento e oro tempestati di gemme.
L’esito finale era il codice, la forma di libro corrente nei Medioevo (i rotoli,
in quest’epoca rari e confezionati in modo diverso, si mostrano
destinati soltanto a finzioni particolari). Tali operazioni risultano illustrate
in una serie di medaglioni che si trovano in un codice di Bamberga, Patr. 5, del
secolo XII. È il caso di dare qualche ulteriore notizia sulle fasi di scrittura
e decorazione. La prima avveniva quasi sempre copiando un modello, e si trattava
perciò di vera e propria trascrizione, di regola eseguita nello
scriptorium;
ma qualche volta il testo poteva essere dettato, soprattutto quando si trattava
della minuta di uno scritto, e in tal caso è da credere che l’operazione si
svolgesse ‘en quelque lieu retiré’, pur se la ‘mise au net’ si faceva comunque
nello
scriptorium.
La scrittura veniva eseguita, nell’epoca che qui interessa, quasi sempre
appoggiando il supporto su un ripiano più o meno inclinato, sostenuto da uno
stelo, e adoperando, per scrivere, il calamo (strumento fatto di canna) o una
penna di volatile opportunamente ‘temperati’. La trascrizione poteva essere
opera di un singolo o di più scribi che si alternavano o che vergavano
contemporaneamente fascicoli diversi di un medesimo manoscritto, quasi sempre
sotto la direzione del ‘maestro’ dello
scriptorium.
La trascrizione stessa comportava errori, tanto più numerosi nel caso di
amanuensi disattenti; ma in certi casi ci si trova di fronte a intenzionali
interventi sul testo. Ove si trattasse di manoscritti decorati,
l’ornamentazione, se semplice, era, in generale, opera della mano (o delle mani
o di una di queste) impegnata nel trascrivere il codice, mentre ordini
decorativi più complessi e cicli iconografici venivano eseguiti da artigiani che
avevano ricevuto una lunga e specifica educazione in senso artistico. In ogni
caso, soprattutto negli
scriptoria
organizzati (a Montecassino, per esempio) v’era una collaborazione strettissima
tra amanuensi, disegnatori, decoratori, tanto che non sempre
è
agevole distinguere articolazione e successione degli interventi (ma di regola
la decorazione seguiva la trascrizione del testo).I tempi della scrittura di
ciascun manufatto variavano da alcune settimane ad anni: dipendeva da fattori
diversi non sempre precisamente valutabili (tipo e difficoltà della scrittura
del modello, come
scrittura passiva,
e della copia, come
scrittura attiva,
destinazione e funzione del libro, numero e capacità degli amanuensi impegnati).
È il caso di far cenno, nelle linee essenziali, anche alle scritture adoperate
nella prassi libraria monastica dell’alto Medioevo. Fino al primo IX secolo,
nell’Italia di cultura latina (giacché v’era pure un’Italia ‘bizantina’),
continuano ad essere usate l’onciale e la semionciale di antica tradizione, ma
predominano le scritture longobarde, uscite, vale a dire, dalla corsiva nuova
latina e caratterizzatesi in età longobarda, tra le quali tende ad assumere
fisionomia più definita la ‘minuscola di Nonantola’; più tardi le forme grafiche
in uso nell’Italia meridionale sfoceranno in una scrittura canonizzata, la
‘beneventana’, imperante nel sud fino al secolo XI-XII, mentre nell’Italia
settentrionale e centrale verrà man mano a imporsi la ‘minuscola carolina’, la
quale in area umbro-laziale assumerà quella fisionomia particolare che va sotto
il nome di ‘romanesca’. Infine, a questa realtà diversificata, si sostituirà, a
partire dal tardo secolo XII, il linguaggio unificante, ma nel contempo
articolato, della scrittura ‘gotica’.
In quanto è soprattutto la produzione interna dello
scriptorium
che genera la consistenza libraria del monastero, la biblioteca si forma e tanto
più si accresce quanto più lo
scriptorium è
attivo e organizzato. Di qui di regola la coincidenza o contiguità nell’alto
Medioevo tra
scriptorium
e biblioteca: quest'ultimo, Infatti, non è da pensare come uno spazio destinato
alla lettura e alla consultazione dotta dei libri, operazioni che avvenivano, si
vedrà, altrove; si trattava invece, a seconda della consistenza, di uno o più
armaria
(o
arcae)
nei quali si conservavano i manoscritti e che si trovavano o nello
scriptorium
stesso o in una stanza-deposito al di sopra di questo (o anche talora della
sacrestia). Isolata resta la
parvula,
ma abbastanza capace,
educala,
in pratica una costruzione monolocale, dovuta nel secolo XI all’iniziativa di
Desiderio a Montecassino, ‘in qua libri reconderentur’: deve intendersi si
tratti di un magazzino-deposito destinato alla conservazione dei libri, del
tutto indipendente dallo
scriptorium
e da altri
armaria
a questo in qualche modo annessi; una biblioteca autonoma, insomma, la quale
s’inquadra nella politica edilizia e libraria di Desiderio. La realtà della
biblioteca monastica (e non), comunque strutturata, fino a tutto il secolo XII
viene in ogni caso a coincidere con la realtà
dell’armarium
o degli
armaria:
biblioteca di conservazione, dunque, non biblioteca come spazio di lettura,
anche se in certi casi - di qualsiasi tipo ne fosse la connessione con lo
scriptorium -
essa poteva raggiungere, al pari di quest’ultimo, dimensioni veramente
ragguardevoli, almeno a partire dal secolo IX. Alla stessa epoca si comincia a
incontrare la figura del bibliotecario (detto
bibliothecarius o librarius
o
armarius),
il quale era il medesimo che sovrintendeva all’archivio e allo
scriptorium
e che spesso era anche il
praecentor
(o
cantor);
circostanza, quest’ultima, che si spiega ove si pensi che a custodire i libri
del coro non poteva essere che il
praecentor,
il quale finiva di solito con l’assumere, man mano che il patrimonio librario
del monastero veniva ad accrescersi, la funzione di vero e proprio
bibliotecario. Come tale - si trattasse o meno di figura autonoma - le sue
mansioni consistevano innanzi tutto nel custodire severamente i libri, quindi
nel distribuirli per la lettura, riponendoli dopo la restituzione, secondo le
consuetudini del monastero. La lettura stessa peraltro, nell’alto Medioevo,
anche a motivo di una pagina scritta non funzionale ad essa e non atta ad
agevolarla, era ‘une operation penible’, in sostanza rara, lenta, arida: essa si
faceva, se di testi scolastici, nei locali della scuola sovente annessa al
monastero, negli altri casi ‘on lisait dans des lieux réservés d’abord à
d’autres fonctions, comme la cellule, le réfectoire, le cloître’. V’erano,
infine, le letture liturgiche durante le funzioni. Ed è anche questo il motivo
per cui cataloghi, inventari, liste medievali di libri posseduti dai monasteri
sono sempre incompleti: questi si riferiscono, infatti, ai manoscritti
conservati negli
armaria
(o nell’armarium
o anche in un particolare
armarium),
mentre altri si trovavano sparsi in locali diversi del monastero, in pratica
dove venivano utilizzati. È comunque da avvertire, a tal proposito, che
armarium
può indicare, a seconda del contesto, sia il singolo armadio-scaffale, sia la
biblioteca nel suo complesso, sia anche l’archivio. Il moltiplicarsi di
trascrizioni
e l’acquisizione
di libri, almeno fino al secolo XI-XII, furono dovuti non tanto a
una diffusa esigenza di lettura nei monasteri, ma piuttosto, si vedrà, a una
forma di vero e proprio accumulo patrimoniale di manoscritti, considerati alla
stessa stregua di altri beni mobili o immobili. Alla formazione della biblioteca
monastica - la quale in genere iniziava a costituirsi assai presto dopo la
fondazione o ricostruzione dell’insediamento - concorrevano soprattutto i libri
prodotti nello
scriptorium
(per committenza interna o esterna), ma anche, pur se in misura minore,
donazioni, lasciti, acquisizioni di vario carattere; di qui la fisionomia più o
meno composita che una biblioteca monastica può presentare. L’accrescimento
qualitativo e quantitativo, vale a dire di autori e opere, dipendeva soprattutto
dallo zelo e dagli interessi di abati, bibliotecari, monaci colti (Girolamo,
abate di Pomposa, procura testi classici all’abbazia e si dà a cercare l’intera
opera di Livio!); inoltre, a opere tradizionali venivano ad aggiungersi scritti
nuovi man mano che se ne componevano: il che è vero soprattutto a partire dal
secolo
XI-XII.
Il discorso viene a spostarsi, così, sui contenuti dei libri che, in una
comunità monastica dell’epoca qui considerata, lo
scriptorium
produceva e la biblioteca conservava: grosso modo, sempre disponibili erano le
Sacre Scritture (con relativi commentari) e tutto il corredo di libri liturgici;
quindi letteratura monastica, opere ‘moderne’ di vario genere, qualche scritto
di diritto canonico o civile; e ancora, storia ecclesiastica, cronistica, testi
conciliari. La stretta connessione tra biblioteca e archivio faceva sì che,
insieme ai libri, forse in
armaria
separati, si conservassero anche documenti,
regesta,
formulari. Il pilastro della formazione monastica era, tuttavia, la letteratura
patristica, sicché numerosissimi sono gli scritti di Padri della Chiesa che
s’incontrano; ai quali in alcuni monasteri (Bobbio, Montecassino) si accompagna
un buon numero di autori classici (con commentari e
accessus);
ma quasi ovunque non mancavano raccolte grammaticali e manuali scolastici,
necessaria introduzione allo studio stesso di qualsiasi altro testo, sacro o
profano.
Nella prospettiva indicata, strettissima risulta, nella realtà del monastero, la
connessione tra
scriptorium
e biblioteca nell’alto Medioevo, sì che non si può trattarne in modo separato :
lo
scriptorium,
infatti, è funzionale all’accrescimento librario, qualsiasi ne sia lo scopo, e
d’altra parte la biblioteca monastica trova concreto fondamento non già nelle
occasionali, pur se talora di una certa consistenza, acquisizioni dall’esterno
ma nella produzione libraria interna; solo nei secoli del basso Medioevo tale
connessione verrà a spezzarsi. Il termine
adquisitio,
in genere adoperato per indicare quanto veniva man mano acquisito dalla
biblioteca, va inteso in senso lato: poteva trattarsi di manoscritti prodotti
all’interno dello
scriptorium
per una qualsiasi committenza, sovente degli stessi abati, o anche di
acquisizioni dall’esterno attraverso modi e veicoli vari.
Furono sostanzialmente questi, dunque,
scriptorium
e biblioteca ai quali man mano si giunse nell’Italia monastica. Restano da
delineare tempi, modi, tappe in generale e con riferimento a realtà particolari;
con l’avvertenza, tuttavia, che, pur se non vi furono monasteri senza libri, non
tutti ebbero uno
scriptorium
organizzato e
armaria
forniti.
A quanto è stato prospettato in recenti ricerche fu nel monachesimo irlandese e
attraverso le sue fondazioni e proiezioni sul continente che il primitivo
rifiuto ascetico-monacale della cultura venne superato da un nuovo sistema di
educazione e di trasmissione del sapere, fondato su un tipo di formazione che -
con espressione tratta dal campo dell’archeologia - è stato felicemente detto ‘a
frammenti di recupero’ : il patrimonio letterario, soprattutto grammaticale, di
tradizione greco-romana, avulso dal suo contesto antico, è riconvertito in mero
strumentario tecnico. Ma questo significava altresì un modo diverso di porsi
verso le stesse Sacre Scritture, i commentari a queste, gli scritti patristici,
non più o non soltanto considerati semplici letture di edificazione, ma, sempre
più, testi da studiare e interpretare mediante tutto quello strumentario
tecnico; e significava, pure, composizione di opere nuove, in pratica attività
letteraria. Si deve credere che fu sotto la spinta di queste istanze che negli
stessi
milieux
monastici insulari - e più in generale nelle aree eccentriche del Mediterraneo,
orientali e occidentali - siano man mano sorti i primi
scriptoria
e le prime biblioteche insistiti su forme di organizzazione tutta interna. Se,
infatti, i monasteri di Cassiodoro e di Eugippio nell’Italia del VI secolo
avevano potuto ancora utilizzare un patrimonio di libri/testi per lo più
prodotti in centri urbani di antica tradizione, posseduti personalmente o
acquisiti attraverso una rete di relazioni e coinvolgimenti sociali, nelle
comunità eccentriche invece - una volta che s’era giunti all’accettazione di
certi istituti culturali - produzione e conservazione del libro non potevano che
trovare soluzioni organiche interne agli stessi cenobi. Va notato che una delle
più antiche attestazioni del termine stesso di
scriptorium,
nel senso di spazio specificamente destinato al lavoro di copia, ricorre a
proposito di una fondazione insulare, San Gallo. Ma la formazione di grandi e
fornite biblioteche fu comunque lenta; non può essere un caso, a tal proposito,
che solo tardi, a partire dal secolo IX, s’incontrino termini come
bibliothecarius o librarius o armarius:
evidentemente è solo al momento in cui la biblioteca è saldamente costituita che
si impongono mansioni specifiche connotanti la figura addetta a svolgerle.
Dall’angolo visuale da cui ci si è posti, il discorso per l’Italia non può che
iniziare dall’età longobarda e da Bobbio, ultima fondazione insulare sul
continente ad opera di san Colombano nel 613 circa, nella quale venne man mano a
realizzarsi il modello di
scriptorium/biblioteca
autenticamente medievale che resterà più o meno invariato per secoli. Nel
monastero confluirono da quelle ch’erano state grandi sedi della cultura in
Italia nella tarda antichità - Pavia, Milano, Verona, soprattutto Ravenna -
codici di vario genere (palinsesti e frammenti bobbiesi talora sono, si sa, gli
unici manoscritti tardo-antichi ad aver conservato stralci di certi testi
classici) ; e anzi l’atteggiamento di rottura con il passato e di fondazione di
nuovi statuti del sapere sembra materializzato a Bobbio nei suoi più antichi
manoscritti, ove opere non solo ariane ma anche dell'antichità classica
risultano erase e sostituite da testi sacri, ma anche d'uso tecnico-pratico o
scolastico. Un'indagine sulla più antica produzione scritta bobbiese
ha precisato, inoltre, al tornante tra VII e VIII secolo la datazione dei
codici, prodotti nello stesso monastero, Neapol. lat. I (una silloge contenente
gli
Instituta artium
e
l’Appendix
pseudoprobiani nonché tre testi anonimi,
De nomine et pronomine, De
verbo
e
De nomine),
Neapol. IV A
8 (Carisio) e Neapol. lat. 2 (una miscellanea di testi per lo più grammaticali,
ove s'incontrano Servio, Massimo Vittorino, Eutiche, Remnio Palemone, estratti
da Macrobio
Commentario al Somnium Scipionis
e
De differentiis et
societatibus graeci latinique verbi).
Sempre nella stessa epoca fu prodotta una miscellanea scolastica, della quale si
conserva solo qualche frammento (notevole quello di Rutilio Namaziano,
De reditu suo),
ricostruita nella fisionomia originaria da Mirella Ferrari. Va notato, altresì,
che tale più antica produzione bobbiese rivela caratteristiche analoghe a quelle
dei manoscritti coevi di origine insulare. La datazione assegnata ai testi
grammaticali di Napoli ben s'accorda con il coevo risveglio culturale della
corte longobarda di Pavia, da Cuniperto (688-700) a Liutprando (712-744) e a
Rachis (744-749), caratterizzato dalla ripresa della grammatica, insegnata da
quel Felice al quale Paolo Diacono riallaccerà la sua educazione letteraria. Se
si ritiene
monachus
di Bobbio lo Stephanus autore di un carme celebrativo dei fasti della dinastia
longobarda, si può ricostruire un rapporto tra lo stesso monastero di Bobbio e
la corte di Pavia che 'può assumersi come primo esempio di quella dialettica tra
centri monastici (con la loro umbratile continuità di lavoro su una rete di
collegamenti internazionali) e centri di potere laico (con i loro vistosi
sussulti dinastici e politico-militari) che costituisce una trama di fondo per
tutta la storia culturale del Medioevo'. Si deve osservare che a quest'epoca la
produzione libraria monastica - e Bobbio con i suoi palinsesti ne offre
l'esempio più convincente - è rivolta e limitata a manoscritti immediatamente
utili alla comunità (uso d'altare o di lettura edificante o di scuola), senza
alcun intento di accumulo bibliotecario-patrimoniale. Come s'è accennato, dopo
la fondazione (o ricostruzione) di un monastero gli abati, fin dal primo, si
preoccupavano in genere di dotarlo dei libri necessari, facendone produrre
all’interno o acquisendoli dall'esterno: si costituiva, così, il primo nucleo
della biblioteca. A Bobbio già nel VII secolo v'erano
arcae
di libri, ciascuna delle quali legata a un abate che s'era reso benemerito nel
dotare il monastero del mobile stesso e/o dei manoscritti in questo contenuti:
l'Ambros. s 45 sup.,
Commento
di san Girolamo
ad Isaia.
era 'liber de arca domno Atalani'; il Vat. lat. 5758,
Sermoni
di sant’Agostino, era 'liber de arca dom. Bobuleni', il cod.
ib
ii
27 dell'Archivio di Stato di Torino. L’Epitome
divinarum Institutionum
di Lattanzio, era ‘de arca dom. Virgusti abbati'. Atalano (o Atala), Bobuleno e
Virgusto risultano essere stati tra i più antichi successori di san Colombano
come abati di Bobbio. Va notato che, oltre che nel primo monachesimo, anche in
àmbito insulare è adoperato - a indicare la teca ove si conservano i libri - il
termine
arca,
più esplicitamente, anzi,
arca libraria.
A Bobbio dunque, a partire dal secolo VII, e soprattutto nel corso dell'VIII,
non mancò una produzione libraria; e la biblioteca venne ad accrescersi anche
grazie a manoscritti ad essa offerti da più parti e in vari modi (talora, certo»
commissionati allo
scriptorium
stesso del cenobio). Nel monastero fu prodotto» tra gli altri, l’Ambros.
b
159 sup., un manoscritto dei
Moralia in Iob
di Gregorio Magno vergato nel cuore del secolo VIII dallo scriba Giorgione per
l'abate Anastasio da un modello di origine romana (e del resto, che da Roma
codici giungessero a Bobbio è anche altrimenti provato). Altri libri confluirono
dall’Irlanda, soprattutto nel periodo più antico del cenobio; e a tal proposito
sì può ricordare, per esempio, il codice k dei Vangeli, il Taur.
g
VII
15, prodotto forse in Africa, ma che si vuole portato a Bobbio dallo stesso san
Colombano. Non sempre, tuttavia, è possibile stabilire l’origine di questo o di
quel codice 'bobbiese’ senza margini di dubbio: è il caso, tra gli altri,
dell’Isidoro,
Uber
differentiariun,
Ambros.
b
31 sup., un piccolo codice certo d’uso scolastico, che a Bobbio fu utilizzato e
si conservò, ma che non si può dimostrare sia stato ivi stesso prodotto. In ogni
caso 'pare lecito conchiudere che nei primi due secoli dalla fondazione, se non
già nel primo, s’era venuta formando a Bobbio una biblioteca di codici
considerevole per quei tempi e anche per i nostri ... per il numero, la varietà
e l’antichità ed eccellenza dei testi’.
Nella stessa direzione procede Anselmo, duca del Friuli, quando - negli anni tra
il 751/752. e il 756, al tempo di Astolfo - ottiene la
curtis regia
di Nonantola, e qui da
dux militum
diventa
dux monachorum.
Egli, infatti, si preoccupò di dare avvio nella sua fondazione a una biblioteca,
giacché, negli anni di esilio a Montecassino per volere del suo re Desiderio,
'beate vixit et multos codices adquisivit’, al fine, evidentemente, di dotare
Nonantola di libri o di accrescerne quantità e qualità. Di certo
un adquisitio
anselmiana - pur se non si può dimostrare che fosse proprio tra quelle fatte a
Montecassino o nei dintorni - costituiva un codice del secolo VIII e di opere di
Eucherio, l’attuale Sessor. 77 della Biblioteca Nazionale di Roma, a quanto
risulta da un ex-libris del secolo successivo, interessante anche per la
notazione, relativa al codice stesso, "est de primo armario’, la quale indica
che a quel tempo la biblioteca nonantolana consisteva già di più
armaria
numerati. Ugualmente, ancora a una
adquisitio
anselmiana si riferiva forse un ex-libris indirettamente testimoniato per il
Sessor. 55 del VI secolo (con fogli di restauro dell’VIII-IX), ch’è, tra
l’altro, il più antico manoscritto delle
Confessiones
di sant’Agostino. Ma v’è di più, anche se la questione non si può considerare
chiusa: si è voluta attribuire all’Italia meridionale e a una successiva
introduzione a Nonantola, grazie proprio al suo primo abate Anselmo, un gruppo
di manoscritti da più parti ritenuti genuini prodotti nonantolani e che comunque
in quel monastero si conservarono (British Library, Add.
ms
43460, e Biblioteca Nazionale di Roma, Sessor. 94 e 590, Vittorio Emanuele 1006
[ff. 9-153] e
1357);
sicché è stata avanzata l’ipotesi che ‘parte almeno del nucleo più antico, a noi
pervenuto, della biblioteca di Nonantola consista nelle
adquisitiones
di Anselmo, avvenute tra il sesto e l’ottavo decennio del secolo VII’.
Una sicura vivacità, e dunque organizzazione, dello
scriptorium
di Nonantola è documentata per il secolo IX: vi fu prodotta, infatti, una larga
serie di manoscritti, tra i quali vanno innanzi tutto ricordati, giacché assai
noti, l’elegante Vittorio Emanuele 1348 della Biblioteca Nazionale di Roma,
contenente canoni del Concilio di Aquisgrana dell’816, o il meno elegante, ma
'testo capitale in età moderna per generazioni di diplomatisti’
Liber diurnus
dell'Archivio segreto Vaticano, Misc. Arm.
XI,
19, o ancora manoscritti di preminente contenuto patristico quali - limitandosi
a ricordare soltanto qualche pezzo - i Sessor. 23, 40, 70, 74, 38 (quest'ultimo
prodotto in parte al tempo dell'abate Ansfrido, tra l’825 e l’838), tutti
conservati alla Biblioteca Nazionale di Roma, cui può aggiungersi almeno il
De medicina
di Cornelio Celso Vat. lat. 5951, che, datone il contenuto, riveste particolare
interesse quando si voglia ricostruire il ruolo culturale svolto dall'abbazia. E
sempre al IX secolo e a Nonantola è stato attribuito il Cassiodoro,
Institutiones,
cod. 660 della Bibliothèque Mazarine di Parigi (risolutivo in favore di tale
origine è il confronto della 'Initialornamentik' con quella del Sessor. 40) : si
tratta di un manoscritto importante giacché non solo attesta un ramo di
tradizione fondamentale delle
Institutiones,
ma reca - fatto eccezionale nella produzione nonantolana di quest'epoca - anche
imagines,
ritenute di significato mnemotecnico, che tutto lascia credere risalgano a un
corredo figurativo dell'opera voluto da Cassiodoro stesso. Coevo del manoscritto
Mazarine si può ritenere un altro manoscritto decorato attribuito a Nonantola,
il cod. CXLVIII
della Biblioteca Capitolare di Vercelli, contenente le
Omelie sui Vangeli
di Gregorio Magno.
È
intorno alla fine del secolo VIII - a quanto mostra, tra l'altro, l'acquisizione
di codici da parte di Anselmo - che anche a Montecassino comincia a organizzarsi
un'attività di trascrizione e a formarsi una raccolta di libri piuttosto
ragguardevole. E invero, la visione di una comunità cassinese originaria in
qualche modo colta è suggestiva ma fuorviante, fondata in pratica sulla
circostanza che lo stesso san Benedetto era di estrazione aristocratica, non
alieno da studi, autore di una legislazione monastica che stilisticamente rivela
artifici retorici. Invece, cercare nella Montecassino del VI secolo libri oltre
i pochi di cui la
Regula
stessa raccomanda la lettura a fini di edificazione, non può che risultare vano.
Consumatasi la tragica notte del 577, nella quale l'abbazia fu distrutta dai
Longobardi e la comunità dispersa, v'è un silenzio che dura circa due secoli: è
soltanto dopo la ricostruzione ad opera di Petronace nel 718, ma non certo
immediatamente, che inizia la storia della cultura scritta a Montecassino.
Quest’ultima, dunque, dovette assurgere a una posizione di rilievo non prima del
tardo secolo VIII e, a quanto tutto lascia credere, grazie a stimoli di
tradizione insulare giunti con individui e libri dall'Italia settentrionale
longobarda (o già longobarda). In ogni caso, la prima figura di spicco che
s'incontra è quella di Paolo Diacono, educato alla corte di Pavia, il quale va
ritenuto il cardine dell’organizzazione scolastica, della manifattura libraria e
dell’incremento bibliotecario nella Montecassino di quell'epoca.
Significativamente, i primi manoscritti riferibili con qualche fondamento
allo
scriptorium
del monastero e a una cronologia sicura - la miscellanea grammaticale Paris,
lat. 7530 e l’Isidoro di Cava, cod. 2 - risalgono al 779-796, una data che
coincide in larga parte con quella della presenza di Paolo Diacono nel cenobio
cassinese; e ancora a Montecassino e alla fine del secolo VIII è da ricondurre
il già ricordato Patr. 61 di Bamberga, testimone notevolissimo, tra l’altro,
delle
Institutiones
di Cassiodoro. Il discepolo e successore di Paolo Diacono nella scuola cassinese
(ma che fu anche abate), Ilderico, autore della grammatica contenuta nel coevo
Casin. 299, si deve ritenere abbia continuato a curare la biblioteca,
incrementandola fors’anche con testi classici. Pur se per il secolo IX non si
dispone di una congrua serie di testimonianze, atta a ricostruire la produzione
libraria cassinese (si può tuttavia ricordare la miscellanea Casanat.
641), va comunque detto che all’epoca della seconda distruzione del cenobio
nell’883 - questa volta a opera dei Saraceni - l’attività dello
scriptorium
è saldamente attestata, giacché l’abate Bertario, l’ultimo prima della sciagura,
vi faceva copiare un certo numero di manoscritti, tra i quali si conserva
tuttora il Casin. 69 di contenuto medico.
Non molto lontano da Montecassino, a Farfa, anche se i più antichi manoscritti
superstiti datano a partire dalla fine del secolo IX (gli agiografici Roma,
Biblioteca Nazionale, Farf. 29, e Merseburg, Stiftsbibliothek, I 136, i
Dialogi
di Gregorio Magno Vallic. c 9. n, e la
Regala pastoralis
dello stesso Gregorio Vat. Arch. S. Pietro
d
164), già per il secolo VIII, tuttavia, v’è notizia che l’abate Alano (761-769)
vi vergava molti codici, e all’inizio del IX un altro abate, Benedetto (802-815)
è ricordato per la sua capacità di approntare manoscritti.
Bobbio, Nonantola, Montecassino, Farfa: si tratta di insediamenti,
scriptoria,
biblioteche dislocati nell’Italia longobarda, più tardi in parte divenuta
franca; ma è il caso di accennare anche all’Italia bizantina tra gli stessi
secoli VII-IX. Qui, in verità, non mancavano monasteri sia latini sia greci, in
particolare a Roma, ma, soprattutto per quanto concerne le comunità latine, ci
si trova di fronte a una sconcertante carenza di documentazione sia diretta
(manoscritti conservatisi) sia indiretta (cataloghi, notizie) perché si possa
tracciare un quadro dai contorni più o meno definiti: e anzi è da credere che
organizzazione degli
scriptoria
e formazione delle biblioteche si siano mossi lungo un asse regioni insulari (e
più specificamente Irlanda, s’è detto) Italia longobarda, mentre nei territori
bizantini la produzione libraria monastica di cultura latina sia stata assai
scarsa, non lasciando perciò impronte distinte. Non un manoscritto che si possa
attribuire su fondamenti di qualche consistenza a un monastero di Ravenna o di
Napoli. Mancano, ugualmente, adeguati materiali indiretti: un vuoto non senza
significato. Nella stessa Roma, anche oltre l’età bizantina e fino a tutto il
secolo IX si può solo latamente sospettare un’attività di trascrizione in
milieux
monastici in senso stretto (v’erano libri necessari alle esigenze della vita
comunitaria), ma non dimostrare; e invece i libri latini che - se ne hanno prove
e testimonianze diverse - si irradiavano numerosi da Roma in varie direzioni,
erano
libri i più conservati, altri prodotti, piuttosto, nell'ambito di basiliche o
tituli.
Quanto ai monasteri di lingua e cultura greca, non si può escludere che prodotti
librari italo-greci riferibili ai secoli VIII e IX si possano ricollegare ad
essi, alcuni alla Calabria, altri, forse i più, a Roma, dove a quell'epoca il
monachesimo
greco-orientale costituiva parte integrante del tessuto sociale stesso della
città
e
dove una circolazione di codici greci risulta saldamente documentata (tra i
monasteri che possono essere stati sede di manifattura libraria va ricordato
almeno San Saba, e quali manoscritti greci di verisimile origine romana almeno
l'Ambros. E 49-50 inf., raccolta di omelie di Gregorio Nazianzeno, il Patm. 171
e il Vat. gr. 749, l'uno e l'altro contenenti il
Libro di Giobbe
con commento catenario). E tuttavia, anche per quanto concerne i monasteri
greci, sfuggono in quest'epoca modi di organizzazione degli
scriptoria,
collegamenti circoscritti e precisi tra questi e libri superstiti, fisionomia e
consistenza delle biblioteche.
La stagione della cultura scritta monastica
Alla fase qui delineata, durante la quale si fanno scrivere e si acquisiscono da
parte degli abati i manoscritti necessari alle esigenze della vita comunitaria,
ne segue un'altra fra lo scorcio del IX e quello del XII secolo; ed è in questa
che si
assiste
a una trascrizione e accumulazione di libri intesi non soltanto e non sempre
come oggetti d'uso, ma anche come accrescimento del patrimonio del monastero: in
questa luce si spiegano trascrizioni ripetute di uno stesso testo pur se poco
letto o comunque non correntemente utile, o anche libri preziosi gelosamente
conservati nel tesoro. È questo il momento dell’insorgere del 'catalogo', il
quale - nonostante tutte le imprecisioni e le deficienze che nel caratterizzano
la stesura nel Medioevo - vuol essere nel contempo verifica patrimoniale,
inventario degli autori/opere posseduti dal monastero, eventualmente, pure,
accertamento delle lacune da colmare. Scontata l'importanza dei cataloghi, già
sottolineata da Giorgio Pasquali, al fine di conoscere meglio 'di che libri...
si nutrisse' l'uomo (e quindi il monaco) medievale, s'impone un chiarimento di
fondo. Le fonti catalogiche di libri monastici sono sostanzialmente di due tipi:
si tratta o di veri e propri cataloghi o di notizie cronachistiche o
d'altra indole; ma, se esse si possono mettere sullo stesso piano quando si
vogliano attingere determinate conoscenze su autori opere quantità di
manoscritti conservati in questo o quel monastero in un determinato arco di
tempo, sono invece soltanto le prime - i cataloghi veri e propri - che indicano
una coscienza 'bibliotecaria’ nel suo duplice aspetto di indagine conoscitiva e
di tutela dei libri/testi conservati. E a tal proposito va sottolineato che tal
tipo di catalogo, quanto a struttura e funzione, risulta affatto diverso da
quello largamente attestato nel mondo antico. Invero, in età greca e romana il
catalogo era finalizzato
soprattutto
alla consultazione dei titoli disponibili in una determinata biblioteca, laddove
invece nel Medioevo - e perciò nelle comunità monastiche,
al momento in cui queste giungono a un’organica definizione
bibliotecaria
- il catalogo stesso ha valore preminentemente (e direi esclusivamente)
inventariale.
Un altro possibile equivoco, dal quale liberare il campo, è ritenere che
raccolte di libri assai ricche possano indicare un’attività larga e intensa di
lettura o di studio: anche se questa talora non è mancata, va comunque ribadito
che libri (in certi casi libri preziosi) vengono prodotti o acquisiti e comunque
conservati soprattutto come valore materiale: essi rientrano, insomma, tra i
beni del monastero e costituiscono quindi aspetto non secondario del suo potere
economico.
In questa prospettiva - e non soltanto in senso culturale - va letto il quadro
che qui si traccerà dell’attività scrittoria e del formarsi di patrimoni
bibliotecari monastici più o meno cospicui, comunque indicativi del ruolo
giocato di volta in volta dalle diverse abbazie nell’epoca in considerazione. Ed
è proprio al confine tra potere politico-economico e prestigio culturale che,
tra i secoli XI-XII, insorgono figure di intellettuali - di solito legati allo
scriptorium,
alla biblioteca, all’archivio - i quali utilizzano gli strumenti della cultura
scritta del monastero al fine di compilarne il
chronicon,
la ‘storia’, o di redigerne il cartulario, il regesto, ponendo su più salde
fondamenta origini, vicende, diritti dell’insediamento: in Italia il fenomeno è
sostanzialmente precipuo dell’area centro-meridionale, a quanto mostrano, per
esempio, il
Chronicon
di Leone Marsicano e il
Registro
di Pietro Diacono per Montecassino, il
Chronicon
e il
Regesto
di Gregorio di Catino per Farfa, il
Chronicon
del monaco Giovanni per San Vincenzo al Volturno, il
Chronicon
di Giovanni di Berardo per San Clemente a Casauria. (Altrimenti interessante è
che con tali trattazioni cronistico-documentarie di origine monastica in
quest’epoca nasce pure, non solo in Italia ma in Europa, il processo di
autografia dell’opera).
Quando dal discorso di carattere generale si passi a una visione ravvicinata dei
modi di essere di
scriptorium/biblioteca
nei diversi centri dell’Italia monastica fra tardo IX e XII secolo, è Bobbio,
ancora una volta, a offrire la prima testimonianza di ‘una delle più vaste
biblioteche
dell’ Occidente’
e di un documento catalogico a questa relativo, mostrando che anche in Italia ci
si trova calati, ormai, in quella stagione della cultura scritta monastica che
l’età carolingia aveva da tempo determinata nei territori d’Oltralpe. Il
catalogo bobbiese, riferibile allo scorcio del secolo IX, presenta due parti
nettamente distinte: la prima, fino al numero 479 Becker, registra in modo
sommario i codici che si può ritenere costituissero il fondo più antico; vi si
incontrano - a parte opere di incerta identità - testi scritturali, patristici,
agiografici, liturgia e anche un certo numero di autori classici (tra i quali
vanno segnalati almeno Terenzio, Ovidio, Lucano, Giovenale, Persio, Marziale e
il rarissimo Lucrezio); la seconda parte, dal numero 480 al
666
Becker, consiste, in pratica, di liste distinte, ciascuna relativa a codici
offerti a Bobbio da donatori diversi, si tratti (e va ritenuto il caso più
frequente) di libri fatti scrivere per il monastero dal suo stesso
scriptorium 0
anche di veri e propri doni o lasciti. Tra i donatori spicca il nome di
Dungal, il quale, dopo anni di permanenza a Saint Denis presso Parigi, insegnò a
Pavia (è citato come maestro nel capitolare di Lotario dell’825
sull’insegnamento pubblico in Italia), e forse si ritirò, vecchio, nel monastero
di Bobbio, al quale comunque lasciò i suoi libri, circa venticinque. I
superstiti, non molti, risultano prodotti - tranne uno - in Francia e mostrano
in Dungal ‘buon gusto e intendimento filologico’, a quanto si desume dalla
scelta dei testi, le tecniche librarie, gli interventi autografi: per tutti si
può citare la complessa miscellanea poetica Ambros. c 74 sup..
Tra gli altri donatori di manoscritti che
figurano
nel più antico catalogo bobbiese si possono ricordare Benedetto, Teodoro,
Pietro, tutti
presbyteri,
e ancora Adalberto, Boniprando, Smaragdo, ma essi restano non più che nomi,
anche se di qualcuno (Teodoro, Boniprando) si può ancora leggere in codici
conservati la dedica a san Colombano di Bobbio. Ad essi si deve aggiungere
l’assai meno oscuro nome di Teodolfo vescovo di Tortona, che nell’862 fa
scrivere l’attuale Vat. lat. 5775, il
Commento
di Claudio di Torino alle
Epistole ai Corinzi,
offrendolo al monastero: il manoscritto si può identificare nel n. 255 Becker
della prima parte del catalogo.
Quest’ultimo invece non cita, forse perché compilato anteriormente, i
manoscritti - se ne conoscono cinque - offerti a Bobbio da Agilulfo, che vi fu
abate certamente tra l’888 e l’896 e in ogni caso non prima dell’881 e non dopo
il
901:
sono i codici Ambros.
m
67 sup. e s 33 sup., Taur.
f i
6, Vat. lat. 5749 e 5754, tutti sicuramente prodotti nello
scriptorium
del monastero stesso. Del resto, che nel secolo IX
scriptorium
e biblioteca bobbiesi fossero perfettamente organizzati risulta, pure, dal
Breve memorationis
di Wala, abate
tra l’833 e l’836,
ove si legge ‘bibliothecarius omnium librorum curam habeat, lectionum atque
scriptorum’, vale a dire che ‘il bibliotecario aveva cura dei libri
...,
provvedeva per le letture da farsi in comune e governava i trascrittori’. Non
solo nel IX, ma anche nel X secolo, la biblioteca fu accresciuta dall’offerta di
manoscritti: si conservano, infatti, le dediche di figure poco note o discusse,
quali Amalfredo e Petroaldo, ma anche degli abati Auderico e Luniberto, i quali,
a quanto tutto lascia credere, fecero scrivere la monumentale Bibbia Ambros.
e
26 inf. in due tomi (se ne conserva solo il primo). Né va dimenticato, tra
l’altro, che nel secolo X, sia pure per un tempo assai breve, fu abate del
cenobio Gerberto di Aurillac. Le offerte di libri a San Colombano di Bobbio
mostrano in concreto uno dei modi, già richiamati, in cui poteva accrescersi la
biblioteca di un monastero medievale; e v’è da notare, pure, l’uso di lasciare
nei manoscritti offerti una dedica, perché restasse memoria dell’opera di
devozione compiuta.
All’incirca nello stesso arco di tempo, tra lo scorcio del IX e l’inizio
dell’XI, non sembra che Nonantola abbia conosciuto un accrescimento librario
altrettanto cospicuo; del resto nell’899 l’abbazia era stata devastata dagli
Ungari, i quali ‘occidderunt monachos et incenderunt monasterium et codices
multos concremaverunt atque omnem depopulati sunt locum’. Venne così a
determinarsi, anche per motivi di più largo carattere politico e sociale, una
situazione di crisi
che sarà superata solo più tardi. Tuttavia, all’ultimo IX o al primo X secolo si
possono assegnare il Cassiodoro,
Commento ai Salmi,
Oxon. Bodl. c 152 e i miscellanei Sessor. 76 e Sessor. 71 di Roma, dei quali
l’ultimo risulta essere un
’adquisitio
dell’abate Leopardo (899-911). Del secolo X mi limito a ricordare (né le
testimonianze conservate sono molto più numerose) un manoscritto agiografico, il
cod. 1576 della Biblioteca Universitaria di Bologna e una miscellanea di testi
patristici e liturgici, il Vat. Ottob. lat. 6, l’uno e l'altro diversamente
interessanti: il primo, infatti, reca un delicato disegno a penna e dunque una
delle rare illustrazioni in prodotti nonantolani anteriori al secolo XI, di
solito scarni nel corredo decorativo; il secondo contiene una successione degli
abati di Nonantola da Anselmo fino al 933, ed è quindi posteriore a questa data.
Ma è il secolo XI che segna un momento notevolissimo nella vita dello
scriptorium
dell'abbazia, né soltanto per la quantità assai rilevante di codici in esso
prodotti (ultimamente a quelli già noti si sono aggiunti dodici manoscritti
riferibili a quel secolo, forniti di un ex-libris relativo a un ‘domnus
Damianus’, ora conservati alla Biblioteca Vaticana, una volta a Fonte Avellana,
ma che si devono ritenere di origine nonantolana); e invero è la qualità stessa
della produzione che, man mano che ci si inoltra nel secolo XI, viene ad
elevarsi e che rivela una rinvigorita organizzazione dello
scriptorium,
a quanto la più parte dei manoscritti degli ultimi decenni del secolo XI
dimostra. La tecnica di manifattura del libro è sovente risolta in formati ampi,
i sistemi e i tipi di rigatura risultano organicamente definiti, l’alternanza
delle mani è sempre armoniosa rivelando unità di indirizzo grafico, le scritture
distintive si mostrano adoperate secondo precise gerarchie, gli ordini
decorativi sono connotati da caratteri sempre più complessi fino a sfociare,
talora, in soluzioni ornamentali a piena pagina. Ed è nel secolo XI che
s’incontra - nel cod. 2248 della Biblioteca Universitaria di Bologna - il più
antico inventario di libri di Nonantola, relativo tuttavia non alla biblioteca
nel suo complesso, ma ai libri
‘acquisiti’
a questa da Rodolfo I, abate tra il 1002 e il 1035,
‘per
Petrum monachum Ardengum in nonantulanensi coenobio’ (in Pietro Ardengo è da
identificare, forse, il monaco che sovrintendeva ai libri del cenobio sotto il
duplice aspetto della produzione e della conservazione): si tratta di una
quarantina circa di volumi, tra i quali si possono identificare alcuni esemplari
ancora conservati, come, per esempio, il san Girolamo,
Commento a Geremia,
Sessor. 44, o il Remigio d’Auxerre,
Commento ai Salmi,
Sessor. 45, i quali recano esplicita notizia d’essere stati
‘acquisiti’
da Rodolfo I,0 ancora la miscellanea Vat. lat. 5051, e l’Eusebio-Rufino,
Storia ecclesiastica,
Vat. Ottob. lat. 2359 (parte, insieme al già ricordato cod. 2248 di Bologna, di
uno stesso manoscritto originario).
Dalla larga quantità di libri che nella Nonantola del secolo XI venne ad
aggiungersi a quella già indicata, sia sufficiente citare soltanto due codici
che rappresentano modi diversissimi di articolazione della cultura scritta
all’interno dell'abbazia: il Vat. lat. 84 e il Sessor. 17. Il primo, un
Salterio,
si può ritenere un manoscritto d’apparato e costituisce una delle soluzioni
tecnico-librarie più alte raggiunte dallo
scriptorium
nonantolano; l’altro, una miscellanea di sapere sacro e profano (vi fanno spicco
l’opera storica di Giustino e quella geografica di Solino), è un tipico codice
da lavoro o di scuola, significativo anche perché incuneato tra i massicci
interessi patristici nonantolani. Non si è in grado di dire a quanto ammontasse,
in quest’epoca, il patrimonio librario; più tardi, nel 1331, un catalogo elenca
185 codici, numero di qualche consistenza, ma non alto.
È tuttavia Montecassino, la fondazione di san Benedetto, che può essere assunta
a paradigma del ruolo giocato dal monachesimo medievale italiano nella
trascrizione e conservazione di libri/testi. Ma non - s’è detto - fin
dall’inizio. A quanto, infatti, è stato scritto a ragione
‘the
manuscript library assembled at Monte Cassino in the Middle Ages was a creation
above all of the eleventh century’.
L’abate Teobaldo (1022-1035) è ricordato per aver fatto scrivere libri dei quali
nell’abbazia ‘maxima paupertas usque ad id temporis erat’. Il giudizio - in
quanto commisurato alla notevole quantità di libri presenti più tardi nel
cenobio - forse non rispecchia fedelmente la realtà, tanto più ove si facciano
alcune considerazioni: l’attività di copia dei cassinesi non s’era interrotta
dopo la distruzione del cenobio nell’883 continuando, invece, prima a Teano, poi
a Capua, località ove i monaci avevano trovato rifugio (ne è prova, insieme ad
altri manoscritti, il Casin. 175, contenente il commento di Paolo Diacono alla
Regula
di san Benedetto, prodotto a Capua tra il 915 e il 934, all’epoca dell’abate
Giovanni I); avvenuta la ricostruzione del monastero a partire dal 950, tutti
gli abati prima di Teobaldo (Aligerno, Mansone, Giovanni III, Atenolfo)
risultano essere stati committenti di manoscritti; v’è ragione di credere alla
sopravvivenza di libri più antichi, dell’epoca da Paolo Diacono a Bertario,
salvati dalla cura dei monaci nonostante la sciagura dell’883 e l’esilio della
comunità. In ogni caso, il grande patrimonio librario cassinese resta creazione
del secolo XI, ad iniziare, grosso modo, dall’età di Teobaldo, committente di
libri già come abate di San Salvatore a Maiella prima che a Montecassino. Qui
alla sua iniziativa si devono, tra l’altro, la prima parte dei Moralia
di Gregorio Magno Casin.
73,
fornito di un ritratto dello stesso Teobaldo, e la grande enciclopedia,
De rerum naturis o De universo,
di Rabano Mauro, splendidamente illustrata, Casin. 132. In forma di dizionario
nell’opera si ritrova - in un continuo intrecciarsi di reale e
immaginario
-
tutto il Medioevo con i suoi ceti sociali, le sue credenze, il suo meraviglioso,
i suoi oggetti, i suoi simboli, la sua scienza o pseudo-scienza, la sua vita
quotidiana, le sue feste, le sue catastrofi collettive, le sue allucinazioni: il
tutto riverberato in forme speculari nella serie fittissima di scene che fa del
Casin. 132 un manoscritto strepitoso. E proprio le affollate immagini del Rabano
Mauro cassinese ci mettono a contatto visivo con quel mondo di libri, opuscoli,
scribi, biblioteche, autori, lettori che qui si cerca di delineare,
giacché
tutta una serie di ‘voci’ riguardanti quel mondo è resa in una traduzione
iconografica precisa e vivace. Ed è ancora nell’età di Teobaldo, all’inizio
(1022/1023), che la biblioteca di Montecassino viene ad acquisire,
come dono dell’imperatore germanico Enrico II, l'Evangeliario Vat. Ottob. lat.
74, scritto e ornato a
Ratisbona, il quale a f. 193r reca, al posto del ritratto dell’evangelista
Giovanni, quello dell’imperatore stesso; fatto che assume una valenza tutta
politica, simbolica, in un'epoca in cui il
cenobio si trova al
crocevia di contrastanti
interessi tra Germania e Bisanzio. Ma il Vat. Ottob. lat, 74 riveste anche
altrimenti significato notevole giacché vettore di motivi
grafici e artistici di creazione
ottoniana, i quali - pur continuando
a persistere tipologie tradizionali - finiranno con il determinare
innovazioni negli ordini decorativi
e nelle scritture d’apparato cassinesi, influenzandone il linguaggio.
Anche se Teobaldo e i suoi successori caratterizzano la prima metà del secolo XI
come un periodo di cospicua produzione libraria e di fervida vivacità culturale
(si pensi, a quest’ultimo proposito, alla presenza nel monastero di
intellettuali quale un Lorenzo d’Amalfi), è comunque l'età di Desiderio
(1058 -
1087), divenuto anche papa con il nome di Vittore III, a segnare il culmine
dell’attività scrittoria, sia per quantità che per qualità, e perciò
dell'accumulo patrimoniale-bibliotecario a Montecassino. Di tal momento può
esser ritenuto ‘manifesto’ la scena di dedica sul frontespizio (f. 2r) del
cosiddetto 'Codex Benedictus’, Vat. lat. 1202, il maestoso
Legionario
di Desiderio per le feste dei santi Benedetto, Mauro e Scolastica, prodotto
intorno al 1071 in sostituzione di un meno solenne lezionario in uso,
considerato una delle massime creazioni dello
scriptorium
cassinese per scrittura (ritenuta di mano dell'abilissimo Leone amanuense) e
decorazione (a miniature e grandi iniziali): la scena rappresenta Desiderio,
contraddistinto da un’aureola rettangolare, il quale offre a san Benedetto i
patrimoni dell’abbazia; lo spazio tra Desiderio e san Benedetto è cosparso di
libri; significativamente la didascalia suona ‘cum domibus miros plures pater
accipe libros.. .’, ponendo sullo stesso piano committenza edilizia e
committenza libraria dell’abate, a quanto si ricava anche dal
Chronicon monasterii Casinensis.
La connessione trova compimento non solo nella stessa manifattura del
Legionario
Vaticano, tutto funzionale alle solenni cerimonie della nuova basilica
desideriana consacrata il 1° ottobre 1071, ma anche nelle iniziative,
strettamente correlate, della costruzione, già ricordata, di una ‘edecula, in
qua libri reconderentur’, e della trascrizione di un notevole numero di codici,
dei quali alcuni di elevata qualità tecnico-libraria. A documentare quest’ultima
iniziativa valgono, oltre alla didascalia che connota la scena di dedica, sia
alcuni versi del lungo carme contenuto (f. Iv) nello stesso
Legionario
Vat. lat. 1202 (‘Boreas solet ardua quotquot / foliis iuga spargere tottot /
titulos tulit hic variorum / varia ex regione librorum’), sia, più importante di
ogni altra, la dettagliata testimonianza dello stesso
Chronicon,
dovuto per questa parte a Guidone di Montecassino, il quale attesta - dandone un
elenco in qualche modo ordinato per generi -
i
libri (o meglio parte di questi) fatti scrivere da Desiderio, una settantina,
dei quali un buon numero si può identificare in codici tuttora conservati. È il
caso di ricordare
almeno - indicandone il contenuto con la citazione dell'inventario dato dal
Chronicon -
quelli individuati con certezza assoluta o quasi: il codice della Biblioteca
della città di Arezzo, 405. I (Hilarius
mysteriorum et ymnorum)
e 405. II (De
locis sanctis)
; i Casinenses 399
(Sacramentorum cum martirologio),
314 (Instituta
patrum),
15, 11, 16, 17, 172, 173 (rispettivamente
Augustinum cantra Faustum, Omelias quinquaginta,
Epistolas eius, Sermones, De baptismo parvulorum, De opere monachorum),
13 (Eugepium),
326
(Iuvencum de evangeliis),
286 e 93 (rispettivamente
Ieronimum super Ezechielem
e
Super duodecim prophetas),
275
(Historiam Gregorii Turonensis),
6
(Historiam Anastasii);
i Vaticani latini 5735
(Dialogum de vita sancti Benedicti),
1203
(Dialogum quem ipse Desiderius cum Alberico diacono edidit de miraculis
monachorum loci istius),
14437 (Versus
Paulini,
frammento); l’Ambros. c 90 inf. (Senecam);
il Leid. Bibl. Pubi. 118
(Ciceronem de natura Deorum).
Considerando l’inventario nel suo complesso (e dunque le voci di dubbia o
nessuna identificazione in manoscritti conservati) il fondo bibliotecario
desideriano attestato dal
Chronicon
rivela un arco di interessi assai vasto, dalla patristica alla storia,
dall’edificazione monastica all’esegesi biblica, dalla letteratura antica, in
poesia e in prosa, all’epistolografia, dalla medicina al diritto. Né si possono
dimenticare altre creazioni di età desideriana, quali l’Omiliario
Casin. 98 e il
Legionario
Casin. 99, quest’ultimo dovuto nel 1072 alla mano di colui che Elias Avery Lowe
ha chiamato ‘the prince of all Beneventan scribes’, Leone; manoscritto che reca
nella scena di dedica - oltre alle figure di san Benedetto e dello stesso
Desiderio - quelle di Giovanni Morsicano (committente del manoscritto al momento
della sua monacazione, più tardi vescovo di Sora) e di Leone Marsicano (diverso
dal Leone scriba!), l’autore, già ricordato, del
Chronicon monasterii Casinensis,
poi continuato da Guidone; o ancora, il
Martirologio
Vat. lat. 4958 e i rotoli
d’Exultet
Vat. lat. 3784, Vat. Barb. lat. 592 e Lond. Add.
ms.
30337, gli ultimi due, insieme al
Martirologio,
da assegnare al limite tardo dell’età desideriana. Al grande accumulo
patrimoniale di libri culminato nella Montecassino di Desiderio, ma che
attraversa quasi l’intero secolo XI, contribuirono anche gli interessi colti
degli ‘intellettuali’ dell’abbazia: vanno ricordati, oltre a Leone Marsicano,
Alfano di Salerno, poeta e autore di trattati di medicina; Costantino
l’Africano, traduttore di opere dal greco e dall’arabo; Guaiferio di Salerno,
autore di carmi e di testi agiografici; Alberico, autore di un vero e proprio
manuale di composizione stilistica, i
Dictaminum radii.
È a questi e ad altri ‘intellettuali’ meno noti che si deve se testi classici
furono trascritti a Montecassino, da Tacito ad Apuleio, da Cicerone a Seneca, da
Ovidio a Virgilio, da Solino a Giustino. Tal fenomeno rappresenta uno degli
aspetti non secondari di quella rinascita della romanità, ch’ebbe notevole
rilevanza anche al di là delle mura del cenobio. Alla fine del secolo XI la
biblioteca cassinese doveva, dunque, contenere un numero di libri notevolissimo,
giacché la stessa committenza desideriana, peraltro solo parzialmente
documentata dal
Chronicon,
veniva ad aggiungersi a strati di manoscritti più antichi, iterando testi già
posseduti (operazione intesa come
renovatio librorum,
accrescimento di copie disponibili, accumulo bibliotecario) o aggiungendone di
nuovi;
e
d’altra parte, non mancano testimonianze che manoscritti prodotti
altrove
venivano offerti a Montecassino conservandosi perciò tra i volumi dell'abbazia:
sembra essere questo il caso, tra gli altri, dell'Ovidio,
Metamorfosi,
Neapol. IV.F.3 del tardo secolo XI, che tutto lascia credere di origine barese,
ma che si trovava tra i codici appartenuti a Desiderio. E ancora, alle
committenze degli abati o ai codici offerti al monastero dall'esterno, altri se
ne aggiungevano dovuti all’iniziativa individuale di monaci, fossero questi
mossi dall’interesse per un determinato testo o dal desiderio di compiere opera
pia: un’iniziativa di quest'ultimo tipo fu quella di Giovanni Marsicano, che
fece scrivere e decorare a sue spese il Casin. 99; o ancora v’è da segnalare
l'invocazione di un monaco Causo, non altrimenti noto, forse da ritenere, nel
secolo XI, non lo scriba o il decoratore, ma il committente di parte del
composito Casin. 442. Del tutto giustificata quindi risultava la costruzione di
una
edecula
atta a contenere e conservare l’accresciuto patrimonio librario. L'acme
raggiunta da Montecassino in età desideriana, ancora viva sotto Oderisio I
(1087- 1105), non continuerà oltre la prima metà del secolo XII, l’epoca, grosso
modo, di Pietro Diacono archivista-bibliotecario e di quello che può essere
ritenuto, più che un abate, ‘dominus castellorum' e ‘princeps provinciarum',
Oderisio II (1123-1126); dopo inizierà una lenta ma irreversibile decadenza.
Finora il discorso è stato incentrato sulle abbazie che, grazie a un patrimonio
librario veramente cospicuo, più di altre ne hanno lasciato tracce, dirette e
indirette. Ma proprio tra la fine del IX e i primi decenni del XII secolo
emergono in Italia non pochi centri monastici come sedi di attività scrittoria e
di conservazione libraria; e anche se essi, rispetto a Bobbio o a Montecassino,
hanno giocato un ruolo meno rilevante, risultano altrettanto significativi ove
si voglia considerare nel suo complesso e nelle sue articolazioni il contributo
dell'Italia monastica alla produzione e conservazione di manoscritti. Né,
d’altro canto, può essere solo un caso che non pochi monasteri, talora di più
antica fondazione, compaiano come sedi di cultura scritta soltanto all’epoca che
qui interessa: il fatto indica un incremento ulteriore di
scriptoria
e biblioteche, che verrà a culminare tra XI e XII secolo, pur se in Italia non
raggiungerà certe massicce dimensioni quali in altre regioni d'Europa (per
esempio in Francia). È il caso di delineare almeno le coordinate fondamentali,
cronologiche e geografiche, del fenomeno.
In Italia settentrionale, nell'abbazia dei Santi Pietro e Andrea a Novalesa pare
si fosse formata già nel secolo IX, e ancor più in seguito, una biblioteca
piuttosto ricca, ma ne restano solo scarse tracce. A San Marziano di Tortona,
fondato tra la fine del 945 e l'inizio del 947 dal vescovo Giseprando,
scriptorium
e biblioteca sembrano essersi giovati di apporti bobbiesi; e anche se il
patrimonio librario, qualsiasi ne sia stata l'indole, non si può ricostruire per
mancanza di documenti adeguati e manoscritti superstiti (unico esemplare
conservatosi si ritiene la miscellanea Ambros.
d
48 inf.), è comunque certo che - avendoli adoperati il primo abate di San
Marziano, Gezone - vi si trovavano, tra l'altro, gli scritti di Oddone di Cluny
non altrimenti testimoniati nell'Italia settentrionale. Dei codici prodotti in
Sant’Ambrogio di Milano dopo che monaci di regola
benedettina furono istallati presso la basilica, si può citare, come
campionatura, qualche esemplare del tardo secolo IX: il
Salterio
bilingue, grecolatino, di Berlino, Hamilton 552, o la miscellanea di medicina,
contenente, tra l’altro, Cornelio Celso, conservata a Firenze, Laur. 73.1; ma
Sant’Ambrogio nell’alto Medioevo era forse in possesso di una biblioteca
‘nutrita’, grazie a manoscritti anche d’altra provenienza. Il monastero dei
Santi Faustino e Giovita di Brescia - a quanto risulta da un inventario di beni,
manoscritti compresi, del 964 - doveva essere ‘buon rifugio di libri antichi e
officina operosa di libri nuovi’. Discorso più ampio merita Santa Maria di
Pomposa, considerata ‘fortezza’ di libri anche se di questi manca qualsiasi
notizia fino allo scorcio del secolo XI. Al 1093 circa, infatti, risale un
inventario di libri - o meglio una lettera-inventario del chierico Enrico,
monaco di Pomposa, a un certo Stefano - relativo, tuttavia, non all’intera
consistenza bibliotecaria del cenobio, ma solo ai manoscritti acquisiti a
quest’ultimo dall’abate Girolamo, di cui Enrico celebra i meriti. Si tratta di
una settantina di volumi, che si devono ritenere conservati in un
armarium o armaria,
di cui s’era reso benemerito Girolamo, secondo una connessione abati-armaria
(o
arcae)
ben documentata a Bobbio, adombrata nelle ‘acquisizioni’ di Anselmo e di Rodolfo
I a Nonantola, implicita in alcune testimonianze relative a Montecassino e ad
altre abbazie. Nell’inventario pomposiano s’incontrano: letteratura e regole
monastiche; scritti patristici, soprattutto Agostino, Ambrogio, Girolamo; opere
di storia ecclesiastica; autori classici, da Plinio a Solino, da Livio, prima
deca, a Giustino e a Seneca, del quale sono testimoniate le
Lettere a Lucilio,
qualche dialogo e le
Tragedie
(queste ultime identificate nel codice Laur. 37.13, il cosiddetto
Etruscus).
Ma conta qui rilevare soprattutto che, a quanto si desume dalla
lettera-inventario, l’abate Girolamo si dava a cercare opere, soprattutto rare,
per la sua biblioteca (fatta trascrivere la prima deca di Livio, anelava,
avide,
ad acquisire le altre), si preoccupava di farle ricopiare organizzando
adeguatamente lo
scriptorium,
stabiliva precisi criteri perché ne fossero catalogati i titoli all’interno dei
volumi miscellanei, affidando tali cure a un bibliotecario, detto ‘fidelis
librorum custos’. Il patrimonio librario di Pomposa nel suo complesso era forse
più consistente di quello descritto da Enrico e relativo soltanto ai manoscritti
‘dell’abate Girolamo’: si è ritenuto, infatti, che vi fosse un certo numero di
autori classici al di fuori di quelli elencati nel catalogo, né poteva mancare
tutto quel corredo di libri biblici e liturgici in uso in ogni monastero, pur se
i tentativi di identificarne qualcuno hanno dato finora risultati incerti.
Tuttavia, lo sforzo dell’abate Girolamo nella ricerca di manoscritti e
nell’organizzazione dello
scriptorium
e della biblioteca fa credere che la produzione libraria pomposiana prima di
quell’epoca doveva essere stata piuttosto modesta e disorganica. Più tardi, meno
di due secoli dopo l’epoca di Girolamo e di Enrico, quella di Pomposa era
divenuta ‘una biblioteca abbandonata in un monastero rattrappito’.
Altre emergenze, ora più ora meno significative, si hanno nell’Italia centrale e
centro-meridionale. V’è tuttavia da dire che in Toscana, pur essendo saldamente
attestata una produzione libraria, resta problematico legarne singoli esiti a
precisi
milieux
monastici. Una ricostruzione limitata all'eremo di Camaldoli ha potuto
individuare codici ivi stesso prodotti a partire dal tardo secolo XI nonché la
formazione di una biblioteca abbastanza consistente. Assai meglio documentato
risulta — al di là della stessa Montecassino - l'incremento librario in area più
propriamente centro-meridionale, ma non in una città pur carica di passato e di
tradizioni di cultura scritta quale Roma. Qui infatti, fino al secolo XII,
s'incontra, allo stato delle conoscenze attuali, un solo manoscritto di origine
monastica sicura, il Vat. lat.1274, un
Legionario
prodotto tra XI e XII secolo nell'antico cenobio dei Santi Andrea e Gregorio al
Celio. Più motivi permettono, inoltre, di attribuire con una certa fiducia al
monastero dei Santi Ciriaco e Niccolò in via Lata il
Martirologio-Obituario
Vallic.
f
85 databile tra il 1024 e il 1043, e all’abbazia benedettina di San Paolo la
Regula Aquisgranensis
Vat. lat. 4885 e la Regula sancti
Benedicti
Vat. Barb. lat. 646, questi ultimi riferibili all’inoltrato secolo XI. Non si
conosce altro. E dunque, anche se nei monasteri romani si devono ammettere, tra
i secoli X-XII, sia una qualche attività di trascrizione sia la presenza di
raccolte librarie, è comunque da credere che in essi l’una e l’altra non fossero
insistite su forme rigorosamente organizzate; di qui risultati che non si
possono considerare che modesti. Come già per l’epoca precedente, la quasi
assoluta mancanza di materiali e di fonti non può essere circostanza solo
casuale. Nella prospettiva qui indicata trova giustificazione il fatto che il
Registro di Giovanni VIII, Reg. Vat. 1, prodotto a Santa Maria in Pallara in
scrittura beneventana, è dovuto a un ‘team’ di cassinesi (vi si riconosce, tra
le altre, la mano di Leone Marsicano!) venuti nel monastero romano non soltanto
per la necessaria vicinanza agli archivi papali, ma anche per attendere
all’opera materiale di trascrizione: se, infatti, Santa Maria in Pallara avesse
disposto di un adeguato 'team’ di amanuensi, sarebbe stata sufficiente una
semplice committenza di Montecassino alla sua dipendenza romana. S’è pure notato
- sul fondamento degli interventi nel manoscritto dovuti a Leone Marsicano - che
questi "acts as the ‘bibliothecarius’, the man in charge of the library as well
as of the
scriptorium”
: la mancanza di qualsiasi organizzazione della cultura scritta a Santa Maria in
Pallara aveva, evidentemente, resa necessaria la venuta da Montecassino non solo
di un 'team’ di amanuensi ma anche di chi ne guidasse il lavoro, Leone
Marsicano, che in quel momento sovrintendeva allo
scriptorium
cassinese.
È da volgersi piuttosto, anche per la più larga documentazione di cui si
dispone, ad alcuni monasteri dislocati tra Lazio, Umbria, Marche, Abruzzo,
Molise, Campania, iniziando da quelli gravitanti, sotto il profilo
grafico-culturale, intorno alla stessa Roma: Sant’Eutizio in Val Castoriana,
Farfa e Subiaco. Quanto si conosce del patrimonio librario del primo,
Sant’Eutizio, non è anteriore al secolo XI, anche se a quest'epoca la fondazione
monastica della Val Castoriana era in vita già da secoli. Tra i manoscritti più
antichi si possono segnalare i Vallicelliani
a
9
(Omiliario),
b
8
(Messale
e
Sacramentario),
b
11 (Collectio
canonum
dello pseudo-Isidoro), to. 1 (Vite
di santi):
i quattro codici sono parzialmente dovuti alla mano
di uno ‘scriptor Ubertus
infelix’, il quale occupava forse una posizione
di rilievo
nello
scriptorium
del cenobio. I manoscritti più tardi, per l’epoca
che qui interessa,
sono da ritenere i Vallicelliani c 6 e c 13, due
Breviari,
il
secondo splendidamente
ornato, prodotti intorno alla metà del secolo XII. Ma tra
gli estremi qui
considerati non è alto il
numero di manoscritti conservati.
Quando sullo scorcio
di quello stesso secolo un
anonimo monaco compilò - se ne
legge il testo nel
Vallic. to. 1, f. VIIIv
- un inventario della biblioteca eutiziana
(senza alcun intento
catalogico in senso stretto,
ma soltanto perché riteneva
'profondamente riprovevole
lasciare nelle tenebre dell’ignoranza... quel che
esiste di buono’), i manoscritti
ammontavano a una sessantina, compresi dieci
'quos domnus Hyeronimus
abbas conficere
studuit’.
E invero Girolamo,
abate all’incirca tra il 1159 e il
1170, s’era studiato di
acquisire per il monastero alcune
opere, tra
le
quali vanno
ricordati almeno, perché di
genere non liturgico né
strettamente dottrinale, il
Chronicon
di Girolamo e le
Etymologiae
di Isidoro.
Tra i
codici
dell’inventario
anteriori alle acquisizioni
dell’abate Girolamo,
risultano tuttora conservati i
Vallicelliani to. n e to. xxv
(Sermoni
e
Omelie)
prodotti
nei primi anni del secolo XII.
Da segnalare la presenza
nell’inventario - ma
risultano ormai perduti
-
di un
'liber Iosephus’, con ogni
probabilità le
Antiquitates
di Giuseppe Flavio, e di
'quaterni manuales’, che
altro non possono essere
che codici di pochi fogli a
uso didattico, ma certamente
— mancando
qualsiasi riferimento ad autori precisi
- di contenuto assai elementare. Rispetto
a Sant’Eutizio, Farfa rivela
-
nonostante
il numero di codici conservato sia
sostanzialmente lo stesso
-
una temperie
culturale altrimenti vivace, grazie
soprattutto alla figura di Gregorio di Catino.
S’è detto di codici superstiti già del
tardo secolo IX. Ma è tra i secoli XI-XII
— dopo il vuoto del X in
seguito
all’invasione saracena e a un periodo di spostamenti
e spoliazioni della comunità - che
si ha il momento di massima fioritura
dell’abbazia con tutto un
susseguirsi di
abati colti: tra questi spiccano Almerico
(1039-1046), che acquisisce
all’abbazia
'quarantadue libri, fra più e meno importanti,
tutti relativi all’ars
grammatica
e alla
Scriptura,
i due poli della migliore
cultura monastica’, e Berardo
III (1099-1119), 'studiis bene imbutus', alla cui
morte Farfa
risultava
dotata di un buon
numero di libri, alcuni fomiti di rilegature
e ornamenti preziosi. Ed è, grosso modo,
in quest’arco di tempo che risulta
scandita la più parte della
produzione
libraria conservatasi dello
scriptorium
farfense:
si possono ricordare, almeno, le
Consuetudines Farfenses
Vat. lat. 6808 degli
anni 1050-1087, la
Collectio canonum
Casanat.
2010
del
1085-1088, l’Evangeliario
Vallic.
e
16, ritenuto farfense, pur se
non senza
qualche
dubbio,
il
Breviario
Vat.
Chis. c VI 177, prodotto a
Farfa ma presto passato a Subiaco,
la
Vita Gregorii
Eton,
College Library, 124, il
Commento ai Salmi
di Oddone di
Asti Paris, lat. 2508.
quest’ultimo fornito di un ricco corredo decorativo. Ed è in
questa
temperie che si forma e
scrive la sua opera imponente Gregorio
di Catino,
il
monaco-autore - tra gli
ultimi anni del secolo XI e il primo
terzo del XII
-
di
una serie di
opere che costituiscono una
raccolta di documenti e
una storia dell’abbazia: il
Regesto
(Vat. lat. 8487. I-n), il
Liber largitorius
(Roma,
Bibl. Naz.,
Farf. 2),
il
Chronicon
(Roma, Bibl. Naz., Farf. 1),
il
Liber floriger
(Roma,
Bibl. Naz., Farf. 3), opere che Gregorio scrive materialmente quasi del tutto da
solo, giacché gli interventi si mostrano limitati a quello - il più consistente,
ma non certo massiccio - del nipote Todino e a mani che scrivono passi non
lunghi e talora brevissimi. Resta da dire del monastero, anch’esso di antica
fondazione, di Santa Scolastica di Subiaco. Qui il primo manoscritto che si
possa attribuire allo
scriptorium
dell’abbazia non è, come si è da più parti ritenuto, la cosiddetta
Vita di santa Eufrosina,
cod. Santa Scolastica
clx.
163 forse dei decenni centrali del secolo X (codice che comunque si conservò
nella biblioteca di Subiaco), ma un esemplare delle
Vite dei SS. Padri
Santa Scolastica
xciii.
98, il quale risale alla prima metà del secolo XI; e alla stessa epoca circa,
del resto, riportano notizie che ascrivono a merito degli abati l’aver questi
promosso la trascrizione di libri.
Ma un incremento dell’attività dello
scriptorium
e delle acquisizioni della biblioteca si ebbe soprattutto un po’ più tardi,
sotto il lungo governo del grande abate Giovanni V (1065-1120), a quanto recita
il
Chronicon Sublacense
e si desume, pure, da manoscritti direttamente conservatisi legati a lui (e
alcuni identificabili tra quelli citati dal
Chronicon)
o comunque prodotti alla sua epoca: il Vallic.
b
24 (Sacramentario,
che contiene in appendice il
Liber Vitae)
del 1075, vergato da uno 'scriptor nomine Guittone’, cui s’è già fatto cenno,
'iubente domino Johanne gloriosissimus abbas’, il Vat. lat. 653 (Expositio
Haymonis in Epistulas
sancti Pauli),
il Vallic.
b 40
(Sentenze
di Isidoro) e il Santa Scolastica 249
(Salterio);
e ancora al periodo di governo di Giovanni V si possono riferire, tra gli altri,
manoscritti quali il
Regesto
(anni 1064-1085) Santa Scolastica, Arca
vi. i,
e alcuni esemplari di formato grande o molto grande, tuttora conservati nello
stesso monastero, Santa Scolastica xvi.
i7,
xxiii.25,
v.5, x.
1o, contenenti, rispettivamente, un
Lezionario,
le
Omelie
di Cesario di Arles, i
Moralia
di Gregorio Magno, ed ancora un
Lezionario.
Tra i codici posteriori a Giovanni V, e perciò del pieno o tardo secolo XII, si
possono citare almeno i manoscritti Santa Scolastica Lxii.64,
cxxxii.136,
xv. 16 e cxxi.124,
tutti di contenuto patristico o ascetico. A parte codici prodotti nell’abbazia
stessa, a Subiaco confluirono comunque libri diversi, che vennero a formare
complessivamente una biblioteca piuttosto cospicua.
Quando si passi all’Abruzzo, tra le abbazie più antiche va immediatamente
ricordata quella della Santissima Trinità, detta poi di San Clemente, a
Casauria, la più importante tra le fondazioni benedettine della regione : nel
silenzio del suo
scriptorium
e dalla mano di Rustico
magister
fu vergato, in una stilizzata minuscola di tipo carolino, quel codice del
Chronicon Casauriense
- opera del monaco Giovanni di Berardo - ch’è 'libro suggestivo e fantastico,
sontuoso e semplice nello stesso tempo, strettamente legato ad una tradizione
cronistica claustrale ... e tuttavia nuovo, fresco, originale’. Sotto il profilo
tecnico-librario, infatti, tal raccolta di documenti e di fatti di cronaca non
solo si mostra decorata di delicati disegni a inchiostro, ma presenta una ‘mise
en page’ assolutamente diversa da quella di altre cronache più o meno coeve :
testo documentario e testo cronistico sono organizzati non in libri separati o
alternati, ma insieme
nella stessa pagina,
dislocati, rispettivamente, tra
centro e margine
interno,
secondo
una struttura sinottica atta a una fruizione
simultanea di documento e
cronaca.
Anche se la fondazione
dell'abbazia di
Casauria
risaliva alla
fine del secolo
IX,
non si hanno testimonianze di cultura
scritta
prima
dell’epoca
tarda, come del resto per altri monasteri
benedettini: lo stesso
Chronicon
fu
composto
e trascritto nell'attuale Paris, lat.
5411,
che
è il libro di cui s'è detto,
nel secolo
XII,
e notizie su amanuensi, libri e biblioteca
dell'abbazia si riferiscono
alla
medesima epoca; in particolare, dell'abate Leonate (1155-1182) si dice
che
‘libros quoque plurimos... scribere fecit’.
Più a nord delle abbazie di area centro-meridionale qui
considerate, sito all’interno
delle Marche (ma in diocesi di Gubbio), non si
può dimenticare quell’eremo
di Santa Croce, poi di San Pietro, di Fonte
Avellana, divenuto anch’esso
più tardi abbazia, ove il nucleo primitivo della
biblioteca venne a costituirsi
nel secolo
XI
e ad opera di Pier Damiani, al
quale risale, pure, quello
che può essere considerato il primo inventario
di libri - non pochi - acquisiti
all'eremo. Ma già a partire dallo stesso secolo
XI si hanno prodotti dello
scriptorium
avellanita, tra i quali è il
caso di far cenno ad alcuni manoscritti
contenenti opere dello stesso Pier Damiani: il
Vat.
lat.
3797, il Vat. Urb. lat.
503, fors’anche il Vat. lat. 4920 e il Vat. lat. 4930.
Il grosso incremento della biblioteca
nel secolo XII è dimostrato dai due inventari,
più o meno coevi, contenuti
nel Vat. lat. 484 (opere di sant'Agostino), anche
questo un prodotto avellanita:
quello più ampio
(ff.
126r-127r) enumera circa 170
manoscritti
contenenti testi biblici, liturgici, patristici, ma anche scritti
di autori del Medioevo,
manuali scolastici, testi classici e opere giuridiche, queste
ultime di grande importanza.
A proposito di tale incremento va ricordata, del
resto,
l’adquisitio
di manoscritti, comunque avvenuta, da Nonantola. Non mancano, infine, lasciti
librari, pur se assai modesti, di altri
milieux
monastici dislocati tra Lazio, Umbria, Marche, Abruzzo.
Più a sud, sulle aree molisana e campana pesa, soprattutto a partire dal secolo
XI, la diretta influenza di Montecassino; la quale agisce a ogni livello, sulle
forme tipologiche della scrittura beneventana ostinatamente in uso, così come
sulla decorazione dei prodotti librari. Ma non si può negare una certa
originalità in centri di antica tradizione, che avevano elaborato certi modi
loro propri pur nel solco di quella cultura unitaria che fu la
longobardo-cassinese. Per il Molise è d’obbligo ricordare la grande abbazia di
San Vincenzo al Volturno, la quale fu sede di attiva cultura scritta, a quanto
mostra, pure, una larga serie di iscrizioni dipinte; non poteva dunque mancarvi
uno
scriptorium:
di certo vi fu prodotto, tra il 1124 e il 1130, il
Chronicon Vulturnense
del monaco Giovanni Vat. lat. 2724. Quanto alla Campania, va richiamata
l'attenzione almeno su Benevento, Sant’Angelo in Formis, Cava. A Benevento,
capitale della Longobardia minore, più laboratori di copia furono certo
operanti, e tra questi lo
scriptorium di
Santa Sofia, cui sono da attribuire codici quali il
Breviario
Neapol.
VI
E
43 del 1099-1118, i
Martirologi
Lond. Add.
ms
23776 e Vat. lat. 5949 del secolo XII, il
Chronicon dello stesso monastero beneventano Vat. lat.
4939.
A Sant’Angelo in Formis, in territorio capuano, fu trascritta tra il 1137 e il
1166 quella raccolta di privilegi e altri documenti riguardanti il monastero,
che va sotto il nome di Registrum
Sancti Angeli ad Formas,
ma nel monastero
è
testimoniata anche una biblioteca non insignificante, a quanto si desume da un
catalogo riferibile all’incirca alla stessa epoca del
Registrum.
Infine
è
da dire della Santissima Trinità di Cava, abbazia di fondazione più recente
delle altre qui ricordate : non vi mancava certo uno
scriptorium,
anche se, prima del secolo XIII, l’unico prodotto che ne risulta sicuro resta la
miscellanea Cava 3 del tardo XI, contenente, tra l’altro, gli
Annales
Cavenses;
di più spiccato interesse, invece, si dimostra la biblioteca che venne a
formarsi nel monastero, giacché essa acquisì e conservò codici importanti non
solo della stessa area beneventana, come le
Leges Langobardorum
Cava 4 dell’inizio del secolo XI, ma anche di altra e assai
lontana
origine, come la superba Bibbia visigotica Cava 1, prodotta in Spagna
nel
primo
secolo
IX, ma forse già dal XII giunta nella biblioteca della Santissima Trinità.
Un problema tutto da indagare resta il laboratorio di
copia dal quale è uscito
il
libro
dei Vangeli Vat.
lat.
3741
del tardo secolo
XI,
vergato in beneventana
e
corredato
di illustrazioni strepitose
a
piena pagina. Il
manoscritto risulta conservato
nel Medioevo nella chiesa di San
Paolo
di
Alatri, e si deve considerare forse
originario di un centro (monastico?)
fornito
di
uno
scriptorium
organizzato e di
una biblioteca non priva di modelli adeguati.
V’è da far cenno, infine, al Mezzogiorno bizantino e poi normanno. Qui, nei
monasteri greci, a partire dal
IX-X
secolo, una
produzione
libraria
è
saldamente documentata; e in età bizantina vera e propria, vale a dire
fino
al tardo secolo XI, essa risulta concentrata soprattutto in Calabria
o dislocata
lungo quello 'scriptorium
itinerante’ operoso grazie a san
Nilo e
ai
suoi monaci,
da Rossano a Grottaferrata, con soggiorni e trascrizioni in area
beneventano-cassinese. L’attività scrittoria del monachesimo italo-greco in
quest’epoca pare rimasta agganciata a quella orientale d’origine, limitata ai
libri
necessari
ai bisogni non solo spirituali e culturali, ma anche materiali, del monaco o
della comunità. Le biblioteche italo-greche anteriori al secolo XII si deve
credere consistessero perciò in raccolte di libri non ampie. Sono invece i
Normanni - una volta sostituitisi ai Bizantini nell’Italia meridionale e agli
Arabi in Sicilia - che, nel risollevare le sorti economiche dei ceti sociali
italo-greci per farne strumento di stabilizzazione politica, determinano
l’insorgere di poderosi centri monastici di cultura greca; nei quali il libro
viene man mano ad essere considerato patrimonio non solo da produrre e
utilizzare, ma anche da accumulare e conservare. Nel secolo XII, dunque, nel più
largo contesto di rinascita della cultura
scritta
che caratterizza il Mezzogiorno normanno, si formano grandi biblioteche di
manoscritti greci come quelle di Santa Maria del Patir a Rossano
e
del Santissimo Salvatore
de
Lingua Phari
a Messina,
ove libri si producono, talora trascrivendo più volte lo stesso testo
all’interno del monastero (magari pure
su committenza laica)
o anche si acquisiscono
dall’esterno. Un solo esempio:
il
codice Veneto Marc. gr.
179 - manoscritto del tardo
secolo XII
assai noto
perché contiene,
oltre
ad
altre opere giuridiche, il
più antico testo
tràdito
delle
Novelle
greche di
Giustiniano - fu prodotto, a
quanto risulta
dal nome Σινάτωρ
vergato sul
frontespizio, per il μέγας
χριτής
Senatore Maleino,
il
quale ne fece dono al
monastero di Santa Maria del
Patir insieme ad
altri tre
manoscritti, due
libri liturgici e un
Nomocanone (la notizia si
legge a f. IIV del
manoscritto).
Mancando documentazione adeguata, resta
incerta, piuttosto,
la
strutturazione
architettonica, spaziale,
di
scriptorium
e biblioteca nei
monasteri
italo-greci, ma
è
da credere ch’essa -
almeno in età normanna, quando
più
forti divengono le incidenze
occidentali - non
si discostasse sostanzialmente
dai
modelli di organizzazione
della
cultura scritta, quali si sono osservati
nelle
abbazie di tradizione
benedettina.
Nuovi modelli
Il secolo XII segna il momento più intenso ma nel contempo di rottura del
modello di
scriptorium/biblioteca
proprio dell’alto Medioevo, insistito nei suoi momenti paradigmatici su
meccanismi fortemente organici di manifattura tecnico-libraria e di resa
grafica, su un sistema bibliotecario finalizzato non tanto alla fruizione, ma
piuttosto alla salvaguardia del patrimonio scritto, sul rapporto funzionale tra
produzione e conservazione del libro, materializzato di regola nella coincidenza
o contiguità spaziale degli ambienti.
Tale modello risulta
per la prima volta destabilizzato dalla riforma cistercense,
la quale - con il suo
programma di ritorno all’austerità dell’esperienza monastica
primitiva - veniva
a determinare una trasformazione radicale delle funzioni
del monastero
all’interno e nel contesto sociale di riferimento. Già sotto il
profilo architettonico
si assiste alla separazione tra
scriptorium
e biblioteca, giacché
quest’ultima è ridotta
all’origine a nicchia più o meno ampia, incavata nella
parete, affacciata sul
chiostro, fornita di porte, le cui chiavi aveva il
praecentor
o
maestro del coro, il quale
non solo fungeva da bibliotecario, ma aveva anche il
compito di sovrintendere allo
scriptorium.
Sotto quest’ultimo aspetto, quindi,
non si ravvisano sostanziali differenze
rispetto al passato. Lo
scriptorium,
tuttavia,
non costituiva uno spazio
autonomo, ma coincideva, in pratica, con la
sala comune del monastero,
destinata anche ad altre funzioni, o talora risulta
costituito da più
scriptoria
verisimilmente stanzette individuali, intorno al
calefactorium,
il locale in cui i
monaci si riscaldavano durante l’inverno: di qui,
negli
statuti cistercensi, l’avvertenza
‘in omnibus scriptoriis ubicunque ex consuetudine
monachi scribunt, silentium teneatur
sicut in claustro’. Scelta, manifattura,
conservazione dei libri risultano guidati da
criteri
di
‘razionalità’ e
‘funzionalità’.
Il superfluo non trova
posto.
A
proposito
del
tipo di biblioteca
cistercense è
suggestivo ripensare ai libri che
si trovano
‘in
risco parietis’ nelle comunità monastiche primitive. In certi casi, quando i
libri si accrescevano, la biblioteca stessa poteva essere strutturata in più
nicchie o se ne poteva ricavare una seconda dalla sacrestia, come a Fossanova.
Si tratta comunque, ancora una volta, di biblioteca non destinata a spazio di
lettura né, d’altro canto, ad accumulo patrimoniale. La biblioteca cistercense,
anche se di una certa consistenza, contiene solo i libri liturgici e quelli
necessari alle esigenze di lettura dei monaci della comunità, ma una lettura da
farsi altrove, soprattutto nel chiostro, sempre camminando, o anche nella sala
comune. Non libri preziosi o come valore patrimoniale, non autori classici
numerosi: i Cistercensi, infatti, hanno scelto una ‘povertà volontaria’, né
hanno scuole se non al livello più elementare (il figlio di un mercante viene
loro affidato ‘ut patris debita sive commercia stylo disceret annotare’). E
anche la manifattura dei codici è di solito improntata a ‘rigore e nudità’, pur
con differenze e sfumature varie secondo àmbiti geografici, singoli monasteri,
epoche. In Francia, passati ‘i sontuosi deliri con cui Stefano Harding decorava
ancora le pagine della Bibbia’, a partire da san Bernardo si impongono - pur se
con un certo dinamismo di soluzioni secondo epoche e ambienti - manoscritti
sobri, più vicini al dettato degli statuti, caratterizzati perciò da un ornato a
pochi colori e tutto funzionale alle partizioni del testo. Ugualmente, nelle
fondazioni cistercensi in Italia, se pure insorge la tentazione di moduli
decorativi più corposi e vivaci, non si tratta della norma;
e
invero, un posto insolito, se non isolato, occupa in quest’epoca la
cosiddetta
Bibbia di Morimondo del tardo secolo XII, originariamente in
cinque
volumi, ora ridotti
a
tre, conservati a Cambridge, Fitzwilliam Museum, McClean
8, e a
Como,
Seminario
Maggiore, Fondo Morimondo
i e 2. Insomma, anche
se certi statuti nell’uso del colore e dell’ornato furono talora disattesi, non
vi è dubbio che, in generale, i Cistercensi tendono a ridurre all’essenziale la
strutturazione del libro. Esempi tipici in tal senso,
anche nella
varietà dei formati, possono essere considerati i codici più antichi - assai
scarni nella presentazione della pagina - in uso nella badia di Santa Maria
di
Chiaravalle
di
Fiastra, la fondazione cistercense presso Macerata: si tratta dei Vaticani
latini 130, 134 e 579, tutti riferibili al tardo secolo XII e di contenuto
sacro, eseguiti,
a
quanto tutto lascia credere, ‘nella badia stessa, per opera di diversi
scrittori, alcuni dei quali seguivano usi grafici di altra regione’, come del
resto era da aspettarsi in manoscritti prodotti in un insediamento monastico
recente, ancora privo di una qualche tradizione grafica sua propria. Il tipo di
codice in uso nella badia di Fiastra è quello, in pratica, testimoniato nella
più parte dei monasteri cistercensi italiani: un tipo di codice accurato e
severo, vergato in forme grafiche della ‘gotica’, razionale nei modi di
strutturare lo scritto sulla pagina. E dunque lo
scriptorium
non richiedeva un’organizzazione rigida, un raccordo continuo tra gli amanuensi
e tra amanuensi e decoratori (e anzi di solito le funzioni venivano a
coincidere): di qui l’impianto non autonomo dello
scriptorium,
0 anche il suo frantumarsi in più ambienti. Si può documentare, è vero, un
accresciuto numero di manoscritti complessivamente prodotti in
milieux
monastici proprio nel secolo XII, ma il motivo è da cercare non tanto o non
soltanto in una produzione libraria massiccia all’interno di singoli monasteri,
ma piuttosto nel moltiplicarsi delle fondazioni, tanto più ove si tenga conto
che, a quanto risulta da fonti documentarie, intorno a quell’epoca anche
monasteri minori risultano in possesso almeno di qualche libro liturgico. È
peraltro da ribadire che tal fenomeno di accrescimento librario non si mostra in
Italia tanto spiccato quanto nelle regioni d’Oltralpe.
Mancano un'indagine completa e una riflessione adeguata su materiali e
significato della produzione cistercense in Italia; e invece il ‘problema
cistercense' sembra aver costituito lo snodo fondamentale nel mutamento degli
statuti del libro monastico. Tuttavia, le schedature di manoscritti dovute
soprattutto a Jean Leclercq fanno conoscere almeno alcuni fondi e vari aspetti
(inerenti a contenuti o ad origine o a conservazione) del patrimonio italiano. E
qui v’è da notare, innanzi tutto, la relativa povertà del repertorio testuale:
scomparsi o quasi autori classici e manuali scolastici, s'incontrano Sacra
Scrittura, libri liturgici, qualche opera patristica, testi di carattere
istituzionale e scritti di letteratura cistercense. Si può ricostruire in
concreto qualche fondo? Un cospicuo numero di codici ora sparsi in varie
biblioteche permette di avere cognizione dei libri prodotti e conservati
nell'abbazia di Santa Maria di Morimondo, diocesi di Milano, tra i secoli
XII-XIII. Si tratta di manoscritti quasi tutti di quella data (tra i quali i tre
volumi superstiti, già ricordati, di una Bibbia originariamente in cinque), i
più recanti l'ex-libris del monastero e quindi di sicuro a questo appartenuti.
Che tali manoscritti siano stati anche ivi stesso prodotti mostra la loro unità
tecnico-libraria di fondo. E ancora, da un insieme di codici, una trentina,
anch'essi quasi tutti dei secoli XII-XIII, ora conservati nella Biblioteca
Nazionale di Torino, si riesce a ricostruire in qualche modo l'antica biblioteca
dell'abbazia di Santa Maria di Staffarda presso Saluzzo: vi si incontrano libri
di qualità non alta, almeno in confronto a Morimondo, mentre il repertorio dei
testi si mostra, in generale, il medesimo, in pratica quello, già rilevato,
tipico dei monasteri cistercensi. Qualche altro codice può esser riferito,
grazie a note di possesso, alla biblioteca di questa o quell'abbazia (ma
restandone più o meno incerta l'origine); nel complesso, non è molto quel che si
può attribuire su fondamenti sicuri. Va ricordato, almeno, che nel fondo
Sessoriano della Biblioteca Nazionale di Roma si trova - di varia datazione tra
i secoli XI e XIV e di contenuto soprattutto liturgico - un certo numero di
codici ch'erano una volta in monasteri cistercensi; in particolare sono da
menzionare quelli provenienti da San Martino dei Bocci in Val Serena presso
Parma, nonché, di più spiccato interesse, quelli dall'abbazia, passata ai
Cistercensi nel secolo XIII, di San Salvatore a Settimo, diocesi di Firenze:
alcuni tra gli ultimi, come i Sessoriani
4, 5
e 6, risultano o sono indiziati d'essersi conservati più tardi al monastero,
anch'esso cistercense, di Sant'Anastasio o delle Tre Fontane a Roma.
Un discorso più articolato merita - una volta rientrato nei quadri
politico-istituzionali dell'Occidente - il Mezzogiorno già greco e arabo. Qui,
infatti, l’esperienza monastica cistercense venne a seguire di poco la stessa
introduzione di una cultura scritta di lingua latina, dovuta alla conquista
normanna; in particolare in Calabria un ruolo in tal senso giocarono, tra i
secoli XII-XIII, i monasteri di Santa Maria della Sambucina, Sant’Angelo de
Frigilo, San Giovanni in Fiore, con tutto quello che quest’ultimo significò come
punto di riferimento e di irradiazione dell’esempio e dell’opera di Gioacchino
da Fiore; e del resto è dall'esperienza cistercense che scaturirono i modelli e
i monasteri florensi. Ma proprio perché legata alla 'povertà volontaria’ dei
Cistercensi, la produzione libraria monastica di lingua latina, ridotta allo
stretto necessario, non ebbe una forza d’impatto tale da contrapporsi a una
cultura greca sostenuta, nelle sue manifestazioni scritte, da grandi abbazie
come quelle di Santa Maria del Patir a Rossano e del Santissimo Salvatore a
Messina o dai ceti dirigenti a queste strettamente legati. Né, prima dei
Cistercensi, avevano avuto quella forza d’impatto le abbazie benedettine di
fondazione normanna (la Santissima Trinità di Mileto, ad esempio), in un’epoca
nella quale la grande cultura monastica di tradizione benedettino-cluniacense
era ormai al tramonto. Il Mezzogiorno - la Sicilia, ma soprattutto la Calabria e
il Salento - in età normanna (e ancora oltre) resta dunque di cultura
sostanzialmente greca, a quanto mostra la massiccia eredità di manoscritti greci
ch’esso ha lasciato. E invece, di
scriptoria
e biblioteche di cultura latina intorno alla stessa epoca si conservano assai
scarsi (e talora incerti) testimoni di origine monastica (e non); a ragione
quindi, a proposito delle fondazioni calabresi cistercensi e florensi è stato
scritto, quanto a produzione libraria, che 'domina l’oceano del silenzio’. Si
possono citare, tuttavia, alcuni codici che in qualche modo rompono quel
silenzio: la
Regula Benedicti
di Casamari e l’altra della Biblioteca Vaticana, Ottob. lat. 575.1 (ove la
Regula
è preceduta da un
Martirologio),
la miscellanea di letteratura monastica Oxon. Can. Patr. lat. 158, prodotti
all’inizio del secolo XIII, originari i primi con probabilità, l’ultimo
sicuramente, di Santa Maria della Sambucina; e a quest’ultima, inoltre,
è
stato attribuito assai di recente anche il codice 322 della Biblioteca Antoniana
di Padova, testimone importante di opere di Gioacchino da Fiore. Di origine
calabra si devono ritenere, pure, i codici Corsiniano 797 e, in quanto vergati
dalle stesse mani, Vat. Chis. A.VIII.231 e Oxon. Corpus Chr. Coll.
255A,
tutti trascritti nel primo secolo XIII, anch’essi contenenti opere di Gioacchino
da Fiore; controverso resta, invece, un più circoscritto
milieu
di copia, ma non può esservi dubbio che si tratta di codici usciti da una
cerchia florense: il manoscritto corsiniano in particolare risulta appartenuto a
San Giovanni in Fiore.
A determinare nel Medioevo l’ultima, radicale trasformazione negli statuti della
cultura scritta monastica furono gli ordini mendicanti nel corso del secolo
XIII: Domenicani e Francescani (sui quali per certi aspetti si modellarono anche
Agostiniani e Carmelitani). Nei conventi di tali ordini v’erano, si sa,
studia
organizzati e riconosciuti, ai quali era affidato il cómpito di preparare nuove
generazioni di predicatori, teologi e maestri; e ciò avveniva proprio in
un’epoca nella quale in Europa si diffondeva - mediata in buona parte dalla
cultura greco-araba
- tutta una serie di nuove conoscenze filosofiche e
scientifiche, che trovavano il loro momento di organizzazione ed elaborazione
nelle nascenti università. In particolare - a quanto si desume da documentazione
di vario genere, né specificamente italiana – nell’orizzonte ideologico
dell’ordine domenicano (o dei Predicatori) l’attività di studio e quindi
l’istituzione scolastica, gli
studia,
avevano un ruolo
fondamentale, sicché il posto occupato dal libro fin dall’inizio non poteva
essere che assai rilevante e funzionale a quell’orizzonte: "il libro domenicano
è pertanto, essenzialmente, libro 'scolastico’”.
I
Domenicani, infatti, istituivano un nesso obbligato e obbligante tra
predicazione - con tutta la sua carica ereticale e controversistica - e libro
come preciso referente testuale di dottrina. In tal prospettiva, il patrimonio
librario dell’ordine è sostenuto e incoraggiato dai capitoli sia generali sia
provinciali, anche con appositi stanziamenti, tanto che la diligenza stessa di
chi nel convento era preposto alla cura dei libri o all’opera degli
scriptores,
spesso esterni, si misurava dall’incremento dei libri. I quali, tuttavia, in
molti conventi erano opera più di scribi assunti al di fuori dell’ordine
('visiting scribes’, secondo la felice espressione di Kenneth W. Humphreys) che
dei frati, pur se alcuni di questi si dedicavano talora alla manifattura
libraria. Ma negli ordini mendicanti, in particolare tra i Domenicani, vi fu
sempre un’avversione di fondo verso il lavoro di trascrizione, considerato, in
termini di tempo, una sottrazione all’attività intellettuale e all’opera
spirituale da svolgere. Qualsiasi incremento librario, comunque, risulta lungi
dall’intento di accumulazione che pervade le signorie monastiche benedettine
fino al secolo XII, inquadrandosi, invece, nell’esigenza di fornire strumenti
adeguati all’attività di studio, intesa come momento stesso qualificante
dell’ideologia dell'ordine. Studenti e predicatori, quando non li ricevevano in
dono, venivano riforniti dei libri necessari dai superiori. Si rifiutano,
quindi, la
pretiositas,
la
nimia
pulchritudo
e la
nimia
multitudo
dei libri a favore della loro
utilitas,
la quale non poteva essere
scissa dalla
legibilitas
e
dall’emendatio,
vale a dire da un testo
scritto con cura e verificato criticamente (ma, più in generale, va detto che,
presso l’ordine domenicano, sempre assai vigile fu, non solo sotto il profilo
critico ma anche sotto l’altro dottrinale, il controllo su chi trascriveva i
testi e su quanto veniva trascritto). Di qui anche la 'razionalizzazione’, per
così dire, della stessa attività scrittoria e bibliotecaria, tesa non a
moltiplicare e/o accumulare indiscriminatamente libri/testi, ma ad acquisire,
tramite trascrizioni, acquisti, informazioni, scambi, soltanto quel che era
necessario.
Invece, nell’orizzonte ideologico dell’ordine francescano (o dei frati Minori),
inizialmente il libro è considerato, se letto, strumento di edificazione, e, se
trascritto, opera manuale (si tratta, in pratica, della medesima posizione, pur
se diversi ne saranno gli esiti, del primo monachesimo); altrimenti il libro
stesso è visto con sospetto, sia perché il voto di povertà ne teme il valore,
sia perché la predicazione dei Francescani è guidata non dalla dottrina ma
dall’esempio. Si tramanda - 'idea di spartizione comune al suo limite estremo’ -
che un codice del Nuovo Testamento, capitato nelle mani di un frate, fu slegato
e spartito fra tutti perché anche
gli altri ne fruissero! L’accettazione del libro risulta dunque sofferta, né
avviene senza polemiche, ma gli esiti finali non si discostano sostanzialmente
da quelli domenicani, giacché, una volta che alle prime comunità venne a
sostituirsi un ordine organizzato e
'letterato’,
s’ebbe nei conventi francescani tutto un insorgere di scuole e di libri, pur se
questi non giunsero mai a costituire, come presso l’ordine domenicano, il
fondamento obbligato del programma da svolgere. Quanto ai libri dei conventi
francescani, v’erano frati che li scrivevano per loro uso o per denaro (ma da
impiegare a favore della comunità), o anche ne acquistavano, giacché era
consentito ricevere a tale scopo doni o lasciti; altri frati se li facevano
trascrivere da amanuensi di professione. I libri comunque sono sempre intesi
come strumenti d’uso, mai come oggetti di possesso (tanto meno individuale) o di
accumulo; il loro incremento, come nella concezione domenicana, si giustifica
solo nella prospettiva di una ricerca e di una disponibilità di testi necessari.
D’altra parte, ad accrescere certe biblioteche erano anche donazioni e lasciti;
e qui non si possono non ricordare almeno il cardinale Matteo d’Acquasparta, che
nel 1287 donava metà dei suoi libri al convento dei Minori di San Fortunato di
Todi e metà al convento di San Francesco di Assisi, o l’altro cardinale,
Bentivegna Bentivegni, che nel medesimo torno di tempo lasciava in eredità
volumi numerosissimi allo stesso convento di San Fortunato di Todi.
Da tutto il precedente discorso si desume che gli ordini mendicanti non avevano
veri e propri
scriptoria
conventuali, situati in spazi architettonici definiti e rigorosamente
organizzati, anche se all’interno dei conventi stessi gravitava una sicura
attività scrittoria. Si tratta di una prima ‘rivoluzione’, che va assai oltre la
prima scarnificazione della struttura dello
scriptorium
operata dai Cistercensi. Ma sono le biblioteche che rappresentano il fatto più
innovativo, collegato proprio a quell’esigenza di appropriazione del testo,
quasi sconosciuta ai meccanismi di lettura dell’alto Medioevo, ma che insorge
grazie a una più generale rinascita della cultura scritta a partire già dal
secolo XII, ma soprattutto nei secoli XIII e XIV, ‘in conseguenza di accresciute
esigenze culturali, dello svilupparsi delle grandi scuole universitarie e del
formarsi di un più largo pubblico di persone colte 0 alfabetizzate’. E dunque,
‘proprio nell’àmbito degli ordini mendicanti, e nell’ultimo quarto del XIII
secolo, nacque un nuovo modello di biblioteca religiosa, destinato a larga
fortuna per più secoli; quello della biblioteca di consultazione con i libri
incatenati ai banchi di lettura’ ; un modello di biblioteca di solito
costituita, sotto il profilo architettonico, ‘da un’aula oblunga, occupata nelle
due navate laterali da due serie di banchi in più file parallele e percorsa al
centro da un corridoio vuoto’: una biblioteca, dunque, che escludeva, ormai,
l’archivio e che veniva (o tornava, se si pensa alle biblioteche fino alla tarda
antichità) ad essere il luogo non più soltanto della conservazione dei libri, ma
anche (almeno in parte)... della loro lettura’. Ne consegue, pure, la
trasformazione del catalogo, che da semplice inventario, fatto soprattutto per
documentare la proprietà di beni, diventa man mano strumento di consultazione
finalizzato a segnalare la collocazione dei libri in una determinata biblioteca
o area geografica.
Sempre in quest'epoca entra in uso il
memoriale,
una scheda sulla quale venivano segnati dal bibliotecario i volumi in prestito.
Che i libri stessi si trovassero non solo nella biblioteca ma anche nella
sacrestia o nel refettorio è fatto non nuovo e tradizionale delle istituzioni
monastiche; va piuttosto rilevata, invece, un'altra innovazione: oltre alla
biblioteca di consultazione qui descritta, v'era, infatti, una biblioteca detta
‘segreta’
perché chiusa in armadi, più fornita dell'altra e destinata al prestito, perciò
detta pure
‘circolante’.
Questa distinzione
è
notevolissima, giacché
implicante precisi criteri di selezione per quanto concerne i libri/testi da
banco, i quali erano funzionali, dunque, agli scritti ritenuti più necessari
agli
studia
e quindi, in quanto più letti, da rendere continuamente e immediatamente
disponibili. Quali esempi del rapporto numerico tra biblioteca di consultazione
e biblioteca segreta, destinata al prestito, si possono citare San Francesco in
Pisa o lo stesso Sacro Convento di Assisi: a quanto risulta da inventari, il
primo, nel 1355 possedeva 86 volumi
‘ligati
in cathenis’ e 291
‘extra
cathenas’; l’altro, nel 1381, disponeva di 181 volumi incatenati, senza
esemplari doppi, e di 537 destinati alla
‘circolazione’,
con testi in più copie, conservati in due grandi armadi suddivisi in palchetti.
Quello operato dagli ordini
mendicanti era un vero e proprio rovesciamento nel rapporto tra le diverse
articolazioni della cultura scritta all’interno della comunità monastica. Nelle
abbazie benedettine dell’alto Medioevo contava
scrivere
i libri; di qui una biblioteca non di lettura, ma tutta funzionale a uno
scriptorium
rigorosamente organizzato e perciò sostanzialmente incrementata dalla produzione
di quest’ultimo: una biblioteca, perciò, di conservazione di libri intesi più
come valore che come strumenti (e di qui, pure, il ruolo affatto secondario
della lettura). Nei conventi degli ordini mendicanti, contava, di contro,
leggere
i libri; di qui una
biblioteca articolata in una sezione aperta alla pubblica consultazione e in un
deposito finalizzato al prestito, ma in ogni caso incrementata da libri di
diversa origine - acquistati, fatti ricopiare, scambiati solo se utili - e, ove
prodotti all’interno dello stesso monastero, trascritti non in uno
scriptorium
definito come spazio e come
struttura organizzata, ma per iniziativa individuale (anche se controllata) o,
spesso, ad opera di
scriptores
esterni. E proprio al fine di rendere agevole la fruizione della pagina, in
quest’epoca scritta normalmente in
‘gotica’,
nei libri degli ordini mendicanti viene sistematicamente adoperata tutta una
serie di tecniche ausiliarie di lettura e di consultazione: titoli dei capitoli
in rosso, rigorosa organizzazione dello spazio scritto fra testo e commento,
rimandi interni variamente segnalati, distinzione tra iniziali maggiori e
minori, alternanze di inchiostri di colore diverso nel tracciato delle iniziali
stesse, indicazioni di paragrafo, sottolineatura delle citazioni e relativo
richiamo in margine dell’autore, indici. Si tratta, come nel caso della
biblioteca, di una
‘razionalizzazione’
del libro, già iniziata dai Cistercensi, ma che gli ordini mendicanti portano
alla forma più compiuta.
Di quali libri disponevano,
grosso modo, le biblioteche domenicane e francescane
nel complesso delle loro articolazioni? Pur con certe differenze inerenti ai
caratteri specifici di ciascun ordine qui rilevati, non mancavano libri
liturgici, sia di carattere ‘monumentale‘, quali messali o antifonari, sia
destinati alla lettura individuale, come breviari; anche la Sacra Scrittura e i
relativi commentari vi avevano, ovviamente, un adeguato posto, soprattutto
presso i Domenicani; e invece di solito si contano scarsi testi patristici, una
volta pilastro della formazione monastica; v’erano, com’è da aspettarsi,
raccolte di prediche e gli scritti dei fondatori e dei grandi dell’ordine (e qui
vanno segnalati - oltre al codice più antico degli scritti di san Francesco, ora
alla Biblioteca Comunale di Assisi, ms. 338 - alcuni autografi del santo),
nonché quanto sera tramandato in ‘leggende‘ o ‘biografie‘ sulla storia
dell’ordine stesso e dei suoi protagonisti; infine, v’era la serie di libri che
‘ricostruiscono le linee portanti dell’universo del sapere del XIII e XIV
secolo‘, contenenti le
auctoritates
riconosciute e ‘approvate: da Prisciano a Uguccione da Pisa per gli
studia grammaticalia;
da Aristotele ai suoi commentatori antichi e medievali, a Boezio e fino a Pietro
Ispano per gli
studia logicalia,
dagli scritti di Pietro Lombardo e di Pietro Comestore ai ‘maestri‘ di ciascun
ordine per gli
studia theologica,
posti al ‘culmine della gerarchia dei libri e delle scienze‘.
Sono questi autori e opere in varia misura testimoniati nelle biblioteche, già
ricordate, del Sacro Convento di Assisi, di San Fortunato a Todi, di San
Francesco in Pisa, o ancora nei conventi minoritici di Santa Croce a Firenze e
del Santo a Padova. Altro discorso, invece, meritano gli autori della
letteratura classica: questi, in verità, risultano rappresentati raramente e
solo in numero di copie scarso nelle biblioteche degli ordini mendicanti, i
quali, si sa, furono vettori di cultura ‘scolastica‘, assai meno di testi
antichi; s’incontrano, tuttavia, Svetonio, Solino, Servio, Eutropio nella
biblioteca francescana di Santa Croce a Firenze; Seneca,
ad Lucilium,
nel convento di San Francesco di Fabriano; Sallustio, Cesare, Giustino,
Claudiano, Macrobio, qualche commedia di Terenzio e qualche scritto di Cicerone,
oltre, ancora una volta, a Svetonio, Seneca e forse Solino nella biblioteca di
San Francesco in Pisa (ma nella sezione ‘circolante‘, non in quella ‘incatenata‘
e di consultazione, giacché non si trattava, evidentemente, di testi di
letteratura corrente). A quanto ha scritto Joseph de Ghellinck, ‘les anciennes
abbayes, fondées à une époque plus proche de la période antique et de l’ère
patristique, avaient eu davantage le souci et le moyen de réunir en bon nombre
les écrits d’auteurs classiques ou chrétiens, devenus ensuite extraordinairement
rares.
Au XIIIe siède, les circostances et, avec elles, les goûts et les
préoccupations qui président au choix des livres, ont notablement changé‘.
Quando si pensi ai conventi degli ordini mendicanti e alla funzione da essi
svolta negli statuti della cultura scritta, del tutto anacronistici risultano
ormai
scriptoria
e biblioteche di antica tradizione benedettina o italo-greca. I monasteri greci
in particolare si trovarono a operare, sempre più isolati, in un contesto di
cultura latina che finì prima o poi per destrutturarne l’identità: tra di essi è
d’obbligo, ancora una volta, il riferimento al Santissimo Salvatore
de Lingua Phari
in Sicilia,
a Santa Maria del Patir in Calabria, a San Nilo di Grottaferrata alle porte di
Roma, e, di più recente fioritura e culturalmente vivace almeno in età sveva, a
San Nicola di Casole in Terra d’Otranto. Talora si notano certi sforzi
di
adeguamento alla nuova
temperie culturale (nel tardo secolo XIII Nicola
d’Oria
trascrive al Santissimo
Salvatore di Messina una serie di testi aristotelici per
lo
skeuophylax
Giacomo, e opere di Aristotele circolavano anche a San
Nicola
di Casole), ma si tratta di
sforzi senza storia, giacché i monasteri italo-greci erano rimasti
sostanzialmente legati a modelli di produzione e organizzazione
della
cultura scritta ormai desueti.
L'itinerario storico e
geografico qui seguito, è partito dalle zone eccentriche del Mediterraneo, ove
il monachesimo - dopo la rottura con quella ch’era stata l’organizzazione della
cultura scritta dell’antichità, non solo classica ma anche cristiana - comincia
a ricreare, su fondamenti nuovi, i suoi spazi di produzione libraria, senza
alcun meditato intento di possesso e di incremento: si tratta, in pratica, di
uno, sia pure umbratile,
scriptorium senza biblioteca.
Man mano, tuttavia, che
quella produzione si accresce e che i monasteri assumono un rilevante ruolo
politico economico sociale, il possesso dei libri diviene immagine restituita di
prestigio culturale e patrimoniale: di qui la biblioteca di conservazione, non
di lettura, continuamente alimentata dallo
scriptorium,
a sua volta insistito nel
medesimo spazio o ad essa contiguo o collegato, esito al quale giungono le
fondazioni benedettine, e che costituisce il modello di cultura scritta unitaria
- rientrandovi anche l’archivio e le testimonianze documentarie - per tutto
l’alto Medioevo, fino al secolo XII. Ma proprio nel corso di quest’ultimo la
riforma cistercense irrompe con tutta la forza del suo rigore, destabilizzando
quel modello col ridurne all’essenziale le strutture portanti e col separare lo
scriptorium
dalla biblioteca. Il passo
ulteriore compiuto dagli ordini mendicanti è la
biblioteca
senza
scriptorium,
vale a dire la soppressione
stessa di uno spazio fisico specificamente organizzato per l’attività di
trascrizione o almeno anche a questa funzionale, e, nel contempo, la
ristrutturazione e l’esaltazione della biblioteca come luogo di lettura sia
all’interno del convento sia come referente di un circuito librario. Era questo
il modello destinato a trionfare, nonostante (o forse proprio per) il controllo
esercitato su consultazione, titoli, acquisti, scambi, prestiti dei libri. Alle
antiche biblioteche di tradizione benedettina non restava che consegnare la loro
eredità agli umanisti; i quali, nel recarsi a cercarne i tesori di libri e di
testi, le trovavano sempre più incolte e desolate.
... e la regola mia
rimasa è per danno delle
carte.
Le mura che solìeno esser
badia
fatte sono spelonche, e le
cocolle
sacca son piene di farina
ria.
Sono parole che esprimono la santa indignazione di san Benedetto nel canto XXII (vv. 74-78) del Paradiso di Dante.
(N.
d. r.: San Benedetto dichiara che al giorno d'oggi la sua Regola serve solo a
sciupare le carte su cui è scritta. I monasteri benedettini, un tempo pieni di
anime sante, sono ora diventati delle spelonche e le tonache dei frati sono
sacchi pieni di farina guasta).
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23 agosto 2020 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net