Regola di S. Benedetto

 

Capitolo IV - Gli strumenti delle buone opere:  "
55 -Ascoltare volentieri la lettura della parola di Dio,..."

Capitolo XLVIII - Il lavoro quotidiano:
1  -
L'ozio è nemico dell'anima, perciò i monaci devono dedicarsi al lavoro in determinate ore e in altre, pure prestabilite, allo studio della parola di Dio. .....  
4 -
dalle 9 fino all'ora di Sesta si dedichino allo studio della parola di Dio.  
10 -
Dal 14 settembre, poi, fino al principio della Quaresima, si applichino allo studio fino alle 9,... 
13 -
Dopo il pranzo si dedichino alla lettura personale o allo studio dei salmi.  
14 -
Durante la Quaresima leggano dall'alba fino alle 9 inoltrate e poi lavorino in conformità agli ordini ricevuti fino verso le 4 pomeridiane. 
22 -
Anche alla domenica si dedichino tutti allo studio della parola di Dio, a eccezione di quelli destinati ai vari servizi."


 

Scriptura crescit cum legente:

porterà frutti a suo tempo

Lorenzo Saraceno O.S.B. Cam.

Estratto da “Vita monastica”, Anno LV, n. 218

Edizioni Camaldoli 2001

 

 

1. Scriptura crescit cum legente

 

Siamo portati a leggere la nostra condizione di uomini (e dunque anche di uomini credenti) come un percorso nel tempo per essere riscattati dal tempo: dal tempo all'eternità, oppure dal tempo al nulla. In una prospettiva di fede, ci sembra che ciò che ci avvicina di più all'eterno consista in una sorta di «uscita dal tempo» più o meno «duratura» (se mi si perdona il bisticcio voluto), a cui magari diamo il nome di contemplazione. E del resto, anche in ambito profano, che cos'è il «tempo ritrovato» (il tempo che diventa memoria e durata) proustiano o bergsoniano, se non un tempo con cui ci siamo riconciliati perché ce ne siamo in qualche modo liberati, che non ci tiranneggi o non ci angosci, quale ne sia il motivo o il processo con cui si sia giunti a questo momento felice? Un tempo comunque che si teme o ci angustia, tanto più in questa modernità che ci allunga i tempi della vita e ci restringe quelli in cui maturare e assumere in proprio gli atti e gli atteggiamenti su cui costruire la vita: è quanto più descrittivamente ci pare di sperimentare, quando osserviamo che forse abbiamo più «tempo libero», ma meno tempo per riflettere e per decidere, vuoi perché si proroga sempre più il momento delle scelte di vita e della responsabilità matura, vuoi perché si dilata il tempo della vecchiaia che spesso colloca le persone in una sorta di limbo in cui il problema diventa come occupare il tempo.

Non è certo mio intendimento entrare nelle pieghe filosofi- che e letterarie di queste tematiche; vorrei solo osservare che l'esperienza di fede dell'uomo biblico può consentire, alla scuola e all'ascolto della Scrittura, non di riscattarci dal tempo, ma di riscattare il tempo (che è sempre, come insegnava D. Benedetto Calati, historia salutis [1]).

«Beato l'uomo... / che si compiace della legge del Signore, / la sua legge medita giorno e notte... / che darà frutto a suo tempo» (Sal 1). «A suo tempo»: è un tempo di cui noi siamo soltanto parzialmente padroni, ma anche un tempo che ci è dato, solo per noi, il tempo che diventa kairós. Un tempo che non si conclude, almeno nell'orizzonte della nostra esperienza di vita cosciente, e che non è quasi mai lineare, come pure vorremmo per poterne dominare il senso, ma cui è legata la promessa di un frutto, non oltre il tempo, ma nel suo tempo (nei LXX kairós), cui è promessa una crescita («come albero piantato lungo corsi d'acqua»), una fecondità: la condizione è meditare la parola del Signore giorno e notte, farla entrare nello scorrere del vissuto quotidiano. Riformulando in linguaggio monastico e spirituale: è l'itinerario della lectio divina.

Scriptum crescit cum legente: l'adagio patristico, tanto caro a Benedetto Calati nella comprensione che ce ne fornisce Gregorio Magno [2], esprime una peculiarità spirituale della lectio divina, che mi pare anche da questo punto di vista stimolante nel prospettare la lettura della Parola di Dio (dell'Eterno che si fa Parola, del divino che si fa umano), come lettura nel tempo: è implicito sia nel valore semantico del crescit, sia nella forma grammaticale del participio presente, che rimanda allo scorrere del tempo, del legente. Il circolo ermeneutico cui la formula allude indica fondamentalmente un processo: se la Scrittura, per essere viva ed efficace, suppone un lettore (ed è un rischio che Dio corre investendo sull'uomo), il lettore, per crescere nella fede, deve supporre la Scrittura (ed è un atto di affidamento, una uscita dall'autoreferenzialità che l'uomo è chiamato a porre); ma questo avviene in un tempo, nel quale e grazie al quale appunto il credente lettore e la Parola si trovano a crescere.

In questa prospettiva Parola e tempo sono inscindibili. All'atto della creazione, prima della Parola, penso, c'era il silenzio, e il nulla, o il caos (nel loro carattere indistinto, per quanto non coincidano, sono simili). Dio disse... e ha creato anche il tempo (che è dunque «cosa molto buona»): che significa anche un ordine, una misura e un processo, come possiamo intendere nel segno dei sette giorni. Oltre la parola ci sarà forse un nuovo silenzio? O forse un ascolto della Parola che è alla destra di Dio divenuta anche nostra parola, fattasi anche nostra carne, perciò senza più bisogno di interpretazione? Ma ciò che sta in mezzo è il tempo della parola, dell'ascolto e della lettura, della comprensione e dell'interpretazione.

Il tempo della lettura è il tempo della pazienza, dello studio faticoso, tra luci ed ombre, dei passi avanti e dei passi indietro, dell'andare a tastoni, è il tempo dell'interrogazione e il tempo dell'ascolto, nella ricerca di capire e nell'invocazione dell'intelligenza delle Scritture. È tempo del rischio, perché ogni coinvolgimento che renda attuale la Parola di Dio, ogni momento di «incarnazione» del Verbo in una interpretazione implica inevitabilmente un tasso di oscurità, di impurità, di equivoco possibile. Ma è anche tempo in cui il seme, se muore e rimane solo in un terreno accogliente, mette radici, porta frutto, frutti di conversione.

Scriveva il Cardinal Martini presentando la Cattedra dei noti credenti dell'ottobre 2000, dedicata al problema del tempo: «Questa lettura del tempo e della storia come cammino, come itinerario, deve essere custodita contro la tentazione di tornare a concezioni fatalistiche e ripetitive del tempo» [3]. Ma non possiamo dimenticare che tra i più sconsolati assertori della circolarità del tempo, di un tempo che non sembra sapersi o potersi riscattare, c'è proprio uno dei libri della Scrittura più inquietanti, quello di Qoèlet: Nulla di nuovo sotto il sole... È vero, il tempo circolare è paralizzante, non può produrre tempi di conversione, accelerazioni alla storia; ma il libro di Qoèlet ci richiama, per lo meno, a non esorcizzare questa percezione della circolarità del tempo, che è coscienza della persistenza del male e della vanità di tanti nostri inizi di conversione, di tanti frantumi di un tempo perduto inutilmente, di tanti velleitarismi: ai nostri occhi, alla nostra sapienza, il tempo appare veramente circolare. È la Scrittura, per il cristiano, che consente, di uscire dalla morsa di questa percezione, come fiume che bagna l'albero piantato sulle sue rive, per renderlo fecondo.

 

2. Emmaus «icona» della lectio divina

Potremmo assumere emblematicamente, come icona di questo cammino di lettura nel tempo che è anche lettura del tempo la vicenda dei discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35), quei discepoli che tornavano a casa delusi finché non hanno incontrato quel viandante che si è fatto loro incontro dapprima dicendo: Tardi di cuore nel credere!; e poi conducendoli pazientemente all'intelligenza delle Scritture. Assumere questa pagina come «icona della lectio divina» mi sembra anche oggettivamente plausibile: è di fatto la prima lectio divina in senso cristiano [4], nel cuore del mistero della Pasqua di Risurrezione: qui Gesù è l'interprete delle Scritture, il soggetto dell'interpretazione, e Gesù è colui che viene interpretato, l'oggetto della spiegazione. Nell'aggettivo divina (cioè «di Dio»), come insegnavano i Padri, dobbiamo vedere sia il genitivo soggettivo (Dio che legge), sia quello oggettivo (Dio che è letto, come Parola); qui Gesù è colui che legge e Gesù è colui che è letto.

Sottopongo all'attenzione alcuni tratti che mi sembrano significativi nell'ottica che sto proponendo, secondo diverse strategie di lettura [5].

 

Lettura drammatica [6]: le scene della narrazione

 

Possiamo individuare cinque scene, o sequenze narrative:

1) Il ritorno a casa deluso dei discepoli (vv. 13-24): essi conoscono le Scritture, hanno conosciuto bene Gesù stesso e gli eventi di cui è stato protagonista, nella loro successione, fino alla tomba vuota, fino all'annuncio delle Risurrezione fatto alle donne, ma tutto resta per loro privo di senso, muto, come ciechi sono quegli occhi (v. 16): ma lui non l’hanno visto (v. 24).

Si potrebbe leggere questa come la condizione della vita nella storia non illuminata dalla fede, la condizione di una lettura non «spirituale» della Scrittura, dove spirituale non è in opposizione a esegetica-scientifica, anzi è opportuno che ne sia il presupposto, ma è appunto «nello Spirito».

 

2. Il cammino accompagnati dal viandante, in suo ascolto mentre spiega loro il senso degli eventi mediante la chiave interpretativa delle stesse Scritture (Scriptum sui ipsius interpres) (vv. 25-27). Il viandante legge gli eventi e legge la Scrittura, facendo interferire storia e Scrittura. Gli occhi però non sono ancora aperti al riconoscimento. La lettura, l'ascolto non sono ancora la fede, ma solo la premessa (fides ex auditu: la formula esprime una connessione, ma anche una successione).

Potremmo individuare questa scena come il momento della lectio e della meditatio, oppure, per riprendere una famosa formula di K. Barth, «Bibbia e giornale». Personalmente convengo con J. Dupont nel pensare che i due momenti, la lettura della Scrittura in atteggiamento di ricerca e di ascolto (lectio) e il confronto con il tempo dell'oggi (meditatio) non siano da vedere come una gradazione in successione, ma da pensare come due facce tra loro complementari di questa ricerca di senso e di fede[7], di intelligenza e di grazia.

 

3) Una sosta brevissima, ma essenziale (perché è già in qualche modo risposta in sintonia con il rimprovero iniziale: Sciocchi e tardi di cuore nel credere!): Resta con noi! (vv. 28-29). È il percepire che colui che ci si offre come interprete ci riguarda, che ne abbiamo bisogno.

È il momento della oratio, perché una lettura nello Spirito è dono di grazia, ma suppone la nostra invocazione e la nostra accoglienza; invocare, meglio, è il vero disporsi ad accogliere non a partire da noi, ma rivolti all'ospite.

 

4) L'evento di grazia del riconoscimento: si aprono gli occhi e il senso si apre in pienezza (vv. 30-32): quel segno eucaristico è anche il segno in cui siamo chiamati a riconoscere chi è colui che spezza il pane della Parola.

È il momento della contemplatio (non ardeva il nostro cuore?), della gioiosa scoperta che in quella spiegazione già c'era una presenza, che quella presenza accolta lungo il cammino era già la spiegazione.

 

5) Il ritorno gioioso a Gerusalemme per annunciare e testimoniare la risurrezione (vv. 33-35).

È il momento dell'actio, come frutto del percorso precedente; e tra l'altro potremmo notare che il punto d'arrivo non è la contemplazione, ma la testimonianza e la confessione di fede, anche se il momento del riconoscimento resta il punto di concentrazione della tensione di tutto il racconto [8].

 

Lettura drammatica: i tempi della narrazione

Possiamo individuare tre tempi, due dinamici (l'allontanamento e il ritorno), e al centro uno statico. Ma è forse altrettanto evidente come ci sia un procedere lento (lunga esposizione dei fatti, paziente spiegazione del viandante) verso il centro drammatico del testo, che è la sosta a Emmaus, e per converso una rapida corsa all'indietro (partirono senza indugio).

Al centro questo momento di preghiera, di invocazione, di celebrazione, e di rivelazione, ed è come se il tempo si fermasse. Tutto qui è veramente la risposta a quella invocazione di restare: quelle Scritture, ormai illuminate di senso, a partire dalle quali il cuore si è infiammato di energia nuova, diventano il luogo del rimanere di Gesù nella vita dei suoi discepoli.

 

La circolarità della narrazione

Sono numerosi i lettori colpiti dalla struttura circolare del brano[9], e qualche traccia è già desumibile dalle note che precedono. Richiamo qui gli elementi testuali di maggior evidenza:

- agli occhi chiusi dell'inizio (v. 16) corrispondono gli occhi aperti della fede (v. 31).

- all'allontanamento iniziale da Gerusalemme corrisponde il finale ritorno a Gerusalemme; e sappiamo bene quanto sia importante per Luca la centralità di Gerusalemme, narrativa e teologica.

- la scena di Emmaus, da questo punto di vista resta sempre il centro [10].

Osservo inoltre come da un senso di circolarità passiva (i discepoli tornano a casa delusi: nulla è cambiato, ci si era illusi, tutto ricomincia dal punto di partenza), si passa a una circolarità attiva, dinamica di questo ritorno al discepolato e alla testimonianza.

 

Il contesto: una progressione

Possiamo osservare che il tema delle Scritture interpretate da Gesù è presente in tutte e tre le scene di risurrezione raccontate da Luca, ma in progressione [11]:

- alle donne è richiamato come solo Gesù può spiegare l'evento della risurrezione: Ricordatevi come vi parlò quando era ancora in Galilea... Ed esse si ricordarono delle sue parole (Lc 24,6.8, cfr. Lc 9,22). Ma questo non produce ancora un senso e una fede nei discepoli, che non possono vedere con gli occhi della fede: Quelle parole parvero loro come un vaneggiamento e non credettero ad esse (v. 11).

- verso Emmaus Gesù stesso spiega le Scritture, e solo alla fine si apre al riconoscimento. Infine i discepoli vedono, ma questa è la conclusione di un tempo, di un itinerario, di una lectio appunto.

- Nel cenacolo i discepoli vedono, riconoscono, ma ne restano turbati, finché Gesù stesso non aprirà loro il senso delle Scritture, e allora il turbamento si muterà in gioia (vv. 36-40).

Anche da questo punto di vista l'episodio di Emmaus si trova a un centro: è la situazione «feriale», in cui dover trovare il bandolo, un senso, le motivazioni della fede contro l'usura del tempo, in questo faticoso percorso dall'oscurità alla luce, in cui pazientemente imparare, alla scuola della Parola, a come vivere questo tempo come storia di salvezza, occasione della fede, esperienza ed occasione dell'evangelo, di una buona notizia per noi e per il mondo.

 

3. Tempo e contemplazione

Certo, questo tempo è teso a un rimanere: resta con noi Signore! Il termine greco qui usato è menein, rimanere, che è espressione caratteristica di Giovanni per indicare una peculiarità del rapporto di Gesù con il Padre e di Gesù con i discepoli, ed è il carisma del discepolo prediletto, e con lui di ogni discepolo (cfr. per esempio, Gv 1, 38-39; 21,22, e cfr. Mc 3,14); tende ad un vacare Deo, una sorta di astrazione dallo scorrere del tempo, una scintilla di eternità. Ma chi resta, in realtà, è proprio lui, che si fa viandante nel nostro cammino, accompagnandoci nel tempo con la sua parola, facendoci crescere all'intelligenza del mistero. Quanto a noi, il «rimanere» è un frammento, il sentirsi bruciare da questa parola che improvvisamente si apre a un senso di vita, il frutto appunto della conversione: non ardeva il nostro cuore? E a quel punto si ritorna a Gerusalemme, si riprende un cammino che va verso i fratelli e verso il mondo. È anche l'esperienza di Maria di Magdala nel giardino della risurrezione, che, appena riconosce il suo Maestro, subito deve lasciarlo andare, ma con la forza e la dolcezza di quell'incontro- riconoscimento folgorante può correre ad annunziare: Ho visto il Signore! (Gv 20,18). Il tempo dell'intelligenza è lento, quello della conversione è brevissimo, è una corsa appassionata verso nuovi confini, che comunque richiede poi nuovi tempi di pazienza, di crescita, di morti e rinascite. Infine, per noi il rimanere è anche quel paziente e fedele esercizio della memoria, che anch'essa si alimenta del leggere e ripetere la Scrittura (la ruminatio?).

E per tornare al discorso da cui mi ero mosso: che cosa altro è la contemplazione per noi oggi, che siamo al di qua dell'eternità, se non porre dei passi, per quanto parziali, di conversione? Non uscire dal tempo (il come è bello per noi stare qui... facciamo tre tende di Pietro sul monte della Trasfigurazione non è anche una falsa concezione della contemplazione, l'ingenuo tentativo di fermare il tempo, l'illusione di una scorciatoia che consenta di evadere dalla necessità di un tempo di fatiche e di scelte?), ma accoglierlo come punto di una nuova partenza, convertirlo, a partire dalla nostra stessa conversione, sempre incipiente e pur sempre fragile: il tempo scoperto come nostro kairós, e noi stessi kairós di un tempo nuovo. O forse contemplazione è anche il tempo interiorizzato nella memoria: non ardeva il nostro cuore?. Penso a Giacobbe, che solo dopo il risveglio dal sonno dice: Questa è proprio la casa di Dio (ancora il rimanere, se la casa è il luogo della stabilità lungo un tempo) e io non lo sapevo! (Gen 28,18): la memoria di un incontro certamente vissuto, la quale tuttavia solo dopo, a distanza, ne fa cogliere il vero senso e sa costruire una presenza, una persistenza diversa, in forza delle quali oggi (l'oggi caro a Luca!) porre atti di vita e testimonianze di fede.

Ciò ci può aprire a una vita nel tempo percepita non più solo come fatica e condanna, ma come rendimento di grazie, come attualizzazione e memoriale di una presenza che comunque e dovunque (anche quando ci giudica) ci dà speranza e gioia pur nella modestia della nostra esistenza. Penso che solo nella prospettiva di una vita vissuta nella ruminatio della Scrittura, come memoria Dei, si possa intendere questa provocazione di un padre del deserto: «Il padre Sisoes disse a un fratello: "Come va?" Egli disse: "Padre, perdo le giornate". E l'anziano: "Anche quando ho perso la giornata, io ringrazio"» [12].

«Gli anni della nostra vita sono settanta, / ottanta per i più robusti, / ma sono quasi tutti fatica, dolore; / passano presto e noi ci dileguiamo... / Insegnaci a contare i nostri giorni / e giungeremo alla sapienza del cuore» (Sal 90 (89),10.12). Contare è dare una successione, un ordine, una progressione (come Dio nella creazione), dunque una prospettiva, è non farsi vincere dalla vanità, dal ripetitivo. E così la fedeltà paziente alla Scrittura letta e ascoltata come ermeneuta della mia e nostra vita può condurre a scoprire qualcosa che duri, radicandosi e crescendo, nello scorrere inesorabile del tempo.

 


[1] Cfr. il suo noto articolo del 1959 Historia salutis: saggio di una metodologia della spiritualità monastica, ora reperibile in B. CALATI, Sapienza monastica, Roma 1994, pp. 69-101.

[2] Cf. GREGORIO MAGNO, Commento morale a Giobbe, XX,1, Roma 1997, p. 87.

[3] C.M. MARTINI, «Corriere della sera», 29.10.2000.

[4] Parallelo significativo e per molti aspetti esplicito, anche se meno completo da questo punto di vista, è l'episodio di Filippo con l'eunuco in At 8,26-40.

[5] Segnalerò in nota gli studi esegetici di cui mi sono più direttamente, seppur liberamente, avvalso. Per uno status quaestionis delle interpretazioni di questa pagina evangelica basti il rimando J. DUPONT, Les disciples d'Emmaus, in ID., Études sur les Évangiles synoptiques, Leuven 1988, pp. 1153-1171.

[6] Mutuo il termine e, parzialmente, il metodo di approccio dal citato studio di J. Dupont, pp. 1171-1179; cfr. dello stesso anche Les pélerins d'Emmaus (Lc 24- 13-35), cit., pp. 1123-1152.

[7] Cfr. J. DUPONT, Riflessioni di un esegeta sulla lectio divina nella vita del monaco, in «Vita Monastica» LIII (1999) 99-100.

[8] Osservo di passaggio che questo «oltre» la contemplazione, nella ormai ricca letteratura sulla lectio, costituisce uno dei tratti più originali della visione di Benedetto Calati, quando, ispirandosi a Gregorio , pone alla fine del processo la evangelizatio, cfr. B. CALATI, Sapienza monastica, Roma 1994, pp. 175-176.

[9] L'esempio più elaborato a me direttamente noto è quello di JEANNE D'ARC, Le pèlerins d'Emmaus, Paris 1977.

[10] Concordo in questo con le osservazioni critiche di J. DUPONT (Les disciples d'Emmaus, cit.) intorno a rigide letture ad inclusione del testo, che finiscono per mettere in ombra quella che è con tutta evidenza la pointe drammatica del racconto.

[11] Per queste notazioni sono debitore a R. TKEMOLADA, Profezia delle Scritture e fede pasquale, «Parola Spirito e Vita» 41/2000,135-145.

[12] Apoftegmi, Serie alfabetica, Sisoes 54 in Vita e detti dei Padri del deserto, a cura di L. MORTARI, Roma 1986, II, p. 176.

 

 


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2 ottobre 2023                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net