LE CONSUETUDINI DI GUIGO I

Dal sito: certosini.info - 2019

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Prologo [1]

1. Agli amici e fratelli amatissimi in Cristo, i priori Bernardo di Portes, Umberto di Saint-Sulpice [2], Milone di Meyriat e a tutti i fratelli che con essi servono Dio, Guigo, chiamato ad essere priore [3] di Certosa, e i fratelli che sono con lui: salvezza eterna nel Signore!

2. Obbedendo ai comandi e ai consigli del nostro amatissimo e molto venerato padre Ugo, vescovo di Grenoble [4], alla cui volontà non abbiamo il diritto di resistere, abbiamo provveduto a scrivere, e a consegnare così alla memoria – cosa di cui il vostro amore ha fatto richiesta più di una volta – le consuetudini della nostra Casa. Abbiamo trascurato a lungo questo lavoro, per motivi che ci sembrano ragionevoli. Eravamo del parere, infatti, che nelle lettere del beato Girolamo[5], nella regola del beato Benedetto[6] e in tutti gli altri scritti di autorità incontestabile fosse contenuto quasi tutto ciò che qui, nella nostra vita monastica, siamo soliti osservare. Inoltre, non ci ritenevamo minimamente degni di poter o di dover compiere un’impresa simile. 

3. A ciò, poi, si aggiungeva la consapevolezza che al genere di vita della nostra umiltà si addice di più essere ammaestrati che insegnare [7], e che è più sicuro proclamare i beni altrui piuttosto che i propri, come dice la Scrittura: «Ti lodi un altro, e non la tua bocca, un estraneo, e non le tue labbra»[8], e come comanda anche il Signore nell’evangelo: «Guardatevi dal praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere da loro ammirati»[9].

4. Tuttavia, poiché non dobbiamo resistere alle preghiere e all’autorità, come anche alla carità, di tali persone, con l’aiuto del Signore diremo ciò che egli stesso ci concederà, iniziando dalla parte più degna, cioè dall’ufficio divino, riguardo al quale ci troviamo in profonda consonanza con gli altri monaci [10], soprattutto per ciò che concerne la salmodia regolare. Fine del Prologo.

 

1. L’ufficio divino [11]

1. Così, dal 1° novembre all’ottava di Pentecoste, ogni giorno, fuorché nelle solennità di dodici letture[12], recitiamo tre letture con tre responsori[13], con questa attenzione: che se, in questi mesi, il 1° cade prima del giovedì, iniziamo i responsori e i profeti la domenica che precede, e il lunedì e i giorni successivi leggiamo le tre letture con i responsori dai medesimi libri.

2. Se, invece, il 1° cade o di giovedì o dopo il giovedì, iniziamo i medesimi profeti con i rispettivi responsori la domenica che segue, e i giorni che intercorrono tra il 1° e la domenica li trascorriamo: uno con tre letture, per i martiri [14], l’altro con una sola lettura.

 

2. Ancora, sullo stesso argomento

1. Il sabato che precede la prima domenica di Avvento interrompiamo la commemorazione della Croce fino al lunedì dopo l’ottava di Pasqua, e quella della Madonna fino al primo giorno dopo l’ottava dell’Epifania.

2. Nella suddetta domenica, terminati Ezechiele e i dodici profeti – Daniele, infatti, lo leggiamo in refettorio –, cominciamo Isaia, che ci basta fino alla vigilia di Natale. Durante tutto questo periodo facciamo uso di capitoli, versetti e orazioni che si addicono all’Avvento, e non cantiamo il Gloria in excelsis fino alla prima messa di Natale. 

3. L’antifona O Sapientia con le altre sei e le antifone proprie delle lodi mattutine le iniziamo in modo che finiscano il giorno che precede la vigilia del Natale del Signore. 

4. Ogni domenica di Avvento, nelle lodi mattutine, è ornata di responsori e di antifone proprie. Anche negli altri giorni, tuttavia, al Magnificat e al Benedictus diciamo sempre delle antifone di Avvento.

 

3. Ancora come sopra

1. Il sabato del digiuno delle Quattro tempora[15] cantiamo in chiesa, di seguito, sesta e la messa – con cinque letture esclusa l’epistola – e poi nona. Lo stesso facciamo negli altri [giorni di digiuno] dello stesso tipo, a eccezione del primo mese [16], in cui a motivo della Quaresima celebriamo la messa dopo nona; del sabato fra l’ottava di Pentecoste, in cui la celebriamo fra terza e sesta; e del settimo mese, in cui la celebriamo dopo sesta, posticipando nona, che diciamo nelle celle dopo il sonno.

 

4. Ancora come sopra

1. Dal 2 gennaio fino alla Settuagesima [17] leggiamo le Lettere del beato Paolo.

2. Dal giorno che segue l’ottava dell’Epifania fino alla Settuagesima diciamo i responsori feriali, iniziando il Domine ne in ira tua la prima domenica dopo l’ottava.

3. Il sabato che precede la prima domenica di Settuagesima diciamo l’Alleluja solo fino ai vespri [18], per riprenderlo allo stesso modo nella messa del sabato santo. 

4. Da tale domenica, poi, fino alla domenica della Passione del Signore, leggiamo l’Eptateuco [19] sia in chiesa che in refettorio, cantando, la prima domenica, il responsorio In principio e nelle altre domeniche i responsori consueti.

5. All’inizio del digiuno [20] cambiamo i capitoli della notte e del giorno e le orazioni, e cantiamo in chiesa sesta, la messa e nona. 

6. In tale giorno copriamo le croci, che vengono scoperte di nuovo alla Parasceve [21]. 

7. Prima dell’inizio della messa, dopo l’atto penitenziale [22], si offre al presbitero la cenere da benedire. Dopo che egli l’ha benedetta e l’ha aspersa con acqua santa, tutti, inginocchiatisi secondo l’ordine davanti al presbitero, la ricevono, mentre quegli dice: “Riconosci, o uomo, che sei polvere e in polvere ritornerai”, e tutti gli altri cantano le antifone Exaudi nos Domine e Iuxta vestibulum. Terminate queste, il presbitero aggiunge il Dominus vobiscum e l’orazione Concede nobis Domine. Nei due giorni seguenti facciamo la messa a questa stessa ora.

8. Il sabato seguente non c’è messa. 

9. In questo sabato cambiamo i capitoli della domenica ai vespri.

10. Nei giorni festivi della Quaresima e dell’Avvento, a prima, diciamo il capitolo Domine miserere nostri.

11. Dal lunedì seguente fino alla Cena del Signore[23], tutti i giorni, dopo l’ufficio di prima, recitiamo nelle celle i sette salmi[24] con le litanie, fuorché nelle feste di dodici letture[25]. 

12. Ogni giorno cantiamo in chiesa nona, la messa con il prefazio della Quaresima e i vespri, se vi sono abbastanza presbiteri e se quelli che ci sono non sono impediti da qualche ragionevole motivo.

13. La domenica di Passione cambiamo i capitoli e interrompiamo i consueti suffragi, fino al lunedì dopo l’ottava di Pasqua. Da tale giorno fino alla Cena [del Signore] leggiamo Geremia, parte in chiesa e parte in refettorio a motivo della brevità delle notti. In tale arco di tempo, all’invitatorio, nei responsori e all’introito non diciamo il Gloria Patri, a meno che non vi sia una solennità di dodici letture. 

14. Delle feste di tre letture facciamo soltanto memoria.

15. Il sabato che precede la domenica delle Palme non diciamo la messa. 

16. Ai vespri [di questo sabato], il capitolo Hoc sentite. Il responsorio Fratres mei fino alla Cena [del Signore].

17. La domenica delle Palme, dopo che si è cantata terza, che il presbitero si è vestito della casula e dopo l’atto penitenziale, il presbitero benedice i rami, li asperge con l’acqua benedetta e li offre a tutti; e intanto si canta l’antifona Collegerunt. Seguono il Dominus vobiscum e l’orazione Omnipotens, sempiterne Deus.

18. Se l’Annunciazione o la festa di san Benedetto[26] capitano dopo il mercoledì di questa settimana, in seguito non ne facciamo alcuna memoria.

19. Il giorno della Cena [del Signore] facciamo festa e ci accontentiamo, come i chierici, di nove letture. Al Benedictus spegniamo la lucerna, imitando su questo piccolo punto l’uso della Chiesa. 

20. A prima ci ritroviamo; dopo il capitolo diciamo terza nelle celle e ognuno fa la sua pulizia personale; lì, inoltre, recitiamo sesta. In chiesa celebriamo nona, la messa e i vespri. 

21. Durante la messa viene conservata dal presbitero un’ostia intera del corpo del Signore perché sia consumata alla Parasceve. 

22. Dopo il pasto, tutti – per quanto è possibile –, monaci e laici[27], ci ritroviamo in capitolo per il Mandatum[28]. Lì a tutti vengono lavati, asciugati e baciati i piedi dal priore o da colui a cui egli lo avrà comandato; a lui ciò viene fatto da chi è primo nell’ordine [di anzianità]. Poi, dopo che a tutti son state lavate le mani – è il priore che versa l’acqua – e che si è accesa una candela, viene letto l’evangelo e tutti stanno in piedi fino a «si sedette di nuovo» [29]. 

23. Da questo punto in poi ascoltiamo la medesima lettura seduti, fino a dove si dice: «Alzatevi, andiamo via di qui»[30]. Allora, infatti, preceduti dal diacono, ci rechiamo in refettorio, per ascoltare, seduti, ciò che resta della lettura. Terminata questa, a ognuno viene portato dagli inservienti del vino e, dopo che il presbitero ha dato la benedizione, lo beviamo e usciamo. Dopo ciò, viene spogliato l’altare. 

224. In questo giorno, dopo il pranzo o dopo il Mandatum, i fratelli preparano le letture e i responsori dei due giorni successivi, poiché non ritorneranno nel chiostro fino a sabato dopo il pasto.

25. Per la compieta si dà il segnale con la bàttola[31]. 

26. Alla Parasceve ci inginocchiamo e diciamo il Miserere mei Deus[32].

27. Nel corso di tutti questi tre giorni diciamo ognuno le Preci in silenzio. Per tutte le ore ci basta l’orazione Respice quaesumus Domine e recitiamo quasi tutto l’ufficio secondo l’uso dei chierici. Tralasciati gli altri lavori, ci dedichiamo alla recita del salterio. La chiesa viene pulita dal sacrista, con l’aiuto dei fratelli laici. Quando viene dato il segnale – un po’ più tardi del solito – si dicono in cella, di seguito, sesta e nona, e intanto il presbitero si veste. Dato di nuovo il segnale, ci raduniamo in chiesa e celebriamo l’ufficio secondo l’uso. Anzitutto vi è una lettura, poi seguono un tratto e l’orazione Deus a quo et Iudas. Ugualmente, un’altra lettura e un tratto. Poi la passione, senza il Dominus vobiscum. Dopo di essa le orazioni. Finite queste, il presbitero si sveste della casula, ci mettiamo a piedi nudi e, con venerazione, baciamo la croce che il diacono ci porge, dicendo dentro di noi: «Noi ti adoriamo, o Cristo, e ti benediciamo, perché con la tua croce hai redento il mondo». Nel frattempo la comunità canta l’antifona Nos autem gloriari oportet e i responsori Popule meus e Expandi manus meas. Dopodiché, la croce viene riportata nel luogo di prima e il presbitero, lavatosi le mani e rivestitosi della casula, riceve dal diacono, mentre questi intona il canto di comunione Hoc corpus, il calice con il vino e, sopra di esso, il corpo del Signore. Dispostili sull’altare, dopo un breve silenzio inizia dicendo: Oremus. Praeceptis salutaribus[33]. L’Agnus Dei non lo si dice, neanche il Sabato Santo. Dopo che si è ricevuto il corpo del Signore dalle mani del presbitero, recitiamo i vespri due a due a voce bassa.

28. Il Sabato Santo si cantano nelle celle sesta e nona, mentre il sacerdote si veste; poi, riuniti in chiesa, si fanno quattro letture con tre tratti e la litania abbreviata, e dopo cominciamo solennemente la messa con tre Kyrie eleison, diciamo il Gloria in excelsis Deo, accendiamo due candele, riceviamo la pace. Non bruciamo, però, l’incenso. Terminato tutto ciò, suonata il campanello, cantiamo con grande solennità i vespri secondo l’uso monastico.

29. Nel giorno santo di Pasqua, fra il mattutino e prima viene cantata una messa con il grado di solennità consueto per le domeniche, e due o tre monaci aiutano il presbitero. Ad essa sono presenti e si comunicano tutti i laici, per quanto lo consentono i loro incarichi. 

30. Alla messa principale si comunicano la comunità e quanti fra i laici devono ancora comunicarsi.

31. Tutti questi quattro giorni li trascorriamo in grande solennità. Lunedì, martedì e mercoledì, alle lodi del mattino, accendiamo due candele e offriamo l’incenso. Mercoledì i laici si ritirano[34]. Giovedì, venerdì e sabato, dopo aver cantato in chiesa sesta, prendiamo il pasto insieme. I primi quattro giorni delle settimane di Pasqua e di Pentecoste non celebriamo assolutamente nessuna festa di santi; nei tre giorni successivi, invece, se capita una festa di tre letture facciamo solo memoria, se invece è di dodici facciamo tutto. I responsori pasquali li cantiamo per quattordici giorni.

32. Per tre settimane, fino all’Ascensione, leggiamo per intero, parte in chiesa e parte in refettorio, gli Atti degli apostoli e le Lettere canoniche. Dall’Ascensione, poi, fino a Pentecoste, soltanto l’Apocalisse.

33. Il martedì delle Rogazioni[35] prendiamo il pasto una volta sola, ma cuciniamo.

34. Nella vigilia dell’Ascensione cantiamo in chiesa sesta e la messa. L’Ascensione la celebriamo con grande solennità.

35. Nella vigilia di Pentecoste diciamo in chiesa nona e la messa, e tutta la settimana la trascorriamo come quella pasquale, salvo il fatto che il mercoledì e il sabato cantiamo sesta subito dopo la messa, senza intervallo. Questa settimana, infatti, facciamo il digiuno delle Quattro tempora [36].

 

5. Ancora come sopra

1. Dopo questa settimana [di Pentecoste], il giorno in cui capita una festa cominciamo i libri dei Re [37]; i responsori di tali libri storici, invece, li cominciamo la domenica seguente. 

2. Dal 1° agosto fino al 1° settembre leggiamo i Proverbi, il Qohelet, il Libro della Sapienza e, secondo quanto il tempo lo permette, il Siracide [38]. 

3. Dal 1° settembre, Giobbe per due o tre settimane. Per le due successive, Tobia, Giuditta e Ester. 

4. Dal 1° ottobre fino a novembre, i Libri dei Maccabei. 

5. E in tutto questo tempo, cioè da Pentecoste fino al 1° novembre, ci basta una lettura, come gli altri monaci, a meno che non vi sia una festa.

6. Per una festa di tre letture, poi, non tralasciamo mai la lettura dei libri storici, tranne che per la vigilia del Natale del Signore, nei tre giorni dopo la festa degli Innocenti, nelle settimane di Pasqua e di Pentecoste e durante l’ottava dell’Assunzione della beata Maria. 

7. [Come parti proprie] di una festa [di tre letture], perciò, si dicono soltanto l’invitatorio, i versetti, i responsori, le orazioni e le lodi del mattino; ma anche: a prima l’antifona; a terza e a sesta – se si mangia una volta sola –, o a terza soltanto – se si mangia due volte –, le antifone, il versetto e le orazioni.

8. Non solo in tali feste, ma anche nei periodi da Natale all’ottava dell’Epifania e da Pasqua all’ottava di Pentecoste ogni giorno, alle lodi del mattino, diciamo Dominus regnavit [39].

 

6. Ancora come sopra

1. Bisogna sapere anche che per nessuna solennità facciamo la processione, e che non operiamo alcun trasferimento di feste o vigilie.

 

7. L’ufficio della domenica

1. Ogni sabato, dopo nona, ci raduniamo nel chiostro per richiamare alla memoria le letture e altre cose necessarie [40]. 

2. E poiché, per tutta la settimana, nelle celle manteniamo il silenzio, confessiamo i nostri peccati al priore o a coloro a cui è stato da lui comandato.

3. Se bisogna iniziare dei responsori nuovi, ai vespri cantiamo un responsorio lungo.

4. La domenica, dopo l’ora prima, teniamo il capitolo. Poi, mentre i fratelli ritornano alle celle, se quel giorno si deve cantare la messa – se cioè il presbitero o i presbiteri non sono impediti da qualche ragionevole motivo – si suona subito il segnale con la campana. Altrimenti, infatti, lo si differisce fino a quando non si deve dire terza. Tale spazio di tempo, per quanto lo consentono la debolezza o il bisogno, è dedicato alla crescita spirituale.

5. Dopo ciò, il presbitero, ritornato alla chiesa a tempo opportuno, si veste. Viene suonato il segnale tre volte e poi, alla presenza di tutti, si benedice l’acqua. Il presbitero fa il giro dell’altare spargendo l’acqua: poi, davanti all’altare, la sparge sui monaci e, alla porta del coro, sui conversi, mentre tutti gli altri cantano l’antifona Asperge me. Ritornato al lettorio, aggiunge la preghiera Ostende nobis Domine misericordiam tuam, poi il Dominus vobiscum e l’orazione Exaudi nos Domine sancte Pater. Dopo comincia terza, che è seguita dalla messa. 

6. Il Gloria in excelsis Deo lo cantiamo in tutte le solennità, tranne che in Avvento e in Settuagesima [41]. 

7. Il Credo in unum Deum lo diciamo sia nei giorni di domenica che in tutte le altre feste, fuorché in quelle dei confessori e dei martiri, e nei [primi] tre giorni di Pasqua e di Pentecoste.

8. Dopo la messa portiamo nelle celle l’acqua santa, e facciamo un breve intervallo. Poi, suonato il segnale, ritorniamo in chiesa e cantiamo sesta; dopodiché ci rechiamo in refettorio, per ricevere, allo stesso tempo, il cibo delle anime e quello dei corpi [42]. Usciti, poi, dal refettorio, dal 1° novembre fino alla Purificazione della beata Maria [43] cantiamo subito nona. Da tale giorno fino a Pasqua, lo spazio di tempo che abbiamo fra il pranzo e nona è riservato alla lettura o ad altre attività simili. In seguito, per tutta l’estate, è invece concesso per il riposo, ora più breve ora più lungo a seconda della durata del giorno.

9. Dopo nona ci raduniamo nel chiostro per parlare di ciò che è utile. In tale spazio di tempo chiediamo e riceviamo dal sacrista inchiostro, pergamena, penne, gesso e libri, sia da leggere che da trascrivere; e dal cuoco legumi, sale e altre cose del genere.

10. Dopo la cena riceviamo, come mendicanti di Cristo, un pane [44], e poi ci ritiriamo nelle celle.

11. In tutte le feste di questo genere facciamo più o meno così.

12. Nelle domeniche che si trovano all’interno delle ottave di Natale, dell’Epifania e dell’Ascensione del Signore diciamo antifone, responsori, versetti e le prime otto letture proprie a tali solennità; le altre quattro letture dalle omelie dei vangeli della domenica. L’evangelo dopo il Te Deum laudamus, le antifone al Benedictus e al Magnificat, l’orazione e la messa sono quelli della domenica, ma poi si fa memoria delle solennità. Allo stesso modo si fa nella domenica che è fra l’ottava del Natale del Signore e l’Epifania, a meno che non leggiamo anche le prime otto letture proprie della domenica – tratte cioè dalle Lettere del beato Paolo – e non ricordiamo il Natale.

13. Di san Silvestro facciamo soltanto memoria. 

Ma ora riteniamo che si debba trattare specificamente di quelle solennità che celebriamo con particolare dignità.

 

8. Ancora sull’ufficio divino

1. Le vigilie, dunque, di Tutti i santi, del Natale del Signore, di Pasqua, dell’Ascensione e della Pentecoste, di san Giovanni [45], dei beati apostoli Pietro e Paolo, dell’Assunzione della beata Maria, le trascorriamo a pane e acqua. La messa, in estate la facciamo seguire immediatamente da sesta; durante l’inverno, invece, da nona. Adorniamo l’altare, accendiamo due candele ai vespri, al mattutino, alla messa e poi ancora ai vespri, e offriamo l’incenso.

2. Nella vigilia del Natale del Signore, inoltre, alle lodi del mattino non ci inginocchiamo. Diciamo Dominus regnavit [46] e tralasciamo il Miserere mei Deus, per la messa accendiamo due candele, non bruciamo però l’incenso, riceviamo la pace. 

3. Se tale vigilia cade di domenica, diciamo il versicolo prima dell’evangelo e poi tutto l’ufficio della vigilia, facendo della domenica soltanto memoria. Allo stesso modo celebriamo la messa nelle vigilie di Pasqua e di Pentecoste.

4. Al mattutino leggiamo le ultime quattro letture dai vangeli. La prima messa la celebriamo, con grande solennità, tra il mattutino e le lodi. La seconda la cantiamo dopo le lodi del mattino, quando inizia la luce, come siamo soliti fare nei giorni di domenica. In essa si comunicano i laici. In essa, inoltre, si fa memoria di sant’Anastasia. 

5. Alla messa principale si comunica la comunità, e tutti i monaci ricevono la pace dal presbitero e se la donano l’un l’altro. Questo lo facciamo in tutte le feste di tal genere, fuorché per la Circoncisione del Signore, per il martirio [47] dei beati apostoli Pietro e Paolo, per la Dedicazione [48] e per san Michele. I tre giorni successivi li celebriamo più o meno allo stesso modo. Il quarto giorno i laici ritornano alla Casa bassa, come a Pasqua e a Pentecoste.

6. I restanti tre giorni diciamo sesta e nona in chiesa, e prendiamo insieme il pranzo e la cena.

7. Con rito analogo celebriamo la Circoncisione, l’Epifania, la Purificazione [49], l’Annunciazione, l’Ascensione, la Natività di san Giovanni, il Martirio dei beati apostoli Pietro e Paolo, l’Assunzione, la Dedicazione, la Natività della beata sempre Vergine, la festa degli Angeli [50].

8. Alla Purificazione [51] della Beata Maria, inoltre, prima della messa, dopo l’atto penitenziale, noi monaci e coloro dei laici che sono presenti riceviamo dalla mano del presbitero le candele benedette cantando l’antifona Lumen ad revelationem e l’evangelo Nunc dimittis [52], con ripetizione dell’antifona a ogni versetto. Seguono il Dominus vobiscum e l’orazione Erudi quæsumus Domine. Poi la messa. Dopo l’evangelo offriamo le candele.

 

9. Quante volte all’anno siamo rasati

1. Veniamo rasati sei volte all’anno, mantenendo il silenzio: alla vigilia di Pasqua, di Pentecoste, dell’Assunzione, di Tutti i santi, del Natale del Signore, e all’inizio del digiuno [quaresimale].

2. Alla vigilia dei beati Giacomo, Lorenzo, Bartolomeo, Matteo, Simone e Giuda, Andrea, mangiamo una volta soltanto, ma se il giorno lo prevede facciamo cucina, e non cantiamo la messa.

3. Nelle altre feste di dodici letture, nelle quali non abbiamo il capitolo, non diciamo neanche la messa; soltanto, la vigilia, dopo nona, ci ritroviamo nel chiostro per la recordatio[53].

 

10.  Quali ospiti vengono ammessi in coro

1. Nel nostro coro introduciamo soltanto gli ospiti che conducono vita monastica. Con essi, nel chiostro, ci è lecito avere una conversazione comune. 

2. Non ci è permesso, invece, portare qualche ospite in disparte o esservi portati, comunicargli qualcosa come in segreto o dargli un incarico presso altri, a meno che non ne abbia dato il permesso il priore. Tale permesso non spetta a noi chiederlo, ma a loro, se ritengono la cosa importante.

Ora si deve dire qualcosa di ciò che facciamo per i defunti, o a proposito di essi.

 

11.  L’ufficio dei defunti

1. Il giorno successivo alla festa di Tutti i santi, dunque, a meno che non sia una domenica, dopo i notturni diciamo l’apposito ufficio[54], con nove letture, per tutti i defunti, accontentandoci dell’unica orazione Fidelium Deus. Poi, dopo prima, celebriamo la messa alla presenza della comunità.

2. Non facciamo l’ufficio dei defunti, invece, in nessuna festa di dodici letture e nell’ottava del Natale del Signore, di Pasqua e di Pentecoste, a meno che non vi sia un defunto o non si debba fare un tricenario[55]; anche questo, tuttavia, se dovesse capitare nei tre giorni prima di Pasqua o nello stesso giorno di Pasqua o di Pentecoste, o nel Natale del Signore, per quanto riguarda la messa non lo faremmo assolutamente.

3. Da tale giorno, dunque, cioè dal 2 novembre, fino alla Settuagesima[56], dopo i notturni diciamo, in chiesa, l’ufficio dei defunti. Dalla Settuagesima, invece, fino al suddetto giorno, recitiamo quest’Ufficio nelle celle: nei giorni di digiuno dopo i vespri, altrimenti dopo la cena. E se vi è un anniversario[57], lo si celebra in chiesa subito dopo i vespri, con nove letture e le antifone. 

4. In Quaresima, tuttavia, per non sovraccaricare i fratelli, lo si dice nelle celle dopo il pasto.

 

12.  La visita a un malato

1. Quando si ritiene che un fratello malato si stia avvicinando alla morte, la comunità si raduna per visitarlo. Il presbitero dice: «Pax huic domui et omnibus abitatores in ea», aspergendo l’acqua santa. Si risponde: «Amen». 

2. Allora quegli confessa i suoi peccati, e dopo l’assoluzione il presbitero dice ancora Salvum fac servum tuum, Esto ei Domine, Nihil proficiat, Dominus vobiscum, Deus qui famulo tuo, Deus qui per apostulum tuum. 

3. Poi si dice, per primo, il salmo Domine ne in furore tuo[58]. Terminato questo, gli si ungono gli occhi e si dice: «Per istam unctionem et suam piissimam misericordiam, indulget tibi Deus quidquid peccasti per visum». 

4. E così alla fine di ciascuno dei sette salmi[59] si ripete questa medesima preghiera per ciascuna parte su cui egli riceve l’unzione, vale a dire per l’udito, per l’odorato, per il gusto e la parola, per il tatto – cioè alle mani –, per il camminare – cioè alle piante dei piedi –, per l’ardore della concupiscenza – cioè i reni. 

5. In seguito gli si asciuga la bocca e, dopo che è stato baciato con affetto da tutti come con uno che sta per partire, quegli si comunica, mentre coloro che sono presenti cantano il Communio Hoc corpus. 

6. Dopo ciò si dicono le orazioni Respice Domine, Deus qui facturæ tuæ e Deus qui humano generi.

 

13.  Come si deve trattare chi muore

1. Quando sembra che la morte sia ormai imminente, quelli che lo servono danno un segnale. Allora, tralasciata ogni occupazione, tutti accorrono, a meno che non capiti che si stia celebrando in chiesa l’ufficio divino. 

2. In tal caso, infatti, accorrono presso il morente il priore, o colui a cui egli l’avrà comandato, e altri due o tre [60]. Dopo averlo deposto su della cenere benedetta dicono una litania, lunga o breve a seconda di come la situazione lo consente. Seguono un Pater noster e le preghiere Salvum fac, Esto ei, Nihil proficiat. Poi l’orazione Misericordiam tuam. Dopo, i cinque salmi: Verba mea, il primo Domine ne in furore, Dilexi quoniam, Credidi, De profundis[61], un Pater noster, A porta inferi e l’orazione Deus cui proprium est. Dopo di ciò, l’intero ufficio dei defunti, con lodi e vespro. Infine, il salterio.

3. Intanto il defunto viene lavato e vestito: se è un monaco, con cilicio e cocolla, calze e pedalini [62]; se è un laico, con tunica e cappuccio, calze e pedalini. Poi, lo si depone nella bara e, interrotta la salmodia, il presbitero dice In memoria æterna, Ne tradas bestiis, Ne intres in iudicium. Dopo ciò, l’orazione Deus cui omnia vivunt.

4. Terminato tutto questo, viene portato in chiesa e si canta il responsorio Credo quod Redemptor. In seguito, il presbitero dice A porta inferi, Nihil proficiat, Ne intres, Oremus suscipe Domine animam.

5. Posto il defunto in chiesa, si riprende la salmodia da dove era stata interrotta e si ha cura in ogni modo che si dicano almeno due salteri, uno in chiesa e uno nelle celle, con le venie[63]. Se poi di quello che si deve dire in chiesa ne mancherà una parte, la si reciterà nelle celle. Se vi è tempo sufficiente, infatti, il defunto viene seppellito il giorno stesso, ma non prima che si sia cantata per lui una messa. Altrimenti si rimanda al giorno successivo, e i monaci e i laici si suddividono la notte – secondo il loro numero e la durata di essa – recitando assiduamente il salterio presso il corpo di lui.

6. L’indomani, dopo che si è cantata una messa alla presenza di tutti, viene seppellito nel modo seguente: il coro sta presso il corpo e il presbitero dice un Pater noster, la preghiera A porta inferi, l’orazione Deus vitæ dator, il responsorio Credo quod Redemptor, Kyrie eleison, un Pater noster, la preghiera Ne intres, l’orazione Deus qui animarum, il responsorio Ne abscondas me, Kyrie eleison, un Pater noster, la preghiera Ne tradas bestiis, l’orazione Ne intres in iudicium, il responsorio Ne intres, Kyrie eleison, un Pater noster, la preghiera Requiem æternam, l’orazione Fac quæsumus Domine. 

7. Allora viene portato alla tomba con questi salmi: In exitu lsrael, Miserere mei Deus, Confitemini – Salmo 117 –, Quemadmodum, Memento, Domine probasti me, Inclina, Laudate Dominum de caelis[64], il Benedictus Dominus Deus Israel, il Magnificat. 

8. Quando siamo giunti alla tomba il presbitero dice un Pater noster, A porta inferi, l’orazione Tibi Domine commendamus. Allora benedice la fossa, l’asperge con acqua santa e la incensa. Poi si depone in essa il corpo. E mentre lo si ricopre, il presbitero, mentre tutti gli altri cantano i suddetti salmi, dice le orazioni Obsecramus, Deus apud quem, Te Domine, Oremus fratres, Deus qui iustis, Debitum humani, Temeritatis quidem, Omnipotentis Dei, Inclina Domine. 

9. Una volta che sono terminati sia i salmi sia le orazioni, seguono un Pater noster e le orazioni Tibi Domine commendamus e Deus cuius miseratione. Poi ritornano dalla tomba cantando il Miserere mei Deus e terminano l’intero ufficio in chiesa, con l’orazione Fidelium Deus.

 

14.  Ancora sulla cura per i morti

1. Dal giorno stesso della sepoltura fino al trentesimo giorno si canta per lui una messa tutti i giorni, ma non la conventuale, e la prima orazione delle ore dell’ufficio dei defunti è detta specificamente per lui. Si annota sul martirologio il giorno della sua morte e si celebra sempre per lui, comunitariamente, la messa del suo giorno anniversario: d’inverno dopo prima e d’estate prima di essa.

2. Il giorno stesso in cui il defunto viene seppellito, i fratelli non sono obbligati a rimanere in cella, e, per consolazione, prendono il pasto insieme due volte, a meno che non sia un giorno di digiuno principale[65].

3. E bisogna sapere che noi facciamo lo stesso identico ufficio per tutti i nostri defunti, senza nessuna preferenza di persone, e che non facciamo per un monaco più che per un laico, o per un superiore più che per un suddito. 

4. Per i nostri benefattori, invece, oltre all’assidua memoria che facciamo sempre nelle preghiere dell’ufficio canonico, diciamo in tutte le ore la penultima orazione, e ogni settimana, sia per loro che per tutti gli abitanti di questo luogo e, universalmente, per tutti i fedeli defunti, viene detta una messa dal presbitero settimanale, d’estate prima dell’ufficio di prima e d’inverno dopo di esso.

5. Bisogna sapere, infatti, che qui cantiamo raramente la messa, poiché, in maniera specifica, il nostro impegno e il nostro proposito è di dedicarci al silenzio e alla solitudine della cella[66], secondo quella parola di Geremia: «Siederà solitario e resterà in silenzio»[67]; e altrove: «Spinto dalla tua mano sedevo solitario, perché mi avevi riempito di timore»[68]. Pensiamo, infatti, che nulla, fra gli esercizi della disciplina regolare, sia più faticoso del silenzio della solitudine e della quiete. Per questo anche il beato Agostino dice che per gli amici di questo mondo nulla è più faticoso del non affannarsi [69].

Ma riguardo a ciò è sufficiente così. Ora trattiamo del resto.

 

15.  L’ufficio del priore

1. Quando capita che il priore di questa Casa muoia, dopo la sua sepoltura, convocati i fratelli, si impone per tutti un digiuno di tre giorni [70] e, sia la mattina che la sera, in chiesa, terminato l’Ufficio, cantiamo con unanime fervore il salmo Ad te levavi [71]. Ci inginocchiamo tutti sulle forme [72] e diciamo Kyrie eleison, un Pater noster, le preghiere Salvos fac servos tuos, Mitte eis Domine auxilium de sancto, Nihil proficiat inimicus in eis, e l’orazione Prætende Domine. Il quarto giorno, al mattino, celebriamo in Convento [73], con grande devozione, la messa dello Spirito Paraclito. Poi, radunatisi in capitolo, su consiglio dei più anziani e dei migliori [74] eleggono uno di loro, o presbitero o che debba diventarlo, e subito lo insediano al posto del predecessore. E, dedicando tutto quel giorno alla gioia, mangiano in refettorio due volte [75], a meno che non sia un giorno di digiuno principale.

2. Egli, sebbene debba essere di giovamento a tutti [76] con la parola e con la vita e debba prendersi cura con sollecitudine di tutti, tuttavia ai monaci fra cui è stato scelto deve offrire soprattutto un esempio di quiete, di stabilità e di tutti quegli esercizi che sono consoni al loro genere di vita [77]. 

3. Così, dopo aver passato quattro settimane in cella insieme agli altri monaci, trascorre la quinta con i laici. In tale arco di tempo il suo compito nei confronti dei fratelli lo esegue uno a cui sia stato da lui stesso comandato. 

4. Egli, comunque, non esce mai dai confini del deserto [78]. Il suo seggio, ovunque sia, e il suo vestito non differiscono da quelli di tutti gli altri per nessun segno di dignità o lusso, ed egli non porta nulla da cui appaia che è il priore. Ci si inchina davanti a lui – e leggermente – soltanto quando va o ritorna dal leggere la lettura, o quando si passa davanti a lui; e quando egli va da qualcuno, quegli si alza in piedi [79].  

5. A Natale, a Pasqua e a Pentecoste e quando uno dei fratelli deve fare professione, egli canta la messa principale.

Scriviamo questo perché non succeda che qualcuno dei nostri successori voglia inorgoglirsi [80] o celebrare il proprio nome [81] con una qualche gloria o grandezza.

6. In Avvento e in Quaresima, invece, egli si astiene dalla suddetta visita, per una più stretto raccoglimento, a meno che non lo costringa a ciò una grande necessità o bisogno [82]. Anche negli altri tempi, tuttavia, non scende alla Casa in basso [83] quando capita o alla leggera, né a causa di qualunque persona o motivo.

 

16.  Il procuratore della Casa in basso

1. Alla Casa in basso, infatti, è da lui preposto uno dei monaci, un diligente procuratore – così, infatti, vogliamo che sia chiamato [84]. Questi si prende cura di tutti con zelo, ma se c’è bisogno di fare qualcosa di importante o che esula dalle consuetudini ricorre sempre al consiglio del priore e non pretende di donare o di compiere qualcosa di un certo rilievo senza il suo permesso [85].

2. Comunque, sebbene su esempio di Marta – della quale ha ricevuto l’incarico – egli sia costretto a prendersi cura e ad agitarsi per molte cose [86], non è sua abitudine tralasciare completamente o di avere in orrore il silenzio e la quiete della cella, ma piuttosto, nella misura in cui lo permettono le faccende della Casa, ricorre sempre alla cella come all’insenatura di un porto del tutto sicuro e pieno di pace [87]. Così, con la lettura, la preghiera e la meditazione [88], può sedare le agitazioni che sorgono nel suo animo causate dalla cura e dall’amministrazione degli affari temporali, e può mettere in serbo nelle segrete profondità del suo cuore qualcosa di salutare da poter effondere con dolcezza e sapienza, in capitolo, sui fratelli a lui affidati [89]. Essi, infatti, hanno bisogno di predicazioni tanto più frequenti quanto meno sono istruiti.

3. Se poi – non sia mai! – sarà trovato negligente o prodigo o arrogante, e ripreso più volte non si vorrà correggere, si mette al suo posto uno migliore di lui e subito lo si riconduce alla custodia della cella, affinché, essendo stato incapace di adoperarsi per la salvezza altrui, si adoperi almeno per la propria.

 

17.  Il malato che è inviato alla Casa in basso

1. Se il priore avrà fatto scendere alla Casa in basso qualcun altro dei monaci – ma ciò avviene raramente: o per una grande e quasi imprescindibile necessità, o per sollevare qualcuno da un tedio insopportabile, o per calmare, talvolta, una pericolosa tentazione, o per alleviare una gravissima malattia [90] –, se dunque il priore avrà fatto scendere in basso qualcun altro, questi non si intrometta, per nessun genere di curiosità, nelle disposizioni, nelle faccende e nella cura dell’intera Casa.

2. All’abitatore della cella, infatti, non giova conoscere tal genere di cose, e ciò è contrario anche alla pace di tutta la Casa. Egli non parlerà con gli estranei, a meno che non gli sia stato ordinato, né indifferentemente con qualsiasi converso, ma soltanto con quelli con cui il priore o il procuratore[91] lo avrà ritenuto opportuno[92]. Così, se è in grado di insegnare e consolare, parli con coloro che hanno bisogno di essere istruiti e consolati. Se, invece, è lui che ha bisogno di consolazione e di ammaestramenti, parli con quelli che sanno dare tali cose.

 

18.  Ancora sul procuratore

1. Anche questo non va omesso, benché ce ne fossimo quasi dimenticati: che il suddetto procuratore, facendo nella Casa in basso le veci del priore, accoglie gli ospiti, dà loro il bacio [di pace] e, se vengono a un’ora opportuna – cioè verso sesta –, se sono tali persone, cioè dei religiosi, e se non è un giorno di digiuno principale, sciolto dal vincolo dell’astinenza pranza con loro; poi, in maniera conveniente, invia al priore coloro che ne giudica degni.

 

19.  Le cavalcature degli ospiti

1. Noi, poi, ci prendiamo cura soltanto delle persone degli ospiti, non anche delle loro cavalcature, e prepariamo per loro dei letti uguali ai nostri e i medesimi cibi che mangiamo noi. E affinché non avvenga che il fatto che non ci prendiamo cura dei cavalli possa sembrare a qualcuno qualcosa di severo, così che lo si attribuisca non a sobrio discernimento ma a durezza e avarizia, noi chiediamo che si consideri in quale deserto angusto, duro e quasi totalmente sterile noi viviamo, e che fuori di esso non possediamo nulla, cioè nessuna proprietà e nessun reddito. E, inoltre, che si consideri la frequenza degli ospiti, per [le cavalcature dei] quali non potrebbero bastare né i nostri pascoli né, tanto meno, le nostre provviste dell’anno. Tutto ciò, infatti, non è sufficiente nemmeno per i nostri animali, dal momento che sia le nostre bestie da soma sia le nostre pecore le mandiamo a svernare fuori [dai nostri confini]. 

2. A ciò, inoltre, si aggiunge che vogliamo assolutamente evitare di andare in giro e di far la questua, pericolosissima consuetudine che, con la scusa della misericordia – cioè per avere qualcosa da offrire a chi arriva –, ci dispiace molto si sia sviluppata in molti le cui devote fatiche e la cui santa vita in Cristo non siamo in grado di lodare a sufficienza.

3. Noi crediamo, tuttavia, che questo giovi non poco anche agli ospiti, i quali devono partecipare ai nostri beni spirituali e corporali in modo tale da non costringerci a deviare verso cose cattive. E ci farebbero deviare proprio verso queste cose cattive se ci costringessero, per coprire le loro spese, ad andare in giro e a far la questua.

 

20. I poveri e le elemosine

1. Ai poveri che vivono nel mondo diamo del pane o qualcos’altro che la nostra possibilità ci consente e che la volontà ci suggerisce. Raramente li accogliamo sotto il nostro tetto, ma piuttosto li mandiamo al villaggio, perché vi ricevano ospitalità[93]. Ci siamo rifugiati nei recessi di questo deserto, infatti, non per dedicarci alla cura temporale dei corpi altrui, ma per la salvezza eterna delle anime nostre. Per questo non ci si deve meravigliare se offriamo maggior familiarità e conforto a coloro che vengono fin quassù per la loro anima che a quanti vengono per il loro corpo. Altrimenti, un tempo avremmo dovuto stabilirci non in luoghi così aspri e remoti e quasi inaccessibili, dove chiunque viene per un sollievo del corpo ha più fatiche da sopportare che rimedi da conseguire, ma piuttosto lungo una pubblica strada.

2. Abbia, dunque, Marta il suo servizio, lodevole, certo, e tuttavia non privo di preoccupazioni e di affanni, e non importuni la sorella[94], che ricalca le orme di Cristo[95], che dedicandosi alle attività dello spirito vede che egli è Dio[96]; che esamina il proprio spirito[97], medita nel cuore la preghiera[98] e ascolta cosa dice in lei il Signore[99]; e così, per quel poco che, come in uno specchio e in enigma[100], è possibile,  gusta e vede come è dolce il Signore[101], pregando sia per la sorella sia per tutti quelli che compiono le stesse fatiche di lei. 

3. E se non cessa di importunarla, lei dispone non solo di un giustissimo giudice, ma anche un fedelissimo avvocato, cioè dello stesso Signore, il quale si degna non solo di difendere il suo proposito, ma anche di lodarlo, dicendo: «Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta»[102]. E dicendo «la parte migliore» ha non solo lodato quest’ultima, ma l’ha anche posta al di sopra della laboriosa attività della sorella. Dicendo, poi, «non le sarà tolta» l’ha difesa e l’ha dispensata dal coinvolgersi nelle preoccupazioni e negli affanni della sorella, per quanto caritatevoli siano [103]. 

4. Io, dunque, abbandonata la mia cella e il mio chiostro, e dimentico di ciò che mi ero proposto, dovrei farmi girovago per accogliere e nutrire i girovaghi, vagabondo per i vagabondi e secolare per i secolari? Loro, piuttosto, loro stessi vadano, come hanno cominciato, e facciano il giro del mondo[104], affinché non succeda che se vado anch’io cresca con me il loro numero! Oppure, se insistono così tanto perché io vada, smettano loro e facciano quel che faccio io, perché siano a buon diritto nutriti dalle fatiche e a spese dei religiosi[105]!

5. A questo punto, forse, qualcuno mi dirà: «Che cosa fate, dunque, di ciò che vi rimane?». Colui che ci chiede ciò con animo mordace, ascolti: egli deve badare più alla trave del proprio occhio che alla pagliuzza di quello altrui[106]. Coloro, invece, che dicono ciò con intenzione amichevole, sapranno che vi è un gran numero di uomini santi o di sante comunità per la cui indigenza dobbiamo aver compassione più che per quella dei secolari, secondo la parola dell’Apostolo: «Operiamo il bene verso tutti, ma soprattutto verso i fratelli nella fede»[107]. 

6. Vi sono, poi, alcuni villaggi qui vicino pieni di poveri che conosciamo, ove è possibile portare e distribuire ciò che eventualmente ci avanzasse. Crediamo, infatti, che sia meglio e che sia giusto, se vi è qualche piccolo sovrappiù da distribuire, che, di qualunque cosa si tratti, ciò sia portato là, piuttosto che una gran folla sia chiamata da là a qui. 

7. Se qualcuno, tuttavia, conoscesse le spese di questa Casa, non chiederebbe che cosa facciamo del superfluo, ma piuttosto si stupirebbe del fatto che non siamo nel bisogno.

8. Se, fratelli amatissimi, abbiamo esposto queste cose in modo più prolisso e con maggior loquacità di quanto era opportuno, abbiate pazienza e perdonateci.

 

21. Le donne

1. Non permettiamo assolutamente che le donne entrino nei nostri confini, sapendo che né il sapiente, né il profeta, né il giudice, né colui che ha ospitato Dio, né i figli [di Dio], e neppure lo stesso primo uomo formato dalle mani di Dio sono potuti sfuggire alle lusinghe e agli inganni delle donne. 

2. Vengano alla mente Salomone, David, Sansone, Lot, quanti si presero come mogli quelle che essi vollero, e Adamo [108]: l’uomo non può nascondersi il fuoco nel petto senza bruciarsi le vesti, o camminare su carboni ardenti con i piedi intatti [109], o toccare la pece e non sporcarsi [110].

3. Terminate di dire queste cose, trattiamo ora delle osservanze della cella. E poiché coloro che iniziano li chiamiamo novizi, faremo sapere anzitutto quello che ci verrà da dire su di loro.

 

22. Il novizio

1. Così, al novizio che chiede misericordia [111] sono presentate le osservanze dure e aspre [112] e gli viene posta davanti agli occhi – per quanto è possibile – tutta la poca considerazione e l’asprezza della vita che desidera prendere su di sé [113]. Se dopo ciò rimane imperterrito e saldo e se, in conformità a ciò che dice il beato Giobbe, la sua anima sceglie di separarsi dall’amore delle cose temporali e le sue ossa scelgono quella morte [114] di cui è detto: «Se moriamo con lui vivremo anche con lui» [115] promettendo senza alcuna esitazione di esser pronto a custodire le vie dure [116] a causa delle parole delle labbra del Signore, allora, infine, lo si esorta a riconciliarsi, secondo l’evangelo, con tutti coloro che hanno qualcosa contro di lui [117], e se ha frodato qualcuno in qualcosa a restituire – se ne ha la possibilità – se non quattro volte tanto come Zaccheo [118], almeno l’equivalente. E poiché il numero dei membri previsti per questa comunità è fisso [119], gli si fissa anche un termine entro il quale deve arrivare.

3. Quando, poi, al termine fissato, egli viene, dopo un’umile richiesta davanti alla comunità lo si pone in un periodo di prova di almeno un anno, e intanto tutte le sue cose vengono assolutamente tenute da parte integre fino al giorno della sua professione. Questa, poi, non gli viene concessa se non dietro la promessa che, se per caso non potrà o non vorrà sopportare la nostra forma di vita, non ritorni in alcun modo nel mondo, ma abbracci piuttosto un altro genere di vita religiosa che possa sopportare. E se capita che durante questo periodo di prova muoia, qualora si sia comportato lodevolmente facciamo per lui tutto ciò che facciamo per un professo che porta il santo abito.

3. Una volta introdotto nella cella, gli viene assegnato uno degli anziani, che, visitandolo nelle ore opportune, per una settimana – o di più se ce ne sarà bisogno – lo istruisca sulle cose necessarie. 

4. Egli, tuttavia, all’inizio è trattato con dolcezza e mitezza[120] e non gli si concede di addossarsi subito tutta l’asperità del nostro genere di vita, ma a poco a poco, secondo quanto la ragione e la necessità parranno richiederlo. Egli, infatti, ha il permesso di parlare ogni tanto con il cuoco, e viene visitato con una certa frequenza dal priore.

5. Quando, poi, si avvicinerà il tempo in cui dovrà essere benedetto[121], se sarà sembrato degno di essere accolto e se si sarà mantenuto assiduo nel chiedere misericordia, gli si fisserà un giorno preciso in cui, se avrà perseverato, dovrà essere accolto per sempre. In tal giorno, dopo che avrà ancora chiesto umilmente misericordia in capitolo, gli si concederà la possibilità o di tornare indietro – se lo vorrà – o di distribuire tutti i suoi beni come e a chi gli piacerà[122]. E se persevererà nel bussare[123] gli si concederà l’assenso desiderato, e allora egli stesso o – se lui non sa scrivere – un altro per lui scriverà[124] questa professione:

23. La professione del novizio

1. “Io, fra N., prometto stabilità, obbedienza e conversione dei miei costumi davanti a Dio, ai suoi santi[125] e alle reliquie di questo eremo costruito a onore di Dio, della beata sempre vergine Maria e del beato Giovanni Battista, alla presenza di dom N., priore[126].

2. Nella messa, poi, in cui deve essere ricevuto, dopo l’offertorio va presso il gradino che è davanti all’altare e, chinatosi, ripete tre volte il seguente versetto, che il coro a sua volta riprende: «Suscipe me, Domine, secundun eloquium tuum et vivam, et non confundas me ab expectatione mea»[127]. Dopo che si è ripetuto questo per tre volte, si aggiungono un Gloria Patri, il Kyrie eleison, un Pater noster. Nel frattempo il novizio, inginocchiandosi davanti a ogni monaco, dice: «Padre, prega per me»[128]. Dopo ciò, ritornato nel luogo in cui era prima, rimane chinato. Allora il presbitero, voltatosi verso di lui, aggiunge [le preghiere] Et ne nos inducas, Mitte ei, Esto ei, Dominus vobiscum, e benedice la cocolla posta sul gradino davanti al novizio dicendo:

 

24. Orazione sopra la cocolla 

1. «Signore Gesù Cristo, che ti sei degnato di rivestire l’abito della nostra condizione mortale, noi supplichiamo l’incommensurabile abbondanza della tua bontà: degnati di benedire quest’abito che i santi padri, rinunciando al mondo, hanno stabilito di portare in segno di innocenza e di umiltà[129], affinché questo tuo servo, che di esso si servirà, meriti di rivestirsi di te [130], che vivi e regni con Dio Padre ...”. Poi, tolto al novizio la cappa[131], lo riveste della cocolla. E così quegli, recatosi al lato dell’altare, legge in maniera chiara e distinta[132] la sua professione, mentre tutti ascoltano. E dopo che l’ha letta, bacia l’altare e la pone su di esso[133]. Prostratosi, poi, ai piedi del presbitero, riceve la benedizione[134], [che gli è data] con la seguente orazione:

 

25. Orazione sul novizio

1. «Signore Gesù Cristo, che sei la via fuori della quale nessuno va al Padre[135], noi supplichiamo la tua bontà piena di tenerezza: guida sul cammino dell’osservanza regolare questo tuo servo che si è distolto dai desideri della carne. E poiché ti sei degnato di chiamare i peccatori dicendo: “Venite a me voi tutti che siete oppressi, e io vi ristorerò”[136] concedi che il tuo invito risuoni in lui così forte che, deposto il peso delle sue colpe[137], ottenga di essere da te ristorato, gustando quanto sei dolce[138]. E come hai detto parlando delle tue pecore, riconoscilo come una delle tue pecore, perché egli ti conosca e non segua un estraneo, e non ascolti la voce degli estranei, ma la tua che dice: “Chi mi serve, mi segua”[139]. Tu che vivi e regni ...».

2. Da quel momento colui che è stato accolto considera se stesso come estraneo a tutte le cose del mondo [140], al punto da non aver facoltà di disporre assolutamente di nulla, neanche di se stesso[141], senza il permesso del priore. Se, infatti, l’obbedienza dev’essere praticata con grande cura da tutti coloro che hanno deciso di vivere secondo una regola, essa va praticata da costoro con tanto più fervore e con tanta più sollecitudine quanto più stretta e aspra è la forma di vita che hanno preso su di sé, perché non avvenga che se essa – non sia mai! – venisse meno, non solo siano privati del premio di così grandi fatiche, ma incorrano anche nel tormento della condanna. 

3. Per questo Samuele disse: «L’obbedienza è meglio del sacrificio, e ascoltare vale più che offrire il grasso degli arieti[142], poiché peccato di divinazione è la ribellione e pari al delitto di idolatria il rifiuto di acconsentire»[143]. Questa sola testimonianza ha in sé, in maniera sufficiente, la lode nei confronti dell’obbedienza e il severo rimprovero nei confronti della disobbedienza.

 

26. L’ordine della comunità

1. Tutti noi, poi, sia in refettorio che in ogni altro luogo, manteniamo quello stesso ordine che la venuta qui ha attribuito a ciascuno, a meno che non avvenga che per qualche motivo il priore sposti qualcuno dopo o prima[144].

27. A quale età si può essere accolti

1. Noi non accogliamo né fanciulli né adolescenti, poiché temiamo quei numerosi e notevoli danni, sia spirituali che materiali, che a causa loro son capitati ai monasteri, e per i quali proviamo dolore. Accogliamo, invece, quegli uomini che, in conformità con il comando dato dal Signore per mezzo di Mosè, abbiano almeno vent’anni e siano perciò in grado di incamminarsi verso le sante battaglie [145].

Terminate queste cose, adempiamo a quanto abbiamo promesso riguardo alla cella.

 

28. Gli oggetti d’uso della cella

1. Così, colui che abita nella cella riceve: per il letto: della paglia, della tela resistente, un cuscino e una coltre, cioè una coperta fatta di pelli di pecora molto grossolane e rivestita di un panno rozzo.

Per vestito: due cilici, due tuniche, due pellicce di cui una meno buona e l’altra migliore; due cocolle, con il medesimo criterio, tre paia di calze, quattro paia di pedalini[146], delle pelli, una cappa[147], scarpe da notte e da giorno, del grasso per ungerle, due lombari [148] e una cintura, entrambi di canapa grossolana.

E non si darà affatto cura, riguardo al letto e al vestito, di quanto ogni cosa sia grossolana o di quale colore sia. Egli infatti sa per certo che, se ciò vale per tutti i monaci, soprattutto a noi si addicono l’umiltà, la consunzione del panno e il poco valore, la povertà e la bassezza di tutto ciò di cui ci serviamo[149].

Egli, poi, ha anche due aghi, del filo, delle forbici, un pettine, un rasoio per il capo, una cote[150], o una piccola pietra, e una correggia[151], per affilare.

2. Per scrivere, poi: uno scrittoio, delle penne, dell’argilla, due pietre pomici[152], due calamai, un temperino, due coltelli affilati o due rasoi per raschiare la pergamena, un solo punteruolo[153], una sola lesina[154], piombo[155], un righello, una squadra, delle tavolette [156], uno stilo.

E se un fratello eserciterà un altro mestiere – cosa che da noi avviene molto di rado poiché a quasi tutti coloro che accogliamo, se è possibile, insegniamo a scrivere – avrà gli strumenti adatti alla sua arte.

3. Egli, inoltre, riceve dalla biblioteca due libri da leggere. Riguardo ad essi gli viene ordinato di prestare tutta l’attenzione e la cura a che non vengano sporcati né dal fumo, né dalla polvere, né da qualunque altro tipo di sporcizia. Vogliamo, infatti, che i libri, quale eterno cibo delle nostre anime[157], siano custoditi con la massima cautela e con il massimo impegno, affinché, dato che non possiamo predicare la parola di Dio con la bocca, lo facciamo con le mani. 

4. Quanti sono, infatti, i libri che ricopiamo, altrettanti araldi della verità in vece nostra ci sembra di fare, sperando dal Signore una ricompensa per tutti coloro che grazie ad essi si saranno corretti dall’errore o avranno progredito nella verità cattolica, come anche per tutti coloro che si saranno pentiti dei loro peccati e dei loro vizi o si saranno accesi di desiderio per la patria celeste[158].

5. E poiché, assieme a tutti gli altri compiti che si addicono a una vita povera e all’umiltà, ci cuciniamo da noi stessi i cibi, gli sono date anche due pentole, due scodelle, e una terza per il pane, oppure, al suo posto, un tovagliolo; poi una quarta, un po’ più grande, per lavarvi il necessario. Poi due cucchiai, un coltello per il pane, una coppa [per il vino], un bicchiere, una brocca per l’acqua, una saliera, un piatto, due sacchetti per i legumi, un asciugamano. Per il fuoco: un fornello, dell’esca, una pietra focaia, della legna, una scure. Per i lavori: una pialla.

A colui che leggerà queste cose chiediamo che non ci derida e non ci biasimi se prima, per un tempo abbastanza prolungato, egli non sarà rimasto in cella in mezzo a tanta neve e a un freddo così terribile. 

6. Il motivo, infatti, per cui a una sola persona concediamo così tanti oggetti è perché non sia costretta a uscire dalla cella. Ciò, infatti, non è mai permesso se non quando ci raduniamo nel chiostro o in chiesa[159]. E questo, per consuetudine, lo facciamo secondo la seguente procedura:

 

29. In quale tempo si esce di cella. Le vigilie e la suddivisione delle ore

1. In ogni tempo, fuorché nelle feste di dodici letture e nelle settimane del Natale del Signore, di Pasqua e di Pentecoste, quando viene suonato il segnale facciamo precedere l’ufficio notturno, che si svolge in chiesa, da un’adeguata veglia in cella. Questa, aumentando gradualmente a partire dal 13 settembre, raggiunge la sua pienezza il 1° novembre, quando vi è tempo sufficiente per cantare cinquanta salmi non troppo rapidamente. Da questo tempo fino al 1° febbraio continua così. Poi, diminuendo a poco a poco fino a Pasqua, si riduce a un lasso di tempo appena sufficiente per il Mattutino della Madonna[160]. Da allora fino al 13 settembre rimane di questa lunghezza.

2. Suonato, poi, il secondo segno, affrettandoci verso la chiesa cerchiamo di giungervi prima del terzo segno. Là, dopo che il priore o colui al quale egli l’avrà comandato ha dato l’avviso, prostrandoci sulle forme[161], recitiamo con gravità e devozione tre Pater noster, mentre in tutte le altre ore uno solo. Poi, alzatici, iniziamo la salmodia con divino timore.

3. Dopo aver cantato i Notturni facciamo un breve intervallo, che possa contenere al massimo i sette salmi penitenziali. Seguono poi le Lodi del mattino, che dal 1° ottobre fino a Pasqua terminano all’apparire della luce; in seguito, invece, iniziano a tale ora. In ogni tempo, comunque, dopo il mattutino non si torna a letto [162].

Analogamente, dal 1° di tale mese fino a Pasqua, l’Ora Prima inizia all’apparire della luce; in seguito, invece, si aspetta il sorgere del sole[163]. A ciò fanno eccezione soltanto i giorni di solennità fino al 1° novembre, nei quali si fa come nei giorni d’estate. Allo stesso modo, anche nei giorni di solennità della Quaresima differiamo l’Ora Prima fin quasi al sorgere del sole, per poterci dedicare più a lungo alla preghiera. In tutti gli altri giorni, poi, in cui dal 1° novembre fino alla Quaresima si tiene il Capitolo, la si ritarda fino a quando è possibile leggere un libro.

Alla stessa ora in cui da Pasqua fino al 1° ottobre si suona Prima, quando cioè i raggi del sole illuminano le cime delle montagne, dal 1° ottobre fino alla Quaresima si suona Terza.

Lo spazio di tempo, poi, che va da Prima a Terza d’inverno e dal Mattutino a Prima in estate, è riservato ad attività spirituali.

Ma da Terza fino a Sesta d’inverno e da Prima fino a Terza in estate, ci dedichiamo a lavori manuali. Tali lavori, tuttavia, vogliamo che siano interrotti da brevi preghiere[164].

E lo stesso intervallo che in inverno unisce sesta e nona, in estate unisce terza e sesta; tali ore sono separate da un intervallo di tempo tale che è possibile eseguire un’Ora canonica e due dell’Ufficio della B. V. Maria; d’estate, invece, il lasso di tempo che intercorre fra Sesta e Nona, talvolta più breve talvolta più lungo, è dedicato al riposo.

Il tempo, poi, che divide Nona da Vespro viene occupato con lavori manuali; e sempre, lavorando, è lecito ricorrere a brevi preghiere, quasi a mo’ di giaculatorie[165].

Dai Vespri fino a compieta ci impegniamo in attività spirituali. 

4. Per dare il segnale di Compieta si fa attenzione a che, anche quando la si ritarda di più, si suoni quando ancora si può leggere. Terminata compieta, e detta soltanto tre volte, con devozione, la preghiera del Signore [166], non tardiamo oltre a coricarci. 

5. Nelle ore riservate al riposo, infatti, non ci è solo consigliato, ma anche comandato di fare una grande attenzione al sonno, in modo che negli altri tempi possiamo vegliare con ardore[167].

6. Generalmente, diciamo in chiesa il Mattutino e i Vespri; Compieta, invece, sempre in cella. Per le altre Ore, infatti, non andiamo in chiesa se non nelle feste o nelle vigilie, o nei giorni anniversari[168].

 

30. Coloro che si presentano in modo importuno a chi rimane in cella. Il cuoco

1. Se qualche importuno viene alla nostra cella, noi lo mandiamo – con cenni o, se non comprende, con parole – dal cuoco. Con lui, a meno che non ci sia stato comandato, non parliamo più di così, anche se è un nostro fratello.

2. Il cuoco, da parte sua, custodisce la porta, risponde a coloro che arrivano, invia alla Casa in basso quanti chiedono l’elemosina, custodisce le case e tutto ciò che serve all’utilità comune. Nessuno, inoltre, a meno che non gli sia stato comandato, varca la soglia della cucina, cioè la porta del refettorio attraverso cui si va ad essa.

3. Se qualcuno di noi viene alla nostra cella per parlare con noi, prima gli si chiede se gliel’ha comandato il priore. Se non è così, non viene ricevuto a colloquio. 

4. Anche al cuoco non è consentito stare nelle celle a chiacchierare, a meno che non capiti che uno sia malato.

 

31. Ancora la cella

1. Accennate in tal modo queste cose, torniamo alla cella.

È opportuno che colui che la abita vigili con diligenza e sollecitudine a non inventarsi o a non approfittare di occasioni per uscire oltre quelle che sono state stabilite per tutti; piuttosto, invece, consideri la cella come necessaria per la sua salvezza e per la sua vita al pari dell’acqua per i pesci e dell’ovile per le pecore. Più a lungo vi abiterà, più vi rimarrà volentieri; se, invece, prenderà l’abitudine di uscirne spesso e per motivi futili, ben presto l’avrà in odio[169]. Per questo gli è comandato di chiedere le cose che vanno chieste solo nelle ore stabilite per ciò[170], e di custodire con la massima cura quello che riceve.

2. Se, tuttavia, per negligenza sua o di altri, egli venisse a mancare di pane, di vino, di acqua o di fuoco, o se udisse un rumore o un grido insolito, o se vi fosse pericolo d’incendio, gli è permesso di uscire e di offrire o chiedere aiuto; e qualora la gravità del pericolo lo richiedesse, anche di rompere il silenzio. 

3. Vivendo soli, infatti, non conosciamo nessuno o quasi dei segni usati nei cenobi, poiché riteniamo che nelle colpe della lingua sia sufficiente coinvolgere unicamente la lingua, e non tutte le altre membra. Perciò, se si è spinti da una tale necessità, preferiamo indicare ciò che la situazione richiede con una o due – o comunque con pochissime – parole[171].

 

32. I fratelli occupati in qualche lavoro

1. Quando alcuni monaci sono occupati a correggere o a rilegare dei libri, o in qualche lavoro del genere, essi parlano l’uno con l’altro, ma mai con chi dovesse sopraggiungere, a meno che non sia presente il priore o egli ne abbia dato l’ordine[172].

 

33. I digiuni e il cibo

1. Ora bisogna parlare dei digiuni e del cibo.

Il lunedì, il mercoledì e il venerdì ci accontentiamo di pane e acqua e, se a qualcuno fa piacere, di sale[173]. 

2. Il martedì, il giovedì e il sabato ci cuociamo da noi stessi dei legumi o qualcosa di simile, ricevendo dal cuoco il vino, e il giovedì del formaggio o qualche cibo più buono.

3. Dal 13 settembre fino a Pasqua, fuorché nelle solennità, mangiamo una sola volta al giorno[174]. 

4. Da Pasqua, poi, fino al suddetto giorno, il martedì e il giovedì, come anche il sabato, prendiamo il pasto due volte.

5. Per la cena, o per il pranzo quando mangiamo una volta sola, riceviamo delle verdure crude o dei frutti, se ce ne sono[175]. Tutto ciò lo conserviamo, e finché ci basta non riceviamo altro, almeno di questo. Quanto al formaggio, infatti, o ai pesci, alle uova o ad altro del genere, che chiamiamo “pietanze”, li riceviamo una volta sola, e quello che avanza lo rendiamo.

6. Il vino lo beviamo soltanto a pranzo o a cena.

7. Quello che avanza di pane e di vino viene reso il sabato.

Quando mangiamo in refettorio, alle verdure e ai legumi viene aggiunto del formaggio o un’altra pietanza del genere; e a cena vengono serviti, se ce ne sono, dei frutti o delle verdure crude.

8. In Avvento non mangiamo né uova né formaggio.

 

34. La quantità del vino e del formaggio

1. La quantità del vino rimane la stessa sia nelle celle che in refettorio, e viene allungato [con acqua] nella stessa misura. 

2. Non facciamo uso, infatti, di vino puro.

3. Il pane, sebbene sia fatto di frumento, è pane di crusca. Noi, infatti, non facciamo pane bianco.

4. Il formaggio viene dato in ugual peso sia nelle celle sia in refettorio.

 

35. A nessuno è permesso di fare esercizi più grandi se il priore non è d’accordo

1. A nessuno di noi è permesso di fare astinenze, discipline[176],  veglie o qualunque altro esercizio proprio della vita monastica che non sia compreso in quanto abbiamo già stabilito se il priore non ne è a conoscenza e non è d’accordo[177]. 

2. Se, tuttavia, il priore volesse dare a qualcuno un supplemento di cibo o di sonno, o di qualunque altra cosa, o assegnare a qualcuno qualcosa di duro o di pesante, non ci è permesso ribellarci[178], perché non avvenga che resistendo a lui ci troviamo a resistere non a lui, ma al Signore, di cui egli fa le veci presso di noi[179].

3. Anche se le pratiche che compiamo, infatti, sono numerose e varie, è unicamente e soltanto in virtù del bene dell’obbedienza[180] che noi nutriamo la speranza che tutto ciò ci porterà frutto[181].

 

36. L’accoglienza degli ospiti

1. Per i vescovi, gli abati e tutti coloro che vivono stabilmente in una forma di vita religiosa – giacché sono solo costoro che vengono accolti alla mensa dal priore –, se vengono all’ora opportuna si rompe il digiuno, a meno che non sia un digiuno principale. Il priore, infatti, non è solito accogliere alla sua mensa né girovaghi, né transfughi dalla loro forma di vita religiosa, né laici. 

2. I vescovi e gli abati, poi, stanno nel posto del priore sia in chiesa sia in tutti gli altri luoghi. I vescovi, però, danno anche le benedizioni. Gli abati si accontentano dell’onore del seggio, mentre le benedizioni le dà, come di consuetudine, il presbitero settimanale. 

3. Quando giungono vescovi o abati, diamo loro il bacio della pace inchinandoci e inginocchiandoci fino a terra; agli altri, invece, soltanto con un atteggiamento di umile rispetto. 

4. Nella Casa alta[182] è consuetudine che dormano soltanto ospiti religiosi. 

E poiché abbiamo avviato il discorso sul priore, bisogna aggiungere come questi è solito comportarsi riguardo alle questioni della Casa di cui ha accolto la responsabilità.

 

37. Come si tiene consiglio

1. Se vi è da trattare qualche problema importante o grave, il priore ordina che tutti i monaci si radunino insieme[183]. Lì, dopo che tutti avranno espresso liberamente ciò che pensano, egli decide, senza preferenze di persona [184], ciò che ritiene sia la cosa migliore e più giusta. [185]

2. E osserviamo assolutamente questa prassi, che ci pare utilissima e giustissima: che nessuno pretenda di difendere ostinatamente il parere di un altro o il proprio[186], perché non avvenga che il bene del [trovarci insieme a] consiglio si volga in discordia e in rabbia[187]. 

3. Per le questioni meno rilevanti e più quotidiane, invece, al priore è sufficiente il proprio parere e quello dei fratelli più maturi.

4. E affinché non avvenga che egli, oberato dalla cura e dalla preoccupazione per le cose temporali, sia costretto a dedicarsi meno a quelle spirituali, cerca di affidare i singoli incarichi a dei fratelli alla cui fedeltà egli possa rimetterli con tranquillità[188].

 

38. La cura dei malati

1. Il priore sappia che deve essere sollecito, benevolo e misericordioso verso tutti, e in particolare verso i malati, i deboli e quanti si trovano nella tentazione[189]. Come dice la parola del Signore, infatti, «non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati» (Mt 9, 2). Anche questi ultimi, tuttavia, in conformità alle parole del beato Benedetto, sono ammoniti a far attenzione con molta cura di non contristare coloro che li servono chiedendo cose superflue o impossibili, o magari mormorando[190]. E, memori della forma di vita che han fatto propria, riflettano che, come da sani si dovevano comportare in maniera diversa dagli uomini del mondo sani, così da malati si devono comportare in maniera diversa da quelli malati, e non devono chiedere nel deserto ciò che a stento può essere trovato nelle città[191]. 

2. Essi, dunque, sono esortati a fissare lo sguardo sulle sofferenze di Cristo, mentre gli altri sulle sue misericordie. Così gli uni diventano forti nel sopportare, gli altri pronti nell’aiutare. E mentre sia questi che quelli considerano che sono serviti o che servono a causa di Cristo, né i primi si insuperbiscono né gli altri vengono meno, poiché entrambi attendono dal medesimo Signore la ricompensa del loro ufficio, che per gli uni è di soffrire e per gli altri è di aver misericordia[192].

3. Solo per loro, poi, se sono molto malati, siamo soliti comprare del pesce.

 

39. I salassi

1. Della medicina ci serviamo molto raramente, tranne che per i cauteri[193] e i salassi [194]. Siamo salassati cinque volte all’anno: dopo l’ottava di Pasqua, dopo la solennità degli apostoli Pietro e Paolo, nella seconda settimana di settembre, nella settimana prima dell’Avvento e nella settimana prima della Quinquagesima. In tali tempi, cioè quelli del salasso, per tre giorni consecutivi mangiamo due volte al giorno, ricevendo un po’ di cibo più buono [195]. 

2. Il primo giorno, inoltre, perché a causa del salasso non succeda qualcosa di spiacevole, dopo aver mangiato ci raduniamo per un colloquio. Dopo il pranzo abbiamo anche il permesso di bere del vino, ma non nella cella di un altro. 

3. Non ci è mai permesso, infatti, prendere alcun genere di alimento nella cella di un altro.

4. Durante questi tre giorni, al mattino ritorniamo a letto, diciamo al cuoco le cose necessarie, e da lui, i primi due giorni, riceviamo anche tre uova per la cena.

 

40. Gli ornamenti

1. In chiesa non abbiamo ornamenti d’oro o d’argento, tranne il calice e la fistola da cui si prende il sangue del Signore [196]. Drappi e tappeti li abbiamo abbandonati.

2. Non riceviamo doni di usurai o di scomunicati.

3. Abbiamo inserito in questo scritto anche l’atto che abbiamo steso assieme a proposito di alcune questioni di questo genere: 

 

41. Che non si possieda nulla al di fuori del deserto. La sepoltura dei forestieri

1. Allo scopo di recidere per noi e per coloro che verranno dopo di noi – nella misura in cui, con l’aiuto di Dio, è possibile – ogni occasione di cupidigia, abbiamo stabilito con la sanzione del presente scritto che gli abitatori di questo luogo non possiedano assolutamente nulla al di fuori dei confini del loro deserto: né campi, né vigne, né orti, né chiese, né cimiteri, né offerte, né decime, né alcun’altra cosa del genere.

2. Con analogo provvedimento viene sancito che nel loro cimitero non seppelliscano assolutamente nessuno, morto dentro o fuori di questo deserto, a meno che non capiti che muoia qui qualcuno della nostra forma di vita. 

3. Se, tuttavia, qualcuno di un’altra forma di vita religiosa morisse qui e la sua comunità non potesse o trascurasse di portarlo via, lo seppelliranno. 

4. Nel loro martirologio, comunque, non scriveranno il nome di nessuno; e di nessuno, abitualmente, celebreranno l’anniversario. Abbiamo udito, infatti, una cosa che non approviamo: che, cioè, molti [religiosi] sono pronti a imbandire splendidi banchetti e a fare delle messe ogni volta che qualcuno vuole fare loro offerte per i propri defunti. Tale consuetudine fa venir meno l’astinenza e rende le preghiere venali, poiché il numero delle messe diventa proporzionale a quello dei pasti. E così non rimane alcun criterio stabile né per il digiuno né per la preghiera, dato che questi non dipendono più dalla devozione di chi li compie, ma piuttosto dall’arbitrio di colui che offre da mangiare. In nessun giorno, infatti, mancheranno il banchetto e la messa se vi sarà chi offre da mangiare. E se qualcuno giura ostinatamente che tale consuetudine è degna di lode, non gli opponiamo resistenza: faccia come gli piace, e renderà conto[197] a Colui che scruta i cuori e saggia i reni per rendere a ciascuno secondo la sua condotta e secondo il frutto delle sue macchinazioni[198].

5. Il nostro genere di vita, per quanto sia semplice, sperimenta raramente, grazie a Dio, la penuria o l’abbondanza[199]. Se qualcuno, infatti, ci manda dei pesci o altre cose del genere, ciò viene servito ai fratelli ai pasti secondo la misura e i giorni che il nostro genere di vita e le norme che abbiamo stabilito prevedono.

 

42. L’ufficio divino dei fratelli laici

1. Dopo aver esposto così, come abbiamo potuto, le consuetudini che riguardano i monaci, ora, con l’aiuto di Dio, parliamo di quelle dei laici, che chiamiamo conversi.

Sempre, quando bisogna alzarci per il mattutino, il segnale viene dato due volte, con un breve intervallo. Al primo si preparano; al secondo accorrono in chiesa con compostezza [200]. E se il monaco che è loro preposto è lì presente, questi recita loro l’ufficio divino quasi come è stato scritto sopra, solo più in fretta. Ed essi, mantenendo con estrema cura il silenzio e la quiete, lo imitano attentamente negli inchini e in tutti gli altri devoti movimenti del corpo.

2. Nelle vigilie delle solennità, in cui si tiene il Capitolo, la metà di loro – secondo quanto lo permettono i loro incarichi – la sera, quando terminano i loro lavori, sale alla chiesa in alto, per ascoltarvi il Mattutino e gli altri santi Uffici. Dopo il Capitolo dei monaci ascoltano la parola di Dio dal priore o da colui a cui egli l’avrà comandato, e se hanno delle colpe le confessano. 

3. Prima di salire, tuttavia, vanno dal cuoco, per portare su ciò che egli avrà ordinato loro; poi, con il suo permesso, si avviano. E anche là, cioè in alto, come dappertutto, rimangono in silenzio da Compieta fino a dopo l’Ufficio di Prima e dal Capitolo fino a dopo Nona. 

4. È permesso loro, tuttavia, di parlare con il cuoco e il suo aiutante – o i suoi aiutanti – delle cose necessarie. Anche quando ridiscendono stanno in silenzio, riportando ciò che sarà stato loro comandato, e poi ascoltano i Vespri nella cappella dal monaco a loro deputato.

 

43. Ancora sullo stesso argomento. A che ora tornano a letto

1. Ogni volta che sono senza chierico, sostituiscono i salmi con la preghiera del Signore[201], e con essa recitano tutte le Ore e tutto l’Ufficio, ovunque si trovino.

2. Al mattutino, dunque, se è una festa di dodici letture, semplicemente inchinati, oppure stando [inginocchiati] sulla parte anteriore degli stalli, dicono una volta il Pater noster, con grande attenzione. Poi, alzatisi, ripetono sei volte la medesima preghiera, e dopo ogni volta si inchinano e dicono un Gloria Patri. Poi si siedono e ripetono la medesima preghiera ventidue volte. In seguito, alzatisi, la ripetono ancora sei volte con inchino e Gloria Patri. Quindi, rimanendo in piedi, la dicono altre ventidue volte, senza Gloria né inchino. E poi ne aggiungono ancora una, al posto della colletta.

3. Dopo il Mattutino, si affrettano ad andare a recitare la preghiera stabilita. Non abbiamo voluto scriverla, poiché viene pronunciata in lingua vernacolare, in maniera diversa l’uno dall’ altro.

4. E dato che dal 1° ottobre fino a Pasqua non tornano a letto, nell’intervallo di tempo che rimane fino a Prima – lungo o breve a seconda della durata della notte – cuciono i loro abiti, oppure ingrassano le loro calzature, puliscono le rape o eseguono qualche altro compito che è stato loro assegnato; sempre, però, senza far rumore. Se nessuna di queste cose è urgente, si dedicano, per quanto possono, alla preghiera.

5. Da Pasqua fino al 1° ottobre tornano a letto. Nel corso di tutto questo periodo si suona Prima non appena sia sorto il sole. Nel tempo della mietitura, però, la si anticipa, secondo come lo richiede la necessità. Dal 1° ottobre fino a Pasqua la suonano in pieno mattino. Iniziano l’Ora Prima così: «Il nostro aiuto è nel nome del Signore, che ha fatto cielo e terra»[202]. Poi un Pater noster con il Gloria Patri, secondo il tempo, inchinati o in ginocchio; questo per tre volte, e un quarto per colletta.

Nelle altre Ore si fa lo stesso, se non che ai vespri si aggiunge un Pater noster.

Dopo compieta si coricano e cercano di dormire, perché non succeda che siano costretti a dormire quando devono stare svegli[203]. 

6. In ogni caso, sia che dormano sia che stiano svegli, viene loro comandato di rimanere, per quanto è possibile, nella quiete e di non fare alcun rumore[204].

 

44. Chi deve presiedere e rispondere

1 Quando si radunano in chiesa in assenza del monaco che è loro superiore, presiede l’Ufficio colui che è primo nell’ordine. Analogamente avviene anche in tutti gli altri luoghi o lavori, a meno che dell’obbedienza[205] che essi stanno compiendo non sia stata data la responsabilità in modo particolare a qualcuno. In tal caso, infatti, presiede ai fratelli colui al quale è stata affidata, e lui risponde a chi arriva o a chi passa, mentre gli altri rimangono in silenzio[206]. 

2. Non è loro consentito, infatti, indistintamente e senza permesso, dire quel che vogliono, a chi vogliono, e quando vogliono[207]. 

3. Perciò nei confronti di chi passa o di chi arriva è consentito rendere il saluto con un semplice inchino del capo, mostrare la strada, rispondere di sì o di no alle domande e scusarsi di non avere il permesso di parlare di più con loro[208].

 

45. Ai fratelli è permesso di parlare col proprio superiore

1. In qualunque obbedienza si trovino, i fratelli possono parlare delle cose necessarie con il loro superiore, dopo averne richiesto il permesso con un segno. Essi, infatti, sono in possesso di un buon numero di segni, molto semplici, estranei ad ogni buffoneria e licenziosità, con i quali possono indicare l’uno all’altro, senza parlare, le cose e gli strumenti che riguardano i loro lavori. 

2. Non è loro permesso né imparare segni estranei né insegnare ad altri i propri.

 

46. Il cuoco

1. Passiamo ora in rassegna le singole obbedienze.

Uno dei fratelli presiede alla cucina. Egli prepara e distribuisce ai fratelli i cibi consueti, cioè legumi e altre cose del genere; e alle ore opportune dà il segnale. Da lui i fratelli ricevono anche il pane, il vino nei giorni stabiliti, il sale, un cucchiaio, le scodelle, dei lombari[209], l’ago, il filo, la cera per incerare. Egli non può dar loro nient’altro, a meno che non ne abbia avuto il permesso dal procuratore. Per sé prende lo stesso genere di cose che generalmente distribuisce agli altri. 

2. Non si permette di dare o di ricevere nulla da chi non sia di questa Casa, senza il comando del procuratore. E se questi fosse assente e nel frattempo si verificasse una qualche necessità, egli farà ciò che pensa che il procuratore avrebbe fatto se fosse stato presente, e quando quegli ritornerà gli riferirà il proprio operato[210]. Non può far entrare in cucina nessun fratello se non per una giusta necessità; e quando lo fa entrare, una volta passata la necessità lo fa subito uscire, senza rompere il silenzio, per quanto la situazione lo consente[211].

3. Egli custodisce la chiesa, presiede alla porta, risponde a coloro che arrivano, conserva gli attrezzi comuni e si prende cura della Casa e di tutti gli oggetti di uso comune. Se qualcosa di tutto ciò si perde, prostrato a terra se ne dichiarerà responsabile e colpevole.

Chiunque fa le sue veci osserva queste stesse consuetudini.

4. Nei giorni di solennità, egli, o chi lo sostituisce, non può dare o prestare niente a coloro che arrivano dal villaggio vicino, ma deve soltanto rispondere che se ne vadano, perché non prendano l’abitudine di causare, in tali giorni, inquietudine e disagi.

 

47. Il panettiere

1. Il panettiere riceve la provvista di grano, la fa seccare, la custodisce, la passa al vaglio, la macina, impasta i pani e, con l’aiuto di un fratello che gli viene dato, li cuoce. Poi, nella panetteria, li consegna al cuoco.

 

48. Il calzolaio

1. Il calzolaio tiene il cuoio, lo taglia, fa le calzature e le ripara.

 

49. Colui che è preposto all’agricoltura

1. Chi presiede all’agricoltura si prende cura della grangia[212], dei buoi e di tutto ciò che ha a che fare con questa obbedienza.

 

50. Il capo dei pastori

1. Il capo dei pastori custodisce tutti gli oggetti e gli strumenti propri di tale obbedienza, e nel comprare e nel vendere ciò che concerne il suo servizio fa commercio con gli estranei. Non ha il permesso di stare a parlare con loro di altre cose. Nessuno dei suoi compagni si intromette nella sua attività o nei suoi discorsi, se non colui che egli stesso avrà chiamato.

2. A lui è ordinato di evitare i giuramenti, le menzogne, le frodi e tutti gli altri mali che normalmente si mescolano a tal genere di attività, e di anteporre alle realtà e agli interessi temporali la salvezza eterna della propria anima. Lui e i suoi compagni, inoltre, custodiscono in gran parte la grangia. È loro comandato di custodire la Casa in cui si fanno i formaggi, che noi chiamiamo arcella [213], la cui cura spetta specificamente a loro; e così anche alcune cose delle celle. Generalmente, però, nessuno entra nella cella di un altro se non gli è stato comandato.

Quando escono al di fuori per svernare hanno il comando di non ricevere e di non dare niente. Il servo stipendiato [214] che è con loro va al mulino, cuoce il pane, compra il vino, in modo che, per quanto è possibile evitarlo, essi non siano costretti ad andare nei villaggi, poiché ciò è pericoloso [215].

Il martedì e il sabato, al di là della comune consuetudine dei fratelli, hanno del vino. E ricevono del vino anche nel giorno in cui si spostano, poiché non possono prepararsi il cibo. Viene usata loro questa misericordia a motivo delle continue fatiche e dei numerosi disagi che in tale lavoro devono sopportare.

 

51. In quali occasioni hanno il vino

1. Tutti gli altri fratelli che sono nella Casa ricevono il vino soltanto il giovedì e nelle solennità in cui c’è Capitolo, una volta al giorno. Hanno il vino due volte, invece, al Natale del Signore per quattro giorni, alla Circoncisione, all’Epifania, alla Purificazione [216], all’Annunciazione se cade di domenica, a Pasqua per quattro giorni, all’Ascensione, a Pentecoste per tre giorni, nelle solennità di san Giovanni, degli apostoli Pietro e Paolo, dell’Assunzione, della Dedicazione, della Natività della beata Maria, di san Michele, di Tutti i santi. 

2. Anche a coloro che salgono per celebrare qualche festa il giorno successivo, inoltre, se capita che i monaci cenino in refettorio, si dà il vino. Questo, però, non avviene se non quando si succedono immediatamente due feste nelle quali si mangi in refettorio.

 

52. Il digiuno dei fratelli

1. Tutti i venerdì si accontentano di pane, acqua e sale, tranne che nelle solennità [217]. Durante l’Avvento, la Quinquagesima [218] e i digiuni delle Quattro Tempora [219], inoltre, trascorrono nella medesima astinenza anche il mercoledì. Vivono allo stesso modo anche la vigilia di Pasqua, dell’Ascensione, di Pentecoste, di san Giovanni [Battista], di Pietro e Paolo, dell’Assunzione, di Tutti i santi, del Natale del Signore. 

2. Nelle vigilie degli Apostoli Giacomo, Bartolomeo, Matteo, Simone e Giuda, Andrea, di san Lorenzo martire, invece, mangiano sempre una volta sola, ma hanno del companatico[220].

Tutti gli altri giorni, poi, affinché essi non siano spezzati da un’eccessiva fatica, mangiano due volte, ma ricevono il companatico una volta sola[221].

3. I cibi ordinari di questa Casa vengono conditi, generalmente, soltanto con sale. Il giovedì e nelle solennità in cui c’è Capitolo, oltre al cibo consueto ne ricevono anche di un po’ più buono. Il giovedì di Pasqua e di Pentecoste, tuttavia, e il giorno dopo la festa degli Innocenti – se è un giovedì –, ricevono del vino, ma nessun’altra pietanza.

4. Le verdure crude e i frutti o le radici[222] – se ce ne sono – li ricevono soltanto a cena, o a pranzo se mangiano una volta sola. Tutto ciò che resta del companatico e della pietanza dopo il pasto unico lo restituiscono. Il vino che è dato loro lo bevono soltanto a pranzo o a cena. 

5. Tutto ciò che rimane delle pietanze e del companatico che possa essere utilizzato viene restituito al cuoco, perché non accada che qualcuno faccia di nascosto un’astinenza non permessa.

 

53. In quali tempi mangiano pane di avena

1. Dal 1° novembre fino a Pasqua mangiano pane di avena [223]. In Avvento e in Quaresima, tuttavia, ogni settimana ricevono, al posto della pietanza, un pane di frumento.

 

54. I loro salassi

1. Sono salassati[224] quattro volte all’anno: verso il 1° maggio, verso il 15 luglio, verso il 1° ottobre, verso il 1° febbraio. A coloro che vengono salassati, per tre giorni, al mattino, si dà una pietanza, e due volte il vino. I primi due giorni si aggiungono alla cena, se ce ne sono, tre uova. 

2. Se dopo il pranzo hanno sete, bevono del vino, ma non nella cella di un altro. Non è mai concesso a nessuno, infatti, di bere o di mangiare nella cella di un altro. Si astengono dal loro lavoro e tornano a letto. Da dopo pranzo fino ai vespri hanno un colloquio su qualcosa che sia loro di giovamento. Chi non ha avuto il salasso è tenuto a prendere lo stesso cibo di quelli che l’hanno avuto.

 

55. Il silenzio durante il pasto

1. Mentre mangiano mantengono il silenzio, dovunque si trovino. Questo avveniva anche prima, ma dopo l’esempio dei monaci cistercensi, degni del più grande onore e amati da Dio, i quali in breve tempo, con nostra gioia, sono molto cresciuti in santità e numero, custodiamo il silenzio in modo ancor più pieno. Infatti sia i loro laici sia i monaci non parlano durante il pranzo. 

2. I nostri fratelli, inoltre, in qualunque obbedienza siano stati posti, non hanno il permesso di parlare con i fratelli che hanno un’altra obbedienza.

 

56. Cosa si deve fare in caso di pericolo

1. Se in qualche luogo dovesse capitare all’improvviso un’emergenza, quale un malessere improvviso, un incendio o un altro pericolo del genere, il primo che può, dispensato dal silenzio, porta aiuto.

 

57. Il vestito dei fratelli e gli oggetti d’uso della cella

1. Per vestito hanno tre tuniche, tre paia di calze e due paia di pedalini[225]; scarpe da notte e da giorno, una pelliccia, delle pelli, un mantello, un cappuccio, un paio di guanti di lana, due lombari[226], due cinture. Le loro scarpe sono fatte di pelle di bue. 

2. Il 1° novembre rendono una tunica vecchia e ne ricevono una nuova. Così pure rendono un paio di calze e ricevono un paio di calze e uno di pedalini. Ricevono pelli e pellicce vecchie, cioè quelle che i monaci rendono quando ricevono le nuove. Per letto, poi, hanno della paglia, una tela resistente, un cuscino, una coltre[227]. 

3. Da Pasqua fino alla festa di san Michele, da Prima a Compieta non fanno uso delle scarpe per la notte. Nel dormitorio della Casa in alto hanno in comune i letti, le pellicce, le scarpe per la notte. In tutte queste cose non si ha altra cura che difendersi dal freddo e coprire la nudità. Per questo anche i lacci delle scarpe e le cinture attorno ai fianchi li portano di canapa grezza, e anche i lombari sono di canapa. Si cerca precisamente ciò che è richiesto non dalla vanità o dal piacere, ma dalla necessità e dall’utilità[228].

4. Hanno anche due scodelle per il cibo, e una per il pane al posto del tovagliolo, un’altra ciotola più grande per lavarvi il necessario; una coppa [per il vino], un bicchiere, una saliera, un cucchiaio e un coltello, una brocca per l’acqua. Come attrezzi: una scure, una vanga, una pialla, una lesina, un falcetto, due aghi, del filo, delle forbici, un succhiello.

Chiunque leggerà queste cose non si affretti a ridere o a biasimarci se prima, per un tempo abbastanza prolungato, non avrà trascorso una vita di questo genere in una solitudine così grande e in mezzo a simili freddi.

 

58. Non cercano il permesso di parlare con estranei

1. Non cercano il permesso di parlare con chi non è di questa Casa, neanche se si tratta di un loro fratello.

2. Non tengono assolutamente nulla presso di sé, a meno che non ne abbiano ricevuto il permesso.

3. Se vengono rimproverati, prostratisi, chiedono perdono senza indugio, e in quello stesso giorno si astengono dal riprendere chi li ha ripresi.

 

59. Cosa si fa di un oggetto inviato a qualcuno di noi

1. Se qualcuno, amico o parente, invia una veste o qualcosa del genere a qualcuno di noi, laico o monaco che sia, ciò non viene dato a lui, ma a un altro, perché quegli non abbia l’impressione di avere qualcosa di proprio[229].

 

60. Cosa bisogna fare quando si trova un oggetto

1. Se all’interno dei nostri confini viene trovato un oggetto, lo si restituisce immediatamente a colui cui appartiene, se questi è presente; se no, lo si consegna al procuratore. Se, invece, i nostri fratelli laici trovano un oggetto al di fuori dei nostri confini, se è possibile lo si restituisce subito al suo proprietario o lo si affida a una persona che si pensa possa restituirlo meglio e più fedelmente. Altrimenti, lo si lascia lì senza toccarlo.

2. Sia nelle celle che nel dormitorio si coricano vestiti di tunica e cintura [230].

 

61. Le casacche e i pellicciotti dei fratelli

1. I pastori, poi, hanno delle casacche [231] di canapa che indossano quando fanno i formaggi [232]. Per il resto, non facciamo assolutamente uso di vesti di tela, e nemmeno di mutande. 

2. Abbiamo concesso ai pastori anche dei pellicciotti, che si possono fare all’incirca con due pelli di montone; di essi si servono soltanto quando escono fuori [dei confini] per svernare.

3. Durante la mungitura, in qualunque luogo si trovino, mantengono sempre il silenzio.

 

62. Il fratello che ha cura delle bestie da soma

1. Il fratello che ha cura delle bestie da soma, quando esce fuori [dei confini] non si corica su un materasso e non chiede nient’altro che un ricovero, a meno che il priore o il procuratore non gli abbiano dato ordini specifici. 

2. Egli non porta né riferisce parole o saluti di nessuno di noi a qualcuno di fuori, né di nessuno di fuori a qualcuno di noi, a meno che il priore o il procuratore non gliene abbia dato l’ordine. Le chiacchiere mondane gli è stato comandato di lasciarle là dove le ha udite [233].

 

63. L’orto

1. L’orto e tutto ciò che lo riguarda è affidato a un unico fratello, il quale per ogni cosa ricorre al procuratore, e a lui rende conto di tutto.

 

64. Il custode del ponte

1. Il custode del ponte [234] non ha il permesso di stare a parlare assolutamente con nessuno, a meno che non abbia ricevuto un ordine specifico. Quelli che non devono passare li rimanda indietro con cenni o, se non capiscono, anche con parole. Chiunque lo sostituisce ha l’ordine di comportarsi in questa stessa maniera [235].

2. E a chiunque sostituisce qualcuno in qualche obbedienza non è consentito di mutare in essa assolutamente nulla senza che ne abbia ricevuto il permesso. Anche nelle celle, sia nella Casa di sopra che in quella di sotto, non si lascia mutare o fare nulla che non sia stato precedentemente mostrato e comandato, affinché delle case che sono state costruite con fatica non siano deteriorate o distrutte dal prurito per le singolarità[236].

65. Le discipline dei fratelli

1. In Avvento e in Quaresima, ogni settimana ciascuno riceve la una volta la disciplina[237]. 

2. E se non sono in Casa, al posto della disciplina dicono sette Pater noster con le venie[238].

 

66. Il mercoledì delle ceneri

1. Quelli che sono presenti ricevono la cenere nella cappella inferiore[239], per mano del procuratore. Quelli che non sono presenti dicono tre Pater noster con le venie[240].

 

67. Che cosa devono fare al posto della Messa

1. Parimenti, dall’inizio del digiuno fino a Pasqua, al posto della messa recitano prostrati, dopo Nona, tre Pater noster.

 

68. La Cena [del Signore]

1. Nel giorno della Cena [del Signore], quelli che rimangono in basso vanno, dopo il pasto, in cucina e colui che è primo nell’ordine [di professione] lava i piedi a tutti gli altri e offre del vino a ciascuno. Essi lo bevono e poi si ritirano.

 

69. La Parasceve

1. Il giorno seguente, cioè alla Parasceve[241], quelli che sono là, cioè in basso, dopo Nona – che in quel giorno viene posticipata più che in tutti gli altri giorni – vanno in chiesa e lì dicono un Pater noster per la Chiesa, uno per il Papa, uno per i Vescovi e per tutti gli Ordini sacri, uno per l’Imperatore, uno per i Catecumeni, uno per tutte le afflizioni e i pericoli, uno per gli eretici, uno per i giudei, uno per i pagani, con l’aggiunta di una venia[242], tranne che per i giudei [243]. 

2. Poi baciano con venerazione la croce presentata loro dal cuoco, dicendo fra sé: «Noi ti adoriamo, o Cristo, e ti benediciamo, perché con la tua croce hai redento il mondo». Chi non sa tale versetto dice un Pater noster.

 

70. Come si comportano nelle solennità

1. Ogni giorno in cui nel corso dell’anno si tiene il Capitolo, quelli che non salgono in alto rimangono in cella – sempre che le loro obbedienze lo consentano – e dedicano lo spazio di tempo che vi è fra Terza e Sesta alla preghiera.

 

71. Che cosa fanno per un defunto

1. Per un fratello appena defunto sono tenuti a trecento preghiere del Signore [244], la metà delle quali sono da recitare con le venie [245]. E per ogni anniversario nove, con altrettante venie.

 

72. La rasatura dei fratelli

1. I laici sono rasati ogni volta che lo sono i monaci. I laici, però, si lavano anche la testa. Tutti i servizi, poi, che, per quanto personali, ciascuno non riesce o non può farsi da solo, vengono compiuti dagli altri con umiltà e devozione, in modo tale che colui a cui è stato comandato qualcosa di questo genere si ritenga felice [246].

2. Quando s’incontrano, inoltre, si cedono reciprocamente il passo con amichevole prontezza e con un umile inchino, e proseguono mantenendo il silenzio [247]. In ciò i più giovani, cioè quelli che sono arrivati dopo [in comunità], cercano di prevenire i più anziani [248].

 

73. L’accoglienza di un novizio

1. Per accogliere i laici a questa vita di conversione si fa quasi lo stesso che per i chierici. Allo stesso modo, infatti, vengono presentate loro le cose dure e aspre [249]. 

2. Ugualmente gli si ordina di riconciliarsi con chi ha qualcosa contro di loro [250], e poi sono ammessi a un periodo di prova, la cui durata dipende dal priore, ma che comunque non è inferiore a un anno; infine, vengono accolti [alla professione] sulla testimonianza di coloro fra i quali sono vissuti, cioè dei laici, come i chierici lo sono sulla testimonianza dei monaci.

3. Il giorno in cui qualcuno di loro deve fare la professione, questi viene condotto al capitolo dei monaci. Lì ascolta ciò che riguarda la stabilità, l’obbedienza e tutte le altre cose necessarie, e se rimane saldo e imperterrito [251] chiede poi personalmente a qualcuno di scrivergli la professione.

In fondo ad essa egli traccia di propria mano un segno di croce. Tenendolo poi in mano, dopo l’evangelo e l’offertorio si avvicina al lato destro dell’altare, e il diacono, mentre tutti ascoltano, legge il testo della sua professione così com’è nella destra di lui, dicendo:

 

74. La professione di un laico

1. «Io, fra’ N., prometto obbedienza, conversione dei miei costumi e perseveranza in questo eremo per tutti i giorni della mia vita, davanti a Dio, ai suoi santi [252] e alle reliquie di questo eremo che è stato costruito a onore di Dio, della beata sempre vergine Maria e di san Giovanni Battista, per onorare il nostro Signore Gesù Cristo e per la salvezza della mia anima, alla presenza di dom N. priore [253]. E [254] se mai qualche volta tenterò di fuggire o di andarmene da qui, sia lecito ai servi di Dio che saranno qui ricercarmi con la piena autorità che procede dal loro diritto, e ricondurmi, anche a forza e contro la mia volontà, al loro servizio [255] †».

2. Dopo ciò, egli pone questa carta sull’altare e, dopo averlo baciato, si prostra ai piedi del presbitero per essere benedetto con le seguenti preghiere: Salvum fac, Mitte ei, Esto ei, Dominus vobiscum, Oremus, Domine Iesu Christe qui es via. Vedi sopra [256].

 

75. Come si comporta il fratello dopo che è stato accolto

1. Da quel momento egli deve sapere che senza il permesso del priore non possiede assolutamente nulla, neanche il bastone su cui si appoggia andando per via. Egli, infatti, non appartiene neanche a se stesso [257]. E se durante questo tempo di prova morirà, qualora si sia comportato in maniera degna di approvazione si farà per lui esattamente tutto ciò che sopra abbiamo detto si farebbe per un monaco [258], e cioè nulla di meno che se fosse un professo.

 

76. L’ospitalità dei fratelli che sono inviati fuori

1. Quando alcuni sono inviati fuori, sulle montagne vicine – quelle, cioè, che sono al di qua della parte più alta del Cornillon, del Boquéron, dell’Entremont e de Les Échelles –, non ricevono né nutrimento né ospitalità da nessuno, a meno che non abbiano ricevuto in proposito un ordine particolare o siano costretti da qualche inevitabile e imprevista necessità [259].

 

77. I fuggitivi e gli espulsi

1. Se qualcuno di coloro che abitano in questo luogo fuggirà o sarà espulso, e mosso dal pentimento ritornerà promettendo di correggersi nelle sue perversità, e particolarmente da quel vizio a motivo del quale era stato espulso o era fuggito, il priore tratterà la sua causa nel consiglio della comunità e agirà nei suoi confronti secondo ciò che il numero dei fratelli, l’utilità della Casa e anche la salvezza di lui sembreranno richiedere. E se sembrerà buono il parere di riaccoglierlo, lo si metterà all’ultimo posto, per provare la sua umiltà. Altrimenti, gli si darà il permesso di andare presso qualche altra Casa religiosa, in cui possa salvare la propria anima.

 

78. Il numero degli abitanti

1. Il numero degli abitanti di questo eremo è di tredici. Non che sempre siamo in questo numero – adesso infatti non lo siamo –, ma nel senso che abbiamo stabilito di accoglierne tanti, se Dio li manderà. Tuttavia, se qualcuno la cui utilità e rettitudine saranno tali che parrà molto difficile poterle ritrovare domanderà misericordia, si aggiunge anche un quattordicesimo, purché si valuti che le risorse della Casa possano permetterlo.

2. Il numero dei laici, poi, che chiamiamo conversi, è stabilito in sedici. Ora, però, sono di più: alcuni di loro, infatti, erano anziani e deboli, e non potevano lavorare; per questo siamo stati costretti ad accoglierne altri. Perciò quando moriranno quelli che adesso sono fragili, al loro posto non prenderemo nessuno.

 

79. Perché il numero è così piccolo

1. Questa esiguità di numero l’abbiamo fissata in base alla stessa considerazione per la quale non ci prendiamo cura delle cavalcature degli ospiti e non abbiamo una Casa per [distribuire] le elemosine: cioè perché non succeda che, costretti a spese maggiori di quelle che questo luogo permette, dobbiamo cominciare – cosa di cui abbiamo orrore – a fare la questua e a vagare. 

2. E se i nostri successori, in seguito a situazioni che ignoriamo, non saranno più in grado di prendersi cura in questo luogo anche di questo piccolo numero senza assumersi gli odiosi compiti di far la questua e di vagare, se vorranno acconsentire ai nostri consigli lo ridurranno a quel tanto che potranno sostenere senza i suddetti pericoli. Noi che al presente ci troviamo qui, infatti, benché siamo pochi, preferiremmo essere ancora molti di meno piuttosto che giungere a simili mali conservando o moltiplicando il nostro numero. 

3. Facendo, dunque, assegnamento non sui doni che ci vengono inviati – poiché infatti non ci sembra opportuno doverci assumere, in nome di benefici incerti, pesi certi che non possono esser né portati né deposti senza grave pericolo[260] –, non considerando dunque i doni, ma solo ciò che questo deserto in cui siamo può fornire attraverso l’agricoltura e l’allevamento del bestiame, noi crediamo che qui possa vivere il suddetto numero di uomini, posto tuttavia che rimanga la stessa sollecitudine per l’umiltà, per la povertà, per la sobrietà nel vitto, nel vestito e in tutte le altre cose di nostra utilità che vi è stata fino ad ora, e, infine, che ogni giorno crescano sempre di più il disprezzo del mondo e quell’amore per Dio a causa del quale tutto dev’essere sopportato e compiuto[261].

 

80. Elogio della vita solitaria

1. Carissimi, adesso avete, come avevate chiesto, le nostre consuetudini, così come esse sono e descritte come abbiamo potuto. In esse vi sono molte cose da poco e di dettaglio che forse non era opportuno scrivere, ma è stato il vostro amore, pronto a nulla giudicare ma a tutto abbracciare, che ci ha spinti a farlo. 

2. Nonostante ciò, non riteniamo di aver potuto racchiudere in questo scritto ogni cosa, sì che non ne sia rimasto fuori assolutamente nulla. Se, però, qualcosa ci è sfuggito, potrà essere facilmente indicato in un incontro di persona.

3. Quanto, poi, a un elogio di questa vita, cioè della vita solitaria, non abbiamo detto quasi niente, sapendo con quale abbondanza essa è stata lodata da molti santi e sapienti[262] la cui grande autorevolezza e le cui orme non siamo degni di calcare, e giudicando superfluo esporvi ciò che voi conoscete al pari o meglio di noi.

4. Sapete [263], infatti, che nell’Antico e soprattutto nel Nuovo Testamento quasi tutti i più grandi e profondi segreti furono rivelati ai servi di Dio non nel tumulto delle folle, ma quando erano soli. Gli stessi servi di Dio, tutte le volte che li accendeva il desiderio di meditare più profondamente qualche verità o di pregare con maggiore libertà o di liberarsi dalle cose terrene con l’estasi dello spirito, quasi sempre evitavano gli ostacoli della moltitudine e ricercavano i vantaggi della solitudine.

5. È per questo, tanto per farne qualche breve accenno, che Isacco esce da solo nella campagna per meditare[264], e dobbiamo credere che ciò non fosse per lui occasionale, ma abituale; così anche Giacobbe, mandati innanzi tutti gli altri, rimasto solo, vede Dio a faccia a faccia, ed è favorito simultaneamente della benedizione e del cambiamento del nome in uno migliore[265], conseguendo più in un attimo di solitudine che non in tutto il tempo della vita trascorso in compagnia degli uomini.

6. La Scrittura attesta quanto anche Mosè[266], Elia[267] ed Eliseo [268] amino la solitudine e quanto per essa progrediscano nella conoscenza dei divini segreti; come tra gli uomini si trovino frequentemente in pericolo, e come invece, mentre sono soli, vengano visitati da Dio.

7. Allo stesso modo Geremia siede solitario, perché è penetrato dalle minacce di Dio [269]; anzi, domandando che sia data acqua al suo capo e una fonte di lacrime ai suoi occhi per poter piangere gli uccisi del suo popolo [270], chiede anche un luogo dove poter compiere con maggiore libertà un’opera così santa dicendo: Chi mi darà nella solitudine un rifugio di viandanti? [271], come se non potesse dedicarsi a questo in città; in tal modo indica quanto la presenza di altri uomini precluda il dono delle lacrime. Egli afferma ancora: È bene attendere nel silenzio il soccorso del Signore[272]; attesa che riceve sommo aiuto dalla solitudine, e aggiunge: È bene per l’uomo sottoporsi al giogo fin dall’adolescenza [273], parole queste che sono di grandissimo conforto a noi che quasi tutti abbiamo abbracciato questa vocazione fin dalla giovinezza. Il profeta dice infine: Siede solitario ed in silenzio per poter elevarsi sopra di sé[274], indicando così quasi tutto ciò che vi è di meglio nella nostra vocazione: la quiete e la solitudine, il silenzio e il desiderio dei beni celesti[275].

8. Il profeta poi mostra quale trasformazione opera una tale disciplina in coloro che vi si sottomettono, dicendo: Porgerà la guancia a chi lo schiaffeggia e sarà saziato di obbrobri[276]. Nel primo caso rifulge una somma pazienza, nell’altro una perfetta umiltà.

9. Anche Giovanni Battista, di cui, secondo l’elogio del Salvatore, nessuno è sorto più grande tra i nati di donna[277], mostra con evidenza quanta sicurezza e utilità procuri la solitudine. Egli, non stimandosi sicuro né per gli oracoli divini che avevano predetto che, ripieno di Spirito Santo fin dal seno materno, sarebbe stato il precursore di Gesù Cristo con lo spirito e la forza di Elia[278], né per la sua mirabile natività, né per la santità dei suoi genitori, fuggì la compagnia degli uomini come piena di pericoli e scelse come sicura la solitudine del deserto[279]; e finché dimorò solitario nell’eremo, non conobbe né pericoli né morte. L’aver battezzato il Cristo e affrontato la morte per la giustizia[280] dimostrano quanta forza e quanti meriti vi abbia acquistato. La solitudine infatti lo rese il solo degno di battezzare il Cristo che tutto purifica[281] e di non indietreggiare né davanti al carcere né davanti alla morte per la verità[282].

10.Lo stesso Gesù, Dio e Signore, la cui virtù non poteva essere aiutata dalla solitudine né impedita dalla presenza degli uomini, tuttavia per giovare a noi col suo esempio, prima di predicare e di compiere miracoli, volle nel deserto essere sottoposto alle tentazioni e ai digiuni[283] come ad una prova. Di lui la Scrittura dice che, lasciata in disparte la folla dei discepoli, saliva da solo sul monte a pregare[284]. E nell’imminenza della Passione lascia gli apostoli per poter pregare con insistenza da solo [285], insegnandoci soprattutto con questo esempio quanto la solitudine giovi all’orazione, perché non vuole pregare insieme con altri, fossero pure suoi compagni gli apostoli[286].

11. Ed ora considerate voi stessi quanto profitto spirituale nella solitudine trassero i santi e venerabili padri Paolo, Antonio, Ilarione, Benedetto [287] e innumerevoli altri, e avrete la prova che nulla, più della solitudine, può favorire la soavità della salmodia, l’applicazione alla lettura, il fervore della preghiera, le penetranti meditazioni, l’estasi della contemplazione e il dono delle lacrime [288].

12. Per ciò che concerne la lode della vocazione che abbiamo intrapreso, tuttavia, non accontentatevi di questi pochi esempi che vi abbiamo presentato. Radunatene, piuttosto, ancora di più voi stessi, partendo sia dall’esperienza della vita presente sia dalle pagine delle sante Scritture, anche se la nostra vita non ha bisogno di tali elogi, poiché essa si raccomanda da sola per la sua rarità e per il ristretto numero di coloro che la cercano. Se infatti, secondo le parole del Signore, stretta è la via che conduce alla vita e pochi sono coloro che la trovano, e, al contrario, larga è la via che conduce alla morte e molti vanno per essa [289], tra le forme di vita della religione cristiana ciascuna si rivela dotata di un merito tanto migliore e tanto più alto quanto più piccolo è il numero di coloro che ammette, e tanto minore e più basso quanto più elevato è questo numero [290]. Ci auguriamo che stiate sempre bene e che vi ricordiate di noi.

 

Fine delle Consuetudini di Certosa.

 


[1] Per esse si vedano già le “Consuetudini della Certosa”, a cura di E. ARBORIO MELLA, in Regole monastiche d’occidente. Da Agostino a Francesco d’Assisi, Bose 1989, pp. 145-207, da cui ho tratto qui alcune espressioni. Per le note, talvolta, ho ripreso alcune indicazioni di M. LAPORTE, in Aux sources de la vie cartusienne V-VIII. Sources des Consuetudines Cartusiae, In Domo Cartusiae 1975, 1967, 1970, 1971. Testo in GUIGUES IER, Coutumes de Chartreuse, par un Chartreux [M. Laporte], Paris 1984 (Sources Chrétiennes 313). Per una collocazione del messaggio spirituale e monastico delle Consuetudini di Guigo nel contesto della tradizione, rinvio al § 17 dell’introduzione a tale edizione, “Les sources des Coutumes de Chartreuse”, ibid., pp. 65-88. Varie datazioni sono state proposte per tale scritto: ad es. A. WILMART lo situa nel 1115/1116 (Recueil des Pensées du Bx. Guigues, Paris 1936, p. 40, n. 2); M. LAPORTE fra il 1121 e il 1128 (Aux sources I, pp. 53-62 e GUIGUES IER, Coutumes de Chartreuse, pp. 16-17); J. HOGG verso il 1127 (Die ältesten, p. 18); e J. PICARD nel 1127/1128 (“La chronique ‘Quae in posterum’ de Bernard d’Ambronay”, p. 30; e cf. ID., “La liturgie cartusienne”, p. 289).

[2] Saint-Sulpice era un monastero benedettino di osservanza cluniacense il cui priore, Umberto, provava forti simpatie per lo stile di vita certosino. Tale comunità si trovava allora in un periodo di transizione quanto alla definizione della propria osservanza e la via certosina era una possibilità seriamente presa in considerazione. Umberto fu tra coloro che chiesero a Guigo I di stendere le Consuetudines Cartusiae, che gli furono da lui inviate nel 1128. Negli anni 1130-1140, tuttavia, la comunità decise di aderire all’ordine cistercense, nella filiazione di Pontigny. Al tempo in cui Guigo scrive vi erano anche altre case certosine, che non sono qui menzionate: quella de La Sylve-Bénite (1116), di Durbon (1116) e di Les Écouges (1116).

[3] Cf. 1Cor 1,1.

[4] Ugo nacque a Châteauneuf, vicino a Valence, verso il 1052 e studiò a Reims, ove fu allievo di Bruno. Nel 1079 era sicuramente canonico della Chiesa di Valence, e con lui strinse amicizia Ugo di Die, legato del papa Gregorio VII per le Gallie e futuro arcivescovo di Lione. Nel 1080 fu nominato vescovo della Chiesa di Grenoble. Sostenitore convinto della riforma gregoriana, entrò subito in conflitto, a motivo di ciò, con il capitolo della cattedrale. Nel giugno del 1084 accolse Bruno e i suoi compagni e li condusse al luogo solitario della Chartreuse. Esortò poi Guigo a stendere le Consuetudini della Chartreuse, ne approvò il lavoro di correzione dell’Antifonario, e fino alla morte (1-4-1132) offrì assistenza e protezione ai monaci certosini. Al termine della sua biografia, Guigo narra che anche in mezzo a molte tribolazioni egli dimostrò sempre «nei confronti della Chartreuse e del suo indegno … priore, uno speciale amore, non venendogli mai meno, pur in così grandi sofferenze, il ricordo di loro» (VI, 32).

[5] Guigo conosceva molto bene le lettere di Girolamo, poiché egli stesso afferma di averne fatto una raccolta (cf. Lettera ai certosini di Durbon, in I PADRI CERTOSINI, Una parola dal silenzio, Qiqajon, Magnano (BI) 1997, pp. 104-107).

[6] Guigo nelle Consuetudini cita ancora esplicitamente Benedetto in 38,1 e 80,11. Numerosi, poi, sono i riferimenti, più o meno letterali, alla sua Regola nel corso del testo (puntualmente segnalati in nota). Sulla questione di un’eventuale relazione fra la vita dei certosini e la Regola di Benedetto si veda l’ampio studio di M. LAPORTE in Aux sources II, pp. 101195; J. DUBOIS, Les institutions monastiques au XIIe siècle, pp. 223-225, e J. HOGG, The Carthusians and the “Rule of Benedict, pp. 281-318.

[7] Cf. anche GUIGO I, Meditationes 190: «Cerca di essere ammaestrato piuttosto che di insegnare». Nella Regula Benedicti 6,6, inoltre, si trova scritto: «Parlare e insegnare spettano al maestro, mentre al discepolo si addice tacere e ascoltare».

[8] Pr 27, 2. Si veda anche GUIGO I, Meditationes 18.20.288.

[9] Mt 6, 1.

[10] Si veda, ad esempio, la Regula Benedicti 19, 1-2: «Noi crediamo che la presenza divina sia ovunque e che gli occhi del Signore scrutino buoni e cattivi in ogni luogo, ma dobbiamo crederlo soprattutto, senza ombra di dubbio, quando partecipiamo all’ufficio divino» e 43, 3: «Nulla, dunque, sia anteposto all’ufficio divino».

[11] I primi 8 capitoli delle Consuetudini trattano ampiamente della liturgia che si celebrava allora in Certosa. Non tutto è stato mantenuto, anche se si può dire che la sostanza è rimasta invariata: l’Ufficio, la scansione dei tempi (liturgici e non), le feste, ecc., sono rimasti pressoché immutati.

[12] Si trattava di giorni liturgicamente più rilevanti, per i quali l’ufficio notturno prevedeva dodici letture, la maggior parte delle quali tratte dai padri della chiesa. Tali giorni si distinguevano secondo due modalità di rito, una più semplice, l’altra più solenne. Inizialmente, tuttavia, i certosini si erano conformati all’uso delle chiese secolari, che prevedeva, per le feste maggiori, solo nove letture. In seguito adottarono la pratica benedettina, che ne prevedeva dodici. L’adozione dell’uso benedettino daterebbe dal priorato di Giovanni di Toscana (ott. 1101 - 7 ott. 1109).

[13] Cf. già Regula Benedicti 9, 5.13

[14] Tale annotazione mi pare che vada compresa in riferimento a tutti i mesi che vanno da novembre all’ottava di Pentecoste. In particolare, il 2 novembre vi era la festa del martire Eustachio e dei suoi compagni.

[15] Così erano denominati i tre giorni (mercoledì, venerdì e sabato) di digiuno e di penitenza all’inizio di ognuna delle quattro stagioni dell’anno, per chiedere la benedizione di Dio sui futuri raccolti e per ringraziare di quelli già avvenuti. Nel 1078 Gregorio VII aveva fissato quelle primaverili nella prima settimana di Quaresima e quelle estive nell’ottava di Pentecoste.

[16] Nel medioevo l’anno iniziava in giorni diversi a seconda delle diverse zone e epoche. Guigo assume come data di inizio il 25 marzo.

[17] Nella liturgia certosina (come in quella romana anteriore al Concilio Vaticano II) con Settuagesima si indica ancora la terzultima domenica del Tempo dopo l’Epifania (che corrisponde al Tempo Ordinario prima della Quaresima nel rito romano). Essa cade all’incirca settanta gironi prima della Pasqua.

[18]  Tale uso era stato fissato dal papa Alessandro II (1061-1073).

[19] Con tale termine vengono indicati i primi sette libri della Bibbia: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio, Giosuè e Giudici. Quest’ultimo talvolta comprende anche il libro di Rut che di fatto noi leggiamo in questo periodo. La pratica di leggere l’Eptateuco in tale periodo era già in uso presso i cluniacensi, i cistercensi e i canonici dell’ordine di san Rufo.

[20]  Cioè il mercoledì delle ceneri.

[21] Il Venerdì Santo in Certosa si chiama ancora «Parasceve».

[22] Lett.: “dopo la confessione”. Si tratta del Confiteor, che, secondo una pratica tipicamente certosina, veniva cantato sul tono delle letture.

[23] Si tratta del Giovedì santo.

[24] Sono i sette salmi penitenziali: Sal 6; 32 (31); 38 (37); 51 (50); 102 (101); 130 (129); 143 (142).

[25] Ancora oggi i Certosini durante le ferie di quaresima dicono i salmi penitenziali (cf. St. 6.47.24).

[26] L’Annunciazione era, come oggi, il 25 marzo, mentre la festa di san Benedetto era il 21 marzo.

[27] Il termine “laici” indica nelle Consuetudini di Guigo i conversi.

[28] Il termine Mandatum (Comandamento), tratto da Gv 13, 34, indica tradizionalmente la lavanda dei piedi.

[29] Gv 13, 12.

[30] Gv 14, 31.

[31] Tavoletta di legno con una o più maniglie mobili di ferro che, agitata, annunzia le funzioni nelle chiese nei giorni della Settimana Santa in cui è proibito l’uso delle campane (cf. Devolto-Oli). Con un’altra forma, ma con la medesima funzione, si chiama anche “raganella”.

[32] È il Sal 51 (50).

[33] È la preghiera che precede e introduce il Padre nostro.

[34] Cioè, forse, tornano nella Casa a loro riservata, più a valle.

[35] Le “Rogazioni maggiori” o “Litania maggiore”, che si celebravano il 25 aprile, erano processioni che originariamente avevano lo scopo di implorare da Dio benedizione per i raccolti, soprattutto dei cereali. Nel medioevo avevano assunto un carattere fortemente penitenziale. Vi erano poi anche le “Rogazioni minori” o “Litania minore”, anch’esse con accento penitenziale molto forte, volte a chiedere la protezione di Dio nei confronti di varie calamità. Queste ultime si celebravano tradizionalmente nei tre giorni precedente l’Ascensione.

[36] Cf. supra nota 15.

[37] Con tale denominazione venivano indicati 1-2Sam e 1-2Re.

[38]  I Proverbi, il Qohelet e il Siracide sono qui indicati, rispettivamente, con i nomi di Parabolæ, Ecclesiastes, Ecclesiasticus.

[39] In questo modo non si indica solo il Sal 92, ma anche gli altri salmi festivales: 99, 62, il Cantico di Daniele (3, 5788a.56), e 148-149-150.

[40] Letteralmente: «lectiones et caetera necessaria recolimus». È la cosiddetta “recordatio” citata anche in 9, 3 (cf. infra, nota 53).

[41]  Cf. supra nota 17.

[42] Durante il pasto, infatti, veniva letta la Scrittura. In proposito si veda già il Praeceptum di Agostino 3, 2: «Quando vi recate a tavola ... non sia solo la vostra bocca a prender cibo, ma anche le vostre orecchie abbiano fame di parola di Dio», e la Regola di Cesario d’Arles ai monaci 9, 2. Ancora oggi nelle domeniche e nelle solennità la giornata è scandita da questi appuntamenti (cf. St. 6.46.22).

[43] Questa festa che cade il 2 febbraio nel calendario attuale ha giustamente ritrovato il suo riferimento cristologico e si chiama Presentazione al Tempio di N. S. Gesù Cristo.

[44] Letteralmente: «tortas», un pane di farina non raffinato.

[45] Si tratta della festa della Natività di Giovanni Battista, il 24 giugno.

[46] Si veda supra nota 39.

[47] Letteralmente: “la Nascita”, ma con tale espressione veniva indicata la nascita al cielo, la morte; e dunque, nel caso presente, il martirio dei due apostoli, la cui festa ricorre il 29 giugno.

[48] La chiesa della Grande Chartreuse fu consacrata il 2 settembre 1085 da Ugo I di Grenoble, alla Vergine e al Battista.

[49] Cf supra nota 43.

[50] Cf. supra la nota 47. La Natività di Maria è l’8 settembre, la festa degli Angeli è quella sopra denominata di san Michele, il 29 settembre.

[51] Cf supra nota 43.

[52]  L’«evangelo Nunc dimittis» è il cantico di Simeone (Lc 2,29-32).

[53] All’inizio probabilmente era il semplice ripasso dei brani da cantare (responsori e antifone). Le Consuetudini di Basilio ci dicono che nella «recordatio» il priore e altri monaci incaricati “ricordavano”, cioè, probabilmente, “leggevano” le letture delle Scritture, e nelle domeniche e nei giorni festivi un sermone o un’omelia (Consuetudines Basilii 40, 3.5-7 e 39, 8). Tale momento si svolgeva nel chiostro, nelle ottave di Natale, di Pasqua e di Pentecoste e in altri giorni (ibid., 39, 8 e cf. 12, 10; 16, 3; 33, 22.25; 40, 5).

[54] Il testo latino ha «agendam», come ancora oggi si chiama questo l’Ufficio dei defunti da noi.

[55] Il «tricenario» è una serie di trenta messe, una al giorno per trenta giorni consecutivi, in suffragio di un defunto. L’origine di questa prassi risale a san Gregorio Magno (cf. Dialoghi IV, LVII, 8-16).

[56] Cf. supra nota 17.

[57] Cioè se si doveva celebrare l’anniversario di una morte.

[58] Vi sono due salmi che iniziano con tali parole: il Sal 6 e il Sal 38, qui è sicuramente il 6 perché il 38 non fa parte dei salmi penitenziali, infatti si legge: «Poi si dice, per primo, il salmo Domine ne in furore tuo» e poco dopo si aggiunge: «E così alla fine di ciascuno dei sette salmi».

[59] Cf. supra nota 24. 60.

[60] Tale prassi di suonare la campana quando un infermo sta spirando e che i Priore, con altri monaci, sia presente al momento del trapasso è ancora in uso (St. 9.62.22).

[61] Sono i Sal 5, 6, 114, 115, 129.

[62] Il latino ha «caligis et pedalibus» si tratta dell’antico abbigliamento certosino conservato fino a pochi anni fa. La calza era divisa in due parti: col primo termine si indica la parte superiore che fascia la gamba dalla caviglia al ginocchio, col secondo, la parte che avvolge propriamente il piede.

[63] “Prendere venia” per il monaco certosino è una cerimonia che consiste, in segno di umiltà davanti alla divina Maestà, nel mettersi in ginocchio, senza cappuccio, e baciare la terra (o un’altra cosa su cui ci si era appoggiati, come ad esempio l’inginocchiatoio). Esiste sicuramente un certo legame tra le venie e le metanìe della tradizione orientale, anche se non può essere facilmente specificato.

[64] Si tratta, rispettivamente, dei Sal 113, 50, 117 (indicato anche per numero per distinguerlo da altri quattro salmi che iniziano con il medesimo termine), 41, 131, 138, 85, 148-149-150.

[65] Ancora oggi si festeggia il dies natalis di un monaco pranzando in refettorio (St. 9.63.13).

[66] «Praecipue studium et propositum nostrum est silentio et solitudini cellae vacare»: il primo paragrafo del cap. 4 degli Statuti dedicato alla custodia della cella e del silenzio usano ancora questa espressione così densa e cara ad ogni monaco certosino.

[67] Lam 3, 28. 

[68] Ger 15, 17.

[69] AGOSTINO, De vera religione 35, 65. Quest’idea, cara alla tradizione patristica e monastica, ritorna anche in GUIGO, Meditationes 52 e 6o.

[70] Questo digiuno di tre giorni è ancora osservato prima dell’elezione del Priore (cf. St. 5.38.4).

[71] È il Sal 122.

[72] Le «formes» sono la parte del coro a forma di inginocchiatoio che sta davanti agli stalli dei monaci.

[73] Per Messa celebrata «in conventu» s’intende la messa della comunità, la Messa conventuale.

[74] Cf. Regula Benedicti 64, 2, con la differenza, però, che alla Grande Chartreuse non era previsto che il priore potesse essere eletto anche solo da una parte della comunità, sebbene «di più assennato consiglio». Un’altra sostanziale differenza con la Regula è che mentre l’Abate è eletto a vita, il Priore può essere sollevato dall’incarico per un motivo sufficiente in qualsiasi momento.

[75] Ancora oggi si vive nella gioia il giorno dell’elezione del Priore (cf. St.5.38.26).

[76] Cf. Regula Benedicti 64, 8: «[l’abate] sappia che è meglio per lui esser di giovamento piuttosto che essere a capo». Ma, forse, qui più che alla Regula si fa riferimento alla meditazione n. 346: «Non devi cercare che i tuoi figli, al cui servizio il Signore ti ha assegnato, facciano ciò che vuoi tu, ma ciò che a loro giova. Devi piegare te al loro vantaggio, non piegare essi alla tua volontà, dato che ti sono stati affidati non per essere loro a capo, ma per loro giovamento».

[77] Gli Statuti si rivolgono ancora al Priore con le medesime parole (cf. St. 3.23.5).

[78] Stesso rigore negli attuali Statuti (cf. 1.6.1).

[79] Anche oggi il Priore è tenuto a tale sobrietà (cf. St. 3.23.6).

[80] Cf. Am 6, 13 (14) secondo la Vulgata.

[81] Cf. Gen 11, 4.

[82] Anche oggi il Priore è chiesto lo stesso raccoglimento nei Tempi Forti (cf. St. 3.23.21).

[83] È la Casa ove abitavano i conversi (i “laici”), la Correrie.

[84] La parte degli Statuti attuali che tratta del Procuratore inizia ancora con queste parole di Guigo (cf. 3.26.1).

[85] Statuti 3.26.1 riprende questa indicazione.

[86] Cf. Lc 10, 41, con reminiscenze della Vetus latina.

[87] L’immagine della vita monastica come porto sicuro e pieno di pace è presente nella tradizione monastica occidentale fin dall’alto medioevo. Di essa è testimone anche Bruno stesso, nella Lettera a Rodolfo 9, e nella Lettera ai suoi figli di certosa 2. Cf. anche Pier Damiani nel suo opuscolo detto Dominus vobiscum (ca. 1048-1055), ove proprio riguardo alla cella dice:

«Ti trovano come porto di tranquillità coloro che sfuggono al naufragio dei flutti del mondo» (PL 145, 249A).

[88] Cf. infra, n. 288.

[89] Questa raccomandazione è fatta propria dagli Statuti (cf. 3.26.1).

[90] Cf. le Costituzioni di Lamberto 2.

[91] Il testo originale parla di «dispensatori», ma trattandosi dei capitoli che si riferiscono al procuratore sembra ovvio che si parli ancora di lui. Comunque pare che un “dispensiere” sia esistito all’inizio della fondazione certosina, ma al tempo di Guigo il compito che era gli era proprio, ossia di distribuire il cibo, era adempiuto dal cuoco. Altre sue funzioni, invece, furono attribuite al procuratore (cf. J. DUBOIS, L’institution des convers au XIIe siècle, pp. 223-224).

[92] Gli Statuti 1.4.5 riprendono nella sostanza questi paragrafi.

[93] Gli abitanti del vicino villaggio di Saint-Pierre avevano già aiutato Bruno e i suoi compagni a costruire le loro celle e avevano assistiti, in parte, procurando loro del cibo. Anche gli abitanti del villaggio de La Ruchère sembra che all’inizio li avessero soccorsi offrendo loro ospitalità.

[94] Cf. Lc 10, 40-41.

[95] Cf. 1Pt 2, 21.

[96] Sal 45,11.

[97] Sal 76,7.

[98] Sal 34. 13.

[99] Sal 84, 9.

[100] Cf. 1Cor 13, 12.

[101] Cf. Sal 33, 9.

[102] Lc 10, 42.

[103] I paragrafi 2-3 sono confluiti negli attuali Statuti dell’Ordine certosino (cf. 1.3.9).

[104] Guigo vuol dire qui che le risorse della comunità non sarebbero sufficienti per donare ai poveri ciò di cui essi avrebbero bisogno, e i monaci sarebbero perciò costretti ad andare in giro a far la questua (su ciò Guigo si è espresso nel capitolo precedente a proposito delle cavalcature degli ospiti).

[105] Guigo si riferisce qui ai monaci girovaghi, dalla cui condotta riprovevole Bruno stesso aveva messo in guardia i suoi fratelli (Lettera ai suoi figli di certosa 4). L’espressione «a spese» traduce il latino «periculo»: “a danno”, e dunque, in questo caso particolare, “a carico”, “a spese”.

[106] Cf. Mt 7, 5.

[107] Gal 6, 10.

[108] Per tali esempi si vedano, rispettivamente, 1Re 11, 1-10 (le mogli straniere di Salomone); 2Sam 11-12 (il peccato di Davide per e con Betsabea); Gdc 16, 4-21 (Sansone tradito da Dalila); Gen 19, 30-38 (l’incesto delle figlie di Lot); Gen 6, 2-4 (i figli di Dio con le figlie degli uomini; unico riferimento letterale tra tali esempi); Gen 3, 6 (Adamo che pecca su invito di Eva).

[109] Cf. Pr 6, 27-28.

[110] Cf. Sir 13, 1.

[111] Cioè che chiede di essere accolto. Tale formula era usuale nell’ambiente monastico del XII secolo.

[112]  Cf. Regula Benedicti 58, 8: al novizio «si preannuncino tutte le durezze e le asperità attraverso le quali si va a Dio», e PIER DAMIANI nella sua Regola per gli eremiti (PL 145, 342D).

[113] Cf Statuti 5.36.3.

[114] Cf. Gb 7, 15.

[115] 2Tm 2, 11.

[116] Cf. Sal 16, 4.

[117] Cf. Mt 5, 23-24. Gli Statuti riprendono sostanzialmente anche questo paragrafo (cf. 1.8.7 e 2.17.7).

[118] Cf. Lc 19, 8.

[119] Cf. infra, cc. 78-79.

[120] Cf. Gen 50, 21. Già la Regula solitariorum di Grimlaico (secoli IX-X) utilizzava questa espressione in riferimento al novizio («blande leniterque suscipiatur ad destinatum propositum», PL 103, 593C).

[121] Con tale espressione si indicava la professione.

[122] Cf. Regula Benedicti 58, 24, ma con una differenza riguardo alle persone cui distribuire i beni: «Se ha qualcosa, lo distribuisca prima ai poveri, oppure, fatta legale donazione, lo trasferisca al monastero».

[123] Lc 11, 8. Già nella Regula Benedicti 58, 3-4 tale versetto è applicato al novizio: «Se dunque colui che arriva persevererà nel bussare e se dopo quattro o cinque giorni si vede che è paziente nel sopportare il rude trattamento riservategli e le difficoltà dell’ammissione, e se persiste nella sua richiesta, gli si conceda di entrare ...».

[124] Cf. Regula Benedicti 58, 20: «Tale petizione la scriva di sua mano; oppure, se non sa scrivere, preghi un altro che la scriva per lui, e il novizio vi apponga un segno e la metta di propria mano sull’altare». 

[125] Cf. Regula Benedicti 58, 17-18: «Colui che deve essere accolto, nell’oratorio, davanti a tutti, prometta la propria stabilità, conversione dei costumi e obbedienza davanti a Dio e ai suoi santi».

[126] È la stessa formula che si usa ancor oggi (cf. St. 1.10.9).

[127] Sal 118, 116: «Accoglimi secondo la tua parola, Signore, e avrò vita, non deludermi nella mia speranza». Sia per la recita e la ripetizione di questo versetto da parte della comunità, sia per il successivo atto di prostrazione ai piedi dei fratelli e la richiesta che preghino per lui, cf. Regula Benedicti 58, 21-23.

[128] Ora si dice: «prega per me, fratello».

[129] Probabilmente si riferisce con ciò sia al colore chiaro dell’abito, sia al fatto che l’abito monastico era semplice e povero.

[130] Cf. Rm 13, 14 e Gal 3, 27. 

[131] Si tratta del mantello nero col cappuccio.

[132] Cf. Ne 8, 8.

[133] Cf. Regula Benedicti 58, 20 (cf. supra, nota 124).

[134] Cf. Statuti 5.36.14.

[135] Cf. Gv 14, 6.

[136] Mt 11, 28.

[137] Eb 12, 1.

[138] Cf. Sal 33, 9.

[139] Cf. Gv 10, 3.5 e 12, 26.

[140] Forse, sul considerarsi «estraneo a tutte le cose del mondo», cf. Regula Benedicti 4, 20: «Farsi estranei ai costumi del mondo (sæculi actibus)», anche se il testo delle Consuetudini ha: «ab omnibus quæ mundi sunt».

[141] Cf. Regula Benedicti 58, 24-25: il novizio, fatta la professione, distribuisca i propri beni «senza riservare nulla per sé, consapevole che da quel giorno non avrà facoltà di disporre nemmeno del proprio corpo» e Cassiano, Institutiones 2, 3 (in cui è detto riguardo al monaco). 

[142] Il paragrafo 2° e le prime righe del 3° sono ripresi ancora letteralmente da St. 1.10.11 e 2.18.13.

[143] 1Sam (1Re) 15, 22-23.

[144] Cf. Regula Benedicti 2, 19 e 63, 1.4.7-8.

[145] Cf. Nm 26, 2. La concezione della vita monastica, e in genere della vita spirituale cristiana, come lotta è tradizionale. Cf. già Regula Benedicti, Prol. 3: «A te, dunque, si rivolge ora il mio discorso, chiunque tu sia che, rinunciando alle tue proprie volontà per militare per Cristo Signore, vero re, prendi su di te le fortissime e gloriose armi dell’obbedienza». Sulla lotta spirituale si vedano anche, di Guigo, le Meditationes 86 e 144.

[146] Cf. supra nota 62.

[147] Cf. supra nota 131.

[148] Nell’abbigliamento certosino ancora in uso per lombare s’intende quella sottile corda che passando nei passanti del cilicio lo tiene fermo all’altezza dei fianchi (cf. St. 3.28.7). È evidente il richiamo a Lc 12, 35 Vulg.: «sint lumbi vestri præcincti». Il lombare diviene allora il simbolo della prontezza al lavoro, al servizio, a partire per un viaggio, e per il monaco della vigile accoglienza del Signore al suo ritorno: «siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito» (Lc 12, 36).

[149] Gli Statuti sono sostanzialmente fedeli a tali prescrizioni (cf. 3.28.8). Su tutto ciò si veda Guigo I, Meditationes 91. 

[150] Pietra dura tagliata a forma di cilindro, prisma o cono, per affilare ferri da taglio.

[151] Striscia, cinghia di cuoio.

[152] La pietra pomice serviva per levigare le pergamene.

[153] Ferro sottile e appuntito per fare o allargare fori.

[154] Ferro appuntito con impugnatura in legno che si adopera per bucare la pelle o il cuoio per poterli cucire.

[155] Si potrebbe tradurre con matita a o di piombo. Con il piombo, infatti, si tracciavano sulla pergamena le righe (passato su di essa lascia un leggero segno grigio che si può anche cancellare) che servivano per scrivere diritto, era, insomma, l’antico lapis.

[156] Si tratta di tavolette ricoperte di cera sulla quale si poteva scrivere con uno stilo di ferro con la possibilità di cancellare e di poter riscrivere. Era il modo antico di scrivere senza dover sprecare pergamena.

[157] Questa espressione è valida ancora oggi (cf. St. 3.23.15).

[158] Cf. già CASSIODORO, De Institutione litterarum 30 (PL 70, 1144): «Felice intenzione, lodevole sollecitudine predicare agli uomini con la mano, aprire le bocche con le dita, donare una silenziosa salvezza agli uomini, e con penna e inchiostro lottare contro le illecite suggestioni di Satana. Satana, infatti, riceve tante ferite quante sono le parole del Signore che il copista trascrive». Si veda in proposito L. GOUGAUD, Muta praedicatio, in Revue Bénédictine 42 (1930), pp. 168-171.

[159] Questo paragrafo è ripreso dagli Statuti (cf. 1.3.3)

[160] Gli Uffici della Madonna o della B. V. Maria, «di santa Maria» nel testo, già in uso nel secolo VIII, a partire dall’XI secolo si erano molto diffusi in ambiente monastico e canonicale (ad es. presso i canonici di San Rufo). Generalmente venivano recitati immediatamente prima o dopo le ore dell’Ufficio ordinario. Sembra che tale pratica sia stata introdotta in Certosa dopo il Concilio di Clermont del novembre del 1095. È noto il racconto, messo per scritto la prima volta da dom Henri Egher de Kalkar († 1408), dell’apparizione di san Pietro (o di un vegliardo) ai primi certosini orfani di san Bruno, appena richiamato dal papa Urbano II a Roma, in cui il messo celeste dichiara che la santa Vergine assicurerà loro la perseveranza se reciteranno il suo Ufficio. Per questa tradizione e le altre notizie (storiche, liturgiche, ecc.) riguardanti l’Ufficio della B. V. Maria in Certosa si veda il datato – ma ancora utile – articolo di DOM YVES GOURDEL, Le culte de la très Sainte Vierge dans l’Ordre des Chartreux, estratto dal II volume di HUBERT DU MANOIR S. J. (cur.), Maria, Beauchesne, Paris 1952. 

[161] Cf. supra nota 72.

[162] È sicuramente su questo punto che in maniera più significativa la Certosa attuale si discosta dalle sue origini. Infatti nel 1581 fu stabilito ufficialmente e definitivamente per tutto l’Ordine il regolamento attuale, che scostandosi dalla prassi antica, fa iniziare l’Ufficio di Mattutino nel cuore della notte e permette ai monaci di tornare a riposarsi, cf. DOM AUGUSTIN DEGAND,  Chartreux (Liturgie des) in Dictionnaire d’Archéologie Chrétienne et de Liturgie publié par du R.me dom Fernand Cabrol et du R. P. dom Henri Leclercq, vol. 2/2, coll. 1062, Paris 1910 (tutto l’a. è interessante). Sembra giusto precisare quanto segue: il nuovo ordinamento, stabilito per mettersi al riparo da un abuso che andava sempre più diffondendosi (quello di tornare a letto dopo Mattutino e Lodi), più che una mancanza allo spirito originario, si è dimostrato, alla prova dei fatti, un suo rafforzamento. L’alzata notturna che interrompe il sonno, infatti, è diventata uno dei punti più distintivi e ascetici della Certosa e l’ha portata ad approfondire il suo spirito squisitamente monasticoescatologico: il monaco certosino è letteralmente, secondo il vangelo, quel servo che è pronto ad aprire al padrone, al Cristo che viene, proprio quando questi ritorna a metà della notte (cf. Lc 12, 35-40). 

[163] Si noti la differenza tra apparire della luce («primam lux incoat») e sorgere del sole («exinde solis ortus expectat») e il tutto va considerato in relazione al sito geografico della Gran Certosa: ad esempio, le alte montagne che la circondano ritardano notevolmente l’apparire del sole.

[164] Questa semplice raccomandazione è ripresa da Statuti 1.5.3.

[165] È una tradizione antica, che viene dai padri del deserto. Anche gli Statuti attuali vi sono fedeli (cf. 2.15.10).

[166] Si tratta del Pater noster.

[167] Gli Statuti hanno fatto propria questa esortazione all’equilibrio (6.48.8.).

[168] Cioè nei giorni anniversari della morte di qualche monaco.

[169] Anche qui gli Statuti sono debitori di Guigo (cf. 1.4.2).

[170] Cf. Regula Benedicti 31, 18: «Alle ore opportune sia dato ciò che dev’esser dato e sia chiesto ciò che dev’esser chiesto».

[171] Statuti 1.4.8 riassume le indicazioni di questi due ultimi paragrafi.

[172] Anche questa prescrizione è ripresa dagli Statuti (cf. 1.5.6).

[173] Ben presto tale disciplina dovette essere rivista e si giunse ad una astinenza a pane e acqua alla settimana. A questo rigore, però, si è rimasti fedeli (cf. St. 1.7.2 e 6.48.2).

[174] Ancora oggi i monaci si attengono a questa disciplina (cf. St. 6.48.6).

[175] Cf. Regula Benedicti 39, 3: «se vi fosse la possibilità di avere frutti o legumi freschi...». Circa vent’anni più tardi Guglielmo di Saint-Thierry scriverà ai certosini di Mont-Dieu a proposito della loro alimentazione: «Pane di crusca e acqua semplice, verdure e semplici legumi non sono mai cose piacevoli, ma nell’amore di Cristo e nel desiderio del piacere interiore diventa davvero piacevole poter soddisfare e gratificare con queste cose uno stomaco ben abituato» (Lettera d’oro 89).

[176] Con il termine “disciplina” venivano indicati, secondo una prassi penitenziale monastica tipica dell’epoca, dei colpi con le verghe o con “fruste” di corda. Cf. anche infra, c. 65.

[177] Cf. Regula Benedicti 49, 8-10: «Quello che ognuno offre, tuttavia, lo faccia presente al proprio abate e lo compia con la preghiera e il consenso di lui, poiché ciò che è fatto senza il permesso del padre spirituale verrà imputato a presunzione e a vanagloria... Tutto, dunque, sia fatto in accordo con la volontà dell’abate».

[178] Cf., rispettivamente, Regula Benedicti 43, 19: «se a qualcuno viene offerto qualcosa da un superiore ed egli rifiuta di accettarlo, quando desidererà ciò che aveva rifiutato o qualche altra cosa non riceva assolutamente nulla fino a un’adeguata riparazione» e 68: «sull’obbedienza a comandi “pesanti o impossibili”».

[179] Cf. Regula Benedicti 2, 2-3: «crediamo che [l’abate] compia nel monastero le veci di Cristo, dal momento che viene chiamato con lo stesso nome di lui, come dice l’Apostolo: “Avete ricevuto lo spirito dei figli adottivi, nel quale gridiamo: Abba, Padre!” (Rm 8r5)».

[180] Per tale espressione cf. Regula Benedicti 71, 1: «Il bene dell’obbedienza va offerto da tutti non soltanto all’abate, ma i fratelli si obbediscano allo stesso modo anche a vicenda».

[181] Il medesimo equilibrio esposto in questi tre brevi paragrafi è fatto proprio dagli Statuti attuali (cf. 1.7.8 e 2.16.8).

[182] Cioè l’eremo in cui vivevano i monaci (non i conversi, che risiedevano, invece, nella Casa bassa).

[183] Cf. Regula Benedicti 3, 1: «Ogni volta che in monastero vi è da trattare qualcosa di importante, l’abate convochi tutta la comunità ed esponga egli stesso l’argomento da prendere in esame».

[184] Cf. Regula Benedicti 3, 2: «Ascoltando, poi, il parere dei fratelli, esamini la cosa dentro di sé, e faccia ciò che avrà giudicato più utile» e 3, 5: «La decisione, invece, spetti all’abate, così che in ciò che egli avrà giudicato più salutare tutti gli obbediscano». Questo paragrafo 1 è ripreso sostanzialmente da St. 3.24.2. 

[185] Cf., ad sensum, Regula Benedicti 3, 3: «Abbiamo detto che a consiglio siano chiamati tutti per questo motivo: poiché spesso è al più giovane che il Signore rivela ciò che è meglio»; e 2, 16: «Egli [l’abate] non faccia discriminazioni di persona in monastero».

[186] Cf. Regula Benedicti 3, 4: «I fratelli diano il loro parere in tutta umiltà e sottomissione, e non pretendano di difendere ostinatamente la loro opinione».

[187] Gli Statuti 3.24.6 si esprimono nello stesso modo.

[188] Cf. Regula Benedicti 21, 3: «Siano scelti come decani quelli con cui l’abate possa condividere tranquillamente i propri pesi». St. 3.23.16 danno la stessa sapiente indicazione al Priore.

[189] Al Priore si richiede ancora la medesima sollecitudine (cf. St. 3.27.1). 

[190] Cf. Regula Benedicti 36, 4: «D’altra parte, coloro che sono malati riflettano che sono serviti in onore a Dio, e non rattristino con eccessive pretese i loro fratelli che li servono».

[191] Queste esortazioni al malato sono riprese ancora oggi dagli Statuti (cf. 3.27.3).

[192] Tutto questo secondo paragrafo è ripreso dagli Statuti (3.27.4).

[193] Strumento chirurgico usato per la bruciatura terapeutica di ferite (e similari) superficiali della pelle.

[194] Intervento con cui, attraverso un’incisione o anche applicando delle sanguisughe, si sottraeva all’organismo una quantità più o meno grande di sangue. Per molto tempo i salassi sono stati considerati come curativi perché toglievano all’organismo gli “umori” in eccesso.

[195] Una curiosità: i salassi non vengano più praticati in Certosa, ma rimangono i tre giorni in cui si prende cibo due volte al giorno, prima dell’Avvento e della Quaresima. Questo sovrappiù di cibo ora ha lo scopo di “preparare” i monaci ai digiuni di questi due tempi forti.

[196] La fistola («calamus») era una sorta di cannuccia mediante la quale al momento della comunione venivano aspirate dal calice alcune gocce di vino. La consuetudine qui esposta si ispira probabilmente alla legislazione cistercense, espressa nell’Esordio di Cîteaux (databile al 1123/1124) XXV, 37: «Tutti gli ornamenti del monastero, vasi e utensili, siano senza oro, argento e gemme, eccetto il calice e la fistola, le sole due cose che permettiamo siano d’argento o dorate, anche se mai completamente in oro» (da I PADRI CISTERCENSI, Una medesima carità. Gli inizi cistercensi, Qiqajon, Magnano (BI) data?, p. 117).

[197] Cf. Rm 14, 12.

[198] Cf. Ger 17, 10.

[199] Espressioni tratte da Fil 4, 12.

[200] Cf. Regula Benedicti 43, 1-2: «All’ora dell’ufficio divino, non appena si sia sentito il segnale, si lascino tutte le cose che si abbiano fra le mani e si corra in gran fretta, se pure con serietà». Cf Statuti 6.48.14.

[201] Cioè il Pater noster.

[202] Sal 123, 8.

[203] Statuti 6.49.19 si rifanno a queste parole.

[204] La medesima raccomandazione è ripresa dagli Statuti (cf. 2.12.3).

[205] Nel testo: obedientia. Tale termine indica sempre gli specifici lavori dei conversi e\o i locali ad essi adibiti. Ancora oggi in Certosa viene usato questo termine.

[206] Anche in questo caso gli Statuti sono fedeli a tale raccomandazione (cf. 2.14.5).

[207] La stessa puntualità è passata negli Statuti (cf. 2.4.2).

[208] Ancora oggi ai fratelli certosini è richiesta la medesima riservatezza (cf. St. 2.14.10) che, d’altra parte, era già in Regula Benedicti 53, 23-24: «Con gli ospiti, poi, non si intrattenga assolutamente e non si fermi a parlare se non colui che ne ha ricevuto il comando. Ma se qualcuno li incontra, li saluti umilmente... e chiesta la benedizione passi oltre, dicendo loro che non gli è consentito intrattenersi a parlare con gli ospiti».

[209] Cf. supra 28, 1 e nota 148.

[210] Gli Statuti 2.15.7 riprendono alla lettera tale prescrizione.

[211] Gli Statuti si esprimono allo stesso modo ma con un tono più generale (cf. 2.15.8).

[212] La grangia, presso i certosini, era semplicemente un magazzino per la conservazione dei raccolti. Per ulteriori notizie si veda J. DUBOIS, Grangia. 10. Le g. dei certosini, in Dizionario degli Istituti di Perfezione IV, Roma 1977, coll. 1400-1401.

[213] Di per sé questa parola dovrebbe derivare dal tardo latino arcĕlla, diminutivo di ărca, e significherebbe cassettina. Qui non si comprende bene a cosa si riferisce o il motivo perché lo stabile in cui si fanno i formaggi si chiami in questo modo.

[214] Anche gli Statuti attuali, rifacendosi a quest’indicazione, raccomandano che gli affari esterni vengano affidati a dei secolari (cf. 2.13.2).

[215] Cf. Regula Benedicti 66, 6-7: «Il monastero, poi, se possibile, deve essere organizzato in modo tale che per tutto quanto è necessario... i monaci non abbiano bisogno di andare in giro fuori, poiché ciò non giova assolutamente alle loro anime».

[216] Cf. supra nota 43.

[217] Agli attuali fratelli certosini è raccomandata il medesimo digiuno (cf. St. 2.16.2 e 6.48.2).

[218] Nella liturgia certosina (come quella romana anteriore al Concilio Vaticano II) con Quinquagesima si indica ancora l’ultima domenica del Tempo dopo l’Epifania (che corrisponde al Tempo Ordinario prima della Quaresima nel rito romano). Essa cade all’incirca cinquanta gironi prima della Pasqua.

[219] Cf. supra nota 15.

[220] Il pulmentum era tutto ciò che abitualmente si mangiava insieme al pane (originariamente con una densa farinata, puls, di legumi). Non si trattava né di carne né di uova né di formaggio, ma di altro genere di cibi (in alcune zone potevano essere olive, fichi e fichi secchi, frutta cotta).

[221] St. 6.48.6 dipendono da queste indicazioni sebbene sia sopravvenuto qualche mutamento.

[222] Non si capisce bene a cosa si stia accennando, sembra comunque che si tratti di qualche pianta (per esempio i ravanelli) che si mangiavano crudi nell’insalata. Sembra che non si tratti delle rape di cui si è già parlato (cf. 43, 4) e che, invece, si mangiavano cotte.

[223]  Il pane d’avena era il pane ordinario degli abitanti della regione della Gran Certosa in quel tempo. I fratelli che spesso venivano da quella terra vi erano più abituati che al pane di frumento.

[224] Cf. supra c. 39.

[225] Per questi indumenti si veda quanto già detto sopra alla nota 62.

[226] Cf. supra n. 148.

[227] Cf. supra 28, 1.

[228] Statuti 3.28.8 riprendono sostanzialmente tali espressioni.

[229] Per l’espressione cf. Regula Benedicti 33, 3: «il monaco non pretenda di avere qualcosa di proprio». Anche in essa si diceva cosa fare nel caso in cui i monaci ricevessero dei regali (c. 54), ma mentre lì si ammetteva l’eventualità che, col permesso dell’abate, il monaco potesse tenerli, nel caso presente tale possibilità è esclusa a priori. Gli Statuti sono ancora fedeli a questa indicazione di Guigo (3.28.4). Sulla necessità della povertà nel cammino verso Dio cf. Guigo I, Meditationes 353.

[230] Non si capisce bene per quale motivo questa indicazione si trovi qui.

[231] Il latino ha «braccas», oggi si potrebbe meglio tradurre questo termine con “blusa” o “sopravveste”.

[232] È sicuramente una prescrizione di natura igienica.

[233] Statuti 1.6.7 e 2.13.4 sono attenti a non lasciar cadere in disuso tale sapiente indicazione.

[234] Sul passaggio che segnava i confini dei possedimenti del Monastero era stato costruito un ponte. In un documento di datazione incerta, Ugo vescovo di Grenoble prescrive che, affinché siano tutelati meglio i confini, su tale ponte sia costruita una Casa.

[235] Ciò che Guigo diceva del «Custode del ponte», oggi lo si dice per il portinaio del monastero (cf. St. 2.13.6).

[236] Il testo originale ha «curiositas», che nella letteratura monastica indica l’inquietudine interiore di colui che non è mai soddisfatto di ciò che trova, e che desidera sempre fare e conoscere, indistintamente, qualcosa di diverso e di nuovo (un accenno già in 17, 1, ove tale termine è stato reso con “curiosità”). Gli Statuti sono ancora fedeli a tale raccomandazione (3.28.6).

[237] Sulla «disciplina» cf. supra, n. 176.

[238] Cf. supra n. 63.

[239] Ossia della Casa bassa.

[240] Cf. supra n. 63.

[241] Cf. supra n. 21.

[242] Cf. supra n. 63.

[243] Tale eccezione nei confronti dei giudei era stata stabilita dal Pontificale romano: «Bisogna sapere, poi, che quando si pronuncia l’orazione per i giudei non ci si inginocchia. Infatti, poiché in questo giorno i giudei si inginocchiarono schernendo il Signore, la Chiesa, avendo in orrore il loro misfatto, pregando per loro non si inginocchia» (Pontificale Romanum saeculi XII 31, 6, in Hebdomada sancta, II. Fontes historici. Commentarius historicus, a cura di H. A. P. Schmidt, Romae-Friburgi Brisg.-Barcinone 1957, p. 790). Di fatto, però, coloro che durante la passione si inginocchiarono davanti a Gesù schernendolo (cf. Mt 27, 29-31) non furono dei giudei, ma dei soldati del governatore romano, e dunque dei romani.

[244] Ossia il Pater noster.

[245] Cf. supra n. 63.

[246] La stessa “beatitudine” è annunciata dagli Statuti attuali (cf. 3.27.2).

[247] Anche oggi monaci e fratelli si attengono a questa “monastica” forma di cortesia (cf. St. 2.14.6).

[248] Cf. Regula Benedicti 63,15-17: «Dovunque, poi, i monaci si incontrino, quello più giovane chieda al più anziano la benedizione. Quando passa uno più anziano, il più giovane si alzi e gli lasci il posto a sedere ... perché sia come sta scritto: “Prevenendosi a vicenda nell’onore” (Rm 12, 10)».

[249] Ancora nell’Ordine certosino non si fanno differenze tra padri e fratelli a questo riguardo (cf. St. 2.17.7). Cf. supra n. 112.

[250] Cf. Mt 5, 23-24.

[251] Cf. Tb 2, 14 secondo la Vulgata (assente nel testo ebraico) e Col 1, 23.

[252] Cf. supra, n. 125.

[253] È la stessa formula di professione usata ancora oggi (cf. St. 2.18.10).

[254] Da qui fino alla fine della formula il testo è preso letteralmente dalla regola per gli eremiti di Pier Damiani, che in tale sezione tratta dei conversi (Autore?, Die Briefe des Petrus Damiani 2, p. 93; PL 145, 342 C-D).

[255] Questa chiusura che ci può sorprendere e anche urtare, in realtà è una forma di difesa: essa aveva come effetto quello di sottrarre gli interessati alla giurisdizione civile e di legarli solamente a quella ecclesiastica, più clemente. In una forma nuova di vita religiosa come la certosina questa misura risolveva a vantaggio dei conversi (i religiosi restavano laici ed erano specificati come tali: fratelli laici) ogni dubbio eventuale circa la loro appartenenza di diritto alla vita religiosa. Nello stesso tempo era una manifestazione della fede profonda nella grazia della professione.

[256] Cioè al c. 23, 2 e, per l’orazione, al c. 25.

[257] Dall’inizio del periodo cf. Regula Benedicti 33, 3-4: nessuno pretenda «di possedere qualcosa di proprio, assolutamente nulla: né un libro, né tavolette, né stilo, ma, in modo assoluto, nulla, poiché [ai monaci] non è consentito di avere a loro disposizione né i loro corpi né le loro volontà». Le stesse forti parole sono riprese dagli Statuti 2.18.13.

[258] Cf. supra, cc. 13-14.

[259] Troviamo la medesima saggezza in Statuti 2.13.5.

[260] Le Certose si fondano ancora oggi sul medesimo principio (cf St. 3.29.5).

[261] Questa esortazione finale è ripresa dagli Statuti (cf. 3.29.6).

[262] Si veda ad esempio l’elogio che fanno della vita eremitica GIROLAMO nella sua Epistula ad Heliodorum (Ep. XIV); EUCHERIO DI LIONE col suo De laude eremi; e PIER DAMIANI nel suo Opuscolo detto Dominus vobiscum, (PL 545, 246C251 B).

[263] Da questo punto in poi fino al 12 (che verrà ripreso però sono nelle prime righe) il testo di Guigo è passato interamente negli Statuti (cf. 0.2.3-9.11-12)

[264] Cf. Gen 24, 63.

[265] Cf. Gen 32, 24-25.31 (23-24.30).

[266] Es 24, 18.

[267] 1 Re 19, 9-14.

[268] Re 2, 10-15. Il riferimento a Mosè, Elia, Eliseo, e, in seguito, a Giovanni Battista e a Gesù tentato nel deserto a proposito della vita eremitica, come anche il successivo rimando a Paolo e Antonio, era stato compiuto anche da PIER DAMIANI nella sua Regola (Die Briefe des Petrus Damiani 2, p. 83; PL 145, 337 D - 338 A). Riguardo a Mosè ed Elia si veda anche CASSIANO, Conlationes X, 6: «Così, infatti, nella solitudine apparve a Mosè e parlò con Elia».

[269] Cf. Ger 15, 17.

[270] Cf. Ger 8, 23.

[271] Ger 9, 1 (2). 

[272] Lam 3, 26.

[273] Lam 3, 27. Per questi ultimi due riferimenti a Geremia in riferimento alla vita eremitica cf. PIER DAMIANI nel suo Opuscolo detto Dominus vobiscum, in Die Briefe des Petrus Damiani 1, p. 275 (PL 145, 249 B).

[274] Ger 15, 17; Lam 3, 28.

[275] Eb 11, 16 e Col 3, 2.

[276] Lam 3, 30.

[277] Cf. Mt 11, 11. Su di lui cf. anche supra, n. 268.

[278] Cf. Lc 1, 15-17.

[279] Cf. Lc 1, 80.

[280] Cf. Mt 21, 32.

[281] Cf. Lc 3, 16; Mt 3, 13-17.

[282] Cf. Mt 14, 3-12.

[283] Cf. Mt 4, 1-11. Su tale episodio cf. anche supra, n. 268.

[284] Cf. Mt 14, 23.

[285] Cf. Mt 26, 36. 39-44. È utile far notare che mentre il testo latino ha «exoraturus» (pregare vivamente, con insistenza) l’attuale versione italiana degli Statuti traduce come se ci fosse semplicemente «oraturus».

[286] A questo punto dell’Elogio della solitudine di Guigo gli attuali Statuti certosini inseriscono un altro paragrafo che dipende dalla Nova Statutorum Collectio del 1582: «Non possiamo passar qui sotto silenzio un mistero che merita tutta la nostra attenzione: lo stesso Signore e Salvatore del genere umano si degnò di darci nella sua persona il primo modello vivente del nostro Ordine, col dimorare solo nel deserto, attendendo alla preghiera e agli esercizi della vita interiore, macerando il corpo con digiuni, con veglie e altre pratiche di penitenza, e vincendo le tentazioni e il nostro avversario con le armi spirituali». 

[287] La vita di Paolo e quella di Ilarione erano state narrate da GIROLAMO (Vita Pauli, Vita Hilarionis); La vita di Antonio da ATANASIO (tradotta ben presto in latino); quella di Benedetto da GREGORIO MAGNO (Dialogi II). Sul riferimento a Paolo e Antonio si veda anche supra, n. 268.

[288] Guigo comprende qui la preghiera liturgica e quella personale, che tratteggia già in quei quattro momenti della lectio divina (cf. già un accenno in 16, 2), di cui tratterà estesamente Guigo II: lettura, preghiera, meditazione, contemplazione.

[289] Cf. Mt 7, 13-14.

[290]  In questa finale, che può sembrare una “vanitosa” apologia pro domo, Guigo non fa altro che rifarsi ad una lunga tradizione di testi a firma di grandi nomi come san Basilio, san Giovanni Crisostomo, san Girolamo, la Regola del Maestro, ecc., che si fondano tutti sul tema della via stretta del Vangelo.


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5 aprile 2022                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net