Regola di S. Benedetto

Capitolo XLVIII - Il lavoro quotidiano: "L'ozio è nemico dell'anima, perciò i monaci devono dedicarsi al lavoro in determinate ore e in altre, pure prestabilite, allo studio della parola di Dio. ..... Ma se le esigenze locali o la povertà richiedono che essi si occupino personalmente della raccolta dei prodotti agricoli, non se ne lamentino, perché i monaci sono veramente tali, quando vivono del lavoro delle proprie mani come i nostri padri e gli Apostoli. Tutto però si svolga con discrezione, in considerazione dei più deboli. ....."

Capitolo LVII - I monaci che praticano un'arte o un mestiere: "Se in monastero ci sono dei fratelli esperti in un'arte o in un mestiere, li esercitino con la massima umiltà, purché l'abate lo permetta... "affinché in ogni cosa sia glorificato Dio". "



MONACHESIMO, LAVORO
E IDENTITÀ MODERNA

Franco Riva

Estratto da “Ascesi mondo e società

Abbazia San Benedetto – Seregno 2003

 

Il problema del lavoro è una questione essenziale per la società civile, a maggior ragione quando sono in atto delle trasformazioni epocali nel suo modo di essere inteso e organizzato. Nell’immaginario culturale contemporaneo ci si riferisce al monachesimo benedettino a proposito delle concezioni del lavoro. Se questo riferimento si motiva, all’indietro, nel ruolo storico e teorico giocato circa il lavoro, si nutre pure di domande etiche ed esistenziali ben più vaste. Anche il monachesimo diventa una finestra dove osservare l’esperienza del lavoro, nei suoi significati individuali e sociali.

Le principali coordinate di lettura del lavoro monastico riguardano i significati esistenziali e religiosi che esprime; la razionalità che suggerisce con la sua regolazione; il rapporto con l’identità moderna e postmoderna. Per ciascuna di queste coordinate si incontrano valutazioni di segno discordante, spesso intrecciate tra di loro. I significati esistenziali del lavoro oscillano tra dimensioni punitive, o ascetico-sacrificali, ed espressioni più riconciliate con l’umanità dell’uomo. Il metodo monastico del lavoro viene visto come un’anticipazione della logica moderna dell’economico, ma anche come premessa dell’asfissia sociale della società votata alla produzione. Il rapporto con l’identità moderna e postmoderna varia di conseguenza, a seconda che si privilegi l’esaltazione piuttosto che l’equilibrio monastico del lavoro.

Dopo aver richiamato la consapevolezza dell’incidenza, si fissano dapprima i significati esistenziali attribuiti al lavoro monastico, a partire da quelli meno positivi, per passare quindi al rapporto tra il lavoro monastico e l’identità moderna. Si continua poi (cap. III) con le riletture contrastanti che il lavoro monastico riceve nella crisi della modernità.

 

1. Lavoro e preghiera

Anche se il motto «Ora et Labora» non è direttamente di origine benedettina, esprime pur tuttavia in modo sintetico una doppia attenzione evidenziata in questo tipo di monachesimo, al punto che la formula stessa, soprattutto dal 700 ad oggi, diventa luogo comune culturale. Con quel motto si associa infatti all’idea di una comunità di preghiera, quella di una comunità di lavoro e di azione, dando così all’organizzazione monastica della vita associata un valore civile. In essa si riconosce in fondo una «città» che, pur guardando, anticipandola, alla Gerusalemme celeste, nulla toglie alla sua organicità e alla sua completezza, di modo che il monastero

 

«era di fatto un nuovo tipo di polis: un’associazione, o più esattamente una confraternita, di persone che la pensavano nello stesso modo e che si radunavano non soltanto per cerimonie occasionali ma per coabitare permanentemente nel tentativo di condurre sulla terra una vita cristiana rivolta unicamente e sinceramente al servizio di Dio... Accettando la povertà come norma di vita, si riduceva l’intero apparato fisico per la sopravvivenza corporale e si nobilitava il lavoro trasformato in obbligo morale»[1].

Oltre che in una diversa spiritualità, anche nell’assunzione di una prospettiva più essenziale circa i beni materiali, e nella trasformazione del lavoro in obbligo morale, si osserva la diversità della vita monastica benedettina sia dal monachesimo precedente, sia dagli ideali aristocratici della classicità greca e romana. Nel monachesimo pre-benedettino il lavoro non veniva comandato, oppure veniva comandato in modo diverso[2], mentre nel mondo classico il lavoro era considerato un’occupazione inferiore dell’esistenza (tema ripreso anche all’interno della cultura cristiana), ed una discriminante di classi sociali: la condizione sociale della schiavitù era strettamente connessa all’organizzazione collettiva del lavoro. Nel monachesimo benedettino il lavoro viene assunto in una prospettiva esistenziale e religiosa che se per un verso si radica nella morale biblica, per un altro verso porta con sé la finalità principale della comunità monastica. Il lavoro si trova così sottoposto a delle tensioni intime, e a delle riletture sempre contrastate: il lavoro è appunto riabilitato, ma viene recuperato non solo in se stesso, quanto per una serie di motivi che lo fanno dipendere dal fine principale della comunità religiosa ed ascetica, come se l’etica della santificazione nel lavoro oscillasse tra «affermazione teorica» e «negazione pratica»[3].E tuttavia, l’assunzione regolata del lavoro accanto alla preghiera e alla contemplazione lo fissa definitivamente all’attenzione, appunto perché il lavoro viene comunque attirato all’interno del «modello più alto di perfezione cristiana, il monaco»[4].

 

2. Lavoro e conflitti di interpretazione

Nell’atteggiamento del monachesimo circa il lavoro, riecheggia la doppia sensibilità implicita nell’incarnazione: il rapporto più stretto con Dio, e l’impossibilità del disprezzo totale del mondo. Cielo e terra: «preghiera e lavoro» sono le due parole che riassumono la possibilità di un diverso orientamento dell’esistenza, e che si esplicita esemplarmente, secondo M. Gauchet, proprio nella storia del monachesimo, che si può rileggere per intero come storia

 

«delle interpretazioni e dei conflitti d’interpretazione della regola di san Benedetto circa il modo corretto di articolare tra loro la vita attiva e la vita contemplativa»[5].

 

Gauchet si riferisce in maniera esplicita anche alle esperienze di Cluny e di Citeaux[6]. Ma la storia interna del monachesimo benedettino interessa come illustrazione di possibilità alternative di dare ordine al rapporto tra cielo e terra:

 

«da un lato la ri-gerarchizzazione cluniacense fra cielo e terra, che porta a liberare i monaci dai compiti materiali a vantaggio dell’essenziale, la preghiera: ma sempre all’interno, punto fondamentale, d’una impresa rivolta, sia pure mediante mani servili, alla valorizzazione del soggetto terrestre. E d’altro lato, l’esigenza cistercense di riunire i diversi ambiti e del lavoro esercitato direttamente dalla comunità: di fatto, di prendersi carico, per mezzo delle fatiche degli uomini di Dio, dello iato fra cielo e terra e della correlativa sollecitazione a passare attraverso la valorizzazione attiva del quaggiù per raggiungere l’aldilà»[7].

 

Prima ancora si menziona l’origine del problema, riferendosi alla diversità intercorrente tra il monachesimo orientale eremitico, e il monachesimo benedettino. La Regola di Benedetto si situa appunto all’incrocio delle due esigenze più sopra richiamate, all’incrocio cioè della contemplazione e dell’azione.

Di nuovo non interessa solo l’aspetto storico-culturale, ma la concezione complessiva che si trova al di sotto. L’eremitismo presenta una svalutazione del sensibile, e un pensiero

 

«dell’Uno intelligibile come sola verità»[8].

 

Nella scelta del cenobio la Regola benedettina esprime invece un «dio altro», al quale

 

«ci si rapporta nella sua verità riconoscendo quel che ci separa da lui e assumendo il carico della consistenza autonoma della sfera a cui siamo assegnati»[9].

 

Qui non si trova

 

«l’annullamento interiore delle apparenze, l’abolizione della falsa consistenza di questo mondo, altrimenti detto, perfino per chi si vuole morto al mondo; ma l’obbligo di assumere lo spessore di una realtà alla quale non si saprebbe sfuggire, tanto grande e onnipotente che sia il pensiero dell’altra realtà — essendo ancora l’ordinamento industrioso del visibile un modo di onorare il Creatore che lo ha voluto come tale. Per l’uomo stesso di Dio, per colui che vive solo per la salvezza, sono e restano un dovere il lavoro come consenso minimale a questo mondo, e la disciplina dell’impresa collettiva quale attestazione di una insormontabile appartenenza all’ordine dell’uomo»[10].

 

Il lavoro mantiene, per chi è morto al mondo, il segno dell’appartenenza al mondo in un triplice senso: rifiuto dell’annullamento dell’umano come tale; partecipazione all’attività creatrice di Dio; esercizio di collaborazione con gli altri, perché

 

«l’atleta della salvezza deve condurre la sua elevazione individuale verso Dio nella solidarietà, nella concordia con i suoi simili e i suoi pari»[11].

 

Grazie al lavoro — individuale e collettivo, materiale e intellettuale — la fuga monastica dal mondo rimane nel mondo: la carnalità dell’uomo è insuperabile perfino nel luogo dell’anticipazione della meta definitiva.

Indicato come precetto di vita, e così nobilitato, il lavoro viene nello stesso tempo relativizzato perché assunto all’interno delle motivazioni specifiche della comunità monastica. Questa dialettica tra la valorizzazione e l’utilizzo spirituale del lavoro costituisce un motivo persistente del modo con cui il lavoro monastico viene osservato, sullo sfondo degli interrogativi circa il ruolo che l’eredità cristiana ha giocato nella comprensione del lavoro stesso in Europa, e quindi sullo sfondo del più vasto problema dei passaggi epocali e della costruzione dell’identità moderna.

Il rapporto tra monachesimo e lavoro nella cultura contemporanea può così essere osservato attraverso alcune fondamentali tensioni dialettiche, che si intrecciano tra di loro, e in qualche caso anche si oppongono, messe a fuoco sullo sfondo dell’oscillazione tra l’ottica della mortificazione della carne (il peccato) e una piena realizzazione dell’umanità (la creazione): la tensione biblica tra la maledizione e la benedizione; la tensione tra azione e contemplazione; la tensione tra sacro e profano.

 

3. Strumentalità e solidarietà

Quando Hannah Arendt arriva ad attribuire all’eredità cristiana una responsabilità circa l’impoverimento del concetto di azione, e la vittoria dell’«animal laborans» nella modernità, insieme al Nuovo Testamento chiama in causa anche l’esperienza monastica del lavoro, in un quadro dal forte e non così armonizzato contrasto. Al cristianesimo in particolare si rimprovera di essere stato la causa di una distrazione nei confronti della vita attiva, avendo prepotentemente e polemicamente sottolineato la vita contemplativa e la fuga dal sociale. Il lavoro monastico compare in questa analisi come sottoposto ad un duplice contrastante giudizio. Da un lato anche il monachesimo, così caratterizzante la stagione medievale, viene attirato nella concezione strumentale del lavoro, che il cristianesimo avrebbe ereditato dalla classicità. Si cita in proposito il parere di Tommaso d’Aquino, che seguirebbe su questo punto

 

«Aristotele piuttosto che la Bibbia e asserisce che “solo la necessità di mantenersi in vita costringe al lavoro manuale”»[12],

 

come a dire che lavorare non è per sé necessario, e risponde ai bisogni del livello minimale dell’esistenza. Si menziona ancora l’uso del lavoro come rimedio contro l’ozio, anche questo ereditato dalla mentalità romana, di modo che in

 

«perfetta armonia con le antiche convinzioni intorno al carattere dell’attività lavorativa, infine, è il frequente ricorso cristiano alla mortificazione della carne, dove il lavoro, specialmente nei monasteri, giocava talvolta il medesimo ruolo di altri esercizi penosi e di forme di autopunizione»[13].

 

Nella concezione cristiana del lavoro rimane presente un residuo platonico: il sospetto nei confronti del corpo e la necessità di disciplinarsi. Questo è il senso della «mortificazione della carne»: attraverso la fatica del lavoro, il corpo viene regolato, e i desideri temperati. Il monachesimo inoltre promuove la pratica del lavoro come mortificazione della carne. È «soprattutto» nei monasteri, infatti, che il lavoro viene utilizzato alla pari di altre pratiche spirituali di autopunizione.

Pur essendo nei monasteri che si mortifica la carne con il lavoro, questo avviene tuttavia «talvolta». Da un altro lato, infatti, la concezione monastica del lavoro non è del tutto riducibile nei termini di una pratica ascetica e punitiva. Vengono ricordati a questo proposito sia la Regola di Benedetto, sia quella di Agostino:

 

«nelle regole monastiche, particolarmente nell’Ora et labora di san Benedetto, il lavoro viene raccomandato contro le tentazioni della pigrizia (cfr. cap. 48 della regola). Nella cosiddetta regola di Agostino (Epistulae, 211), il lavoro è considerato come una legge di natura e non come punizione del peccato. Agostino raccomanda il lavoro manuale (egli usa come sinonimi le parole opera e labor contrapponendole a otium) per tre ragioni: in primo luogo il lavoro aiuta a superare le tentazioni della vita oziosa; poi esso giova, nei monasteri, a compiere il dovere di carità verso i poveri; infine il lavoro è favorevole alla contemplazione perché non impegna eccessivamente il cervello come altre occupazioni, come l’acquisto e la vendita di beni»[14].

 

La pratica del lavoro nel monastero non si riduce quindi né alla mortificazione della carne, né alla polemica contro l’oziosità. Accanto alla condanna della pigrizia (motivo non solo romano, ma prima ancora biblico-sapienziale), il lavoro manuale viene promosso pure in ordine alla possibilità della carità verso i poveri, e per la sua compatibilità con la vita contemplativa, a differenza del commercio.

 

4. Lavoro, riscatto e mortificazione

Il motivo discriminante del passaggio nella concezione monastica del lavoro tra un accento punitivo, che cade principalmente sulla mortificazione, e un accento anche positivo, riguarda il rapporto tra il lavoro e la concezione dell’uomo. Se il lavoro viene concepito soprattutto come una punizione per il peccato d’origine, secondo una certa lettura dei racconti biblici delle origini (Gen. 3), a sua volta vicina come sensibilità ai miti greci[15], allora esso viene assunto in una prospettiva ascetica che intende il lavoro principalmente quale strumento di mortificazione: nell’immaginario medievale Adamo e la Morte dissodavano insieme, con enorme fatica, la terra; se invece il lavoro viene letto nell’ottica di una legge di natura, recupera l’orizzonte della creazione e, con questo, una positività che appartiene all’uomo in quanto tale.

Stando ancora sul lato della mortificazione, può essere interessante notare che quando Simone Weil trova uno spiraglio positivo alla condanna biblica del lavoro, segnato dalla maledizione e dalla sofferenza, si affida ad un certo di tipo di ascetica «cristiana» dell’abbassamento e dell’incarnazione, che agisce in maniera dialettica a favore della risalita a Dio[16]. Il lavoro compare in un elenco di segnali («la necessità inflessibile, la miseria, l’angoscia, il peso schiacciante del bisogno e del lavoro che sfinisce, la crudeltà...») del «ritrarsi» di Dio dal mondo come segno del suo amore[17]. Il lavoro manuale rimane segnato da un «grande dolore», che costringe «a uno sforzo tanto prolungato semplicemente per esistere», e fa sperimentare

 

«in modo spossante il fenomeno della finalità ribattuta come una palla: lavorare per mangiare, mangiare per lavorare. Se si considera uno dei due come fine, oppure l’uno e l’altro presi separatamente, si è perduti. Il ciclo contiene la verità»[18].

 

Nel luogo stesso della propria crisi, il lavoro trova tuttavia il proprio senso partecipando, con la sua inevitabile sofferenza, al riscatto dell’umanità e del mondo caduto. È in fondo la logica del chicco di grano, che se non muore, non porta frutto; e così il lavoro:

 

«movimento discendente. L’uomo deve farsi cosa affinché la cosa si faccia energia umana (allo stesso modo Dio che si fa uomo affinché l’uomo si faccia Dio...)»[19].

 

Il lavoro si inquadra così nel riscatto dal peccato, nella partecipazione alla redenzione, e come imitazione della passione più che della creazione[20], a patto però che il lavoro sia consapevole, dal momento che colui «che lavora nell’incoscienza non imita la crocifissione»[21]. Il lavoro come crocifissione conduce più avanti rispetto alla maledizione biblica del sudore e della terra, scoprendo una positività all’interno della sofferenza stessa. La sofferenza assunta nel lavoro diventa una forma di solidarietà con l’opera della redenzione. Il lavoro permette in definitiva un’imitazione di Cristo nella fatica e nel dolore fisico consapevolmente assunto e offerto. È il tema del sacrificio necessario.

 

5. Sacrificio e redenzione

Il sacrificio necessario si collega ancora all’ottica della maledizione, all’interno della quale non tutto è negativo per il lavoro. M. Scheler, anche in polemica con Weber, distingue tra l’esaltazione riformata del lavoro come professione e l’equilibrio cattolico. Con riferimenti che vanno dalla Bibbia alla Regola benedettina, mostra che accanto alla punizione si dà anche gioia nel lavoro; una gioia che sorge proprio in riferimento al suo aspetto ascetico e sacrificale, in quanto redenzione dell’uomo caduto e come destinazione del mondo subumano. La prospettiva ascetica del lavoro, medievale e monastica, avrebbe il merito di valorizzare il lavoro senza cadere nella religione del lavoro. Tale equilibrio viene trovato assegnando al lavoro dei limiti ben precisi: la produzione non è fine a se stessa; il lavoro non va mercificato; l’uomo deve governare il proprio lavoro. La gioia del lavoro cresce inoltre tanto più quanto più si pensi alla vicinanza dell’uomo, nello stato d’origine, all’atto del creatore[22]. In quest’ottica, il lavoro viene assunto in radice nella direzione di un impegno sacrificale che collabora alla redenzione: una prospettiva ispirata ad un certo ascetismo che trova, singolarmente, la gioia all’interno della pena, riscattabile, ma giustificata in definitiva nel suo dolore.

E. Mounier distingue invece tra una spiritualità «penitenziale» ed una spiritualità «ascetica e gloriosa del lavoro», lamentando che si sia data troppa importanza alla prima. La conseguenza è di rinchiudere il lavoro nell’ottica della maledizione, mentre questo «immenso sforzo per liberare l’uomo dal lavoro attraverso il lavoro è la promessa data per la prima volta a tutti gli uomini di poter essere disponibili, in un arco di tempo storicamente misurabile, per le vocazioni principali; è la prima, necessaria tappa della liberazione spirituale»[23]. San Bernardo, ma anche san Benedetto e Pacomio, vengono evocati nel solco di una tradizione dell’ascesi senza eccessi. Bernardo in particolare, «dottore dell’ascetismo» è al tempo stesso diffidente nei confronti degli atteggiamenti che disprezzano il corpo, e delle «teologie austere» che inducono al pessimismo storico e dualistico[24]. Si cita in proposito per due volte e in modo esteso la lettera di Bernardo al priore e alla comunità della Grande Certosa, dove si ragiona sull’amore: ha Dio come meta, ma sorge nella carne, così che lo «spirituale non smentisce quel che è animale»[25]. Il lavoro disciplinato rende concreto il fatto che il cammino spirituale (cfr. 1 Cor.) cominci nella carne.

 

6. Lavoro e ascesi inframondana

Un nodo discriminante della concezione monastica del lavoro riguarda la sua iscrizione nell’ordine dell’ascesi, che fa ondeggiare visibilmente i giudizi. A proposito del rapporto tra il lavoro e l’ascesi si impone la ricerca di Weber sulla relazione tra l’etica protestante e lo spirito del capitalismo. Questa ricerca ha come oggetto principale l’influsso della religiosità riformata sul sorgere dell’economia capitalistica. Essa esprime tuttavia una serie di giudizi sull’ascesi monastica e la concezione del lavoro. T. Parsons ricorda l’importanza che Weber assegnava alla via ascetica, al punto che l’ascesi stessa si poteva presentare come un «lavoro» esercitato su se stessi: «Weber attribuisce quindi molta importanza al ruolo assolto dal lavoro, cioè dal lavoro “utile” in senso mondano, come la coltivazione di raccolti quale esercizio ascetico nella regola benedettina. Questo egli lo vedeva come una buona illustrazione dell’orientamento generale al dominio»[26].

L’ascesi monastica compare nelle analisi di Weber spesso in tono polemico, a giustificazione delle tesi dei riformati, in particolare di Lutero e di Calvino. In discussione si trova allora ad essere soprattutto l’opposizione etico-cristiana tra l’impegno nel mondo, e la fuga dal mondo[27], che fa del lavoro quasi un perno del dibattito. All’interno dell’opposizione Weber trova però anche una continuità, perché la Riforma avrebbe rovesciato l’ascesi oltremondana del monachesimo in una ascesi inframondana. Nel monachesimo Weber trovava un «altro aspetto del cristianesimo tradizionale che gli pareva molto più consistente e interessante, e che in effetti presentava delle affinità di significato rispetto ad alcuni aspetti dello spirito del capitalismo»[28].

Nel rovesciamento di prospettiva diventa decisiva la considerazione dello stato di grazia del cristiano, quello stato cioè in cui l’uomo viene liberato dalla condizione mondana e di peccato. Dal momento che viene rifiutata una salvezza ottenuta con mezzi magico-sacramentali, a favore di una prova dell’esistenza, diventa fondamentale l’esigenza di ordinare l’esistenza stessa, di arrivare cioè ad un controllo metodico e razionale dell’esistenza nel mondo. Sorge qui l’esigenza di una ascesi infra-mondana che, mentre smentisce l’ascesi privilegiata del monaco come «opus superogationis», conferma l’ascesi in direzione mondana e democratizzata, ossia per tutti, nella direzione dell’impegno preferenziale nel lavoro e nella famiglia. In questa ascesi inframondana sta l’origine della professione (Beruf) come vocazione, che più che in Lutero, trova in Calvino la propria teorizzazione.

La concezione monastica del lavoro in quanto «mezzo ascetico», in particolare, avrebbe anticipato lo spirito dell’economia capitalistica invitando l’uomo ad applicarsi metodicamente nella professione.

Il comando del lavoro continuo e regolare, mediato da Paolo, costituisce la premessa dell’economia moderna, con il suo sforzo potente di dare «ordine» al mondo umano. «Lavorare è pregare»: con Calvino cade ogni gerarchia tra preghiera e lavoro, ricomponendoli in un’«unità indissolubile»[29].

Il problema del ruolo del monachesimo circa la genesi dell’uomo economico, conduce alla più vasta questione del rapporto con la formazione dell’uomo moderno. Anche in questo caso ci si trova dinnanzi a giudizi che si rovesciano facilmente nel loro contrario. Se si assume infatti l’uomo moderno all’insegna di un attivismo e di una propensione inframondana, allora sembrerebbe che quest’uomo nasca in antitesi all’uomo medievale e monastico, che rifiuta il mondo e si rivolge ad un al di là. In quest’ottica, la valorizzazione del lavoro sarebbe possibile soltanto rifiutando o correggendo fortemente la tendenza ad assumere asceticamente l’attività umana. Ma l’esagerazione posta nell’insistere sull’attività, prolungata in direzione tecnica e scientifica, ha provocato una doppia rivisitazione di questo giudizio. Per un verso, difatti, si recupera l’«ozio» monastico come atteggiamento più cauto e sapiente rispetto alla proliferazione forsennata del lavoro e all’aggressione mondana che implica l’esaltazione dell’atteggiamento tecnico-trasformativo. Per un altro verso, proprio nell’esaltazione dell’uomo come creatore e sovrano del mondo si vuole scorgere un’eredità medievale e cristiana, così come nell’individualismo caratteristico dell’uomo borghese: il «signore» moderno del mondo non sarebbe che la derivazione del tema medievale dell’uomo come immagine di Dio, e quindi dio esso stesso a certo titolo.

 

7. Lavoro monastico e identità moderna

Nell’ottica di un discorso sulla costruzione dell’identità moderna, C. Taylor insiste sul fatto che la rottura con l’ordine precedente si è consumata attraverso l’affermarsi della ragione strumentale.

All’origine dell’età moderna vi è una doppia riscoperta. Bacone propone un sapere dinamico e utile alla convivenza umana, riprendendo la fonte dimenticata della realtà sperimentale. In polemica con le visioni ascetico-monastiche, impregnate di dualismo platonico, la Riforma riscopre poi un’altra fonte trascurata, le Scritture[30]. I due recuperi sono a ben vedere in stretto rapporto, perché la riscoperta della spiritualità biblica conduce anch’essa, presso i riformati, alla liberazione delle potenzialità che discendono da «una delle più fondamentali intuizioni della tradizione religiosa giudaico- cristiano-islamica»[31], ossia il rapporto tra il Dio creatore e la bontà della creazione: l’inizio del Genesi vede il mondo non nell’ottica del peccato, bensì in quella della benedizione e della santificazione, anche se, paradossalmente,

 

«erano stati i monaci stessi a dare testimonianza per primi della possibilità di vivere una vita di preghiera nel lavoro»[32].

 

Non a caso H. Arendt, sulla stessa linea, ricorda i tre grandi eventi che si collocano

 

«alla soglia dell’età moderna e ne determinano il carattere: la scoperta dell’America e la successiva esplorazione di tutta la terra; la Riforma che espropriando le proprietà ecclesiastiche e monastiche iniziò il duplice processo dell’espropriazione individuale e dell’accumulazione della ricchezza sociale; l’invenzione del telescopio e lo sviluppo di una nuova scienza»[33].

 

Ad ogni modo, solo la benedizione e la santificazione permettono una «vita comune» tra gli uomini, incentrata sul lavoro e sul matrimonio. Il parallelo superamento dell’atteggiamento contemplativo per un verso, e delle visioni ascetico-monastiche per un altro verso, permette di dare spessore alla vita dell’uomo nel mondo, e quindi di orientare positivamente il lavoro come un compito richiesto da Dio stesso. L’etica borghese, né aristocratica, né contemplativa, e incentrata sulla famiglia e sulla produzione[34], deve così la sua possibilità proprio al rifiuto della concezione monastica del mondo e della vita.

Nel raccontare come è avvenuto questo ribaltamento di prospettiva, Taylor insiste sul rovesciamento della prospettiva monastica. La valorizzazione della vita profana si deve a un duplice rifiuto, della mediazione tra l’uomo e Dio (la Chiesa Cattolica), e quindi del sacro medievale. Acquista in questo senso un valore emblematico la rinuncia alle vocazioni monastiche:

 

«ne è un esempio il ripudio delle speciali vocazioni monastiche che facevano parte integrante del cattolicesimo medievale. (...) Cattolici tradizionali e riformatori protestanti condividevano l’idea (errata) che queste vocazioni presupponevano una gerarchia di vicinanza al sacro (...) si era persa di vista la reciprocità della mediazione. E il risultato fu un impoverimento del livello di spiritualità della vita dei laici, e specialmente del lavoro produttivo e della famiglia. (...) L’istituzione stessa di speciali vocazioni monastiche sembrò in contrasto sia con il carattere non mediato che con la sincerità dell’impegno cristiano»[35].

 

L’affermazione del valore spirituale della vita del laico, e con questo del lavoro stesso, avviene in misura direttamente proporzionale alla negazione sia della vita monastica, sia delle vocazioni speciali. Difatti,

 

«la negazione di uno status speciale al monaco era nello stesso tempo un’affermazione della vita comune la quale, lungi dall’appartenere alla sfera del profano, è anch’essa consacrata e non ha affatto un ruolo subalterno. L’istituzione monastica fu vista come un insulto alla dignità spirituale del lavoro produttivo e della vita familiare, la loro degradazione a zone di sottosviluppo spirituale. Il ripudio del monachesimo fu una riaffermazione della vita laica come ambito privilegiato della realizzazione del disegno divino»[36].

 

La riabilitazione del lavoro implica così la polemica contro le visioni ascetiche del cristianesimo, che si allontanano dagli scritti biblici e dipendono eccessivamente dall’ideale stoico della rinuncia. Il concetto di rinuncia, in particolare, viene ad acquistare un’importanza strategica, dal momento che è proprio la logica della rinuncia che viene ad essere incriminata. Infatti, se presso i riformati è un errore l’amore incondizionato per il mondo, è altrettanto un errore la prospettiva ascetica. Anzi, l’amore smodato per il mondo non è che l’altra faccia della logica della rinuncia. Così, bisogna respingere in primo luogo

 

«l’errore dei monaci di rinunciare alle cose di questo mondo — proprietà, matrimonio — perché vorrebbe dire disprezzare i doni di Dio, che invece vanno valorizzati facendone un uso corretto. “Dio ci ha dato le cose temporali perché ne godiamo (...)”. L’ascetismo, però, non è soltanto una deviazione dal piano di Dio; è anche frutto dell’orgoglio nato dalla presunzione di poter contribuire alla nostra rigenerazione — che è il difetto del papismo»[37].

 

La consapevolezza del peccato e la rigenerazione richiesta non significa dunque rinunciare, in senso ascetico, alle cose del mondo, bensì goderne «mantenendo nel contempo un certo distacco», e con questo indirizzarsi a un uso corretto: vivere il mondo senza ridurvisi; indirizzare il mondo a Dio; amare il mondo senza mettere tra parentesi il Creatore; amare il mondo detestandolo.

 

8. Verso un’etica della professione

Non si tratta più di sacrificio e di mortificazione, e neppure di distinguere tra lavoro e lavoro. Cadono di conseguenza due discriminazioni: quella che assegna la vocazione di preferenza alla sfera religiosa, dal momento che se Dio «ha fatto l’uomo per il lavoro» (J. Hall), ogni professione diventa allora una vocazione; e quella che discrimina le diverse vocazioni in termini di maggiore e minore qualità ed autenticità. Se Dio ha fatto l’uomo per il lavoro, cadono anche le distinzioni tra il sacro e il profano, tra il nobile e l’umile, e tra lo spirito e il corpo. Il lavoro diventa direttamente e in se stesso mezzo di santificazione, al punto da diventare necessario: nella pratica ordinata e razionale del lavoro passa difatti una risposta al dono di Dio — risposta però non egoistica, perché l’esperienza del lavoro impone una certa dedizione, un certo distacco da se stessi, una risposta a Dio e un’apertura all’utilità per gli altri[38]. I «santi» puritani

 

«si distinguevano dalla massa disordinata delle creature mondane grazie alla loro industriosità e intelligenza: la loro industriosità rivelava la loro santità: a loro stessi e ai loro compagni»[39].

 

Il rifiuto delle logiche della rinuncia permette in definitiva la possibilità stessa di un’etica della professione, che ragiona sul modo di lavorare (con serietà, con scrupolo, con continuità), sull’intenzione (per Dio e per gli altri), sul fine (il bene comune), o ancora sui pensieri corretti (la preghiera nel lavoro). La «mossa spirituale decisiva» della modernità, «quella di strumentalizzare le cose»[40], deriva così per Taylor dall’«ascesi laica» o infra - mondana (Weber), che conserva per rovesciamento dialettico una memoria del rilievo dato al lavoro dal monachesimo benedettino.



[1] L. Mumford, The City in History, Harcourt, Brace and Jovanovich, New York 1961; trad. it. di E. Capriolo, La città nella storia, Bompiani, Milano 2000, p. 318 e p. 319.

[2] Cfr. A. de Vogüé, San Benedetto. L’uomo e l’opera, Abbazia San Benedetto, Seregno 2001, pp. 115 ss.

[3] Cfr. P. Donati, Il lavoro che emerge. Prospettive del lavoro come relazione sociale in una economia dopo-moderna, Bollati Boringhieri, Torino 2001, p. 58 (cfr. pp. 52 ss.).

[4] J. Le Goff, Tempo della Chiesa e tempo del mercante, Einaudi, Torino 1977, pp. 73-97; cfr. A. M. Baggio, Lavoro e cristianesimo, Città Nuova, Roma 1988, pp. 39 ss. (e M. Bloch, Lavoro e tecnica nel Medioevo, Laterza, Bari 1981, pp. 239 ss.).

[5] M. Gauchet, Le désenchantement du monde. Une histoire politique de la religion, Gallimard, Paris 1985; trad. it., di A. Comba, Una storia politica della religione, Einaudi, Torino 1992, p. 110, nota.

[6] Per cui si rimanda a G. Duby, Le monachisme et l’économie rurale, in Hommes et structures du Moyen Age, Mouton, Paris 1973.

[7] M. Gauchet, Il disincanto del mondo, cit., p. 110 nota.

[8] Ivi, p. 108.

[9] Ivi, p. 109.

[10] Ivi, pp. 110-111.

[11] Ivi, p. 108. 

[12] H. Arendt, The Human condition, Chicago 1958; trad. it. S. Finzi, Vita attiva. La condizione umana, Bompiani, Milano 1991- p. 236.Cfr. Tommaso d’A., Summa contra Gentiles, 3, 135; Summa theologiae, 2, 2, 187, 3, 5. 

[13] Ivi, p. 237.

[14] Ivi, p. 281, nota 84. Circa il significato del lavoro nei monasteri, Arendt rinvia a E. Delaruelle, Le travail dans les règles monastiques du 4e au 9e siècle, «Journal de psychologie normale et pathologique», 41 (1948), n. 1. Cfr. Agostino, I monaci e il lavoro, Città Nuova, Roma 1984.

[15] Cfr. F. Riva, La Bibbia e il lavoro. Prospettive etiche e culturali, Edizioni Lavoro/Editrice Esperienze, Roma-Fossano 1997, cap. VII Sia J. Le Goff (Tempo della Chiesa e tempo del mercante, Einaudi, Torino 1977) sia P. Jaccard (Histoire sociale du travail de l’antiquité à nos jours, Paris 1969, pp. 118 ss.) propendono per l’interpretazione più penitenziale del lavoro monastico.

[16] «Sacrificio quotidiano. Dovrebbe essere indirizzato a Dio. Sentimento di abbassamento, inseparabile dal lavoro... Il lavoro come riscatto dal peccato originale; partecipazione alla redenzione» (S. Weil, Cahiers, in Oeuvres complètes, Gallimard, Paris 1994- 1997; a cura di G. Gaeta, Quaderni, Adelphi, Milano 1982 ss., v. II, q. V, pp. 66-67; cfr. p. 104).

[17] S. Weil, Quaderni, v. III, q. VIII, p. 69.

[18] S. Weil, Quaderni, v. III, q. X, p. 258 (cfr. p. 321) e q. IX, p. 194.

[19] S. Weil, Quaderni, v. II, q. VI, p. 202. Per l'immagine del chicco, dell’aratura e della sepoltura, cfr. v. IV, q. XVI, pp. 305-306 (cfr. anche q. XVII, pp. 311-312: il lavoro e il prodotto — il frumento — non si identificano del tutto). Sul tema si cfr. La condition ouvrière.

[20] «La creazione è un movimento discendente, e in questo senso il lavoro è un’imitazione della creazione (come pure dell’incarnazione e dell’eucarestia)» (S. Weil, Quaderni, v. II, q. VI, p. 207; cfr. p. 211); «quanto al lavoro, esso non è un’imitazione della creazione, ma della passione» (S. Weil, Quaderni, v. III, q. VIII, p. 25; cfr. q. X, pp. 315-316). Per il rapporto tra maledizione e riscatto, cfr. v. II, q. VI, p. 114.

[21] S. Weil, Quaderni, v. III, q. X, p. 316; cfr. p. 315.

[22] M. Scheler, Gesammelte Werken, vol. VI, Schriften zur Soziologie und Weltanschauungslehre, Francke Verlag, Bern-Munich 1963, pp. 273-279; (Arbeit und Weltanschauung, 1920). Cfr. A. Negri, Filosofia del lavoro. Storia antologica, 7 voll., Marzorati, Milano 1980-1981.

[23] E. Mounier, Oeuvres, Seuil, Paris 1962, t. III, p. 417.

[24] Cfr. ivi, p. 407.

[25] Cfr. ivi, pp. 30, 414, 417.

[26] T. Parsons, Christianity and Modern Industrial Society, in Sociological Theory and Modern Society, The Free Press, New York 1967; trad. it. di P. Maranini, Il Cristianesimo e la società industriale moderna, in Teoria sociologica e società moderna, Etas, Milano 1971, p. 67; cfr. p. 183.

[27] Cfr. M. Weber, Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus, 1904-1905; trad. it. di A. M. Marietti, L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, Rizzoli, Milano 1994, ad es. pp. 102 ss. Cfr. R.H. Tawney, Religion and the Rise of Capitalism. An Historical Study, J. Murray, London 1926; trad. it. di O. Peduzzi, La religione e la genesi del capitalismo, Feltrinelli, Milano 1967, pp. 32 ss.

[28] G. Poggi, Calvinismo e spirito del capitalismo, Il Mulino, Bologna 1984, p. 86.

[29] M. Gauchet, Il disincanto del mondo, cit., p. 111, nota. Si cita H. LüTHY, Le Passé présent, Editions du Rocher, Monaco 1965.

[30] C. Taylor, Sources of the Self. The Making of the Modern Identity, Harvard University Press, Cambridge 1989; trad. it. di R. Rini, Radici dell’io. La costruzione dell'identità moderna, Feltrinelli, Milano 1993 (Parte III, 13), pp. 267 ss. e 286 ss.

[31] Ivi, p. 273.

[32] Ivi

[33] Arendt, Vita attiva, p. 183.

[34] Taylor, Radici dell’io, cit., p. 269.

[35] Ivi, pp. 271-272.

[36] Ivi, pp. 272-273.

[37] Ivi, p. 277. La citazione proviene da Perry Miller, The New England Mind: The Seventeenth Century, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1967 (tr. it. Lo spirito della Nuova Inghilterra, Il Mulino, Bologna 1962, p. 58).

[38] Taylor, Radici dell'io, cit., pp. 279-280.

[39] M. Walzer, The Revolutions of the Saints. A Study in the Origins of Radicals Politics, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1965; trad. it. di M. Sbaffi Girardet, La rivoluzione dei santi. Il puritanesimo alle origini del radicalismo politico, Claudiana, Torino 1996, p. 247.

[40] Ivi, p. 288; cfr. p. 278. Per M. Weber, cfr. L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, cit., pp. 165, 256, 289.

 


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10 luglio 2024                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net