Regola di S. Benedetto
Capitolo IV - Gli strumenti delle buone opere:
"
55 -Ascoltare volentieri
la lettura della parola di Dio,..."
Capitolo XLVIII - Il lavoro quotidiano:
"
1 - L'ozio è nemico dell'anima, perciò i
monaci devono dedicarsi al lavoro in determinate ore e in altre, pure
prestabilite, allo studio della parola di Dio. .....
4 - dalle 9 fino all'ora di Sesta si dedichino
allo studio della parola di Dio.
10 -
Dal 14 settembre, poi, fino al principio della Quaresima,
si applichino allo studio fino alle 9,...
13 - Dopo il pranzo si dedichino alla lettura
personale o allo studio dei salmi.
14 -
Durante la Quaresima leggano dall'alba fino alle 9
inoltrate e poi lavorino in conformità agli ordini ricevuti fino verso le
4 pomeridiane.
22 -
Anche alla domenica si dedichino tutti allo studio della parola di Dio, a
eccezione di quelli destinati ai vari servizi."
SAN BENEDETTO E LA «LECTIO DIVINA»
(Omelia tenuta in Duomo il 26 aprile 1980 in occasione del XV centenario della
nascita di san Benedetto)
estratto da "IL
VESCOVO E IL MONACO" di
CARLO MARIA MARTINI; Cardinale Arcivescovo di Milano
edito dall'Abbazia San Benedetto di Seregno
Carissimi fratelli e sorelle nel Signore, carissimi figli e figlie di san
Benedetto, qui radunati per questa solenne celebrazione.
Commemoriamo insieme il XV anniversario della nascita di san Benedetto,
grande padre del monachesimo occidentale, patrono dell’Europa. Vorremmo saperlo
fare con le parole, con la conoscenza profonda dello spirito monastico
benedettino e con il calore religioso che ha contraddistinto in questa Chiesa
per tanti anni il magistero del card. Ildefonso Schuster. Durante tutta la sua
vita egli ha studiato questo carisma, lo ha proclamato e lo ha vissuto; la sua
memoria ancora rimane tra noi come di un rappresentante vivo per molto tempo in
questa Chiesa di questo spirito, di questa grande tradizione monastica e
religiosa.
Ciò che vorrei fare io questa sera è molto più semplice: è un discorso
cordiale, diretto soprattutto a quei carissimi figli e figlie di san Benedetto
radunati qui per celebrare insieme questa festa dì famiglia.
E’ forse la prima volta nella storia di questo luogo che si trovano radunate
qui insieme anche le religiose claustrali. Considerando questo evento come
eccezionale nella loro vita, esse sono venute qui, quest’oggi, a costruire il
loro monastero; il loro chiostro è oggi questa basilica, è oggi la nostra
preghiera e tutti noi siamo fatti partecipi della loro vita monastica
contemplativa. Vi sono dunque molte cose oggi che ci toccano profondamente il
cuore, che suscitano la nostra commozione e la nostra riconoscenza.
In primo luogo la riconoscenza per tutto il bene che la Chiesa, e in
particolare la Chiesa in Lombardia, la Chiesa in questa diocesi, in questa città
ha ricevuto lungo i secoli dalla tradizione benedettina. E qui dovrebbero
parlare i santi, tutti coloro che sono stati formati alla vita spirituale
attingendo a questa tradizione; ma potrebbero parlare anche i letterati, gli
storici, gli artisti, gli economisti, coloro i quali potrebbero comunicare i
benefici di civiltà, di arte, di letteratura, di costume, di approfondimento
della vita religiosa e civile, di opere di assistenza, di carità, di servizio
che sono state promosse dalle abbazie benedettine in tutta l’Italia, in Europa,
in particolare in questa regione, nel corso dei secoli.
Vorrei però semplicemente limitarmi a qualche ricordo personale e ad una
riflessione interiore sul significato di questa presenza benedettina nella
Chiesa. Ricordo e riflessione che potremmo collegare alle parole della prima
lettura che abbiamo ascoltato degli Atti degli Apostoli, dove leggiamo che Paolo
e Barnaba, intrattenendosi coi cristiani di Antiochia, li esortavano «a
perseverare nella grazia di Dio”.
Ecco dunque la parola che io vorrei rivolgere a tutti i religiosi e le
religiose qui presenti, facendo mia questa esortazione “a perseverare nella
grazia di Dio” nella loro vocazione. E’ una parola che può servire anche per
tutti gli altri fedeli qui presenti, per cercare di cogliere qualcosa dello
spirito di questa vocazione, per lasciarsene illuminare nella vita e nella
preghiera.
Vorrei partire da qualche ricordo personale. Ricordo i frequenti
pellegrinaggi che, quando mi trovavo a Roma, facevo a Subiaco, fermandomi a
pregare per un certo spazio di tempo sotto quella grande roccia che sembra
protesa sul luogo di preghiera e quasi pronta a cadere, ma che invece rimane là,
ferma, per la mano di san Benedetto che dice: “Non toccare i miei figli!”.
In questa zona rupestre, un tempo abbandonata nell’alta valle dell’Aniene,
mi sono recato più volte; ho pregato presso lo Speco, sono sceso lungo i gradini
di pietra, fino al luogo dove si
dice che san Benedetto incontrasse i pastori, fino al roveto, cercando di
palpare sulle pietre, luogo dopo luogo, i momenti della permanenza e della
preghiera del giovane san Benedetto.
Ricordo ancora i soggiorni a S. Scolastica; cercavo di partecipare alla
preghiera monastica della comunità tenendo sempre dentro di me una domanda: che
cosa spingeva Benedetto a venire qui, a isolarsi nella preghiera. Che cosa
diceva a Dio durante questa preghiera, come passava le notti. Che cosa lo faceva
restare qui, lontano da tutto. E più ancora: che cosa spingeva questo giovane
maturatosi nella preghiera a raccogliere altri con sé a pregare insieme, che
cosa facevano, che significato aveva la loro esperienza per la Chiesa di quel
momento?
E andavo percorrendo l’alta valle dell’Aniene cercando i segni degli oratori
smarriti intorno alle valli di questa montagna di san Benedetto. Erano i
numerosi luoghi di preghiera dove i piccoli gruppi di giovani venuti da Roma per
sfuggire all’atmosfera ormai irrespirabile della città, fra tutta quella vanità
e dissipazione che vigeva in Roma, si ritiravano con lui per ritrovare la
sorgente del loro cristianesimo, per fare un’esperienza autentica di vita.
Riflettendo sui valori ricercati e vissuti da san Benedetto, si comprende il
significato per la società di quel tempo dell’esperienza monastica poi
divenuta sempre più chiara, sempre più precisa nell’ambito e nella
estensione della Regola. Riflettendo oggi sulla preghiera e sui tanti valori che
la Regola contiene ancora per il mondo contemporaneo, vorrei fermarmi
semplicemente su uno di essi che ha un profondo significato per la Chiesa e che,
se assimilato e vissuto da noi, ci porterebbe a ripetere quell’esperienza
sorgiva, affascinante del Vangelo cosi come l’hanno fatta Benedetto e i suoi
primi compagni.
Voglio parlarvi di quel valore che si chiama la «lectio divina», che
tradurremmo malamente in italiano la “lettura divina”. Vogliamo quest’oggi
intrattenerci un po’ meglio per capire che cosa significhi questa preziosa
eredità che la tradizione benedettina ha saputo valorizzare, approfondire e
tramandare viva alle nostre generazioni. Si tratta, come dice la parola, di una
lettura, di una “lectio”; la parola “lettura” però non rende in italiano la
realtà di cui si tratta.
Quando noi parliamo di lettura pensiamo a una scorsa superficiale di una
pagina scritta, a qualche cosa che si guarda così, distrattamente, e non rimane.
Invece questa lettura monastica è una lettura fatta di ascolto, di ruminazione,
di ripetizione riflessa della Parola. La parola viene non soltanto letta
superficialmente con l’occhio, ma viene ricevuta nel cuore, viene ascoltata con
le orecchie, viene custodita, viene ripetuta, meditata;
è una parola che scende lentamente nel cuore e lo riempie. Voi potete già
qui immaginare quale tesoro di pace, di riflessione, di calma, produce questo
esercizio. E’ tutto il contrario di quell’affanno, di quella rapidità di
lettura, di ascolto e di dialogo, di corsa quotidiana che rende le nostre città
così affannose e la nostra vita sempre così stanca. Esso introduce nella nostra
realtà quotidiana un ritmo di vita più semplice, tranquillo, attraverso momenti
privilegiati di lettura ritmata, meditata, assaporata lentamente, che diventa
quindi già uno stile di calma, di dignità, uno stile di accostarsi alle cose non
attraverso la fretta di chi vuole divorare, consumare tutto, ma attraverso la
calma di chi aspetta di ricevere un dono.
Ma questa “lectio”, questa lettura meditata e riflessa, fatta di ritmi di
ascolto, è lectio «divina», ha cioè per oggetto le parole stesse di Dio: la
Scrittura. Noi vediamo applicata qui dall’antichissima tradizione monastica
quello che poi la Chiesa del Concilio Vaticano II nel c. 6° della “Dei Verbum”
inculca ripetutamente per tutti i cristiani come qualcosa da riscoprire, da
ritrovare, da rimettere nel seno di tutte le comunità: cioè la lettura
continuata, prolungata di tutta la sacra Scrittura, che ci mette di fronte ogni
giorno, ogni settimana, con ritmi ben determinati, tutto il piano divino di
salvezza.
E’ lettura divina, lettura della sacra Scrittura che
comprende le parole divine, lettura che ci apre il piano divino di
salvezza, lettura che ci permette in qualche maniera di toccare Dio, di sentire
Gesù Cristo che ci parla, di mettere in pratica quella ricerca di Dio, “ricerca
vera” di Dio che è l’anima della vita benedettina ed è l’anima della ricerca di
ogni uomo: ricercare Dio, cercare di conoscerlo, di toccarlo, di vederlo. Ora,
la lettura attenta, prolungata, devota della sacra Scrittura ci permette di
vedere Dio, di toccare Dio, di toccare il suo piano di salvezza e di immergere
la nostra vita nel ritmo di questo piano di salvezza. E non basta.
Lettura “divina» non soltanto perché ci mette di fronte alle parole di Dio e
al piano di Dio, ma perché ci permette di leggere con il libro della Scrittura
anche il libro stesso della nostra vita come opera di Dio. La Bibbia è lo
specchio della nostra vita: in essa ci si dice chi siamo, da dove veniamo, dove
andiamo, che significato hanno gli eventi della giornata, che significato hanno
le sofferenze che attraversiamo, che significato ha tutto ciò che si agita oggi
nell’uomo.
La Bibbia ci rivela di tutte queste cose l’aspetto divino, il mistero di
grazia di Dio. Ed ecco che attraverso questo esercizio della “lectio divina»,
della lettura continuata e prolungata della Scrittura, noi arriviamo a quel
punto meraviglioso dell’esistenza descritto da papa Giovanni Paolo II
nella sua enciclica “Redemptor hominis”: ci troviamo di fronte a un
grande stupore perché vediamo quanto grande sia l’uomo per il quale Dio ha fatto
tanto.
La “lectio divina”, la lettura della Bibbia organica, attenta, intelligente,
ci permette di scoprire nella nostra vita il mistero di Dio: ed è per questo che
la vita monastica, in particolare la vita contemplativa, in genere la vita
benedettina e tutte le tradizioni che ne derivano e hanno il ritmo di questa
lettura della Bibbia, costituiscono un modello di vita ideale, un modello di
vita umano, sano, capace di congiungere preghiera e lavoro, capace di capire le
cose di Dio e le cose dell’uomo, capace di scendere nei misteri dello Spirito e
di espandersi nelle creazioni dell’arte, capace di leggere i codici e capace di
coltivare la terra, capace di guardare in alto verso Dio e di ritornare verso i
fratelli con carità, semplicità, amore, a sostegno e a servizio dei malati,
degli infermi, di tutti coloro che hanno bisogno di essere accolti. Raccogliamo
dunque, fra gli altri frutti di questa celebrazione, l’esortazione “a
perseverare nella grazia di Dio” che è questa “lectio divina” che ci è data
nelle mani.
Mi augurerei davvero che tutti i monasteri, tutti i centri di vita
benedettina della diocesi diventassero altrettanti centri dai quali si diffonde
la capacità, il metodo, l’uso della “lettura» della
Bibbia, attenta e prolungata, fatta dai singoli, dalle famiglie, dai
gruppi, in particolare poi dalle parrocchie nella liturgia. In questo noi
veramente riscopriremmo il grande tesoro che san Benedetto ha trovato in mezzo
alla solitudine dei monti, e che poi lo ha riportato in mezzo alla gente
facendolo operatore di civiltà.
Chiediamo che anche in noi si operi questa santa sintesi tra civiltà e vita
interiore, tra pace con Dio e pace che diffondiamo tra gli uomini, attraverso la
valorizzazione di questo dono immenso della sacra Scrittura che ci è dato nelle
mani e che la tradizione benedettina ci insegna a leggere e a scrutare.
(“Rivista diocesana milanese”, 71, 1980, pp. 611-615)
Estratto da "Appunti sulla Regola di S. Benedetto" di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.
pubblicato sul
sito Web del Monastero S. Vincenzo di Bassano Romano (VT)
(https://sanvincenzo.silvestrini.org)
SOMMARIO:
- Introduzione -
- I: Concetto generale. Il metodo
dei Padri. L'esegesi spirituale.
- II: Disposizioni fondamentali per la
lectio divina.
- III: I vari momenti della lectio divina: 1) lectio; 2)
meditatio; 3) oratio; 4) contemplatio.
- IV: Alcune difficoltà.
-
Conclusione.
INTRODUZIONE
Il motto divenuto tradizionale per i Benedettini (ma
non c'è nella Regola, né è stato coniato dai monaci, ma applicato ad essi da
altri), cioè "ORA et LABORA", passa sotto silenzio la "LECTIO DIVINA"
(=l.d.), alla quale la Regola di S. Benedetto (=RB) e tutta la tradizione
monastica accordano una particolare attenzione. San Benedetto (=SB), stabilendo
nel capitolo 48 l'orario del monaco, distribuisce tra il lavoro e la lectio
divina il tempo rimasto libero dalla preghiera. Per molto tempo, durante il
periodo patristico e l'alto medioevo, la pratica della lectio divina fu continua
e molto sentita tra i monaci e fuori; man mano, a partire dal sec. XII, divenne
più rara e scomparve del tutto all'epoca del massimo sviluppo della "devotio
moderna" (sec. XV), quando la spiritualità trovò una forma di preghiera
nuova e l'orazione mentale divenne un esercizio di pietà che non si alimentava
più principalmente alla Bibbia. Tutto questo è durato fino al movimento biblico
del sec. XX con il ritorno alla S. Scrittura; tra il 1940 e il 1950, con lo
sviluppo del movimento liturgico francese, la formula si diffuse di nuovo
largamente tra i monaci e fuori.
Il nostro tempo ha dunque riscoperto l'importanza
almeno - se non ancora la pratica abituale e sapienziale - della lectio divina,
soprattutto dopo la Costituzione dogmatica "Dei Verbum" (=DV) sulla
divina rivelazione del Concilio Ecumenico
Vaticano II, che è tutta nutrita di termini e di idee
fornite dalla tradizione della lectio divina nelle diverse epoche; si può dire
che tutta la parte finale della DV ne raccomandi la pratica. Nelle "Proposte"
approvate dal Congresso degli Abati del 1967 ("La vita benedettina"), la lectio
divina è presentata come una delle attività principali del monaco,
insieme alla preghiera e al lavoro. Così si è tornati - almeno a livello di
convinzione - alla triplice articolazione della giornata monastica: PREGHIERA -
LECTIO - LAVORO.
I. CONCETTO GENERALE. IL METODO DEI PADRI. L'ESEGESI
SPIRITUALE.
Che cos'è dunque la lectio divina? è un modo
particolare di accostarsi alla Parola di Dio, in vista soprattutto della
preghiera, e l'ascolto-risposta di (quindi colloquio con) Dio attraverso la
parola scritta: "Nei libri sacri il Padre (...) viene incontro ai suoi figli e
discorre con loro" (DV.21). Per i Padri della Chiesa e del monachesimo era una
cosa familiare e normale: il contatto continuo, amoroso con la parola di Dio,
fino ad assimilarla e a farsene assimilare. Per questo nella Regola non si può
trovare una dottrina sistematica della lectio divina, perché questa è data per
scontata; si dice soltanto ripetutamente (RB.48,1. 4. 10. 13. 14. 17. 18. 22) "vacare
lectioni" « dedicarsi alla lettura », oppure "in lectione divina" «
nella lettura divina ». In senso proprio e stretto, denotava la lettura della S.
Scrittura.
Fin dalle origini del monachesimo, la Bibbia è stata
il libro dei monaci anacoreti e cenobiti; i grandi maestri inculcarono la
necessità della lettura frequente e assidua; chiamata "alimento celestiale",
"pane caduto dal cielo", "pane e sangue di Cristo", la Scrittura costituiva lo
strumento imprescindibile - e spesso unico - della formazione del monaco, e del
suo itinerario spirituale fino all'incontro con Dio. Divinae vacare lectioni
« dedicarsi alla (o "essere libero" per la) lettura divina » era la formula con
cui si indicava questa lettura approfondita del monaco, questa assimilazione
della parola di Dio attraverso la lettura.
S. Pacomio aveva
stabilito che tutti nel monastero sapessero a memoria alcuni passi della S.
Scrittura e, come minimo, il NT e il salterio; questo era il programma comune, e
generalmente venne rispettato in seguito da tutti i monaci.
La Bibbia costituiva la lettura essenziale, frequente,
assidua dei monaci e della Chiesa tutta. Nel medioevo non abbiamo che una
esegesi molto imperfetta, se la paragoniamo a quella di oggi, resa possibile dai
progressi della filologia e delle altre scienze moderne. Eppure allora la
Scrittura alimentava abbondantemente la vita dei monaci e della Chiesa in
genere, soprattutto attraverso una esegesi spirituale. Per i monaci
dell'antichità e del medioevo, la Bibbia non può essere separata dai commentari
che ne hanno fatto i Padri della Chiesa; i loro scritti sono spesso designati
semplicemente come "expositiones" « esposizioni » dei libri sacri, perché
qualunque sia il genere letterario da essi adottato, non hanno fatto altro che
spiegare versetti della Scrittura.
In pratica i monaci avevano una familiarità tale con la
Scrittura, da esserne veramente "impastati": indubbiamente la Bibbia era
il libro del monaco, e il monaco l'uomo della Bibbia; la sua preghiera
consisteva spesso nel ripetere lentamente, "gustandoli", versetti della
Scrittura (la cosiddetta "ruminatio", come più avanti vedremo). Alla base
di questo interesse primordiale e quasi esclusivo verso la Bibbia, c'è la
convinzione che esiste un legame stretto tra vita monastica e parola di Dio;
e in particolare la convinzione dell'unità tra le varie fasi dell'economia
divina: dall'AT in su, è la stessa storia della salvezza, che ha il suo
culmine nel mistero pasquale di Cristo, al quale ogni monaco, ogni cristiano,
partecipa, facendo suoi i misteri di cui parlano le Scritture; in un certo modo
lo stesso Spirito di Dio, che ha ispirato gli autori dei libri sacri, continua
ad agire in coloro che li leggono e che cercano di ripetere quella esperienza di
cui parlano i sacri testi.
I monaci soprattutto vedevano la loro vita in questa
linea: vita monastica come "Historia Salutis" « Storia della Salvezza ».
(Si veda, su questo, lo studio fondamentale e bellissimo di B. CALATI,
Historia salutis, in: Vita Monastica 12 (1959), n.56, pp.3-48, l'intero
fascicolo). Tutta la Scrittura, quindi, va vista nell'unità dell'AT e del NT,
alla luce del mistero di Cristo e della Chiesa: l'AT va letto come preparazione
al Nuovo, come una grande storia profetica, unica grande profezia che annuncia
Cristo, la Chiesa e noi, cioè che Cristo, la Chiesa e noi esprimeremo in tutta
la pienezza di fede, nella speranza del compimento glorioso. Cristo è la chiave
dei Testamenti, perché Egli è la Parola definitiva di Dio, la Parola « il
Verbo » fatta carne nella pienezza dei tempi, in cui tutte le promesse di
Dio e le parole precedenti hanno avuto il loro compimento: "Lui che cerco nei
libri", diceva S. Agostino.
Ma il mistero di Cristo continua nel mistero della
Chiesa e nella vita di ogni singolo credente, che sono la continuazione -
attualizzazione del mistero della salvezza. Quindi tutta la Scrittura viene
letta come annuncio-profezia di Cristo, della Chiesa, del cristiano. Questo è il
metodo dei Padri, dalla cui riflessione è scaturita la dottrina dei diversi "sensi
biblici": la tradizione medioevale ne conosce quattro:
- senso letterale ("littera gesta docet" « la
lettera insegna i fatti »);
- senso allegorico ("quid credas, allegoria" «
l'allegoria insegna ciò che devi credere »);
- senso morale ("moralis quid agas" « il senso
morale ti insegna come comportarti »);
- senso anagogico, cioè escatologico o
contemplativo ("quo tendas, anagogia" « l'anagogia ti insegna a cosa devi
tendere »).
Il senso letterale è la "corteccia", gli altri
tre costituiscono l'approfondimento, il senso spirituale.
Caratteristico della tradizione monastica è l'accentuazione dell'aspetto
esperienziale e dell'aspetto escatologico. Maestro per eccellenza di questo
senso spirituale della S. Scrittura è stato S,Gregorio Magno (cf. B.
CALATI, S. Gregorio Magno e la Bibbia, in AA.VV., Bibbia e
spiritualità, Ed. Paoline, Roma 1967, pp.121-178); i suoi commentari biblici
ci dimostrano il senso profondo che egli scopre nella Scrittura, intendendo la
vita spirituale come compimento della storia sacra in ogni fedele. Alcuni testi:
"Queste cose che crediamo avvenute storicamente, speriamo anche che si
realizzeranno misticamente" (Moralia, libro 35, c. XV, n.35); "(...)
oltre il senso letterale, tutte le cose scritte, per disposizione dello Spirito
Santo « dispensatione Sancti Spiritus! ». E Beda il Venerabile commentava
così il brano di Gregorio: "egli ha spiegato il libro (di Giobbe) secondo il
senso letterale, e come va riferito ai misteri di Cristo e della Chiesa e come
va applicato a ciascun fedele" (Storia di Inghilterra, libro II, cap.1).
Ecco: è il mistero di Cristo, della Chiesa e ci
ciascuno di noi. A questo criterio deve ridursi il valore teologico della lectio
divina nel senso di lettura "oggettiva", cioè adattare se stesso a ciò
che dice la Bibbia, rivivere tutte le avventure del popolo eletto, tutto il
Vangelo, la vita degli Apostoli, ecc.; cioè la Scrittura ci dà il mezzo per
passare attraverso le esperienze religiose dei personaggi di cui parla, e queste
sono le più varie, possono quindi rispondere ai bisogni di tutti, di tutte le
età e di tutte le situazioni spirituali. L'anima deve provare gli stati d'animo
interiori dei santi dell'Antico e del NT, realizzare i loro atti, riprodurre le
loro virtù, imitare le loro penitenze.
Un esempio tipico di questo senso spirituale a cui è
diretta la lectio divina, l'abbiamo nel II Libro dei Dialoghi. è il "vir
Dei Benedictus", specialmente, che Gregorio ci presenta, come la formula più
viva del senso spirituale e del senso pieno della Scrittura. Benedetto è l'uomo
e l'esperienza viva della "unità dei Testamenti". Nuovo Mosé, nuovo Eliseo,
nuovo Elia, nuovo David, nuovo Pietro, "questo uomo fu davvero ripieno dello
spirito di tutti i giusti", ma ripieno specialmente delle Spirito di Gesù, nel
quale si unificarono i due Testamenti:
"L'uomo di Dio Benedetto ebbe un unico Spirito: quello
di Colui che mediante la grazia della redenzione, riempì i cuori di tutti gli
eletti (...), di lui è scritto: "dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto"
(II. Dial. cap. 8).
Così i Padri intendevano questa unione intima con la
Scrittura. Bisogna vivere tutta la Bibbia, partecipare interamente a ciò
che si legge. Si veda ancora questo testo meraviglioso di Cassiano: "Fortificato
da questo cibo, (il monaco) penetra a tal punto nei sentimenti espressi dai
salmi, che egli li recita ormai non come composti dal profeta, ma come se fosse
lui stesso l'autore, come un'opera personale nella più profonda compunzione; o
almeno pensa che i salmi sono stati composti apposta per lui, e capisce che ciò
che i salmi esprimono, non si è avverato solo in tempi lontani nella persona del
profeta, ma trova anche in lui al momento presente il suo compimento" (Coll. X,
11). Se tutto ciò è vero dell'AT, a più forte ragione vale per il NT, per
Cristo; il Vangelo ci offre l'occasione di penetrare il consiglio di Paolo:
"Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo" (Filip. 2, 5). Ecco come tutta
la Bibbia si legge come un unico filo conduttore, con l'occhio cioè illuminato
dal carisma profetico, come mistero di storia sacra, storia della salvezza, che
dovrà compiersi fino al ritorno glorioso di Gesù.
II. DISPOSIZIONI FONDAMENTALI PER LA LECTIO DIVINA
Con questa mentalità dobbiamo accostarci anche oggi al
sacro testo. Il Concilio ricorda che la S. Scrittura deve "essere letta e
interpretata con l'aiuto dello stesso Spirito, mediante il quale è stata
scritta" (DV.12). è la disposizione fondamentale davanti alla parola di Dio: va
letta nella fede, va penetrata attraverso l'intervento dello Spirito Santo, come
parola che viene da Dio e a Dio conduce. Il monaco, che deve essere soprattutto
l'uomo dell'ascolto, è attento alla parola di Dio per accoglierla, custodirla,
metterla in pratica, produrre frutti (Mt.13,23). "Scopo della lectio divina è la
ricerca di Dio nella parola scritta.
Perciò la lectio in tutta la tradizione monastica è
ritenuta uno dei mezzi più comuni e caratteristici della vita dei monaci" (La
Vita Benedettina, Congresso degli Abati 1967, n.19 c). Riportiamo anche
quest'altra recente descrizione della lectio divina: "Si tratta di una lettura
meditata, soprattutto della Bibbia, e prolungata in preghiera contemplativa.
Questo tipo di lettura sapienziale ha occupato in ogni tempo un posto
importante, per non dire essenziale, nella vita spirituale, in particolare nella
vita dei monaci" (J. M. DELVAUX, Lectio divina, in Collectanea
Cisterciensia 33 (1971) 104).
Notiamo quindi che la lectio divina non è solamente la
lettura o lo studio della Scrittura: è la ricerca di Dio nella sua parola
scritta. Una lettura, sia pur spirituale, che ha per scopo la preparazione di
una conferenza, di un articolo o dell'omelia, oppure la curiosità erudita o
estetica, non risponde alla definizione della lectio divina Essa vale non per
quello che ci fa acquisire (avere), ma per quello che ci fa diventare (essere).
Ecco perché si parla di lettura "sapienziale" (e la 'Sapientia' è gusto
delle cose di Dio, un dono dello Spirito Santo), è una contemplazione delle
Scritture, una lettura in vista della preghiera. Allora è una lettura sacra e
divina. Tradotta in italiano, l'espressione perde un po' della sua forza:
"lettura", per noi, è un termine troppo superficiale; "studio" è troppo
intellettuale; "meditazione" forse sa troppo di psicologistico e di pietistico »
è preferibile lasciare l'espressione "lectio divina" (che include e trascende
queste tappe, come vedremo), oppure tradurre: "pregare la Parola" (come
nel titolo del libro di E. BIANCHI).
Evidentemente la Bibbia è l'oggetto "primordiale",
nel senso di principale e fondamentale della lectio divina; ma l'orizzonte si
può allargare: "la lectio divina deve avere per principale oggetto la S.
Scrittura; tuttavia abbraccia anche con molta larghezza i Padri, la tradizione,
gli esempi e la dottrina dei santi, la riflessione sempre viva della Chiesa nel
corso dei secoli" (La Vita Benedettina, op. cit., n.19 d). Perché, in
fondo, la lectio non è divina in ragione del testo letto, ma in ragione del
modo con cui il testo viene letto. Leggere la Bibbia per semplice curiosità
intellettuale o per spirito polemico, non è lectio divina; leggere il giornale
per discernere, attraverso gli elementi politici e i vari avvenimenti, i "segni
di Dio" nella storia, può essere lectio divina; in questo caso si tratterebbe di
leggere la storia quotidiana al modo dei profeti d'Israele!.
Alcuni testi ci aiuteranno a comprendere meglio alcuni
aspetti della lectio divina.
- In Neemia 8,1-12 possiamo notare una specie di
teologia della liturgia della parola. Dopo il ritorno dall'esilio, inizia una
nuova fase storica per tutto Israele, e questo avviene con una solenne liturgia
a cui tutto il popolo è invitato (vv.1-2). Dopo una benedizione di lode al
Signore, si legge la parola di Dio per una intera giornata, brano per brano,
traducendo le parole ebraiche al popolo che conosceva solo l'aramaico, con
spiegazione e commento a cura di Esdra e dei leviti. E il popolo, pensando alla
sua infedeltà all'alleanza, è mosso a pentimento e piange. Ecco una
caratteristica della lectio divina: nella sua parola, Dio si fa presente, tocca
e penetra i cuori; allora l'uomo è disarmato di fronte alla parola di Dio,
l'uomo si arrende, immediatamente appare la contraddizione tra l'iniziativa da
parte di Dio e l'infedeltà da parte dell'uomo; ed ecco il pentimento; ma è un
pianto salutare per la salvezza; quindi viene la parola di consolazione: "Non
piangete..." (v.9).
- In Luca 4,21, Gesù ci dà un approfondimento
del metodo della lectio divina: primo, perché Egli realizza in sé quello che le
Scritture dicevano; secondo, perché Egli riferisce all'"oggi" la parola di Dio.
Il brano di Isaia 61,1-2 trova il suo "oggi" nella proclamazione di Gesù: "Oggi
si compie...". Ebbene, la parola di Dio scritta nei libri sacri non è stata
detta - lo sappiamo - solo nel momento in cui Egli parlò al suo portavoce, ma è
detta (nel senso più forte) ogni volta che il testo viene proclamato, in
qualunque forma, nella celebrazione liturgica (cf. SC.7; DV.21) o anche nella
lettura privata, perché sempre "la Parola di Dio è viva, efficace..." (Ebr.4,12;
cf. Is.55,10-11).
Dunque Dio parla a me, qui, in questo momento.
L'attualizzazione della Parola di Dio per me, "hic et nunc", è il perno della
lectio divina "Oggi si compie in voi questa Scrittura": è il passaggio del Mar
Rosso, come la manna del deserto, il vino miracoloso di Cana, la guarigione del
sordomuto: "Oggi si compie...". Ecco perchè si parla di lettura personale,
di un confronto continuo con la Scrittura. Secondo una definizione assai diffusa
nel medioevo attraverso Gregorio Magno, ma la cui paternità spetta a S.
Agostino, la Bibbia è come uno specchio in cui si deve veder riprodotta
l'immagine da seguire e, se da questa si discosta la propria condotta, è dovere
del singolo ridurre o eliminare lo scarto che rende l'uomo difforme dal modello
biblico. Il Maestro interiore rivolge a ciascuno un messaggio personale e unico,
ma ciò attraverso un messaggio universale, anteriore a noi, che nella Bibbia è
proposto a tutti; tocca quindi a ciascuno farlo individuale, interiorizzarlo,
attualizzarlo per sé. Nei racconti e nei libri storici, il lettore confronterà
la sua esperienza con quella dei personaggi biblici, vedrà l'iniziativa di Dio e
la risposta dell'uomo: tutto servirà come simbolo della realtà della vita
cristiana.
Fra le tante parti così diverse che compongono la
Bibbia, ciascuno avrà delle legittime preferenze: chi si nutre molto bene
dell'AT, chi del NT, a qualcuno piace particolarmente S. Paolo, a qualcun altro
piacciono i Vangeli, chi preferisce i Sinottici, chi Giovanni, qualcuno si
ritrova meglio nei libri sapienziali o nei salmi, qualcun altro nei Profeti.
Perché nella Bibbia si trova tutto, ci si può riferire a tutti i casi: che
ciascuno ponga davanti al sacro testo le questioni e i problemi suoi, e Dio darà
la risposta a lui adatta. Perché la lectio divina è un dialogo d'amore, il cuore
si lascia toccare da ciò che Dio dice; Dio parla e io rispondo: è una
conversazione con una Persona Viva che mi interpella e mi coinvolge in una
comunione di vita. Questa è la grande, suprema esegesi. Questo è il succo della
lectio divina.
III. I VARI MOMENTI DELLA LECTIO DIVINA
Illustriamo ora i vari atti in cui si articola la
lectio divina, come sono stati consacrati dalla tradizione monastica, in quanto
si tratta di una lettura meditata e orante della parola di Dio. Nel sec.XII,
Guigo II il Certosino ha così sintetizzato le tappe di questo
ascoltare-rispondere, che è poi l'arco di tutta la vita spirituale: 1. Lectio
- 2. Meditatio - 3. Oratio - 4. Contemplatio. (Una
traduzione italiana della lettera di Guigo, "Scala claustralium" « La
Scala dei monaci », si trova in appendice al libro di E. BIANCHI, Pregare la
Parola, pp.75-91).
1. Lettura « Lectio ».
E' il punto di partenza. Per giungere a quella intimità
con la sacra pagina, intimità di cui si è parlato sopra, è necessaria una
lettura continua e organica. Tutti gli autori monastici insistono su questo
punto, perchè esso è la condizione preliminare per stabilire col testo un
rapporto personale e proficuo. Allora bisogna applicarsi al testo con
attenzione, con calma, e soprattutto accostarsi nello spirito. Prima di iniziare
la lettura, bisogna mettersi in una disposizione particolare e invocare lo
Spirito Santo che venga ad illuminarci. Un autore moderno dice che la parola di
Dio ha bisogno di una "epiclesi" (come il pane e il vino). Nella lectio divina
il credente deve fare questa epiclesi in unione con la grande epiclesi
eucaristica. Ci vuole poi fedeltà, continuità, assiduità.
Bisogna dedicare alla lectio divina un tempo, e un tempo adatto, non i ritagli
di tempo, nella fretta e nella distrazione. E questo non è facile oggi; può
diventare un vero esercizio di ascesi. Deve essere una lettura assidua: è una
condizione indispensabile per la lectio divina
Bisogna leggere la Bibbia, soprattutto la Bibbia,
leggerla spesso e leggerla interamente. (sfogliare a caso qua e la forse non è
cosa utile), senza trascurare quelle parti dell'AT che forse possono sembrare
poco utilizzabili nella vita spirituale. Alle volte saremo tentati di scegliere
testi molto densi, ma è meglio seguire tutte le parti, perchè in tal modo si
introduce nella vita interiore un elemento di varietà; lo spirito umano è facile
ad abituarsi a tutto! Non dimentichiamo poi che la parola di Dio ha la qualità
di essere cibo quotidiano e, come ogni nostro pasto, non sempre ci può dare
quella soddisfazione e quell'appagamento di cui soltanto in rari momenti ci è
dato di godere. Il caso di aridità diventa il momento dell'ascolto di Dio
nella fede, nel buio della fede; questi "silenzi" di Dio sono salutare, perchè
ci fanno comprendere la nostra incapacità a pregare e ci aiutano a fissare lo
sguardo in Dio solo.
Ci vuole dunque assiduità: leggere e rileggere,
perchè la parola di Dio penetri. (Concretamente, si potrebbero scegliere due
strade: o seguire il lezionario quotidiano, così si ha anche l'aggancio con la
liturgia del giorno; oppure fare la lettura continuativa dei singoli libri della
Scrittura; ma anche qui ognuno ha la sua esperienza, lo Spirito soffia dove
vuole!). Come risultato di questo contatto continuo con la parola di Dio,
si finisce per subire una sorta di condizionamento psicologico con le idee, le
immagini, le frasi stesse della S. Scrittura, fino a farci acquistare ciò che si
può chiamare una "mentalità biblica", che influisce continuamente sulle nostre
scelte.
2. MEDITAZIONE « Meditatio »
Secondo momento, che per altro non si distingue
chiaramente dal primo: si passa insensibilmente dalla lettura
all'approfondimento. Per gli antichi, la "meditatio" non era quello che noi
intendiamo oggi per "meditazione", ma era un esercizio di lettura, di
ripetizione, anche pronunziata, delle parole fino a imparare il testo a memoria;
"meditatio" nel senso di "exercitatio", ed era un esercizio in cui interveniva
la persona intera: il corpo, perchè la bocca pronunziava il testo; la memoria
che lo riteneva; l'intelligenza che si sforzava di penetrarne il significato; la
volontà che si proponeva di metterlo in atto nella vita pratica. I Padri
parlavano anche di "masticare" la Parola, per essi c'era la famosa "ruminatio"
della S. Scrittura, cioè ritornare sul testo, richiamarne le parole, ritrovare
il tema centrale e imprimerlo profondamente nel cuore. Le testimonianze sono
numerosissime: Atanasio a proposito di Antonio il Grande, Girolamo, Ambrogio,
Agostino, Isidoro,... su su fino al medioevo (nei libri elencati in bibliografia
si possono trovare molti testi): cercavano il "sapore" della Scrittura,
non la scienza. Giovanni di Fecamp (sec. XI) parla di "gustarla in ore cordis"
« "nella bocca del cuore", ma l'espressione è intraducibile ». Tutte le
testimonianze dei Padri vanno viste alla luce del salmo 118: "Nel silenzio della
notte medito la tua parola..., nel cuore della notte mi alzo per leggere la tua
parola..., medito la tua parola..., desidero la tua parola..., la tua parola è
la mia gioia..., giorno e notte medito la tua parola..., la tua parola mi fa
vivere..." (salmo 118, passim).
Come non richiamare qui, quale modello singolare,
l'atteggiamento meraviglioso di Maria SS. ma? Lei, l'umile ancella del
Signore (Lc.1,38), che ha creduto alla Parola (Lc.1,45), se ne stava in
silenzio, ascoltando, meditando e custodendo nel suo cuore ciò che faceva e
diceva Gesù (Lc2,19.51; 11,27-28).
Poiché si tratta di un lavoro paziente di
approfondimento, di "gustare" la parola di Dio, ci serviamo anche degli
strumenti culturali e scientifici che abbiamo, e dei commenti patristici e
spirituali. Ricordiamoci che il fine è la meditazione del testo stesso; la
comprensione del testo che è richiesta dalla lectio divina, dipende
dall'intelligenza dell'intera Bibbia, dalla conoscenza della "Scrittura
attraverso la Scrittura" (è il metodo dei Padri), dalla capacità di lettura
mediante concordanze, accostamenti, richiami di testi paralleli. Si provi ad
esempio con un brano sulla Bibbia di Gerusalemme, andando a cercare tutti i
richiami indicati in margine; si vedrà come l'orizzonte si allarga e pian piano
si estra nell'atmosfera della parola di Dio; si crea così uno spazio di
risonanza, che illumina e accresce il messaggio e provoca, sotto l'azione dello
Spirito Santo, l'intelligenza estensiva e spirituale. S. Gregorio Magno, grande
maestro della lettura spirituale della Scrittura,, ha un'espressione bellissima:
"Scriptura crescit cum legente" « "la Scrittura cresce con chi legge",
Omelia VII su Ezechiele, libro I, n.8», cioè le Scritture sante si sviluppano e
accrescono nel loro senso e negli annunci profetici di salvezza, a seconda della
fede e dell'amore di chi legge.
3. PREGHIERA « Oratio »
I momenti precedenti quasi conducono alla preghiera. In
realtà già quanto detto finora è una forma di preghiera; si tratta di prenderne
coscienza, ed è la risposta alla lettura, si entra in conversazione con
Dio; la parola è venuta in noi ed ora torna a Dio sotto forma di preghiera. Ed è
questa la vera preghiera cristiana, quella che sgorga dal cuore al tocco della
divina parola. "Cerca di non dire niente senza di Lui" - dice S. Agostino - "ed
Egli non dirà nulla senza di te" (Esposizione sul salmo 85,1); cioè, prega con
la parola di Dio ed Egli allora non manderà a vuoto in te la sua Parola. Si
tratta di fare nostre le parole della Scrittura, farle entrare nel cuore, e poi
restituirle a Dio dopo averle segnate con la nostra adesione. Ascoltiamo ancora
S. Agostino: "Se il salmo è preghiera, pregate; se è gemito, gemete; se è
riconoscente, siate nella gioia; se è un testo di speranza, sperate; se ispira
il timore, temete" (Esposizione sul salmo 33). è una risposta nell'umiltà, nella
piccolezza, ma anche nella franchezza che è possibile proprio quando si parla a
Dio con le sue parole. Lo ha ben compreso l'intelligenza liturgica della Chiesa
che ci mette sulle labbra sempre parole ispirate. (Penso sia superfluo - tanto
appare scontato da quanto detto - ricordare l'aggancio tra lectio divina e
liturgia: la lectio divina è preparazione e, nello stesso tempo,
prolungamento della liturgia della parola. (Vedi soprattutto: AA.VV. L'oggi
della Parola di Dio nella Liturgia, Torino, 1969).
Abituiamoci dunque a nutrire la nostra preghiera di
tutto quel ricco deposito che la Parola di Dio, letta nel silenzio, o ascoltata
nella proclamazione liturgica, ha lasciato in noi.
4. CONTEMPLAZIONE « Contemplatio »
Non è qualcosa a cui arriviamo noi, con sforzi
personali, è un dono dello Spirito Santo che germoglia sulla nostra lettura
pregata. Non è estasi, né esperienza straordinaria, o stato mistico, o visione,
ma è esperienza viva di fede, è Cristo che si manifesta nelle Scritture. Egli è
così entrato nella parte più intima del nostro essere: non ci resta che
guardarlo e contemplarlo, come Maria la Madre di Gesù a Betlemme, e come Maria
di Betania seduta ai suoi piedi (Lc.10,39). Ogni pagina della Scrittura ci svela
questo Cristo e ce lo fa emergere nella lectio divina.
Gesù, nel Vangelo di Giovanni, promette l'esperienza di
Dio a chi lo ama veramente e accoglie la sua parola, quando parla di un
"manifestarsi" a lui (Giov.14,21.23); e ancora dice: "Questa è la vita eterna:
che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo"
(Giov.17,3). Sappiamo tutta la forza di quel verbo "conoscere" « ebraico
"jadà, intraducibile nelle nostre lingue), un 'conoscere' frutto di
amore, entrare in profonda comunione, creare un rapporto di intimità con Lui, un
"conoscere sapienziale", quella conoscenza di Cristo di cui tanto spesso parla
S. Paolo (Efes.3,10; Filip.3,10; Colos.1,10; 2,2-3; 3,10; ecc.) e che si
identifica con la fede adulta di ogni cristiano; essa è l'oggetto della
preghiera dell'Apostolo per i fedeli: "(...) potentemente rafforzati dal suo
Spirito nell'uomo interiore. Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e
(...) siate in grado di conoscere l'amore di Cristo che sorpassa ogni
conoscenza, perchè siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio" (Ef.3,16-19).
Questa è la sostanza di ciò che Cassiano e la tradizione monastica chiamano la "oratio
pura", questa è la contemplatio nell'ultima tappa della lectio
divina.
IV. ALCUNE DIFFICOLTA'
Non vogliamo, al termine di questa esposizione,
dissimulare alcune difficoltà. Se si dice - e giustamente - che la pietà
monastica è fondata sulla Bibbia, non bisogna dimenticare che il soggetto di
tale lettura è l'uomo concreto, l'uomo del nostro tempo, con il suo
bagaglio psicologico e ambientale.
Una prima difficoltà deriva dal fatto stesso della
lettura, di come si serve della lettura l'uomo d'oggi. L'uomo moderno legge
velocemente; la civiltà moderna esige velocità nella stessa lettura, la
quale è soprattutto "informativa", tende a far sapere il maggior numero di cose
nel minor tempo possibile: la lectio divina, invece, deve essere lenta.
La lettura che cerca di acquistare nuove conoscenze lo vuole fare nella maniera
più veloce: la lectio divina, al contrario, è a base di "ruminazione",
cioè della lenta assimilazione del testo letto. L'uomo moderno, poi, legge
per agire, si documenta in vista dell'azione, la sua lettura guarda
all'efficacia, all'efficienza: la lectio divina, invece, deve essere
disinteressata. L'uomo moderno, inoltre, legge per distrarsi: di qui
la moda (anche nei film e in TV) dei romanzi d'evasione, dei gialli intricati,
della fantascienza, per uscire appunto dal quotidiano, dalla vita di sempre: la
lectio divina è una lettura impegnata, in cui uno si sente realmente e
direttamente coinvolto. E ancora l'uomo moderno si informa e si distrae
collettivamente: fino a pochi anni fa c'era la civiltà del libro che
sviluppa un'informazione individuale, ora, con i mass-media, la civiltà attuale
produce un tipo di informazione collettiva: la lectio divina, invece, è una
lettura solitaria, un rapporto personalissimo tra pagina sacra e lettore.
Altra difficoltà: non dimentichiamo che la S. Scrittura
non sempre è così facile o immediata; richiede una certa preparazione, studio, e
quindi tempo. Un'altra difficoltà è data dal fatto che i testi dei Padri non
sono così facilmente gustabili, se non si ha una determinata formazione, se non
si entra in una certa mentalità. Alcune interpretazioni allegoriche sembrano a
noi un pò ricercate e forzate, non ci danno il senso dell'immediato,
dell'attualizzazione ovvia ed evidente; siamo abituati poi a un linguaggio
diverso, ecc. Tuttavia, non dobbiamo lasciare (anzi dobbiamo riscoprire) i
Padri: il loro metodo è il migliore per una lettura orante della Bibbia;
è un cibo duro, ma solido e nutriente.
Aggiungiamo tutte le difficoltà dell'uomo di oggi per
raccogliersi, per concentrarsi. Per riuscire in questo, ci vuole sforzo
continuo, fatica, allenamento. Bisogna proprio riconsiderare il rapporto tra
preghiera, lectio e ascesi. C'è tutto il problema di una certa preparazione alla
preghiera e alla lectio divina: una preparazione remota, che comprende tutta la
vita, uno sforzo di coerenza alla propria vocazione, l'evitare una eccessiva
agitazione e dissipazione nel lavoro o nel ministero; una preparazione prossima,
per stabilire pace e silenzio in noi stessi, oltre che all'esterno... Tutte
queste cose non sono sempre così facili e soprattutto non sono affatto scontate:
dobbiamo fare i conti con le situazioni concrete della vita e della persona
umana!.
E pensiamo quindi al problema di fondo, cioè a una
dimensione maggiormente contemplativa della vita monastica. Per arrivare a
quell'atmosfera in cui sia possibile una proficua lectio divina, bisogna
recuperare il valore della solitudine, del silenzio, di una
vita nascosta in Dio, valori che forse davanti al mondo d'oggi il
monachesimo è chiamato a incarnare e testimoniare.
CONCLUSIONE
Davanti alle difficoltà accennate, davanti forse a
tutta l'esposizione precedente, si potrebbe avere l'impressione di un apparato
complesso, complicato, e ci si potrebbe chiedere se la lectio divina non sia un
"esercizio monastico" divenuto anacronistico, resto di una civiltà passata. Ma
se si prova a dare spazio allo Spirito del Signore, se ci si mette con
semplicità e povertà davanti a Lui, tutto appare molto più semplice. Bisogna
fare l'esperienza, sia pure nello sforzo, nell'aridità. Dobbiamo tornare alla
lectio divina, tornare a fare il vero "metodo" di vita spirituale.
S. Gregorio Magno rimproverava dolcemente Teodoro, il
caro amico medico, perchè non trovava più il tempo di attendere quotidianamente
alla lectio divina come si era impegnato: "ogni giorno medita le parole del tuo
Creatore. Conosci il cuore di Dio nelle parole di Dio" «disce cor Dei in
verbis Dei, Epistola 31,54». Quel povero Servolo, paralitico e analfabeta,
che con grande sacrificio si era procurato il codice della Scrittura e se la
faceva leggere dai suoi visitatori, è proposto da Gregorio come esempio
(IV.Dial.15; Omelie sui Vangeli 15,5). All'abate Giovanni raccomanda che attenda
"ad lectionem atque orationem" « alla lettura e all'orazione »; e ai suoi monaci
rivolge lo stesso invito, lamentandosi che non li vede "ad lectionem vacare"
(Epistola 3,3). Il santo abate Equizio, che ha tanti punti in comune con S.
Benedetto, è presentato da Gregorio nella sua predicazione peregrinante con
l'immancabile codice della S. Scrittura (I. Dial. 4). E c'è l'esempio fulgido di
Gregorio stesso, Pontefice, ma fedele come un monaco alla lectio divina; nella
predicazione, commentando Ezechiele, fa un umile e commovente esame di coscienza
personale di fronte alla parola di Dio: "Tacere non posso )...; parlerò, parlerò
affinché la spada della parola di Dio (...) arrivi a trafiggere (...); parlerò,
parlerò affinché la parola di Dio risuoni anche contro di me per mezzo mio"
(Omelia XI su Ezechiele, libro I, n.5).
Venendo poi a noi monaci silvestrini, troviamo
splendidi esempi di lectio divina nella Vita Silvestri e nelle Vite dei suoi
primi discepoli. La ruminatio verbi sia anche per noi nutrimento e
consolidamento spirituale. Se non ne comprendiamo l'utilità, il Signore ci
faccia la grazia di sentire, come Agostino in una serata d'agosto del 386 in un
giardino a Milano: "Tolle, lege" « prendi e leggi »! (Confes. VIII, 12,29).
Alcune indicazioni pratiche per "pregare la Parola" si possono trovare in E.
BIANCHI, Pregare la Parola, pp.67-69).
* * * * * * *
NOTA BIBLIOGRAFICA
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21 giugno 2014