Capitolo XLVIII - Il lavoro quotidiano: "L'ozio è nemico dell'anima, perciò i monaci devono dedicarsi al lavoro in determinate ore e in altre, pure prestabilite, allo studio della parola di Dio. ..... Ma se le esigenze locali o la povertà richiedono che essi si occupino personalmente della raccolta dei prodotti agricoli, non se ne lamentino, perché i monaci sono veramente tali, quando vivono del lavoro delle proprie mani come i nostri padri e gli Apostoli. Tutto però si svolga con discrezione, in considerazione dei più deboli. ....."
Capitolo LVII - I monaci che praticano un'arte o un mestiere: "Se in monastero ci sono dei fratelli esperti in un'arte o in un mestiere, li esercitino con la massima umiltà, purché l'abate lo permetta... "affinché in ogni cosa sia glorificato Dio". "
La concezione cristiana del lavoro
Andrea Cegolon
Estratto da “Lavoro
e pedagogia del lavoro: Origine, sviluppo, prospettive”-
Edizioni Studium S.r.l. 2021
5.
Homo religiosus: la concezione cristiana del lavoro
La concezione moderno capitalistica, come si è visto, separa il lavoro dagli
altri compiti e momenti della vita. Si tratta solamente di un’attività
produttiva di beni materiali.
Gli autori che hanno saputo valorizzare le potenzialità educative del lavoro
hanno adottato, invece, una visione ad ampio spettro, tale da abbracciare a
tutto tondo la multidirezionalità dell’esperienza lavorativa.
Questa diversità di approccio diventa possibile cambiando prospettiva,
attribuendo i meriti del lavoro prima di tutto al lavoratore e valutandolo anche
per gli effetti
che ad esso conseguono sulla persona.
Lo studio del lavoro si fa, però, più difficile, è meno scontato. Esso non è più
impersonale, non fa più riferimento a cause esterne, ma a motivazioni interne,
idonee a persuadere e convincere la persona a mettersi in gioco, ad assumere
impegni e portarli a termine. Da fine, il lavoro diventa un mezzo per finalità
di senso esistenziale come abbiamo visto emergere faticosamente nelle analisi di
alcuni economisti classici.
In questo quadro si colloca il contributo del Cristianesimo al lavoro
[1]. L’homo
oeconomicus di Smith, che ragiona solo
in termini di ricchezza materiale, lascia scoperto lo spazio all’
homo religiosus. Questi guarda al lavoro come ad una esperienza
decisiva, ma in una visione cristiana della vita. Di seguito ci limiteremo ad
accennare a due contributi importanti della cultura cristiana sul lavoro: quello
del monachesimo orientale e benedettino
occidentale e quello della più recente lettera Enciclica di Giovanni Paolo
II del 14 settembre 1981 dal titolo
Laborem Exercens.
5.1. L'opus manuum del monaco
Per rintracciare i segni di una identità pedagogica del lavoro, faticosamente
affermatasi nella nostra cultura, si risale in genere a San Benedetto e alla sua
Regola, dove si incontra la prima trattazione pedagogica del lavoro. Ma
testimonianze precedenti si trovano anche in Giovanni Cassiano. Il ruolo di
questo monaco, decisivo nel favorire la conoscenza in Occidente degli usi e
costumi dei monaci orientali, ha promosso una cultura monastica interculturale
che rivela nel lavoro uno dei suoi segni distintivi. Nel capitolo XIV del li
libro delle sue
Istituzioni Cenobitiche , Cassiano ricorda come il cenobitismo
orientale avesse esteso le pratiche della preghiera e della meditazione a tutta
la giornata del monaco, inglobando, però, in esse anche il lavoro.
Essi (i monaci egiziani) uniscono il lavoro a queste veglie per il timore che,
con il favore dell’ozio, il sonno non li sorprenda. Neanche un momento, per così
dire, viene riservato al tempo libero e tantomeno impongono un limite alla
meditazione spirituale. Praticando sia le virtù del corpo che quelle dell’anima,
essi fanno in modo che l’uomo esteriore ne tragga lo stesso profitto
dell’uomo interiore. Inoltre, per loro il lavoro è come un peso che essi gettano
sulla fugace mobilità del cuore e sulla incerta fluttuazione dei pensieri, come
un’ancora tenace ed immutabile. In questo modo diventa possibile trattenere
l’incostanza del cuore e la sua volubilità dentro i muri della cella, come in un
porto molto sicuro. Tutta l’attenzione va ora alla meditazione spirituale ed
alla custodia dei pensieri. L’anima è estremamente vigile e, lungi dal lasciarsi
abbandonare ad una qualsiasi suggestione malvagia, si astiene da ogni pensiero
malvagio e superfluo, tanto che sarebbe difficile discernere qual è l’effetto e
qual è la causa: se è la meditazione spirituale che permette loro di dedicarsi
incessantemente al lavoro delle mani oppure è proprio il lavoro continuo che fa
loro guadagnare tanto progresso nello spirito
e così tanta luce di conoscenza
[2].
5.2. Ora et Labora
Più di un secolo dopo, nel 540, San Benedetto intitolava il cap. XLIII della sua
Regola «il lavoro quotidiano» per combattere l’ozio «nemico
dell’anima»
[3]. Seguendo
l’esempio dei Padri del monachesimo orientale,
egli eleggeva il lavoro a parte sostanziale della vita monastica sia «perché i
monaci sono veramente tali, quando vivono del
lavoro delle proprie mani»
[4]
, sia perché il lavoro può essere un
sicuro antidoto nei confronti di «qualcuno tanto negligente e fannullone da non
volere o poter studiare o leggere»
[5]. Il passo è
particolarmente significativo dal nostro punto di vista pedagogico, perché
sottolinea come il lavoro possa essere proposto anche in alternativa alla
meditazione delle Sacre Scritture.
Svolto non solo per sé, ma per tutta la comunità, il lavoro ha questa
peculiarità. Eleva spiritualmente il monaco, favorendo atteggiamenti di empatia,
richiamando a valori come la reciprocità ed il dono. Risorsa formativa
generalizzata, esso diventa parte dell’ascesi monastica benedettina. Perciò i
monaci «devono dedicarsi al lavoro in determinate ore c in altre, pure
prestabilite, allo studio della parola di
Dio»
[6]. La regola
consente pure ai monaci che lo desiderano l’esercizio di un’arte o di un
mestiere, purché non si insuperbiscano pensando di arrecare utili al monastero e
quando si tratta di vendere i prodotti «non deve mai insinuarsi l’avarizia, ma
bisogna sempre venderli un po’ più a buon mercato dei secolari»
[7].
Nella visione benedettina, il lavoro è considerato una componente importante
della vita monastica anche per la sua funzione economica: qui non vale insistere
più di tanto, stante l’importanza assunta dai monasteri benedettini nell’Alto
Medioevo. Ma non per questo il lavoro diventa un’occasione per allentare la
tensione spirituale del monaco. Nel monastero nessuno lavora per sé, per trarne
un beneficio diretto o per arricchirsi. Si lavora per gli altri, imparando così
a dominare le proprie pulsioni, il proprio egoismo, donandosi agli altri. Anche
per San Benedetto il lavoro deve essere, nelle parole di Cassiano, «come un peso
che essi gettano sulla fugace mobilità del cuore c sulla incerta fluttuazione
dei pensieri,
come un’ancora tenace ed immutabile»
[8]. Questa
l’espressione che traduce
metaforicamente il valore educativo del lavoro monastico.
Ma sia Benedetto che Cassiano non pensano che il lavoro possa avere di per se
stesso queste potenzialità formative. Al contrario, il suo dispiegarsi sarebbe
tale nella misura in cui esso viene inscritto all’interno di una visione
pedagogica. In altri termini, la funzione di utilità propria del lavoro per
attivarsi richiede fatica, energia, tenacia, perseveranza, intelligenza,
immaginazione: attitudini che, fuori di ogni controllo, si concentrano solo sui
beni materiali. All’interno di una
visione generale della vita, in cui l’utile deve convergere con l’etico e il
religioso, l’autodisciplina del lavoro svolge un ruolo formativo importante.
Serve a conferire stabilità, rappresenta una «ancora tenace ed immutabile».
Insomma, per il monaco il lavoro non è un fine
in sé, è impari rispetto alle umane esigenze di realizzazione. Al di fuori della
progettualità monastica, si corre il rischio di smarrirne valore educativo se
non è sorretto da una visione pedagogica. In quella monastica, con la sua
specificità, il lavoro concorre ad edificare l’ascesa
nella professione monastica.
Il monaco assomiglia all’architetto che vuole costruire la volta di un’abside.
Egli deve tracciare l’intera circonferenza partendo dal centro, che è un punto
molto delicato; poi deve calcolare, con esattezza infallibile, la perfetta
rotondità e la forma della costruzione. Colui che pretendesse di compiere bene
una tale opera senza l’esatta determinazione del punto centrale, anche se fosse
abile fino alla genialità, si verrebbe a trovare nell’impossibilità
d’avere un disegno regolare e perfetto. Non potrebbe accorgersi, così ad occhi,
o in quale misura, il suo errore ha impedito la bellezza che deve risultare da
una perfetta rotondità. Per giudicare esattamente è necessario riferirsi al
punto che permette di stabilire le giuste proporzioni e poi, secondo le
indicazioni che vengono da quel punto, conviene determinare con precisione
l’ambito esterno ed interno della costruzione. Uno solo dunque è il sostegno e
il centro di tutta la mole. Lo stesso va detto
per l’anima nostra. Se il monaco non pone nell’amore di Dio il centro fisso
attorno al quale fa girare tutte le sue opere (...) non potrà mai costruire con
vera abilità quell’edificio spirituale
[9].
La lezione pedagogica del monachesimo
contenuta nel passo citato è particolarmente significativa. Aiuta a capire come
il lavoro, al pari e più di ogni altra esperienza, abbia ricadute formative
sulla persona che lo pratica. Ma non per questo si può affermare che esso sia di
per sé educativo. Lo diventa nella misura in cui viene inscritto all’interno di
una visione complessa della vita. Vi è, oltre il lavoratore, l’uomo: non solo
com’è, con i suoi bisogni e condizionamenti, ma anche come dovrebbe essere, con
la tensione dei suoi desideri che lo mettono di fronte all’ulteriorità
dell’esistenza.
La formula benedettina dimostra non solo di aver resistito e continuare a
resistere nel tempo, essendosi conquistato spazio e riconoscimento anche in
ambito impensabili, niente meno che in studi di strategia manageriale e
d’impresa. Nell’incontro
tra due mondi così lontani - economia vs religione - il lavoro svolge un ruolo
straordinario di sutura, finisce per dar linfa ai nostri valori etico-morali-religiosi.
Con un vantaggio non solo per la persona che lavora, ma anche per il lavoro
stesso che, in tal modo, si spiritualizza e può far leva su quelle che oggi
chiameremmo soft skills
[10].
Nella valorizzazione monastica del lavoro vi è il riconoscimento che alla
contemplazione seguono momenti - di stanchezza, rilassatezza, passività, ozio -
assai deleteri per il monaco, mentre l’attività ha effetti benefìci sia nel
corpo che nell’anima. Raggiunto e preservato un giusto equilibrio tra materiale
e spirituale, per il cristiano il lavoro non è una ragione di vita, ma un
obbligo morale, direttamente legato alla persona che lo compie, in quanto
soggetto libero, che decide di se stesso.
[1] L. Bruni-N. Riccardi-P. Rota Scalabrini-P. Sequeri, L'Uomo Spirituale e L’Homo Oeconomicus. Il cristianesimo e il denaro. Glossa edizioni. Milano 2013.
[2]
G. Cassiano,
Le Istituzioni Cenobitiche. 1. II, cap. XIV. Qiqajon
Edizioni. Monastero di Bose 2007, p. 92.
[3]
San Benedetto, Regula, cap. XLIII.
[4]
Ibid.
[5]
Ibid.
[6]
Ibid.
[7]
Ibid., cap. XLVII.
[8]
G. Cassiano, Le Istituzioni Cenobitiche, cit., p. 92.
[9]
G. Cassiano, Conferenze Spirituali, Vol. III, Edizioni Paoline,
Roma 1965, pp. 275-276.
[10]
P. G. Bianchi, Ora et Labora. La Regola benedettina applicata alla
strategia d’impresa e al lavoro manageriale, Xenia edizioni, Milano
2006; M. Follador, L’organizzazione perfetta La Regola di San
Benedetto. Una saggezza antica al servizio dell’Impresa moderna,
Guerini Associati, Milano 2006; L. Bruni-N. Riccardi-R Rota
Scalabrini-P. Sequeri, L’Uomo Spirituale e l'Homo Oeconomicus.
Il cristianesimo e il denaro, cit.
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28 ottobre 2025 a cura di Alberto "da Cormano"
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