LE CONSUETUDINI DI GUIGO I
Dal sito: certosini.info - 2019
1. Agli amici e fratelli amatissimi in Cristo, i priori Bernardo di Portes,
Umberto di Saint-Sulpice
[2], Milone di Meyriat e a tutti i
fratelli che con essi servono Dio, Guigo, chiamato ad essere priore
[3] di Certosa, e i fratelli che
sono con lui: salvezza eterna nel Signore!
2. Obbedendo ai comandi e ai consigli del nostro amatissimo e molto venerato
padre Ugo, vescovo di Grenoble
[4], alla cui volontà non abbiamo il
diritto di resistere, abbiamo provveduto a scrivere, e a consegnare così
alla memoria – cosa di cui il vostro amore ha fatto richiesta più di una
volta – le consuetudini della nostra Casa. Abbiamo trascurato a lungo questo
lavoro, per motivi che ci sembrano ragionevoli. Eravamo del parere, infatti,
che nelle lettere del beato Girolamo[5],
nella regola del beato Benedetto[6]
e in tutti gli altri scritti di autorità incontestabile fosse contenuto
quasi tutto ciò che qui, nella nostra vita monastica, siamo soliti
osservare. Inoltre, non ci ritenevamo minimamente degni di poter o di dover
compiere un’impresa simile.
3. A ciò, poi, si aggiungeva la consapevolezza che al genere di vita della
nostra umiltà si addice di più essere ammaestrati che insegnare
[7], e che è più sicuro proclamare i beni
altrui piuttosto che i propri, come dice la Scrittura: «Ti lodi un altro, e
non la tua bocca, un estraneo, e non le tue labbra»[8],
e come comanda anche il Signore nell’evangelo: «Guardatevi dal praticare la
vostra giustizia davanti agli uomini per essere da loro ammirati»[9].
4. Tuttavia, poiché non dobbiamo resistere alle preghiere e all’autorità,
come anche alla carità, di tali persone, con l’aiuto del Signore diremo ciò
che egli stesso ci concederà, iniziando dalla parte più degna, cioè
dall’ufficio divino, riguardo al quale ci troviamo in profonda consonanza
con gli altri monaci
[10], soprattutto per ciò che concerne la
salmodia regolare. Fine del Prologo.
1. Così, dal 1° novembre all’ottava di Pentecoste, ogni giorno, fuorché
nelle solennità di dodici letture[12],
recitiamo tre letture con tre responsori[13],
con questa attenzione: che se, in questi mesi, il 1° cade prima del giovedì,
iniziamo i responsori e i profeti la domenica che precede, e il lunedì e i
giorni successivi leggiamo le tre letture con i responsori dai medesimi
libri.
2. Se, invece, il 1° cade o di giovedì o dopo il giovedì, iniziamo i
medesimi profeti con i rispettivi responsori la domenica che segue, e i
giorni che intercorrono tra il 1° e la domenica li trascorriamo: uno con tre
letture, per i martiri
[14], l’altro con una sola lettura.
1. Il sabato che precede la prima domenica di Avvento interrompiamo la
commemorazione della Croce fino al lunedì dopo l’ottava di Pasqua, e quella
della Madonna fino al primo giorno dopo l’ottava dell’Epifania.
2. Nella suddetta domenica, terminati
Ezechiele e i dodici profeti –
Daniele, infatti, lo leggiamo in refettorio –, cominciamo
Isaia, che ci basta fino alla
vigilia di Natale. Durante tutto questo periodo facciamo uso di capitoli,
versetti e orazioni che si addicono all’Avvento, e non cantiamo il
Gloria in excelsis fino alla
prima messa di Natale.
3. L’antifona O Sapientia con le
altre sei e le antifone proprie delle lodi mattutine le iniziamo in modo che
finiscano il giorno che precede la vigilia del Natale del Signore.
4. Ogni domenica di Avvento, nelle lodi mattutine, è ornata di responsori e
di antifone proprie. Anche negli altri giorni, tuttavia, al
Magnificat e al
Benedictus diciamo sempre delle
antifone di Avvento.
1. Il sabato del digiuno delle
Quattro tempora[15]
cantiamo in chiesa, di seguito, sesta e la messa – con cinque letture
esclusa l’epistola – e poi nona. Lo stesso facciamo negli altri [giorni di
digiuno] dello stesso tipo, a eccezione del primo mese
[16], in cui a motivo della Quaresima
celebriamo la messa dopo nona; del sabato fra l’ottava di Pentecoste, in cui
la celebriamo fra terza e sesta; e del settimo mese, in cui la celebriamo
dopo sesta, posticipando nona, che diciamo nelle celle dopo il sonno.
1. Dal 2 gennaio fino alla Settuagesima
[17] leggiamo le
Lettere del beato Paolo.
2. Dal giorno che segue l’ottava dell’Epifania fino alla Settuagesima
diciamo i responsori feriali, iniziando il
Domine ne in ira tua la prima
domenica dopo l’ottava.
3. Il sabato che precede la prima domenica di Settuagesima diciamo l’Alleluja
solo fino ai vespri
[18], per riprenderlo allo stesso modo
nella messa del sabato santo.
4. Da tale domenica, poi, fino alla domenica della Passione del Signore,
leggiamo l’Eptateuco
[19] sia in chiesa che in
refettorio, cantando, la prima domenica, il responsorio
In principio e nelle altre
domeniche i responsori consueti.
5. All’inizio del digiuno
[20] cambiamo i capitoli della notte e
del giorno e le orazioni, e cantiamo in chiesa sesta, la messa e nona.
6. In tale giorno copriamo le croci, che vengono scoperte di nuovo alla
Parasceve
[21].
7. Prima dell’inizio della messa, dopo l’atto penitenziale
[22], si offre al presbitero la cenere da
benedire. Dopo che egli l’ha benedetta e l’ha aspersa con acqua santa,
tutti, inginocchiatisi secondo l’ordine davanti al presbitero, la ricevono,
mentre quegli dice: “Riconosci, o uomo, che sei polvere e in polvere
ritornerai”, e tutti gli altri cantano le antifone
Exaudi nos Domine e
Iuxta vestibulum. Terminate
queste, il presbitero aggiunge il
Dominus vobiscum e l’orazione
Concede nobis Domine. Nei due giorni seguenti facciamo la messa a questa
stessa ora.
8. Il sabato seguente non c’è messa.
9. In questo sabato cambiamo i capitoli della domenica ai vespri.
10. Nei giorni festivi della Quaresima e dell’Avvento, a prima, diciamo il
capitolo Domine miserere nostri.
11. Dal lunedì seguente fino alla Cena del Signore[23],
tutti i giorni, dopo l’ufficio di prima, recitiamo nelle celle i sette salmi[24]
con le litanie, fuorché nelle feste di dodici letture[25].
12. Ogni giorno cantiamo in chiesa nona, la messa con il prefazio della
Quaresima e i vespri, se vi sono abbastanza presbiteri e se quelli che ci
sono non sono impediti da qualche ragionevole motivo.
13. La domenica di Passione cambiamo i capitoli e interrompiamo i consueti
suffragi, fino al lunedì dopo l’ottava di Pasqua. Da tale giorno fino alla
Cena [del Signore] leggiamo Geremia, parte in chiesa e parte in refettorio a
motivo della brevità delle notti. In tale arco di tempo, all’invitatorio,
nei responsori e all’introito non diciamo il
Gloria Patri, a meno che non vi
sia una solennità di dodici letture.
14. Delle feste di tre letture facciamo soltanto memoria.
15. Il sabato che precede la domenica delle Palme non diciamo la messa.
16. Ai vespri [di questo sabato], il capitolo
Hoc sentite. Il responsorio
Fratres mei fino alla Cena [del
Signore].
17. La domenica delle Palme, dopo che si è cantata terza, che il presbitero
si è vestito della casula e dopo l’atto penitenziale, il presbitero benedice
i rami, li asperge con l’acqua benedetta e li offre a tutti; e intanto si
canta l’antifona Collegerunt.
Seguono il Dominus vobiscum e
l’orazione Omnipotens, sempiterne
Deus.
18. Se l’Annunciazione o la festa di san Benedetto[26]
capitano dopo il mercoledì di questa settimana, in seguito non ne facciamo
alcuna memoria.
19. Il giorno della Cena [del Signore] facciamo festa e ci accontentiamo,
come i chierici, di nove letture. Al
Benedictus spegniamo la lucerna, imitando su questo piccolo punto l’uso
della Chiesa.
20. A prima ci ritroviamo; dopo il capitolo diciamo terza nelle celle e
ognuno fa la sua pulizia personale; lì, inoltre, recitiamo sesta. In chiesa
celebriamo nona, la messa e i vespri.
21. Durante la messa viene conservata dal presbitero un’ostia intera del
corpo del Signore perché sia consumata alla Parasceve.
22. Dopo il pasto, tutti – per quanto è possibile –, monaci e laici[27],
ci ritroviamo in capitolo per il
Mandatum[28].
Lì a tutti vengono lavati, asciugati e baciati i piedi dal priore o da colui
a cui egli lo avrà comandato; a lui ciò viene fatto da chi è primo
nell’ordine [di anzianità]. Poi, dopo che a tutti son state lavate le mani –
è il priore che versa l’acqua – e che si è accesa una candela, viene letto
l’evangelo e tutti stanno in piedi fino a «si sedette di nuovo»
[29].
23. Da questo punto in poi ascoltiamo la medesima lettura seduti, fino a
dove si dice: «Alzatevi, andiamo via di qui»[30].
Allora, infatti, preceduti dal diacono, ci rechiamo in refettorio, per
ascoltare, seduti, ciò che resta della lettura. Terminata questa, a ognuno
viene portato dagli inservienti del vino e, dopo che il presbitero ha dato
la benedizione, lo beviamo e usciamo. Dopo ciò, viene spogliato l’altare.
224. In questo giorno, dopo il pranzo o dopo il
Mandatum, i fratelli preparano le
letture e i responsori dei due giorni successivi, poiché non ritorneranno
nel chiostro fino a sabato dopo il pasto.
25. Per la compieta si dà il segnale con la bàttola[31].
26. Alla Parasceve ci inginocchiamo e diciamo il
Miserere mei Deus[32].
27. Nel corso di tutti questi tre giorni diciamo ognuno le Preci in
silenzio. Per tutte le ore ci basta l’orazione
Respice quaesumus Domine e
recitiamo quasi tutto l’ufficio secondo l’uso dei chierici. Tralasciati gli
altri lavori, ci dedichiamo alla recita del salterio. La chiesa viene pulita
dal sacrista, con l’aiuto dei fratelli laici. Quando viene dato il segnale –
un po’ più tardi del solito – si dicono in cella, di seguito, sesta e nona,
e intanto il presbitero si veste. Dato di nuovo il segnale, ci raduniamo in
chiesa e celebriamo l’ufficio secondo l’uso. Anzitutto vi è una lettura, poi
seguono un tratto e l’orazione Deus a
quo et Iudas. Ugualmente,
un’altra lettura e un tratto. Poi la passione, senza il
Dominus vobiscum. Dopo di essa le
orazioni. Finite queste, il presbitero si sveste della casula, ci mettiamo a
piedi nudi e, con venerazione, baciamo la croce che il diacono ci porge,
dicendo dentro di noi: «Noi ti adoriamo, o Cristo, e ti benediciamo, perché
con la tua croce hai redento il mondo». Nel frattempo la comunità canta
l’antifona Nos autem gloriari oportet
e i responsori Popule meus e
Expandi manus meas. Dopodiché, la
croce viene riportata nel luogo di prima e il presbitero, lavatosi le mani e
rivestitosi della casula, riceve dal diacono, mentre questi intona il canto
di comunione Hoc corpus, il
calice con il vino e, sopra di esso, il corpo del Signore. Dispostili
sull’altare, dopo un breve silenzio inizia dicendo:
Oremus.
Praeceptis salutaribus[33].
L’Agnus Dei non lo si dice,
neanche il Sabato Santo. Dopo che si è ricevuto il corpo del Signore dalle
mani del presbitero, recitiamo i vespri due a due a voce bassa.
28. Il Sabato Santo si cantano nelle celle sesta e nona, mentre il sacerdote
si veste; poi, riuniti in chiesa, si fanno quattro letture con tre tratti e
la litania abbreviata, e dopo cominciamo solennemente la messa con tre Kyrie
eleison, diciamo il Gloria in
excelsis Deo, accendiamo due candele, riceviamo la pace. Non bruciamo,
però, l’incenso. Terminato tutto ciò, suonata il campanello, cantiamo con
grande solennità i vespri secondo l’uso monastico.
29. Nel giorno santo di Pasqua, fra il mattutino e prima viene cantata una
messa con il grado di solennità consueto per le domeniche, e due o tre
monaci aiutano il presbitero. Ad essa sono presenti e si comunicano tutti i
laici, per quanto lo consentono i loro incarichi.
30. Alla messa principale si comunicano la comunità e quanti fra i laici
devono ancora comunicarsi.
31. Tutti questi quattro giorni li trascorriamo in grande solennità. Lunedì,
martedì e mercoledì, alle lodi del mattino, accendiamo due candele e
offriamo l’incenso. Mercoledì i laici si ritirano[34].
Giovedì, venerdì e sabato, dopo aver cantato in chiesa sesta, prendiamo il
pasto insieme. I primi quattro giorni delle settimane di Pasqua e di
Pentecoste non celebriamo assolutamente nessuna festa di santi; nei tre
giorni successivi, invece, se capita una festa di tre letture facciamo solo
memoria, se invece è di dodici facciamo tutto. I responsori pasquali li
cantiamo per quattordici giorni.
32. Per tre settimane, fino all’Ascensione, leggiamo per intero, parte in
chiesa e parte in refettorio, gli
Atti degli apostoli e le Lettere
canoniche. Dall’Ascensione, poi, fino a Pentecoste, soltanto l’Apocalisse.
33. Il martedì delle Rogazioni[35]
prendiamo il pasto una volta sola, ma cuciniamo.
34. Nella vigilia dell’Ascensione cantiamo in chiesa sesta e la messa.
L’Ascensione la celebriamo con grande solennità.
35. Nella vigilia di Pentecoste diciamo in chiesa nona e la messa, e tutta
la settimana la trascorriamo come quella pasquale, salvo il fatto che il
mercoledì e il sabato cantiamo sesta subito dopo la messa, senza intervallo.
Questa settimana, infatti, facciamo il digiuno delle Quattro tempora
[36].
1. Dopo questa settimana [di Pentecoste], il giorno in cui capita una festa
cominciamo i libri dei Re
[37]; i responsori di tali libri storici,
invece, li cominciamo la domenica seguente.
2. Dal 1° agosto fino al 1° settembre leggiamo i
Proverbi, il
Qohelet, il
Libro della Sapienza e, secondo
quanto il tempo lo permette, il
Siracide
[38].
3. Dal 1° settembre, Giobbe per
due o tre settimane. Per le due successive,
Tobia,
Giuditta e
Ester.
4. Dal 1° ottobre fino a novembre, i
Libri dei Maccabei.
5. E in tutto questo tempo, cioè da Pentecoste fino al 1° novembre, ci basta
una lettura, come gli altri monaci, a meno che non vi sia una festa.
6. Per una festa di tre letture, poi, non tralasciamo mai la lettura dei
libri storici, tranne che per la vigilia del Natale del Signore, nei tre
giorni dopo la festa degli Innocenti, nelle settimane di Pasqua e di
Pentecoste e durante l’ottava dell’Assunzione della beata Maria.
7. [Come parti proprie] di una festa [di tre letture], perciò, si dicono
soltanto l’invitatorio, i versetti, i responsori, le orazioni e le lodi del
mattino; ma anche: a prima l’antifona; a terza e a sesta – se si mangia una
volta sola –, o a terza soltanto – se si mangia due volte –, le antifone, il
versetto e le orazioni.
8. Non solo in tali feste, ma anche nei periodi da Natale all’ottava
dell’Epifania e da Pasqua all’ottava di Pentecoste ogni giorno, alle lodi
del mattino, diciamo Dominus regnavit
[39].
1. Bisogna sapere anche che per nessuna solennità facciamo la processione, e
che non operiamo alcun trasferimento di feste o vigilie.
1. Ogni sabato, dopo nona, ci raduniamo nel chiostro per richiamare alla
memoria le letture e altre cose necessarie
[40].
2. E poiché, per tutta la settimana, nelle celle manteniamo il silenzio,
confessiamo i nostri peccati al priore o a coloro a cui è stato da lui
comandato.
3. Se bisogna iniziare dei responsori nuovi, ai vespri cantiamo un
responsorio lungo.
4. La domenica, dopo l’ora prima, teniamo il capitolo. Poi, mentre i
fratelli ritornano alle celle, se quel giorno si deve cantare la messa – se
cioè il presbitero o i presbiteri non sono impediti da qualche ragionevole
motivo – si suona subito il segnale con la campana. Altrimenti, infatti, lo
si differisce fino a quando non si deve dire terza. Tale spazio di tempo,
per quanto lo consentono la debolezza o il bisogno, è dedicato alla crescita
spirituale.
5. Dopo ciò, il presbitero, ritornato alla chiesa a tempo opportuno, si
veste. Viene suonato il segnale tre volte e poi, alla presenza di tutti, si
benedice l’acqua. Il presbitero fa il giro dell’altare spargendo l’acqua:
poi, davanti all’altare, la sparge sui monaci e, alla porta del coro, sui
conversi, mentre tutti gli altri cantano l’antifona
Asperge me. Ritornato al
lettorio, aggiunge la preghiera
Ostende nobis Domine misericordiam tuam, poi il
Dominus vobiscum e l’orazione
Exaudi nos Domine sancte Pater.
Dopo comincia terza, che è seguita dalla messa.
6. Il Gloria in excelsis Deo lo
cantiamo in tutte le solennità, tranne che in Avvento e in Settuagesima
[41].
7. Il Credo in unum Deum lo
diciamo sia nei giorni di domenica che in tutte le altre feste, fuorché in
quelle dei confessori e dei martiri, e nei [primi] tre giorni di Pasqua e di
Pentecoste.
8. Dopo la messa portiamo nelle celle l’acqua santa, e facciamo un breve
intervallo. Poi, suonato il segnale, ritorniamo in chiesa e cantiamo sesta;
dopodiché ci rechiamo in refettorio, per ricevere, allo stesso tempo, il
cibo delle anime e quello dei corpi
[42]. Usciti, poi, dal refettorio, dal 1°
novembre fino alla Purificazione della beata Maria
[43] cantiamo subito nona. Da tale giorno
fino a Pasqua, lo spazio di tempo che abbiamo fra il pranzo e nona è
riservato alla lettura o ad altre attività simili. In seguito, per tutta
l’estate, è invece concesso per il riposo, ora più breve ora più lungo a
seconda della durata del giorno.
9. Dopo nona ci raduniamo nel chiostro per parlare di ciò che è utile. In
tale spazio di tempo chiediamo e riceviamo dal sacrista inchiostro,
pergamena, penne, gesso e libri, sia da leggere che da trascrivere; e dal
cuoco legumi, sale e altre cose del genere.
10. Dopo la cena riceviamo, come mendicanti di Cristo, un pane
[44], e poi ci ritiriamo nelle celle.
11. In tutte le feste di questo genere facciamo più o meno così.
12. Nelle domeniche che si trovano all’interno delle ottave di Natale,
dell’Epifania e dell’Ascensione del Signore diciamo antifone, responsori,
versetti e le prime otto letture proprie a tali solennità; le altre quattro
letture dalle omelie dei vangeli della domenica. L’evangelo dopo il
Te Deum laudamus, le antifone al
Benedictus e al
Magnificat, l’orazione e la messa
sono quelli della domenica, ma poi si fa memoria delle solennità. Allo
stesso modo si fa nella domenica che è fra l’ottava del Natale del Signore e
l’Epifania, a meno che non leggiamo anche le prime otto letture proprie
della domenica – tratte cioè dalle
Lettere del beato Paolo – e non ricordiamo il Natale.
13. Di san Silvestro facciamo soltanto memoria.
Ma ora riteniamo che si debba trattare specificamente di quelle solennità
che celebriamo con particolare dignità.
1. Le vigilie, dunque, di Tutti i santi, del Natale del Signore, di Pasqua,
dell’Ascensione e della Pentecoste, di san Giovanni
[45], dei beati apostoli Pietro e
Paolo, dell’Assunzione della beata Maria, le trascorriamo a pane e acqua. La
messa, in estate la facciamo seguire immediatamente da sesta; durante
l’inverno, invece, da nona. Adorniamo l’altare, accendiamo due candele ai
vespri, al mattutino, alla messa e poi ancora ai vespri, e offriamo
l’incenso.
2. Nella vigilia del Natale del Signore, inoltre, alle lodi del mattino non
ci inginocchiamo. Diciamo Dominus
regnavit
[46] e tralasciamo il
Miserere mei Deus, per la messa
accendiamo due candele, non bruciamo però l’incenso, riceviamo la pace.
3. Se tale vigilia cade di domenica, diciamo il versicolo prima
dell’evangelo e poi tutto l’ufficio della vigilia, facendo della domenica
soltanto memoria. Allo stesso modo celebriamo la messa nelle vigilie di
Pasqua e di Pentecoste.
4. Al mattutino leggiamo le ultime quattro letture dai vangeli. La prima
messa la celebriamo, con grande solennità, tra il mattutino e le lodi. La
seconda la cantiamo dopo le lodi del mattino, quando inizia la luce, come
siamo soliti fare nei giorni di domenica. In essa si comunicano i laici. In
essa, inoltre, si fa memoria di sant’Anastasia.
5. Alla messa principale si comunica la comunità, e tutti i monaci ricevono
la pace dal presbitero e se la donano l’un l’altro. Questo lo facciamo in
tutte le feste di tal genere, fuorché per la Circoncisione del Signore, per
il martirio
[47] dei beati apostoli Pietro e Paolo,
per la Dedicazione
[48] e per san Michele. I tre giorni
successivi li celebriamo più o meno allo stesso modo. Il quarto giorno i
laici ritornano alla Casa bassa, come a Pasqua e a Pentecoste.
6. I restanti tre giorni diciamo sesta e nona in chiesa, e prendiamo insieme
il pranzo e la cena.
7. Con rito analogo celebriamo la Circoncisione, l’Epifania, la
Purificazione
[49], l’Annunciazione, l’Ascensione, la
Natività di san Giovanni, il Martirio dei beati apostoli Pietro e Paolo,
l’Assunzione, la Dedicazione, la Natività della beata sempre Vergine, la
festa degli Angeli
[50].
8. Alla Purificazione
[51] della Beata Maria, inoltre, prima
della messa, dopo l’atto penitenziale, noi monaci e coloro dei laici che
sono presenti riceviamo dalla mano del presbitero le candele benedette
cantando l’antifona Lumen ad
revelationem e l’evangelo Nunc
dimittis
[52], con ripetizione
dell’antifona a ogni versetto. Seguono il
Dominus vobiscum e l’orazione
Erudi quæsumus Domine. Poi la
messa. Dopo l’evangelo offriamo le candele.
1. Veniamo rasati sei volte all’anno, mantenendo il silenzio: alla vigilia
di Pasqua, di Pentecoste, dell’Assunzione, di Tutti i santi, del Natale del
Signore, e all’inizio del digiuno [quaresimale].
2. Alla vigilia dei beati Giacomo, Lorenzo, Bartolomeo, Matteo, Simone e
Giuda, Andrea, mangiamo una volta soltanto, ma se il giorno lo prevede
facciamo cucina, e non cantiamo la messa.
3. Nelle altre feste di dodici letture, nelle quali non abbiamo il capitolo,
non diciamo neanche la messa; soltanto, la vigilia, dopo nona, ci ritroviamo
nel chiostro per la recordatio[53].
1. Nel nostro coro introduciamo soltanto gli ospiti che conducono vita
monastica. Con essi, nel chiostro, ci è lecito avere una conversazione
comune.
2. Non ci è permesso, invece, portare qualche ospite in disparte o esservi
portati, comunicargli qualcosa come in segreto o dargli un incarico presso
altri, a meno che non ne abbia dato il permesso il priore. Tale permesso non
spetta a noi chiederlo, ma a loro, se ritengono la cosa importante.
Ora si deve dire qualcosa di ciò che facciamo per i defunti, o a proposito
di essi.
1. Il giorno successivo alla festa di Tutti i santi, dunque, a meno che non
sia una domenica, dopo i notturni diciamo l’apposito ufficio[54],
con nove letture, per tutti i defunti, accontentandoci dell’unica orazione
Fidelium Deus. Poi, dopo prima,
celebriamo la messa alla presenza della comunità.
2. Non facciamo l’ufficio dei defunti, invece, in nessuna festa di dodici
letture e nell’ottava del Natale del Signore, di Pasqua e di Pentecoste, a
meno che non vi sia un defunto o non si debba fare un tricenario[55];
anche questo, tuttavia, se dovesse capitare nei tre giorni prima di Pasqua o
nello stesso giorno di Pasqua o di Pentecoste, o nel Natale del Signore, per
quanto riguarda la messa non lo faremmo assolutamente.
3. Da tale giorno, dunque, cioè dal 2 novembre, fino alla Settuagesima[56],
dopo i notturni diciamo, in chiesa, l’ufficio dei defunti. Dalla
Settuagesima, invece, fino al suddetto giorno, recitiamo quest’Ufficio nelle
celle: nei giorni di digiuno dopo i vespri, altrimenti dopo la cena. E se vi
è un anniversario[57],
lo si celebra in chiesa subito dopo i vespri, con nove letture e le
antifone.
4. In Quaresima, tuttavia, per non sovraccaricare i fratelli, lo si dice
nelle celle dopo il pasto.
1. Quando si ritiene che un fratello malato si stia avvicinando alla morte,
la comunità si raduna per visitarlo. Il presbitero dice: «Pax
huic domui et omnibus abitatores in ea», aspergendo l’acqua santa. Si
risponde: «Amen».
2. Allora quegli confessa i suoi peccati, e dopo l’assoluzione il presbitero
dice ancora Salvum fac servum tuum,
Esto ei Domine,
Nihil proficiat,
Dominus vobiscum,
Deus qui famulo tuo,
Deus qui per apostulum tuum.
3. Poi si dice, per primo, il salmo
Domine ne in furore tuo[58].
Terminato questo, gli si ungono gli occhi e si dice: «Per
istam unctionem et suam piissimam misericordiam, indulget tibi Deus quidquid
peccasti per visum».
4. E così alla fine di ciascuno dei sette salmi[59]
si ripete questa medesima preghiera per ciascuna parte su cui egli riceve
l’unzione, vale a dire per l’udito, per l’odorato, per il gusto e la parola,
per il tatto – cioè alle mani –, per il camminare – cioè alle piante dei
piedi –, per l’ardore della concupiscenza – cioè i reni.
5. In seguito gli si asciuga la bocca e, dopo che è stato baciato con
affetto da tutti come con uno che sta per partire, quegli si comunica,
mentre coloro che sono presenti cantano il Communio
Hoc corpus.
6. Dopo ciò si dicono le orazioni
Respice Domine, Deus qui facturæ
tuæ e Deus qui humano generi.
1. Quando sembra che la morte sia ormai imminente, quelli che lo servono
danno un segnale. Allora, tralasciata ogni occupazione, tutti accorrono, a
meno che non capiti che si stia celebrando in chiesa l’ufficio divino.
2. In tal caso, infatti, accorrono presso il morente il priore, o colui a
cui egli l’avrà comandato, e altri due o tre
[60]. Dopo averlo deposto su della cenere
benedetta dicono una litania, lunga o breve a seconda di come la situazione
lo consente. Seguono un Pater noster
e le preghiere Salvum fac,
Esto ei,
Nihil proficiat. Poi l’orazione
Misericordiam tuam. Dopo, i
cinque salmi: Verba mea, il primo
Domine ne in furore,
Dilexi quoniam,
Credidi,
De profundis[61],
un Pater noster,
A porta inferi e l’orazione
Deus cui proprium est. Dopo di
ciò, l’intero ufficio dei defunti, con lodi e vespro. Infine, il salterio.
3. Intanto il defunto viene lavato e vestito: se è un monaco, con cilicio e
cocolla, calze e pedalini
[62]; se è un laico, con tunica e
cappuccio, calze e pedalini. Poi, lo si depone nella bara e, interrotta la
salmodia, il presbitero dice In
memoria æterna, Ne tradas bestiis,
Ne intres in iudicium. Dopo ciò,
l’orazione Deus cui omnia vivunt.
4. Terminato tutto questo, viene portato in chiesa e si canta il responsorio
Credo quod Redemptor. In seguito,
il presbitero dice A porta inferi,
Nihil proficiat,
Ne intres,
Oremus
suscipe Domine animam.
5. Posto il defunto in chiesa, si riprende la salmodia da dove era stata
interrotta e si ha cura in ogni modo che si dicano almeno due salteri, uno
in chiesa e uno nelle celle, con le venie[63].
Se poi di quello che si deve dire in chiesa ne mancherà una parte, la si
reciterà nelle celle. Se vi è tempo sufficiente, infatti, il defunto viene
seppellito il giorno stesso, ma non prima che si sia cantata per lui una
messa. Altrimenti si rimanda al giorno successivo, e i monaci e i laici si
suddividono la notte – secondo il loro numero e la durata di essa –
recitando assiduamente il salterio presso il corpo di lui.
6. L’indomani, dopo che si è cantata una messa alla presenza di tutti, viene
seppellito nel modo seguente: il coro sta presso il corpo e il presbitero
dice un Pater noster, la
preghiera A porta inferi,
l’orazione Deus vitæ dator, il
responsorio Credo quod Redemptor,
Kyrie eleison, un
Pater noster, la preghiera
Ne intres, l’orazione
Deus qui animarum, il responsorio
Ne abscondas me,
Kyrie eleison, un
Pater noster, la preghiera
Ne tradas bestiis, l’orazione
Ne intres in iudicium, il
responsorio Ne intres,
Kyrie eleison, un
Pater noster, la preghiera
Requiem æternam, l’orazione
Fac quæsumus Domine.
7. Allora viene portato alla tomba con questi salmi:
In exitu lsrael,
Miserere mei Deus,
Confitemini – Salmo 117 –,
Quemadmodum,
Memento,
Domine probasti me,
Inclina,
Laudate Dominum de caelis[64],
il Benedictus Dominus Deus Israel,
il Magnificat.
8. Quando siamo giunti alla tomba il presbitero dice un
Pater noster,
A porta inferi, l’orazione
Tibi Domine commendamus. Allora
benedice la fossa, l’asperge con acqua santa e la incensa. Poi si depone in
essa il corpo. E mentre lo si ricopre, il presbitero, mentre tutti gli altri
cantano i suddetti salmi, dice le orazioni
Obsecramus,
Deus apud quem,
Te Domine,
Oremus fratres,
Deus qui iustis,
Debitum humani,
Temeritatis quidem,
Omnipotentis Dei,
Inclina Domine.
9. Una volta che sono terminati sia i salmi sia le orazioni, seguono un
Pater noster e le orazioni
Tibi Domine commendamus e
Deus cuius miseratione. Poi
ritornano dalla tomba cantando il
Miserere mei Deus e terminano l’intero ufficio in chiesa, con l’orazione
Fidelium Deus.
1. Dal giorno stesso della sepoltura fino al trentesimo giorno si canta per
lui una messa tutti i giorni, ma non la conventuale, e la prima orazione
delle ore dell’ufficio dei defunti è detta specificamente per lui. Si annota
sul martirologio il giorno della sua morte e si celebra sempre per lui,
comunitariamente, la messa del suo giorno anniversario: d’inverno dopo prima
e d’estate prima di essa.
2. Il giorno stesso in cui il defunto viene seppellito, i fratelli non sono
obbligati a rimanere in cella, e, per consolazione, prendono il pasto
insieme due volte, a meno che non sia un giorno di digiuno principale[65].
3. E bisogna sapere che noi facciamo lo stesso identico ufficio per tutti i
nostri defunti, senza nessuna preferenza di persone, e che non facciamo per
un monaco più che per un laico, o per un superiore più che per un suddito.
4. Per i nostri benefattori, invece, oltre all’assidua memoria che facciamo
sempre nelle preghiere dell’ufficio canonico, diciamo in tutte le ore la
penultima orazione, e ogni settimana, sia per loro che per tutti gli
abitanti di questo luogo e, universalmente, per tutti i fedeli defunti,
viene detta una messa dal presbitero settimanale, d’estate prima
dell’ufficio di prima e d’inverno dopo di esso.
5. Bisogna sapere, infatti, che qui cantiamo raramente la messa, poiché, in
maniera specifica, il nostro impegno e il nostro proposito è di dedicarci al
silenzio e alla solitudine della cella[66],
secondo quella parola di Geremia: «Siederà solitario e resterà in silenzio»[67];
e altrove: «Spinto dalla tua mano sedevo solitario, perché mi avevi riempito
di timore»[68].
Pensiamo, infatti, che nulla, fra gli esercizi della disciplina regolare,
sia più faticoso del silenzio della solitudine e della quiete. Per questo
anche il beato Agostino dice che per gli amici di questo mondo nulla è più
faticoso del non affannarsi
[69].
Ma riguardo a ciò è sufficiente così. Ora trattiamo del resto.
1. Quando capita che il priore di questa Casa muoia, dopo la sua sepoltura,
convocati i fratelli, si impone per tutti un digiuno di tre giorni
[70] e, sia la mattina che la sera, in
chiesa, terminato l’Ufficio, cantiamo con unanime fervore il salmo
Ad te levavi
[71]. Ci inginocchiamo tutti
sulle forme
[72] e diciamo
Kyrie eleison, un
Pater noster, le preghiere
Salvos fac servos tuos,
Mitte eis Domine auxilium de sancto,
Nihil proficiat inimicus in eis,
e l’orazione Prætende Domine. Il
quarto giorno, al mattino, celebriamo in Convento
[73], con grande devozione, la messa
dello Spirito Paraclito. Poi, radunatisi in capitolo, su consiglio dei più
anziani e dei migliori
[74] eleggono uno di loro, o presbitero o
che debba diventarlo, e subito lo insediano al posto del predecessore. E,
dedicando tutto quel giorno alla gioia, mangiano in refettorio due volte
[75], a meno che non sia un giorno di
digiuno principale.
2. Egli, sebbene debba essere di giovamento a tutti
[76] con la parola e con la vita e debba
prendersi cura con sollecitudine di tutti, tuttavia ai monaci fra cui è
stato scelto deve offrire soprattutto un esempio di quiete, di stabilità e
di tutti quegli esercizi che sono consoni al loro genere di vita
[77].
3. Così, dopo aver passato quattro settimane in cella insieme agli altri
monaci, trascorre la quinta con i laici. In tale arco di tempo il suo
compito nei confronti dei fratelli lo esegue uno a cui sia stato da lui
stesso comandato.
4. Egli, comunque, non esce mai dai confini del deserto
[78]. Il suo seggio, ovunque sia, e il
suo vestito non differiscono da quelli di tutti gli altri per nessun segno
di dignità o lusso, ed egli non porta nulla da cui appaia che è il priore.
Ci si inchina davanti a lui – e leggermente – soltanto quando va o ritorna
dal leggere la lettura, o quando si passa davanti a lui; e quando egli va da
qualcuno, quegli si alza in piedi
[79].
5. A Natale, a Pasqua e a Pentecoste e quando uno dei fratelli deve fare
professione, egli canta la messa principale.
Scriviamo questo perché non succeda che qualcuno dei nostri successori
voglia inorgoglirsi
[80] o celebrare il proprio nome
[81] con una qualche gloria o grandezza.
6. In Avvento e in Quaresima, invece, egli si astiene dalla suddetta visita,
per una più stretto raccoglimento, a meno che non lo costringa a ciò una
grande necessità o bisogno
[82]. Anche negli altri tempi, tuttavia,
non scende alla Casa in basso
[83] quando capita o alla leggera, né a
causa di qualunque persona o motivo.
1. Alla Casa in basso, infatti, è da lui preposto uno dei monaci, un
diligente procuratore – così, infatti, vogliamo che sia chiamato
[84]. Questi si prende cura di tutti con
zelo, ma se c’è bisogno di fare qualcosa di importante o che esula dalle
consuetudini ricorre sempre al consiglio del priore e non pretende di donare
o di compiere qualcosa di un certo rilievo senza il suo permesso
[85].
2. Comunque, sebbene su esempio di Marta – della quale ha ricevuto
l’incarico – egli sia costretto a prendersi cura e ad agitarsi per molte
cose
[86], non è sua abitudine tralasciare
completamente o di avere in orrore il silenzio e la quiete della cella, ma
piuttosto, nella misura in cui lo permettono le faccende della Casa, ricorre
sempre alla cella come all’insenatura di un porto del tutto sicuro e pieno
di pace
[87]. Così, con la lettura, la preghiera
e la meditazione
[88], può sedare le agitazioni che
sorgono nel suo animo causate dalla cura e dall’amministrazione degli affari
temporali, e può mettere in serbo nelle segrete profondità del suo cuore
qualcosa di salutare da poter effondere con dolcezza e sapienza, in
capitolo, sui fratelli a lui affidati
[89]. Essi, infatti, hanno bisogno di
predicazioni tanto più frequenti quanto meno sono istruiti.
3. Se poi – non sia mai! – sarà trovato negligente o prodigo o arrogante, e
ripreso più volte non si vorrà correggere, si mette al suo posto uno
migliore di lui e subito lo si riconduce alla custodia della cella,
affinché, essendo stato incapace di adoperarsi per la salvezza altrui, si
adoperi almeno per la propria.
1. Se il priore avrà fatto scendere alla Casa in basso qualcun altro dei
monaci – ma ciò avviene raramente: o per una grande e quasi imprescindibile
necessità, o per sollevare qualcuno da un tedio insopportabile, o per
calmare, talvolta, una pericolosa tentazione, o per alleviare una gravissima
malattia
[90] –, se dunque il priore avrà fatto
scendere in basso qualcun altro, questi non si intrometta, per nessun genere
di curiosità, nelle disposizioni, nelle faccende e nella cura dell’intera
Casa.
2. All’abitatore della cella, infatti, non giova conoscere tal genere di
cose, e ciò è contrario anche alla pace di tutta la Casa. Egli non parlerà
con gli estranei, a meno che non gli sia stato ordinato, né
indifferentemente con qualsiasi converso, ma soltanto con quelli con cui il
priore o il procuratore[91]
lo avrà ritenuto opportuno[92].
Così, se è in grado di insegnare e consolare, parli con coloro che hanno
bisogno di essere istruiti e consolati. Se, invece, è lui che ha bisogno di
consolazione e di ammaestramenti, parli con quelli che sanno dare tali cose.
1. Anche questo non va omesso, benché ce ne fossimo quasi dimenticati: che
il suddetto procuratore, facendo nella Casa in basso le veci del priore,
accoglie gli ospiti, dà loro il bacio [di pace] e, se vengono a un’ora
opportuna – cioè verso sesta –, se sono tali persone, cioè dei religiosi, e
se non è un giorno di digiuno principale, sciolto dal vincolo dell’astinenza
pranza con loro; poi, in maniera conveniente, invia al priore coloro che ne
giudica degni.
1. Noi, poi, ci prendiamo cura soltanto delle persone degli ospiti, non
anche delle loro cavalcature, e prepariamo per loro dei letti uguali ai
nostri e i medesimi cibi che mangiamo noi. E affinché non avvenga che il
fatto che non ci prendiamo cura dei cavalli possa sembrare a qualcuno
qualcosa di severo, così che lo si attribuisca non a sobrio discernimento ma
a durezza e avarizia, noi chiediamo che si consideri in quale deserto
angusto, duro e quasi totalmente sterile noi viviamo, e che fuori di esso
non possediamo nulla, cioè nessuna proprietà e nessun reddito. E, inoltre,
che si consideri la frequenza degli ospiti, per [le cavalcature dei] quali
non potrebbero bastare né i nostri pascoli né, tanto meno, le nostre
provviste dell’anno. Tutto ciò, infatti, non è sufficiente nemmeno per i
nostri animali, dal momento che sia le nostre bestie da soma sia le nostre
pecore le mandiamo a svernare fuori [dai nostri confini].
2. A ciò, inoltre, si aggiunge che vogliamo assolutamente evitare di andare
in giro e di far la questua, pericolosissima consuetudine che, con la scusa
della misericordia – cioè per avere qualcosa da offrire a chi arriva –, ci
dispiace molto si sia sviluppata in molti le cui devote fatiche e la cui
santa vita in Cristo non siamo in grado di lodare a sufficienza.
3. Noi crediamo, tuttavia, che questo giovi non poco anche agli ospiti, i
quali devono partecipare ai nostri beni spirituali e corporali in modo tale
da non costringerci a deviare verso cose cattive. E ci farebbero deviare
proprio verso queste cose cattive se ci costringessero, per coprire le loro
spese, ad andare in giro e a far la questua.
1. Ai poveri che vivono nel mondo diamo del pane o qualcos’altro che la
nostra possibilità ci consente e che la volontà ci suggerisce. Raramente li
accogliamo sotto il nostro tetto, ma piuttosto li mandiamo al villaggio,
perché vi ricevano ospitalità[93].
Ci siamo rifugiati nei recessi di questo deserto, infatti, non per dedicarci
alla cura temporale dei corpi altrui, ma per la salvezza eterna delle anime
nostre. Per questo non ci si deve meravigliare se offriamo maggior
familiarità e conforto a coloro che vengono fin quassù per la loro anima che
a quanti vengono per il loro corpo. Altrimenti, un tempo avremmo dovuto
stabilirci non in luoghi così aspri e remoti e quasi inaccessibili, dove
chiunque viene per un sollievo del corpo ha più fatiche da sopportare che
rimedi da conseguire, ma piuttosto lungo una pubblica strada.
2. Abbia, dunque, Marta il suo servizio, lodevole, certo, e tuttavia non
privo di preoccupazioni e di affanni, e non importuni la sorella[94],
che ricalca le orme di Cristo[95],
che dedicandosi alle attività dello spirito vede che egli è Dio[96];
che esamina il proprio spirito[97],
medita nel cuore la preghiera[98]
e ascolta cosa dice in lei il Signore[99];
e così, per quel poco che, come in uno specchio e in enigma[100],
è possibile, gusta e vede come
è dolce il Signore[101],
pregando sia per la sorella sia per tutti quelli che compiono le stesse
fatiche di lei.
3. E se non cessa di importunarla, lei dispone non solo di un giustissimo
giudice, ma anche un fedelissimo avvocato, cioè dello stesso Signore, il
quale si degna non solo di difendere il suo proposito, ma anche di lodarlo,
dicendo: «Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta»[102].
E dicendo «la parte migliore» ha non solo lodato quest’ultima, ma l’ha anche
posta al di sopra della laboriosa attività della sorella. Dicendo, poi, «non
le sarà tolta» l’ha difesa e l’ha dispensata dal coinvolgersi nelle
preoccupazioni e negli affanni della sorella, per quanto caritatevoli siano
[103].
4. Io, dunque, abbandonata la mia cella e il mio chiostro, e dimentico di
ciò che mi ero proposto, dovrei farmi girovago per accogliere e nutrire i
girovaghi, vagabondo per i vagabondi e secolare per i secolari? Loro,
piuttosto, loro stessi vadano, come hanno cominciato, e facciano il giro del
mondo[104],
affinché non succeda che se vado anch’io cresca con me il loro numero!
Oppure, se insistono così tanto perché io vada, smettano loro e facciano
quel che faccio io, perché siano a buon diritto nutriti dalle fatiche e a
spese dei religiosi[105]!
5. A questo punto, forse, qualcuno mi dirà: «Che cosa fate, dunque, di ciò
che vi rimane?». Colui che ci chiede ciò con animo mordace, ascolti: egli
deve badare più alla trave del proprio occhio che alla pagliuzza di quello
altrui[106].
Coloro, invece, che dicono ciò con intenzione amichevole, sapranno che vi è
un gran numero di uomini santi o di sante comunità per la cui indigenza
dobbiamo aver compassione più che per quella dei secolari, secondo la parola
dell’Apostolo: «Operiamo il bene verso tutti, ma soprattutto verso i
fratelli nella fede»[107].
6. Vi sono, poi, alcuni villaggi qui vicino pieni di poveri che conosciamo,
ove è possibile portare e distribuire ciò che eventualmente ci avanzasse.
Crediamo, infatti, che sia meglio e che sia giusto, se vi è qualche piccolo
sovrappiù da distribuire, che, di qualunque cosa si tratti, ciò sia portato
là, piuttosto che una gran folla sia chiamata da là a qui.
7. Se qualcuno, tuttavia, conoscesse le spese di questa Casa, non
chiederebbe che cosa facciamo del superfluo, ma piuttosto si stupirebbe del
fatto che non siamo nel bisogno.
8. Se, fratelli amatissimi, abbiamo esposto queste cose in modo più prolisso
e con maggior loquacità di quanto era opportuno, abbiate pazienza e
perdonateci.
1. Non permettiamo assolutamente che le donne entrino nei nostri confini,
sapendo che né il sapiente, né il profeta, né il giudice, né colui che ha
ospitato Dio, né i figli [di Dio], e neppure lo stesso primo uomo formato
dalle mani di Dio sono potuti sfuggire alle lusinghe e agli inganni delle
donne.
2. Vengano alla mente Salomone, David, Sansone, Lot, quanti si presero come
mogli quelle che essi vollero, e Adamo
[108]: l’uomo non può nascondersi il
fuoco nel petto senza bruciarsi le vesti, o camminare su carboni ardenti con
i piedi intatti
[109], o toccare la pece e non
sporcarsi
[110].
3. Terminate di dire queste cose, trattiamo ora delle osservanze della
cella. E poiché coloro che iniziano li chiamiamo novizi, faremo sapere
anzitutto quello che ci verrà da dire su di loro.
1. Così, al novizio che chiede misericordia
[111] sono presentate le osservanze dure
e aspre
[112] e gli viene posta davanti agli
occhi – per quanto è possibile – tutta la poca considerazione e l’asprezza
della vita che desidera prendere su di sé
[113]. Se dopo ciò rimane imperterrito e
saldo e se, in conformità a ciò che dice il beato Giobbe, la sua anima
sceglie di separarsi dall’amore delle cose temporali e le sue ossa scelgono
quella morte
[114] di cui è detto: «Se moriamo con lui
vivremo anche con lui»
[115] promettendo senza alcuna esitazione
di esser pronto a custodire le vie dure
[116] a causa delle parole delle labbra
del Signore, allora, infine, lo si esorta a riconciliarsi, secondo
l’evangelo, con tutti coloro che hanno qualcosa contro di lui
[117], e se ha frodato qualcuno in
qualcosa a restituire – se ne ha la possibilità – se non quattro volte tanto
come Zaccheo
[118], almeno l’equivalente. E poiché il
numero dei membri previsti per questa comunità è fisso
[119], gli si fissa anche un termine
entro il quale deve arrivare.
3. Quando, poi, al termine fissato, egli viene, dopo un’umile richiesta
davanti alla comunità lo si pone in un periodo di prova di almeno un anno, e
intanto tutte le sue cose vengono assolutamente tenute da parte integre fino
al giorno della sua professione. Questa, poi, non gli viene concessa se non
dietro la promessa che, se per caso non potrà o non vorrà sopportare la
nostra forma di vita, non ritorni in alcun modo nel mondo, ma abbracci
piuttosto un altro genere di vita religiosa che possa sopportare. E se
capita che durante questo periodo di prova muoia, qualora si sia comportato
lodevolmente facciamo per lui tutto ciò che facciamo per un professo che
porta il santo abito.
3. Una volta introdotto nella cella, gli viene assegnato uno degli anziani,
che, visitandolo nelle ore opportune, per una settimana – o di più se ce ne
sarà bisogno – lo istruisca sulle cose necessarie.
4. Egli, tuttavia, all’inizio è trattato con dolcezza e mitezza[120]
e non gli si concede di addossarsi subito tutta l’asperità del nostro genere
di vita, ma a poco a poco, secondo quanto la ragione e la necessità parranno
richiederlo. Egli, infatti, ha il permesso di parlare ogni tanto con il
cuoco, e viene visitato con una certa frequenza dal priore.
5. Quando, poi, si avvicinerà il tempo in cui dovrà essere benedetto[121],
se sarà sembrato degno di essere accolto e se si sarà mantenuto assiduo nel
chiedere misericordia, gli si fisserà un giorno preciso in cui, se avrà
perseverato, dovrà essere accolto per sempre. In tal giorno, dopo che avrà
ancora chiesto umilmente misericordia in capitolo, gli si concederà la
possibilità o di tornare indietro – se lo vorrà – o di distribuire tutti i
suoi beni come e a chi gli piacerà[122].
E se persevererà nel bussare[123]
gli si concederà l’assenso desiderato, e allora egli stesso o – se lui non
sa scrivere – un altro per lui scriverà[124]
questa professione:
1. “Io, fra N., prometto stabilità, obbedienza e conversione dei miei
costumi davanti a Dio, ai suoi santi[125]
e alle reliquie di questo eremo costruito a onore di Dio, della beata sempre
vergine Maria e del beato Giovanni Battista, alla presenza di dom N., priore[126].
2. Nella messa, poi, in cui deve essere ricevuto, dopo l’offertorio va
presso il gradino che è davanti all’altare e, chinatosi, ripete tre volte il
seguente versetto, che il coro a sua volta riprende: «Suscipe
me, Domine, secundun eloquium tuum et vivam, et non confundas me ab
expectatione mea»[127].
Dopo che si è ripetuto questo per tre volte, si aggiungono un
Gloria Patri, il
Kyrie eleison, un
Pater noster. Nel frattempo il
novizio, inginocchiandosi davanti a ogni monaco, dice: «Padre, prega per me»[128].
Dopo ciò, ritornato nel luogo in cui era prima, rimane chinato. Allora il
presbitero, voltatosi verso di lui, aggiunge [le preghiere]
Et ne nos inducas,
Mitte ei,
Esto ei,
Dominus vobiscum, e benedice la
cocolla posta sul gradino davanti al novizio dicendo:
1. «Signore Gesù Cristo, che ti sei degnato di rivestire l’abito della
nostra condizione mortale, noi supplichiamo l’incommensurabile abbondanza
della tua bontà: degnati di benedire quest’abito che i santi padri,
rinunciando al mondo, hanno stabilito di portare in segno di innocenza e di
umiltà[129],
affinché questo tuo servo, che di esso si servirà, meriti di rivestirsi di
te
[130], che vivi e regni con Dio Padre
...”. Poi, tolto al novizio la cappa[131],
lo riveste della cocolla. E così quegli, recatosi al lato dell’altare, legge
in maniera chiara e distinta[132]
la sua professione, mentre tutti ascoltano. E dopo che l’ha letta, bacia
l’altare e la pone su di esso[133].
Prostratosi, poi, ai piedi del presbitero, riceve la benedizione[134],
[che gli è data] con la seguente orazione:
1. «Signore Gesù Cristo, che sei la via fuori della quale nessuno va al
Padre[135],
noi supplichiamo la tua bontà piena di tenerezza: guida sul cammino
dell’osservanza regolare questo tuo servo che si è distolto dai desideri
della carne. E poiché ti sei degnato di chiamare i peccatori dicendo:
“Venite a me voi tutti che siete oppressi, e io vi ristorerò”[136]
concedi che il tuo invito risuoni in lui così forte che, deposto il peso
delle sue colpe[137],
ottenga di essere da te ristorato, gustando quanto sei dolce[138].
E come hai detto parlando delle tue pecore, riconoscilo come una delle tue
pecore, perché egli ti conosca e non segua un estraneo, e non ascolti la
voce degli estranei, ma la tua che dice: “Chi mi serve, mi segua”[139].
Tu che vivi e regni ...».
2. Da quel momento colui che è stato accolto considera se stesso come
estraneo a tutte le cose del mondo
[140], al punto da non aver facoltà di
disporre assolutamente di nulla, neanche di se stesso[141],
senza il permesso del priore. Se, infatti, l’obbedienza dev’essere praticata
con grande cura da tutti coloro che hanno deciso di vivere secondo una
regola, essa va praticata da costoro con tanto più fervore e con tanta più
sollecitudine quanto più stretta e aspra è la forma di vita che hanno preso
su di sé, perché non avvenga che se essa – non sia mai! – venisse meno, non
solo siano privati del premio di così grandi fatiche, ma incorrano anche nel
tormento della condanna.
3. Per questo Samuele disse: «L’obbedienza è meglio del sacrificio, e
ascoltare vale più che offrire il grasso degli arieti[142],
poiché peccato di divinazione è la ribellione e pari al delitto di idolatria
il rifiuto di acconsentire»[143].
Questa sola testimonianza ha in sé, in maniera sufficiente, la lode nei
confronti dell’obbedienza e il severo rimprovero nei confronti della
disobbedienza.
1. Tutti noi, poi, sia in refettorio che in ogni altro luogo, manteniamo
quello stesso ordine che la venuta qui ha attribuito a ciascuno, a meno che
non avvenga che per qualche motivo il priore sposti qualcuno dopo o prima[144].
1. Noi non accogliamo né fanciulli né adolescenti, poiché temiamo quei
numerosi e notevoli danni, sia spirituali che materiali, che a causa loro
son capitati ai monasteri, e per i quali proviamo dolore. Accogliamo,
invece, quegli uomini che, in conformità con il comando dato dal Signore per
mezzo di Mosè, abbiano almeno vent’anni e siano perciò in grado di
incamminarsi verso le sante battaglie
[145].
Terminate queste cose, adempiamo a quanto abbiamo promesso riguardo alla
cella.
1. Così, colui che abita nella cella riceve: per il letto: della paglia,
della tela resistente, un cuscino e una coltre, cioè una coperta fatta di
pelli di pecora molto grossolane e rivestita di un panno rozzo.
Per vestito: due cilici, due tuniche, due pellicce di cui una meno buona e
l’altra migliore; due cocolle, con il medesimo criterio, tre paia di calze,
quattro paia di pedalini[146],
delle pelli, una cappa[147],
scarpe da notte e da giorno, del grasso per ungerle, due lombari
[148] e una cintura, entrambi di canapa
grossolana.
E non si darà affatto cura, riguardo al letto e al vestito, di quanto ogni
cosa sia grossolana o di quale colore sia. Egli infatti sa per certo che, se
ciò vale per tutti i monaci, soprattutto a noi si addicono l’umiltà, la
consunzione del panno e il poco valore, la povertà e la bassezza di tutto
ciò di cui ci serviamo[149].
Egli, poi, ha anche due aghi, del filo, delle forbici, un pettine, un rasoio
per il capo, una cote[150],
o una piccola pietra, e una correggia[151],
per affilare.
2. Per scrivere, poi: uno scrittoio, delle penne, dell’argilla, due pietre
pomici[152],
due calamai, un temperino, due coltelli affilati o due rasoi per raschiare
la pergamena, un solo punteruolo[153],
una sola lesina[154],
piombo[155],
un righello, una squadra, delle tavolette
[156], uno stilo.
E se un fratello eserciterà un altro mestiere – cosa che da noi avviene
molto di rado poiché a quasi tutti coloro che accogliamo, se è possibile,
insegniamo a scrivere – avrà gli strumenti adatti alla sua arte.
3. Egli, inoltre, riceve dalla biblioteca due libri da leggere. Riguardo ad
essi gli viene ordinato di prestare tutta l’attenzione e la cura a che non
vengano sporcati né dal fumo, né dalla polvere, né da qualunque altro tipo
di sporcizia. Vogliamo, infatti, che i libri, quale eterno cibo delle nostre
anime[157],
siano custoditi con la massima cautela e con il massimo impegno, affinché,
dato che non possiamo predicare la parola di Dio con la bocca, lo facciamo
con le mani.
4. Quanti sono, infatti, i libri che ricopiamo, altrettanti araldi della
verità in vece nostra ci sembra di fare, sperando dal Signore una ricompensa
per tutti coloro che grazie ad essi si saranno corretti dall’errore o
avranno progredito nella verità cattolica, come anche per tutti coloro che
si saranno pentiti dei loro peccati e dei loro vizi o si saranno accesi di
desiderio per la patria celeste[158].
5. E poiché, assieme a tutti gli altri compiti che si addicono a una vita
povera e all’umiltà, ci cuciniamo da noi stessi i cibi, gli sono date anche
due pentole, due scodelle, e una terza per il pane, oppure, al suo posto, un
tovagliolo; poi una quarta, un po’ più grande, per lavarvi il necessario.
Poi due cucchiai, un coltello per il pane, una coppa [per il vino], un
bicchiere, una brocca per l’acqua, una saliera, un piatto, due sacchetti per
i legumi, un asciugamano. Per il fuoco: un fornello, dell’esca, una pietra
focaia, della legna, una scure. Per i lavori: una pialla.
A colui che leggerà queste cose chiediamo che non ci derida e non ci biasimi
se prima, per un tempo abbastanza prolungato, egli non sarà rimasto in cella
in mezzo a tanta neve e a un freddo così terribile.
6. Il motivo, infatti, per cui a una sola persona concediamo così tanti
oggetti è perché non sia costretta a uscire dalla cella. Ciò, infatti, non è
mai permesso se non quando ci raduniamo nel chiostro o in chiesa[159].
E questo, per consuetudine, lo facciamo secondo la seguente procedura:
1. In ogni tempo, fuorché nelle feste di dodici letture e nelle settimane
del Natale del Signore, di Pasqua e di Pentecoste, quando viene suonato il
segnale facciamo precedere l’ufficio notturno, che si svolge in chiesa, da
un’adeguata veglia in cella. Questa, aumentando gradualmente a partire dal
13 settembre, raggiunge la sua pienezza il 1° novembre, quando vi è tempo
sufficiente per cantare cinquanta salmi non troppo rapidamente. Da questo
tempo fino al 1° febbraio continua così. Poi, diminuendo a poco a poco fino
a Pasqua, si riduce a un lasso di tempo appena sufficiente per il Mattutino
della Madonna[160].
Da allora fino al 13 settembre rimane di questa lunghezza.
2. Suonato, poi, il secondo segno, affrettandoci verso la chiesa cerchiamo
di giungervi prima del terzo segno. Là, dopo che il priore o colui al quale
egli l’avrà comandato ha dato l’avviso, prostrandoci sulle forme[161],
recitiamo con gravità e devozione tre
Pater noster, mentre in tutte le altre ore uno solo. Poi, alzatici,
iniziamo la salmodia con divino timore.
3. Dopo aver cantato i Notturni facciamo un breve intervallo, che possa
contenere al massimo i sette salmi penitenziali. Seguono poi le Lodi del
mattino, che dal 1° ottobre fino a Pasqua terminano all’apparire della luce;
in seguito, invece, iniziano a tale ora. In ogni tempo, comunque, dopo il
mattutino non si torna a letto
[162].
Analogamente, dal 1° di tale mese fino a Pasqua, l’Ora Prima inizia
all’apparire della luce; in seguito, invece, si aspetta il sorgere del sole[163].
A ciò fanno eccezione soltanto i giorni di solennità fino al 1° novembre,
nei quali si fa come nei giorni d’estate. Allo stesso modo, anche nei giorni
di solennità della Quaresima differiamo l’Ora Prima fin quasi al sorgere del
sole, per poterci dedicare più a lungo alla preghiera. In tutti gli altri
giorni, poi, in cui dal 1° novembre fino alla Quaresima si tiene il
Capitolo, la si ritarda fino a quando è possibile leggere un libro.
Alla stessa ora in cui da Pasqua fino al 1° ottobre si suona Prima, quando
cioè i raggi del sole illuminano le cime delle montagne, dal 1° ottobre fino
alla Quaresima si suona Terza.
Lo spazio di tempo, poi, che va da Prima a Terza d’inverno e dal Mattutino a
Prima in estate, è riservato ad attività spirituali.
Ma da Terza fino a Sesta d’inverno e da Prima fino a Terza in estate, ci
dedichiamo a lavori manuali. Tali lavori, tuttavia, vogliamo che siano
interrotti da brevi preghiere[164].
E lo stesso intervallo che in inverno unisce sesta e nona, in estate unisce
terza e sesta; tali ore sono separate da un intervallo di tempo tale che è
possibile eseguire un’Ora canonica e due dell’Ufficio della B. V. Maria;
d’estate, invece, il lasso di tempo che intercorre fra Sesta e Nona,
talvolta più breve talvolta più lungo, è dedicato al riposo.
Il tempo, poi, che divide Nona da Vespro viene occupato con lavori manuali;
e sempre, lavorando, è lecito ricorrere a brevi preghiere, quasi a mo’ di
giaculatorie[165].
Dai Vespri fino a compieta ci impegniamo in attività spirituali.
4. Per dare il segnale di Compieta si fa attenzione a che, anche quando la
si ritarda di più, si suoni quando ancora si può leggere. Terminata
compieta, e detta soltanto tre volte, con devozione, la preghiera del
Signore
[166], non tardiamo oltre a coricarci.
5. Nelle ore riservate al riposo, infatti, non ci è solo consigliato, ma
anche comandato di fare una grande attenzione al sonno, in modo che negli
altri tempi possiamo vegliare con ardore[167].
6. Generalmente, diciamo in chiesa il Mattutino e i Vespri; Compieta,
invece, sempre in cella. Per le altre Ore, infatti, non andiamo in chiesa se
non nelle feste o nelle vigilie, o nei giorni anniversari[168].
1. Se qualche importuno viene alla nostra cella, noi lo mandiamo – con cenni
o, se non comprende, con parole – dal cuoco. Con lui, a meno che non ci sia
stato comandato, non parliamo più di così, anche se è un nostro fratello.
2. Il cuoco, da parte sua, custodisce la porta, risponde a coloro che
arrivano, invia alla Casa in basso quanti chiedono l’elemosina, custodisce
le case e tutto ciò che serve all’utilità comune. Nessuno, inoltre, a meno
che non gli sia stato comandato, varca la soglia della cucina, cioè la porta
del refettorio attraverso cui si va ad essa.
3. Se qualcuno di noi viene alla nostra cella per parlare con noi, prima gli
si chiede se gliel’ha comandato il priore. Se non è così, non viene ricevuto
a colloquio.
4. Anche al cuoco non è consentito stare nelle celle a chiacchierare, a meno
che non capiti che uno sia malato.
1. Accennate in tal modo queste cose, torniamo alla cella.
È opportuno che colui che la abita vigili con diligenza e sollecitudine a
non inventarsi o a non approfittare di occasioni per uscire oltre quelle che
sono state stabilite per tutti; piuttosto, invece, consideri la cella come
necessaria per la sua salvezza e per la sua vita al pari dell’acqua per i
pesci e dell’ovile per le pecore. Più a lungo vi abiterà, più vi rimarrà
volentieri; se, invece, prenderà l’abitudine di uscirne spesso e per motivi
futili, ben presto l’avrà in odio[169].
Per questo gli è comandato di chiedere le cose che vanno chieste solo nelle
ore stabilite per ciò[170],
e di custodire con la massima cura quello che riceve.
2. Se, tuttavia, per negligenza sua o di altri, egli venisse a mancare di
pane, di vino, di acqua o di fuoco, o se udisse un rumore o un grido
insolito, o se vi fosse pericolo d’incendio, gli è permesso di uscire e di
offrire o chiedere aiuto; e qualora la gravità del pericolo lo richiedesse,
anche di rompere il silenzio.
3. Vivendo soli, infatti, non conosciamo nessuno o quasi dei segni usati nei
cenobi, poiché riteniamo che nelle colpe della lingua sia sufficiente
coinvolgere unicamente la lingua, e non tutte le altre membra. Perciò, se si
è spinti da una tale necessità, preferiamo indicare ciò che la situazione
richiede con una o due – o comunque con pochissime – parole[171].
1. Quando alcuni monaci sono occupati a correggere o a rilegare dei libri, o
in qualche lavoro del genere, essi parlano l’uno con l’altro, ma mai con chi
dovesse sopraggiungere, a meno che non sia presente il priore o egli ne
abbia dato l’ordine[172].
1. Ora bisogna parlare dei digiuni e del cibo.
Il lunedì, il mercoledì e il venerdì ci accontentiamo di pane e acqua e, se
a qualcuno fa piacere, di sale[173].
2. Il martedì, il giovedì e il sabato ci cuociamo da noi stessi dei legumi o
qualcosa di simile, ricevendo dal cuoco il vino, e il giovedì del formaggio
o qualche cibo più buono.
3. Dal 13 settembre fino a Pasqua, fuorché nelle solennità, mangiamo una
sola volta al giorno[174].
4. Da Pasqua, poi, fino al suddetto giorno, il martedì e il giovedì, come
anche il sabato, prendiamo il pasto due volte.
5. Per la cena, o per il pranzo quando mangiamo una volta sola, riceviamo
delle verdure crude o dei frutti, se ce ne sono[175].
Tutto ciò lo conserviamo, e finché ci basta non riceviamo altro, almeno di
questo. Quanto al formaggio, infatti, o ai pesci, alle uova o ad altro del
genere, che chiamiamo “pietanze”, li riceviamo una volta sola, e quello che
avanza lo rendiamo.
6. Il vino lo beviamo soltanto a pranzo o a cena.
7. Quello che avanza di pane e di vino viene reso il sabato.
Quando mangiamo in refettorio, alle verdure e ai legumi viene aggiunto del
formaggio o un’altra pietanza del genere; e a cena vengono serviti, se ce ne
sono, dei frutti o delle verdure crude.
8. In Avvento non mangiamo né uova né formaggio.
1. La quantità del vino rimane la stessa sia nelle celle che in refettorio,
e viene allungato [con acqua] nella stessa misura.
2. Non facciamo uso, infatti, di vino puro.
3. Il pane, sebbene sia fatto di frumento, è pane di crusca. Noi, infatti,
non facciamo pane bianco.
4. Il formaggio viene dato in ugual peso sia nelle celle sia in refettorio.
1. A nessuno di noi è permesso di fare astinenze, discipline[176],
veglie o qualunque altro esercizio proprio della vita monastica che
non sia compreso in quanto abbiamo già stabilito se il priore non ne è a
conoscenza e non è d’accordo[177].
2. Se, tuttavia, il priore volesse dare a qualcuno un supplemento di cibo o
di sonno, o di qualunque altra cosa, o assegnare a qualcuno qualcosa di duro
o di pesante, non ci è permesso ribellarci[178],
perché non avvenga che resistendo a lui ci troviamo a resistere non a lui,
ma al Signore, di cui egli fa le veci presso di noi[179].
3. Anche se le pratiche che compiamo, infatti, sono numerose e varie, è
unicamente e soltanto in virtù del bene dell’obbedienza[180]
che noi nutriamo la speranza che tutto ciò ci porterà frutto[181].
1. Per i vescovi, gli abati e tutti coloro che vivono stabilmente in una
forma di vita religiosa – giacché sono solo costoro che vengono accolti alla
mensa dal priore –, se vengono all’ora opportuna si rompe il digiuno, a meno
che non sia un digiuno principale. Il priore, infatti, non è solito
accogliere alla sua mensa né girovaghi, né transfughi dalla loro forma di
vita religiosa, né laici.
2. I vescovi e gli abati, poi, stanno nel posto del priore sia in chiesa sia
in tutti gli altri luoghi. I vescovi, però, danno anche le benedizioni. Gli
abati si accontentano dell’onore del seggio, mentre le benedizioni le dà,
come di consuetudine, il presbitero settimanale.
3. Quando giungono vescovi o abati, diamo loro il bacio della pace
inchinandoci e inginocchiandoci fino a terra; agli altri, invece, soltanto
con un atteggiamento di umile rispetto.
4. Nella Casa alta[182]
è consuetudine che dormano soltanto ospiti religiosi.
E poiché abbiamo avviato il discorso sul priore, bisogna aggiungere come
questi è solito comportarsi riguardo alle questioni della Casa di cui ha
accolto la responsabilità.
1. Se vi è da trattare qualche problema importante o grave, il priore ordina
che tutti i monaci si radunino insieme[183].
Lì, dopo che tutti avranno espresso liberamente ciò che pensano, egli
decide, senza preferenze di persona
[184], ciò che ritiene sia la cosa
migliore e più giusta.
[185]
2. E osserviamo assolutamente questa prassi, che ci pare utilissima e
giustissima: che nessuno pretenda di difendere ostinatamente il parere di un
altro o il proprio[186],
perché non avvenga che il bene del [trovarci insieme a] consiglio si volga
in discordia e in rabbia[187].
3. Per le questioni meno rilevanti e più quotidiane, invece, al priore è
sufficiente il proprio parere e quello dei fratelli più maturi.
4. E affinché non avvenga che egli, oberato dalla cura e dalla
preoccupazione per le cose temporali, sia costretto a dedicarsi meno a
quelle spirituali, cerca di affidare i singoli incarichi a dei fratelli alla
cui fedeltà egli possa rimetterli con tranquillità[188].
1. Il priore sappia che deve essere sollecito, benevolo e misericordioso
verso tutti, e in particolare verso i malati, i deboli e quanti si trovano
nella tentazione[189].
Come dice la parola del Signore, infatti, «non sono i sani che hanno bisogno
del medico, ma i malati» (Mt 9, 2). Anche questi ultimi, tuttavia, in
conformità alle parole del beato Benedetto, sono ammoniti a far attenzione
con molta cura di non contristare coloro che li servono chiedendo cose
superflue o impossibili, o magari mormorando[190].
E, memori della forma di vita che han fatto propria, riflettano che, come da
sani si dovevano comportare in maniera diversa dagli uomini del mondo sani,
così da malati si devono comportare in maniera diversa da quelli malati, e
non devono chiedere nel deserto ciò che a stento può essere trovato nelle
città[191].
2. Essi, dunque, sono esortati a fissare lo sguardo sulle sofferenze di
Cristo, mentre gli altri sulle sue misericordie. Così gli uni diventano
forti nel sopportare, gli altri pronti nell’aiutare. E mentre sia questi che
quelli considerano che sono serviti o che servono a causa di Cristo, né i
primi si insuperbiscono né gli altri vengono meno, poiché entrambi attendono
dal medesimo Signore la ricompensa del loro ufficio, che per gli uni è di
soffrire e per gli altri è di aver misericordia[192].
3. Solo per loro, poi, se sono molto malati, siamo soliti comprare del
pesce.
1. Della medicina ci serviamo molto raramente, tranne che per i cauteri[193]
e i salassi
[194]. Siamo salassati cinque volte
all’anno: dopo l’ottava di Pasqua, dopo la solennità degli apostoli Pietro e
Paolo, nella seconda settimana di settembre, nella settimana prima
dell’Avvento e nella settimana prima della Quinquagesima. In tali tempi,
cioè quelli del salasso, per tre giorni consecutivi mangiamo due volte al
giorno, ricevendo un po’ di cibo più buono
[195].
2. Il primo giorno, inoltre, perché a causa del salasso non succeda qualcosa
di spiacevole, dopo aver mangiato ci raduniamo per un colloquio. Dopo il
pranzo abbiamo anche il permesso di bere del vino, ma non nella cella di un
altro.
3. Non ci è mai permesso, infatti, prendere alcun genere di alimento nella
cella di un altro.
4. Durante questi tre giorni, al mattino ritorniamo a letto, diciamo al
cuoco le cose necessarie, e da lui, i primi due giorni, riceviamo anche tre
uova per la cena.
1. In chiesa non abbiamo ornamenti d’oro o d’argento, tranne il calice e la
fistola da cui si prende il sangue del Signore
[196]. Drappi e tappeti li abbiamo
abbandonati.
2. Non riceviamo doni di usurai o di scomunicati.
3. Abbiamo inserito in questo scritto anche l’atto che abbiamo steso assieme
a proposito di alcune questioni di questo genere:
1. Allo scopo di recidere per noi e per coloro che verranno dopo di noi –
nella misura in cui, con l’aiuto di Dio, è possibile – ogni occasione di
cupidigia, abbiamo stabilito con la sanzione del presente scritto che gli
abitatori di questo luogo non possiedano assolutamente nulla al di fuori dei
confini del loro deserto: né campi, né vigne, né orti, né chiese, né
cimiteri, né offerte, né decime, né alcun’altra cosa del genere.
2. Con analogo provvedimento viene sancito che nel loro cimitero non
seppelliscano assolutamente nessuno, morto dentro o fuori di questo deserto,
a meno che non capiti che muoia qui qualcuno della nostra forma di vita.
3. Se, tuttavia, qualcuno di un’altra forma di vita religiosa morisse qui e
la sua comunità non potesse o trascurasse di portarlo via, lo seppelliranno.
4. Nel loro martirologio, comunque, non scriveranno il nome di nessuno; e di
nessuno, abitualmente, celebreranno l’anniversario. Abbiamo udito, infatti,
una cosa che non approviamo: che, cioè, molti [religiosi] sono pronti a
imbandire splendidi banchetti e a fare delle messe ogni volta che qualcuno
vuole fare loro offerte per i propri defunti. Tale consuetudine fa venir
meno l’astinenza e rende le preghiere venali, poiché il numero delle messe
diventa proporzionale a quello dei pasti. E così non rimane alcun criterio
stabile né per il digiuno né per la preghiera, dato che questi non dipendono
più dalla devozione di chi li compie, ma piuttosto dall’arbitrio di colui
che offre da mangiare. In nessun giorno, infatti, mancheranno il banchetto e
la messa se vi sarà chi offre da mangiare. E se qualcuno giura ostinatamente
che tale consuetudine è degna di lode, non gli opponiamo resistenza: faccia
come gli piace, e renderà conto[197]
a Colui che scruta i cuori e saggia i reni per rendere a ciascuno secondo la
sua condotta e secondo il frutto delle sue macchinazioni[198].
5. Il nostro genere di vita, per quanto sia semplice, sperimenta raramente,
grazie a Dio, la penuria o l’abbondanza[199].
Se qualcuno, infatti, ci manda dei pesci o altre cose del genere, ciò viene
servito ai fratelli ai pasti secondo la misura e i giorni che il nostro
genere di vita e le norme che abbiamo stabilito prevedono.
1. Dopo aver esposto così, come abbiamo potuto, le consuetudini che
riguardano i monaci, ora, con l’aiuto di Dio, parliamo di quelle dei laici,
che chiamiamo conversi.
Sempre, quando bisogna alzarci per il mattutino, il segnale viene dato due
volte, con un breve intervallo. Al primo si preparano; al secondo accorrono
in chiesa con compostezza
[200]. E se il monaco che è loro preposto
è lì presente, questi recita loro l’ufficio divino quasi come è stato
scritto sopra, solo più in fretta. Ed essi, mantenendo con estrema cura il
silenzio e la quiete, lo imitano attentamente negli inchini e in tutti gli
altri devoti movimenti del corpo.
2. Nelle vigilie delle solennità, in cui si tiene il Capitolo, la metà di
loro – secondo quanto lo permettono i loro incarichi – la sera, quando
terminano i loro lavori, sale alla chiesa in alto, per ascoltarvi il
Mattutino e gli altri santi Uffici. Dopo il Capitolo dei monaci ascoltano la
parola di Dio dal priore o da colui a cui egli l’avrà comandato, e se hanno
delle colpe le confessano.
3. Prima di salire, tuttavia, vanno dal cuoco, per portare su ciò che egli
avrà ordinato loro; poi, con il suo permesso, si avviano. E anche là, cioè
in alto, come dappertutto, rimangono in silenzio da Compieta fino a dopo
l’Ufficio di Prima e dal Capitolo fino a dopo Nona.
4. È permesso loro, tuttavia, di parlare con il cuoco e il suo aiutante – o
i suoi aiutanti – delle cose necessarie. Anche quando ridiscendono stanno in
silenzio, riportando ciò che sarà stato loro comandato, e poi ascoltano i
Vespri nella cappella dal monaco a loro deputato.
1. Ogni volta che sono senza chierico, sostituiscono i salmi con la
preghiera del Signore[201],
e con essa recitano tutte le Ore e tutto l’Ufficio, ovunque si trovino.
2. Al mattutino, dunque, se è una festa di dodici letture, semplicemente
inchinati, oppure stando [inginocchiati] sulla parte anteriore degli stalli,
dicono una volta il Pater noster,
con grande attenzione. Poi, alzatisi, ripetono sei volte la medesima
preghiera, e dopo ogni volta si inchinano e dicono un
Gloria Patri. Poi si siedono e
ripetono la medesima preghiera ventidue volte. In seguito, alzatisi, la
ripetono ancora sei volte con inchino e
Gloria Patri. Quindi, rimanendo
in piedi, la dicono altre ventidue volte, senza
Gloria né inchino. E poi ne
aggiungono ancora una, al posto della colletta.
3. Dopo il Mattutino, si affrettano ad andare a recitare la preghiera
stabilita. Non abbiamo voluto scriverla, poiché viene pronunciata in lingua
vernacolare, in maniera diversa l’uno dall’ altro.
4. E dato che dal 1° ottobre fino a Pasqua non tornano a letto,
nell’intervallo di tempo che rimane fino a Prima – lungo o breve a seconda
della durata della notte – cuciono i loro abiti, oppure ingrassano le loro
calzature, puliscono le rape o eseguono qualche altro compito che è stato
loro assegnato; sempre, però, senza far rumore. Se nessuna di queste cose è
urgente, si dedicano, per quanto possono, alla preghiera.
5. Da Pasqua fino al 1° ottobre tornano a letto. Nel corso di tutto questo
periodo si suona Prima non appena sia sorto il sole. Nel tempo della
mietitura, però, la si anticipa, secondo come lo richiede la necessità. Dal
1° ottobre fino a Pasqua la suonano in pieno mattino. Iniziano l’Ora Prima
così: «Il nostro aiuto è nel nome del Signore, che ha fatto cielo e terra»[202].
Poi un Pater noster con il
Gloria Patri, secondo il tempo,
inchinati o in ginocchio; questo per tre volte, e un quarto per colletta.
Nelle altre Ore si fa lo stesso, se non che ai vespri si aggiunge un
Pater noster.
Dopo compieta si coricano e cercano di dormire, perché non succeda che siano
costretti a dormire quando devono stare svegli[203].
6. In ogni caso, sia che dormano sia che stiano svegli, viene loro comandato
di rimanere, per quanto è possibile, nella quiete e di non fare alcun rumore[204].
1 Quando si radunano in chiesa in assenza del monaco che è loro superiore,
presiede l’Ufficio colui che è primo nell’ordine. Analogamente avviene anche
in tutti gli altri luoghi o lavori, a meno che dell’obbedienza[205]
che essi stanno compiendo non sia stata data la responsabilità in modo
particolare a qualcuno. In tal caso, infatti, presiede ai fratelli colui al
quale è stata affidata, e lui risponde a chi arriva o a chi passa, mentre
gli altri rimangono in silenzio[206].
2. Non è loro consentito, infatti, indistintamente e senza permesso, dire
quel che vogliono, a chi vogliono, e quando vogliono[207].
3. Perciò nei confronti di chi passa o di chi arriva è consentito rendere il
saluto con un semplice inchino del capo, mostrare la strada, rispondere di
sì o di no alle domande e scusarsi di non avere il permesso di parlare di
più con loro[208].
1. In qualunque obbedienza si trovino, i fratelli possono parlare delle cose
necessarie con il loro superiore, dopo averne richiesto il permesso con un
segno. Essi, infatti, sono in possesso di un buon numero di segni, molto
semplici, estranei ad ogni buffoneria e licenziosità, con i quali possono
indicare l’uno all’altro, senza parlare, le cose e gli strumenti che
riguardano i loro lavori.
2. Non è loro permesso né imparare segni estranei né insegnare ad altri i
propri.
1. Passiamo ora in rassegna le singole obbedienze.
Uno dei fratelli presiede alla cucina. Egli prepara e distribuisce ai
fratelli i cibi consueti, cioè legumi e altre cose del genere; e alle ore
opportune dà il segnale. Da lui i fratelli ricevono anche il pane, il vino
nei giorni stabiliti, il sale, un cucchiaio, le scodelle, dei lombari[209],
l’ago, il filo, la cera per incerare. Egli non può dar loro nient’altro, a
meno che non ne abbia avuto il permesso dal procuratore. Per sé prende lo
stesso genere di cose che generalmente distribuisce agli altri.
2. Non si permette di dare o di ricevere nulla da chi non sia di questa
Casa, senza il comando del procuratore. E se questi fosse assente e nel
frattempo si verificasse una qualche necessità, egli farà ciò che pensa che
il procuratore avrebbe fatto se fosse stato presente, e quando quegli
ritornerà gli riferirà il proprio operato[210].
Non può far entrare in cucina nessun fratello se non per una giusta
necessità; e quando lo fa entrare, una volta passata la necessità lo fa
subito uscire, senza rompere il silenzio, per quanto la situazione lo
consente[211].
3. Egli custodisce la chiesa, presiede alla porta, risponde a coloro che
arrivano, conserva gli attrezzi comuni e si prende cura della Casa e di
tutti gli oggetti di uso comune. Se qualcosa di tutto ciò si perde,
prostrato a terra se ne dichiarerà responsabile e colpevole.
Chiunque fa le sue veci osserva queste stesse consuetudini.
4. Nei giorni di solennità, egli, o chi lo sostituisce, non può dare o
prestare niente a coloro che arrivano dal villaggio vicino, ma deve soltanto
rispondere che se ne vadano, perché non prendano l’abitudine di causare, in
tali giorni, inquietudine e disagi.
1. Il panettiere riceve la provvista di grano, la fa seccare, la custodisce,
la passa al vaglio, la macina, impasta i pani e, con l’aiuto di un fratello
che gli viene dato, li cuoce. Poi, nella panetteria, li consegna al cuoco.
48.
Il calzolaio
1. Il calzolaio tiene il cuoio, lo taglia, fa le calzature e le ripara.
1. Chi presiede all’agricoltura si prende cura della grangia[212],
dei buoi e di tutto ciò che ha a che fare con questa obbedienza.
1. Il capo dei pastori custodisce tutti gli oggetti e gli strumenti propri
di tale obbedienza, e nel comprare e nel vendere ciò che concerne il suo
servizio fa commercio con gli estranei. Non ha il permesso di stare a
parlare con loro di altre cose. Nessuno dei suoi compagni si intromette
nella sua attività o nei suoi discorsi, se non colui che egli stesso avrà
chiamato.
2. A lui è ordinato di evitare i giuramenti, le menzogne, le frodi e tutti
gli altri mali che normalmente si mescolano a tal genere di attività, e di
anteporre alle realtà e agli interessi temporali la salvezza eterna della
propria anima. Lui e i suoi compagni, inoltre, custodiscono in gran parte la
grangia. È loro comandato di custodire la Casa in cui si fanno i formaggi,
che noi chiamiamo arcella
[213], la cui cura spetta
specificamente a loro; e così anche alcune cose delle celle. Generalmente,
però, nessuno entra nella cella di un altro se non gli è stato comandato.
Quando escono al di fuori per svernare hanno il comando di non ricevere e di
non dare niente. Il servo stipendiato
[214] che è con loro va al mulino, cuoce
il pane, compra il vino, in modo che, per quanto è possibile evitarlo, essi
non siano costretti ad andare nei villaggi, poiché ciò è pericoloso
[215].
Il martedì e il sabato, al di là della comune consuetudine dei fratelli,
hanno del vino. E ricevono del vino anche nel giorno in cui si spostano,
poiché non possono prepararsi il cibo. Viene usata loro questa misericordia
a motivo delle continue fatiche e dei numerosi disagi che in tale lavoro
devono sopportare.
1. Tutti gli altri fratelli che sono nella Casa ricevono il vino soltanto il
giovedì e nelle solennità in cui c’è Capitolo, una volta al giorno. Hanno il
vino due volte, invece, al Natale del Signore per quattro giorni, alla
Circoncisione, all’Epifania, alla Purificazione
[216], all’Annunciazione se cade di
domenica, a Pasqua per quattro giorni, all’Ascensione, a Pentecoste per tre
giorni, nelle solennità di san Giovanni, degli apostoli Pietro e Paolo,
dell’Assunzione, della Dedicazione, della Natività della beata Maria, di san
Michele, di Tutti i santi.
2. Anche a coloro che salgono per celebrare qualche festa il giorno
successivo, inoltre, se capita che i monaci cenino in refettorio, si dà il
vino. Questo, però, non avviene se non quando si succedono immediatamente
due feste nelle quali si mangi in refettorio.
1. Tutti i venerdì si accontentano di pane, acqua e sale, tranne che nelle
solennità
[217]. Durante l’Avvento, la
Quinquagesima
[218] e i digiuni delle Quattro Tempora
[219], inoltre, trascorrono nella
medesima astinenza anche il mercoledì. Vivono allo stesso modo anche la
vigilia di Pasqua, dell’Ascensione, di Pentecoste, di san Giovanni
[Battista], di Pietro e Paolo, dell’Assunzione, di Tutti i santi, del Natale
del Signore.
2. Nelle vigilie degli Apostoli Giacomo, Bartolomeo, Matteo, Simone e Giuda,
Andrea, di san Lorenzo martire, invece, mangiano sempre una volta sola, ma
hanno del companatico[220].
Tutti gli altri giorni, poi, affinché essi non siano spezzati da
un’eccessiva fatica, mangiano due volte, ma ricevono il companatico una
volta sola[221].
3. I cibi ordinari di questa Casa vengono conditi, generalmente, soltanto
con sale. Il giovedì e nelle solennità in cui c’è Capitolo, oltre al cibo
consueto ne ricevono anche di un po’ più buono. Il giovedì di Pasqua e di
Pentecoste, tuttavia, e il giorno dopo la festa degli Innocenti – se è un
giovedì –, ricevono del vino, ma nessun’altra pietanza.
4. Le verdure crude e i frutti o le radici[222]
– se ce ne sono – li ricevono soltanto a cena, o a pranzo se mangiano una
volta sola. Tutto ciò che resta del companatico e della pietanza dopo il
pasto unico lo restituiscono. Il vino che è dato loro lo bevono soltanto a
pranzo o a cena.
5. Tutto ciò che rimane delle pietanze e del companatico che possa essere
utilizzato viene restituito al cuoco, perché non accada che qualcuno faccia
di nascosto un’astinenza non permessa.
1. Dal 1° novembre fino a Pasqua mangiano pane di avena
[223]. In Avvento e in Quaresima,
tuttavia, ogni settimana ricevono, al posto della pietanza, un pane di
frumento.
1. Sono salassati[224]
quattro volte all’anno: verso il 1° maggio, verso il 15 luglio, verso il 1°
ottobre, verso il 1° febbraio. A coloro che vengono salassati, per tre
giorni, al mattino, si dà una pietanza, e due volte il vino. I primi due
giorni si aggiungono alla cena, se ce ne sono, tre uova.
2. Se dopo il pranzo hanno sete, bevono del vino, ma non nella cella di un
altro. Non è mai concesso a nessuno, infatti, di bere o di mangiare nella
cella di un altro. Si astengono dal loro lavoro e tornano a letto. Da dopo
pranzo fino ai vespri hanno un colloquio su qualcosa che sia loro di
giovamento. Chi non ha avuto il salasso è tenuto a prendere lo stesso cibo
di quelli che l’hanno avuto.
1. Mentre mangiano mantengono il silenzio, dovunque si trovino. Questo
avveniva anche prima, ma dopo l’esempio dei monaci cistercensi, degni del
più grande onore e amati da Dio, i quali in breve tempo, con nostra gioia,
sono molto cresciuti in santità e numero, custodiamo il silenzio in modo
ancor più pieno. Infatti sia i loro laici sia i monaci non parlano durante
il pranzo.
2. I nostri fratelli, inoltre, in qualunque obbedienza siano stati posti,
non hanno il permesso di parlare con i fratelli che hanno un’altra
obbedienza.
1. Se in qualche luogo dovesse capitare all’improvviso un’emergenza, quale
un malessere improvviso, un incendio o un altro pericolo del genere, il
primo che può, dispensato dal silenzio, porta aiuto.
1. Per vestito hanno tre tuniche, tre paia di calze e due paia di pedalini[225];
scarpe da notte e da giorno, una pelliccia, delle pelli, un mantello, un
cappuccio, un paio di guanti di lana, due lombari[226],
due cinture. Le loro scarpe sono fatte di pelle di bue.
2. Il 1° novembre rendono una tunica vecchia e ne ricevono una nuova. Così
pure rendono un paio di calze e ricevono un paio di calze e uno di pedalini.
Ricevono pelli e pellicce vecchie, cioè quelle che i monaci rendono quando
ricevono le nuove. Per letto, poi, hanno della paglia, una tela resistente,
un cuscino, una coltre[227].
3. Da Pasqua fino alla festa di san Michele, da Prima a Compieta non fanno
uso delle scarpe per la notte. Nel dormitorio della Casa in alto hanno in
comune i letti, le pellicce, le scarpe per la notte. In tutte queste cose
non si ha altra cura che difendersi dal freddo e coprire la nudità. Per
questo anche i lacci delle scarpe e le cinture attorno ai fianchi li portano
di canapa grezza, e anche i lombari sono di canapa. Si cerca precisamente
ciò che è richiesto non dalla vanità o dal piacere, ma dalla necessità e
dall’utilità[228].
4. Hanno anche due scodelle per il cibo, e una per il pane al posto del
tovagliolo, un’altra ciotola più grande per lavarvi il necessario; una coppa
[per il vino], un bicchiere, una saliera, un cucchiaio e un coltello, una
brocca per l’acqua. Come attrezzi: una scure, una vanga, una pialla, una
lesina, un falcetto, due aghi, del filo, delle forbici, un succhiello.
Chiunque leggerà queste cose non si affretti a ridere o a biasimarci se
prima, per un tempo abbastanza prolungato, non avrà trascorso una vita di
questo genere in una solitudine così grande e in mezzo a simili freddi.
1. Non cercano il permesso di parlare con chi non è di questa Casa, neanche
se si tratta di un loro fratello.
2. Non tengono assolutamente nulla presso di sé, a meno che non ne abbiano
ricevuto il permesso.
3. Se vengono rimproverati, prostratisi, chiedono perdono senza indugio, e
in quello stesso giorno si astengono dal riprendere chi li ha ripresi.
1. Se qualcuno, amico o parente, invia una veste o qualcosa del genere a
qualcuno di noi, laico o monaco che sia, ciò non viene dato a lui, ma a un
altro, perché quegli non abbia l’impressione di avere qualcosa di proprio[229].
1. Se all’interno dei nostri confini viene trovato un oggetto, lo si
restituisce immediatamente a colui cui appartiene, se questi è presente; se
no, lo si consegna al procuratore. Se, invece, i nostri fratelli laici
trovano un oggetto al di fuori dei nostri confini, se è possibile lo si
restituisce subito al suo proprietario o lo si affida a una persona che si
pensa possa restituirlo meglio e più fedelmente. Altrimenti, lo si lascia lì
senza toccarlo.
2. Sia nelle celle che nel dormitorio si coricano vestiti di tunica e
cintura
[230].
1. I pastori, poi, hanno delle casacche
[231] di canapa che indossano quando
fanno i formaggi
[232]. Per il resto, non facciamo
assolutamente uso di vesti di tela, e nemmeno di mutande.
2. Abbiamo concesso ai pastori anche dei pellicciotti, che si possono fare
all’incirca con due pelli di montone; di essi si servono soltanto quando
escono fuori [dei confini] per svernare.
3. Durante la mungitura, in qualunque luogo si trovino, mantengono sempre il
silenzio.
1. Il fratello che ha cura delle bestie da soma, quando esce fuori [dei
confini] non si corica su un materasso e non chiede nient’altro che un
ricovero, a meno che il priore o il procuratore non gli abbiano dato ordini
specifici.
2. Egli non porta né riferisce parole o saluti di nessuno di noi a qualcuno
di fuori, né di nessuno di fuori a qualcuno di noi, a meno che il priore o
il procuratore non gliene abbia dato l’ordine. Le chiacchiere mondane gli è
stato comandato di lasciarle là dove le ha udite
[233].
1. L’orto e tutto ciò che lo riguarda è affidato a un unico fratello, il
quale per ogni cosa ricorre al procuratore, e a lui rende conto di tutto.
1. Il custode del ponte
[234] non ha il permesso di stare a
parlare assolutamente con nessuno, a meno che non abbia ricevuto un ordine
specifico. Quelli che non devono passare li rimanda indietro con cenni o, se
non capiscono, anche con parole. Chiunque lo sostituisce ha l’ordine di
comportarsi in questa stessa maniera
[235].
2. E a chiunque sostituisce qualcuno in qualche obbedienza non è consentito
di mutare in essa assolutamente nulla senza che ne abbia ricevuto il
permesso. Anche nelle celle, sia nella Casa di sopra che in quella di sotto,
non si lascia mutare o fare nulla che non sia stato precedentemente mostrato
e comandato, affinché delle case che sono state costruite con fatica non
siano deteriorate o distrutte dal prurito per le singolarità[236].
1. In Avvento e in Quaresima, ogni settimana ciascuno riceve la una volta la
disciplina[237].
2. E se non sono in Casa, al posto della disciplina dicono sette
Pater noster con le venie[238].
1. Quelli che sono presenti ricevono la cenere nella cappella inferiore[239],
per mano del procuratore. Quelli che non sono presenti dicono tre
Pater noster con le venie[240].
1. Parimenti, dall’inizio del digiuno fino a Pasqua, al posto della messa
recitano prostrati, dopo Nona, tre
Pater noster.
1. Nel giorno della Cena [del Signore], quelli che rimangono in basso vanno,
dopo il pasto, in cucina e colui che è primo nell’ordine [di professione]
lava i piedi a tutti gli altri e offre del vino a ciascuno. Essi lo bevono e
poi si ritirano.
1. Il giorno seguente, cioè alla Parasceve[241],
quelli che sono là, cioè in basso, dopo Nona – che in quel giorno viene
posticipata più che in tutti gli altri giorni – vanno in chiesa e lì dicono
un Pater noster per la Chiesa,
uno per il Papa, uno per i Vescovi e per tutti gli Ordini sacri, uno per
l’Imperatore, uno per i Catecumeni, uno per tutte le afflizioni e i
pericoli, uno per gli eretici, uno per i giudei, uno per i pagani, con
l’aggiunta di una venia[242],
tranne che per i giudei
[243].
2. Poi baciano con venerazione la croce presentata loro dal cuoco, dicendo
fra sé: «Noi ti adoriamo, o Cristo, e ti benediciamo, perché con la tua
croce hai redento il mondo». Chi non sa tale versetto dice un
Pater noster.
1. Ogni giorno in cui nel corso dell’anno si tiene il Capitolo, quelli che
non salgono in alto rimangono in cella – sempre che le loro obbedienze lo
consentano – e dedicano lo spazio di tempo che vi è fra Terza e Sesta alla
preghiera.
1. Per un fratello appena defunto sono tenuti a trecento preghiere del
Signore
[244], la metà delle quali sono da
recitare con le venie
[245]. E per ogni anniversario nove, con
altrettante venie.
1. I laici sono rasati ogni volta che lo sono i monaci. I laici, però, si
lavano anche la testa. Tutti i servizi, poi, che, per quanto personali,
ciascuno non riesce o non può farsi da solo, vengono compiuti dagli altri
con umiltà e devozione, in modo tale che colui a cui è stato comandato
qualcosa di questo genere si ritenga felice
[246].
2. Quando s’incontrano, inoltre, si cedono reciprocamente il passo con
amichevole prontezza e con un umile inchino, e proseguono mantenendo il
silenzio
[247]. In ciò i più giovani, cioè quelli
che sono arrivati dopo [in comunità], cercano di prevenire i più anziani
[248].
1. Per accogliere i laici a questa vita di conversione si fa quasi lo stesso
che per i chierici. Allo stesso modo, infatti, vengono presentate loro le
cose dure e aspre
[249].
2. Ugualmente gli si ordina di riconciliarsi con chi ha qualcosa contro di
loro
[250], e poi sono ammessi a un periodo di
prova, la cui durata dipende dal priore, ma che comunque non è inferiore a
un anno; infine, vengono accolti [alla professione] sulla testimonianza di
coloro fra i quali sono vissuti, cioè dei laici, come i chierici lo sono
sulla testimonianza dei monaci.
3. Il giorno in cui qualcuno di loro deve fare la professione, questi viene
condotto al capitolo dei monaci. Lì ascolta ciò che riguarda la stabilità,
l’obbedienza e tutte le altre cose necessarie, e se rimane saldo e
imperterrito
[251] chiede poi personalmente a qualcuno
di scrivergli la professione.
In fondo ad essa egli traccia di propria mano un segno di croce. Tenendolo
poi in mano, dopo l’evangelo e l’offertorio si avvicina al lato destro
dell’altare, e il diacono, mentre tutti ascoltano, legge il testo della sua
professione così com’è nella destra di lui, dicendo:
1. «Io, fra’ N., prometto obbedienza, conversione dei miei costumi e
perseveranza in questo eremo per tutti i giorni della mia vita, davanti a
Dio, ai suoi santi
[252] e alle reliquie di questo eremo che
è stato costruito a onore di Dio, della beata sempre vergine Maria e di san
Giovanni Battista, per onorare il nostro Signore Gesù Cristo e per la
salvezza della mia anima, alla presenza di dom N. priore
[253]. E
[254] se mai qualche volta tenterò di
fuggire o di andarmene da qui, sia lecito ai servi di Dio che saranno qui
ricercarmi con la piena autorità che procede dal loro diritto, e ricondurmi,
anche a forza e contro la mia volontà, al loro servizio
[255] †».
2. Dopo ciò, egli pone questa carta sull’altare e, dopo averlo baciato, si
prostra ai piedi del presbitero per essere benedetto con le seguenti
preghiere: Salvum fac,
Mitte ei,
Esto ei,
Dominus vobiscum,
Oremus,
Domine Iesu Christe qui es via.
Vedi sopra
[256].
1. Da quel momento egli deve sapere che senza il permesso del priore non
possiede assolutamente nulla, neanche il bastone su cui si appoggia andando
per via. Egli, infatti, non appartiene neanche a se stesso
[257]. E se durante questo tempo di prova
morirà, qualora si sia comportato in maniera degna di approvazione si farà
per lui esattamente tutto ciò che sopra abbiamo detto si farebbe per un
monaco
[258], e cioè nulla di meno che se fosse
un professo.
1. Quando alcuni sono inviati fuori, sulle montagne vicine – quelle, cioè,
che sono al di qua della parte più alta del Cornillon, del Boquéron,
dell’Entremont e de Les Échelles –, non ricevono né nutrimento né ospitalità
da nessuno, a meno che non abbiano ricevuto in proposito un ordine
particolare o siano costretti da qualche inevitabile e imprevista necessità
[259].
1. Se qualcuno di coloro che abitano in questo luogo fuggirà o sarà espulso,
e mosso dal pentimento ritornerà promettendo di correggersi nelle sue
perversità, e particolarmente da quel vizio a motivo del quale era stato
espulso o era fuggito, il priore tratterà la sua causa nel consiglio della
comunità e agirà nei suoi confronti secondo ciò che il numero dei fratelli,
l’utilità della Casa e anche la salvezza di lui sembreranno richiedere. E se
sembrerà buono il parere di riaccoglierlo, lo si metterà all’ultimo posto,
per provare la sua umiltà. Altrimenti, gli si darà il permesso di andare
presso qualche altra Casa religiosa, in cui possa salvare la propria anima.
1. Il numero degli abitanti di questo eremo è di tredici. Non che sempre
siamo in questo numero – adesso infatti non lo siamo –, ma nel senso che
abbiamo stabilito di accoglierne tanti, se Dio li manderà. Tuttavia, se
qualcuno la cui utilità e rettitudine saranno tali che parrà molto difficile
poterle ritrovare domanderà misericordia, si aggiunge anche un
quattordicesimo, purché si valuti che le risorse della Casa possano
permetterlo.
2. Il numero dei laici, poi, che chiamiamo conversi, è stabilito in sedici.
Ora, però, sono di più: alcuni di loro, infatti, erano anziani e deboli, e
non potevano lavorare; per questo siamo stati costretti ad accoglierne
altri. Perciò quando moriranno quelli che adesso sono fragili, al loro posto
non prenderemo nessuno.
1. Questa esiguità di numero l’abbiamo fissata in base alla stessa
considerazione per la quale non ci prendiamo cura delle cavalcature degli
ospiti e non abbiamo una Casa per [distribuire] le elemosine: cioè perché
non succeda che, costretti a spese maggiori di quelle che questo luogo
permette, dobbiamo cominciare – cosa di cui abbiamo orrore – a fare la
questua e a vagare.
2. E se i nostri successori, in seguito a situazioni che ignoriamo, non
saranno più in grado di prendersi cura in questo luogo anche di questo
piccolo numero senza assumersi gli odiosi compiti di far la questua e di
vagare, se vorranno acconsentire ai nostri consigli lo ridurranno a quel
tanto che potranno sostenere senza i suddetti pericoli. Noi che al presente
ci troviamo qui, infatti, benché siamo pochi, preferiremmo essere ancora
molti di meno piuttosto che giungere a simili mali conservando o
moltiplicando il nostro numero.
3. Facendo, dunque, assegnamento non sui doni che ci vengono inviati –
poiché infatti non ci sembra opportuno doverci assumere, in nome di benefici
incerti, pesi certi che non possono esser né portati né deposti senza grave
pericolo[260]
–, non considerando dunque i doni, ma solo ciò che questo deserto in cui
siamo può fornire attraverso l’agricoltura e l’allevamento del bestiame, noi
crediamo che qui possa vivere il suddetto numero di uomini, posto tuttavia
che rimanga la stessa sollecitudine per l’umiltà, per la povertà, per la
sobrietà nel vitto, nel vestito e in tutte le altre cose di nostra utilità
che vi è stata fino ad ora, e, infine, che ogni giorno crescano sempre di
più il disprezzo del mondo e quell’amore per Dio a causa del quale tutto
dev’essere sopportato e compiuto[261].
1. Carissimi, adesso avete, come avevate chiesto, le nostre consuetudini,
così come esse sono e descritte come abbiamo potuto. In esse vi sono molte
cose da poco e di dettaglio che forse non era opportuno scrivere, ma è stato
il vostro amore, pronto a nulla giudicare ma a tutto abbracciare, che ci ha
spinti a farlo.
2. Nonostante ciò, non riteniamo di aver potuto racchiudere in questo
scritto ogni cosa, sì che non ne sia rimasto fuori assolutamente nulla. Se,
però, qualcosa ci è sfuggito, potrà essere facilmente indicato in un
incontro di persona.
3. Quanto, poi, a un elogio di questa vita, cioè della vita solitaria, non
abbiamo detto quasi niente, sapendo con quale abbondanza essa è stata lodata
da molti santi e sapienti[262]
la cui grande autorevolezza e le cui orme non siamo degni di calcare, e
giudicando superfluo esporvi ciò che voi conoscete al pari o meglio di noi.
4. Sapete
[263], infatti, che nell’Antico e
soprattutto nel Nuovo Testamento quasi tutti i più grandi e profondi segreti
furono rivelati ai servi di Dio non nel tumulto delle folle, ma quando erano
soli. Gli stessi servi di Dio, tutte le volte che li accendeva il desiderio
di meditare più profondamente qualche verità o di pregare con maggiore
libertà o di liberarsi dalle cose terrene con l’estasi dello spirito, quasi
sempre evitavano gli ostacoli della moltitudine e ricercavano i vantaggi
della solitudine.
5. È per questo, tanto per farne qualche breve accenno, che Isacco esce da
solo nella campagna per meditare[264],
e dobbiamo credere che ciò non fosse per lui occasionale, ma abituale; così
anche Giacobbe, mandati innanzi tutti gli altri, rimasto solo, vede Dio a
faccia a faccia, ed è favorito simultaneamente della benedizione e del
cambiamento del nome in uno migliore[265],
conseguendo più in un attimo di solitudine che non in tutto il tempo della
vita trascorso in compagnia degli uomini.
6. La Scrittura attesta quanto anche Mosè[266],
Elia[267]
ed Eliseo
[268] amino la solitudine e
quanto per essa progrediscano nella conoscenza dei divini segreti; come tra
gli uomini si trovino frequentemente in pericolo, e come invece, mentre sono
soli, vengano visitati da Dio.
7. Allo stesso modo Geremia siede solitario, perché è penetrato dalle
minacce di Dio
[269]; anzi, domandando che sia data
acqua al suo capo e una fonte di lacrime ai suoi occhi per poter piangere
gli uccisi del suo popolo
[270], chiede anche un luogo
dove poter compiere con maggiore libertà un’opera così santa dicendo:
Chi mi darà nella solitudine un
rifugio di viandanti?
[271], come se non potesse
dedicarsi a questo in città; in tal modo indica quanto la presenza di altri
uomini precluda il dono delle lacrime. Egli afferma ancora:
È bene attendere nel silenzio il
soccorso del Signore[272];
attesa che riceve sommo aiuto dalla solitudine, e aggiunge:
È bene per l’uomo sottoporsi al giogo
fin dall’adolescenza
[273], parole queste che sono di
grandissimo conforto a noi che quasi tutti abbiamo abbracciato questa
vocazione fin dalla giovinezza. Il profeta dice infine:
Siede solitario ed in silenzio per poter elevarsi sopra di sé[274],
indicando così quasi tutto ciò che vi è di meglio nella nostra vocazione: la
quiete e la solitudine, il silenzio e il desiderio dei beni celesti[275].
8. Il profeta poi mostra quale trasformazione opera una tale disciplina in
coloro che vi si sottomettono, dicendo:
Porgerà la guancia a chi lo
schiaffeggia e sarà saziato di obbrobri[276].
Nel primo caso rifulge una somma pazienza, nell’altro una perfetta umiltà.
9. Anche Giovanni Battista, di cui, secondo l’elogio del Salvatore,
nessuno è sorto più grande tra i nati
di donna[277],
mostra con evidenza quanta sicurezza e utilità procuri la solitudine. Egli,
non stimandosi sicuro né per gli oracoli divini che avevano predetto che,
ripieno di Spirito Santo fin dal seno materno, sarebbe stato il precursore
di Gesù Cristo con lo spirito e la forza di Elia[278],
né per la sua mirabile natività, né per la santità dei suoi genitori, fuggì
la compagnia degli uomini come piena di pericoli e scelse come sicura la
solitudine del deserto[279];
e finché dimorò solitario nell’eremo, non conobbe né pericoli né morte.
L’aver battezzato il Cristo e affrontato la morte per la giustizia[280]
dimostrano quanta forza e quanti meriti vi abbia acquistato. La solitudine
infatti lo rese il solo degno di battezzare il Cristo che tutto purifica[281]
e di non indietreggiare né davanti al carcere né davanti alla morte per la
verità[282].
10.Lo stesso Gesù, Dio e Signore, la cui virtù non poteva essere aiutata
dalla solitudine né impedita dalla presenza degli uomini, tuttavia per
giovare a noi col suo esempio, prima di predicare e di compiere miracoli,
volle nel deserto essere sottoposto alle tentazioni e ai digiuni[283]
come ad una prova. Di lui la Scrittura dice che, lasciata in disparte la
folla dei discepoli, saliva da solo sul monte a pregare[284].
E nell’imminenza della Passione lascia gli apostoli per poter pregare con
insistenza da solo
[285], insegnandoci soprattutto con
questo esempio quanto la solitudine giovi all’orazione, perché non vuole
pregare insieme con altri, fossero pure suoi compagni gli apostoli[286].
11. Ed ora considerate voi stessi quanto profitto spirituale nella
solitudine trassero i santi e venerabili padri Paolo, Antonio, Ilarione,
Benedetto
[287] e innumerevoli altri, e avrete la
prova che nulla, più della solitudine, può favorire la soavità della
salmodia, l’applicazione alla lettura, il fervore della preghiera, le
penetranti meditazioni, l’estasi della contemplazione e il dono delle
lacrime
[288].
12. Per ciò che concerne la lode della vocazione che abbiamo intrapreso,
tuttavia, non accontentatevi di questi pochi esempi che vi abbiamo
presentato. Radunatene, piuttosto, ancora di più voi stessi, partendo sia
dall’esperienza della vita presente sia dalle pagine delle sante Scritture,
anche se la nostra vita non ha bisogno di tali elogi, poiché essa si
raccomanda da sola per la sua rarità e per il ristretto numero di coloro che
la cercano. Se infatti, secondo le parole del Signore, stretta è la via che
conduce alla vita e pochi sono coloro che la trovano, e, al contrario, larga
è la via che conduce alla morte e molti vanno per essa
[289], tra le forme di vita della
religione cristiana ciascuna si rivela dotata di un merito tanto migliore e
tanto più alto quanto più piccolo è il numero di coloro che ammette, e tanto
minore e più basso quanto più elevato è questo numero
[290]. Ci auguriamo che stiate sempre
bene e che vi ricordiate di noi.
Fine delle Consuetudini di Certosa.
[1]
Per esse si vedano già le “Consuetudini
della Certosa”, a cura di E. ARBORIO MELLA, in
Regole monastiche
d’occidente. Da Agostino a Francesco d’Assisi, Bose 1989, pp.
145-207, da cui ho tratto qui alcune espressioni. Per le note,
talvolta, ho ripreso alcune indicazioni di M. LAPORTE, in
Aux sources de la vie
cartusienne V-VIII.
Sources des Consuetudines Cartusiae, In Domo Cartusiae 1975,
1967, 1970, 1971. Testo in GUIGUES IER,
Coutumes de Chartreuse,
par un Chartreux [M. Laporte], Paris 1984 (Sources
Chrétiennes 313). Per una collocazione del messaggio spirituale
e monastico delle Consuetudini di Guigo nel contesto della
tradizione, rinvio al § 17 dell’introduzione a tale edizione, “Les
sources des Coutumes de Chartreuse”,
ibid., pp. 65-88. Varie
datazioni sono state proposte per tale scritto: ad es. A. WILMART lo
situa nel 1115/1116 (Recueil
des Pensées du Bx. Guigues, Paris 1936, p. 40, n. 2); M. LAPORTE
fra il 1121 e il 1128 (Aux
sources I, pp. 53-62 e GUIGUES IER,
Coutumes de Chartreuse,
pp. 16-17); J. HOGG verso il 1127 (Die
ältesten, p. 18); e J. PICARD nel 1127/1128 (“La
chronique ‘Quae in posterum’ de Bernard d’Ambronay”, p. 30; e
cf. ID., “La liturgie
cartusienne”, p. 289).
[2]
Saint-Sulpice era un monastero benedettino di osservanza cluniacense
il cui priore, Umberto, provava forti simpatie per lo stile di vita
certosino. Tale comunità si trovava allora in un periodo di
transizione quanto alla definizione della propria osservanza e la
via certosina era una possibilità seriamente presa in
considerazione. Umberto fu tra coloro che chiesero a Guigo I di
stendere le Consuetudines
Cartusiae, che gli furono da lui inviate nel 1128. Negli anni
1130-1140, tuttavia, la comunità decise di aderire all’ordine
cistercense, nella filiazione di Pontigny. Al tempo in cui Guigo
scrive vi erano anche altre case certosine, che non sono qui
menzionate: quella de La Sylve-Bénite (1116), di Durbon (1116) e di
Les Écouges (1116).
[3]
Cf. 1Cor 1,1.
[4]
Ugo nacque a Châteauneuf, vicino a Valence, verso il 1052 e studiò a
Reims, ove fu allievo di Bruno. Nel 1079 era sicuramente canonico
della Chiesa di Valence, e con lui strinse amicizia Ugo di Die,
legato del papa Gregorio VII per le Gallie e futuro arcivescovo di
Lione. Nel 1080 fu nominato vescovo della Chiesa di Grenoble.
Sostenitore convinto della riforma gregoriana, entrò subito in
conflitto, a motivo di ciò, con il capitolo della cattedrale. Nel
giugno del 1084 accolse Bruno e i suoi compagni e li condusse al
luogo solitario della Chartreuse. Esortò poi Guigo a stendere le
Consuetudini della Chartreuse,
ne approvò il lavoro di correzione dell’Antifonario, e fino alla
morte (1-4-1132) offrì assistenza e protezione ai monaci certosini.
Al termine della sua biografia, Guigo narra che anche in mezzo a
molte tribolazioni egli dimostrò sempre «nei confronti della
Chartreuse e del suo indegno … priore, uno speciale amore, non
venendogli mai meno, pur in così grandi sofferenze, il ricordo di
loro» (VI, 32).
[5]
Guigo conosceva molto bene le lettere di Girolamo, poiché egli
stesso afferma di averne fatto una raccolta (cf. Lettera ai
certosini di Durbon, in I PADRI CERTOSINI,
Una parola dal silenzio,
Qiqajon, Magnano (BI) 1997, pp. 104-107).
[6]
Guigo nelle Consuetudini cita ancora esplicitamente Benedetto in
38,1 e 80,11. Numerosi, poi, sono i riferimenti, più o meno
letterali, alla sua Regola nel corso del testo (puntualmente
segnalati in nota). Sulla questione di un’eventuale relazione fra la
vita dei certosini e la
Regola di Benedetto si veda l’ampio studio di M. LAPORTE in
Aux sources II, pp.
101195; J. DUBOIS, Les
institutions monastiques au XIIe siècle, pp. 223-225,
e J. HOGG, The Carthusians
and the “Rule of Benedict”,
pp. 281-318.
[7]
Cf. anche GUIGO I,
Meditationes 190: «Cerca di essere ammaestrato piuttosto che di
insegnare». Nella Regula
Benedicti 6,6, inoltre, si trova scritto: «Parlare e insegnare
spettano al maestro, mentre al discepolo si addice tacere e
ascoltare».
[8]
Pr 27, 2. Si veda anche GUIGO I,
Meditationes 18.20.288.
[9]
Mt 6, 1.
[10]
Si veda, ad esempio, la
Regula Benedicti 19, 1-2: «Noi crediamo che la presenza divina
sia ovunque e che gli occhi del Signore scrutino buoni e cattivi in
ogni luogo, ma dobbiamo crederlo soprattutto, senza ombra di dubbio,
quando partecipiamo all’ufficio divino» e 43, 3: «Nulla, dunque, sia
anteposto all’ufficio divino».
[11]
I primi 8 capitoli delle Consuetudini trattano ampiamente della
liturgia che si celebrava allora in Certosa. Non tutto è stato
mantenuto, anche se si può dire che la sostanza è rimasta invariata:
l’Ufficio, la scansione dei tempi (liturgici e non), le feste, ecc.,
sono rimasti pressoché immutati.
[12]
Si trattava di giorni liturgicamente più rilevanti, per i quali
l’ufficio notturno prevedeva dodici letture, la maggior parte delle
quali tratte dai padri della chiesa. Tali giorni si distinguevano
secondo due modalità di rito, una più semplice, l’altra più solenne.
Inizialmente, tuttavia, i certosini si erano conformati all’uso
delle chiese secolari, che prevedeva, per le feste maggiori, solo
nove letture. In seguito adottarono la pratica benedettina, che ne
prevedeva dodici. L’adozione dell’uso benedettino daterebbe dal
priorato di Giovanni di Toscana (ott. 1101 - 7 ott. 1109).
[13]
Cf. già Regula Benedicti
9, 5.13
[14]
Tale annotazione mi pare che vada compresa in riferimento a tutti i
mesi che vanno da novembre all’ottava di Pentecoste. In particolare,
il 2 novembre vi era la festa del martire Eustachio e dei suoi
compagni.
[15]
Così erano denominati i tre giorni (mercoledì, venerdì e sabato) di
digiuno e di penitenza all’inizio di ognuna delle quattro stagioni
dell’anno, per chiedere la benedizione di Dio sui futuri raccolti e
per ringraziare di quelli già avvenuti. Nel 1078 Gregorio VII aveva
fissato quelle primaverili nella prima settimana di Quaresima e
quelle estive nell’ottava di Pentecoste.
[16]
Nel medioevo l’anno iniziava in giorni diversi a seconda delle
diverse zone e epoche. Guigo assume come data di inizio il 25 marzo.
[17]
Nella liturgia certosina (come in quella romana anteriore al
Concilio Vaticano II) con Settuagesima si indica ancora la
terzultima domenica del Tempo dopo l’Epifania (che corrisponde al
Tempo Ordinario prima della Quaresima nel rito romano). Essa cade
all’incirca settanta gironi prima della Pasqua.
[18]
Tale uso era stato fissato
dal papa Alessandro II (1061-1073).
[19]
Con tale termine vengono indicati i primi sette libri della Bibbia:
Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio, Giosuè e Giudici.
Quest’ultimo talvolta comprende anche il libro di Rut che di fatto
noi leggiamo in questo periodo. La pratica di leggere l’Eptateuco in
tale periodo era già in uso presso i cluniacensi, i cistercensi e i
canonici dell’ordine di san Rufo.
[20]
Cioè il mercoledì delle
ceneri.
[21]
Il Venerdì Santo in Certosa si chiama ancora «Parasceve».
[22]
Lett.: “dopo la confessione”. Si tratta del Confiteor, che, secondo
una pratica tipicamente certosina, veniva cantato sul tono delle
letture.
[23]
Si tratta del Giovedì santo.
[24]
Sono i sette salmi penitenziali: Sal 6; 32 (31); 38 (37); 51 (50);
102 (101); 130 (129); 143 (142).
[25]
Ancora oggi i Certosini durante le ferie di quaresima dicono i salmi
penitenziali (cf. St. 6.47.24).
[26]
L’Annunciazione era, come oggi, il 25 marzo, mentre la festa di san
Benedetto era il 21 marzo.
[27]
Il termine “laici” indica nelle
Consuetudini di Guigo i
conversi.
[28]
Il termine Mandatum
(Comandamento), tratto da Gv 13, 34, indica tradizionalmente la
lavanda dei piedi.
[29]
Gv 13, 12.
[30]
Gv 14, 31.
[31]
Tavoletta di legno con una o più maniglie mobili di ferro che,
agitata, annunzia le funzioni nelle chiese nei giorni della
Settimana Santa in cui è proibito l’uso delle campane (cf.
Devolto-Oli). Con un’altra forma, ma con la medesima funzione, si
chiama anche “raganella”.
[32]
È il Sal 51 (50).
[33]
È la preghiera che precede e introduce il Padre nostro.
[34]
Cioè, forse, tornano nella Casa a loro riservata, più a valle.
[35]
Le “Rogazioni maggiori” o “Litania maggiore”, che si celebravano il
25 aprile, erano processioni che originariamente avevano lo scopo di
implorare da Dio benedizione per i raccolti, soprattutto dei
cereali. Nel medioevo avevano assunto un carattere fortemente
penitenziale. Vi erano poi anche le “Rogazioni minori” o “Litania
minore”, anch’esse con accento penitenziale molto forte, volte a
chiedere la protezione di Dio nei confronti di varie calamità.
Queste ultime si celebravano tradizionalmente nei tre giorni
precedente l’Ascensione.
[36]
Cf. supra nota 15.
[37]
Con tale denominazione venivano indicati 1-2Sam e 1-2Re.
[38]
I Proverbi, il Qohelet e il
Siracide sono qui indicati, rispettivamente, con i nomi di Parabolæ,
Ecclesiastes, Ecclesiasticus.
[39]
In questo modo non si indica solo il Sal 92, ma anche gli altri
salmi festivales: 99, 62,
il Cantico di Daniele (3, 5788a.56), e 148-149-150.
[40]
Letteralmente: «lectiones et caetera necessaria recolimus». È la
cosiddetta “recordatio” citata anche in 9, 3 (cf. infra, nota 53).
[41]
Cf. supra nota 17.
[42]
Durante il pasto, infatti, veniva letta la Scrittura. In proposito
si veda già il Praeceptum
di Agostino 3, 2: «Quando vi recate a tavola ... non sia solo la
vostra bocca a prender cibo, ma anche le vostre orecchie abbiano
fame di parola di Dio», e la
Regola di Cesario d’Arles ai monaci 9, 2. Ancora oggi nelle
domeniche e nelle solennità la giornata è scandita da questi
appuntamenti (cf. St. 6.46.22).
[43]
Questa festa che cade il 2 febbraio nel calendario attuale ha
giustamente ritrovato il suo riferimento cristologico e si chiama
Presentazione al Tempio di N. S. Gesù Cristo.
[44]
Letteralmente: «tortas», un pane di farina non raffinato.
[45]
Si tratta della festa della Natività di Giovanni Battista, il 24
giugno.
[46]
Si veda supra nota 39.
[47]
Letteralmente: “la Nascita”, ma con tale espressione veniva indicata
la nascita al cielo, la morte; e dunque, nel caso presente, il
martirio dei due apostoli, la cui festa ricorre il 29 giugno.
[48]
La chiesa della Grande Chartreuse fu consacrata il 2 settembre 1085
da Ugo I di Grenoble, alla Vergine e al Battista.
[49]
Cf supra nota 43.
[50]
Cf. supra la nota 47. La Natività di Maria è l’8 settembre, la festa
degli Angeli è quella sopra denominata di san Michele, il 29
settembre.
[51]
Cf supra nota 43.
[52]
L’«evangelo
Nunc dimittis» è il cantico di Simeone (Lc 2,29-32).
[53]
All’inizio probabilmente era il semplice ripasso dei brani da
cantare (responsori e antifone). Le
Consuetudini di Basilio
ci dicono che nella «recordatio» il priore e altri monaci incaricati
“ricordavano”, cioè, probabilmente, “leggevano” le letture delle
Scritture, e nelle domeniche e nei giorni festivi un sermone o
un’omelia (Consuetudines
Basilii 40, 3.5-7 e 39, 8). Tale momento si svolgeva nel
chiostro, nelle ottave di Natale, di Pasqua e di Pentecoste e in
altri giorni (ibid., 39,
8 e cf. 12, 10; 16, 3; 33, 22.25; 40, 5).
[54]
Il testo latino ha «agendam», come ancora oggi si chiama questo
l’Ufficio dei defunti da noi.
[55]
Il «tricenario» è una serie di trenta messe, una al giorno per
trenta giorni consecutivi, in suffragio di un defunto. L’origine di
questa prassi risale a san Gregorio Magno (cf.
Dialoghi IV, LVII, 8-16).
[56]
Cf. supra nota 17.
[57]
Cioè se si doveva celebrare l’anniversario di una morte.
[58]
Vi sono due salmi che iniziano con tali parole: il Sal 6 e il Sal
38, qui è sicuramente il 6 perché il 38 non fa parte dei salmi
penitenziali, infatti si legge: «Poi si dice, per primo, il salmo
Domine ne in furore tuo»
e poco dopo si aggiunge: «E così alla fine di ciascuno dei sette
salmi».
[59]
Cf. supra nota 24. 60.
[60]
Tale prassi di suonare la campana quando un infermo sta spirando e
che i Priore, con altri monaci, sia presente al momento del trapasso
è ancora in uso (St. 9.62.22).
[61]
Sono i Sal 5, 6, 114, 115, 129.
[62]
Il latino ha «caligis et pedalibus» si tratta dell’antico
abbigliamento certosino conservato fino a pochi anni fa. La calza
era divisa in due parti: col primo termine si indica la parte
superiore che fascia la gamba dalla caviglia al ginocchio, col
secondo, la parte che avvolge propriamente il piede.
[63]
“Prendere venia” per il monaco certosino è una cerimonia che
consiste, in segno di umiltà davanti alla divina Maestà, nel
mettersi in ginocchio, senza cappuccio, e baciare la terra (o
un’altra cosa su cui ci si era appoggiati, come ad esempio
l’inginocchiatoio). Esiste sicuramente un certo legame tra le
venie e le
metanìe della tradizione
orientale, anche se non può essere facilmente specificato.
[64]
Si tratta, rispettivamente, dei Sal 113, 50, 117 (indicato anche per
numero per distinguerlo da altri quattro salmi che iniziano con il
medesimo termine), 41, 131, 138, 85, 148-149-150.
[65]
Ancora oggi si festeggia il dies natalis di un monaco pranzando in
refettorio (St. 9.63.13).
[66]
«Praecipue studium et
propositum nostrum est silentio et solitudini cellae vacare»: il
primo paragrafo del cap. 4 degli Statuti dedicato alla custodia
della cella e del silenzio usano ancora questa espressione così
densa e cara ad ogni monaco certosino.
[67]
Lam 3, 28.
[68]
Ger 15, 17.
[69]
AGOSTINO, De vera religione 35, 65. Quest’idea, cara alla tradizione
patristica e monastica, ritorna anche in GUIGO, Meditationes 52 e
6o.
[70]
Questo digiuno di tre giorni è ancora osservato prima dell’elezione
del Priore (cf. St. 5.38.4).
[71]
È il Sal 122.
[72]
Le «formes» sono la parte del coro a forma di inginocchiatoio che
sta davanti agli stalli dei monaci.
[73]
Per Messa celebrata «in conventu» s’intende la messa della comunità,
la Messa conventuale.
[74]
Cf. Regula Benedicti 64, 2, con la differenza, però, che alla Grande
Chartreuse non era previsto che il priore potesse essere eletto
anche solo da una parte della comunità, sebbene «di più assennato
consiglio». Un’altra sostanziale differenza con la Regula è che
mentre l’Abate è eletto a vita, il Priore può essere sollevato
dall’incarico per un motivo sufficiente in qualsiasi momento.
[75]
Ancora oggi si vive nella gioia il giorno dell’elezione del Priore
(cf. St.5.38.26).
[76]
Cf. Regula Benedicti 64, 8: «[l’abate] sappia che è meglio per lui
esser di giovamento piuttosto che essere a capo». Ma, forse, qui più
che alla Regula si fa riferimento alla meditazione n. 346: «Non devi
cercare che i tuoi figli, al cui servizio il Signore ti ha
assegnato, facciano ciò che vuoi tu, ma ciò che a loro giova. Devi
piegare te al loro vantaggio, non piegare essi alla tua volontà,
dato che ti sono stati affidati non per essere loro a capo, ma per
loro giovamento».
[77]
Gli Statuti si rivolgono ancora al Priore con le medesime parole
(cf. St. 3.23.5).
[78]
Stesso rigore negli attuali Statuti (cf. 1.6.1).
[79]
Anche oggi il Priore è tenuto a tale sobrietà (cf. St. 3.23.6).
[80]
Cf. Am 6, 13 (14) secondo la Vulgata.
[81]
Cf. Gen 11, 4.
[82]
Anche oggi il Priore è chiesto lo stesso raccoglimento nei Tempi
Forti (cf. St. 3.23.21).
[83]
È la Casa ove abitavano i conversi (i “laici”), la Correrie.
[84]
La parte degli Statuti attuali che tratta del Procuratore inizia
ancora con queste parole di Guigo (cf. 3.26.1).
[85]
Statuti 3.26.1 riprende questa indicazione.
[86]
Cf. Lc 10, 41, con reminiscenze della Vetus latina.
[87]
L’immagine della vita monastica come porto sicuro e pieno di pace è
presente nella tradizione monastica occidentale fin dall’alto
medioevo. Di essa è testimone anche Bruno stesso, nella Lettera a
Rodolfo 9, e nella Lettera ai suoi figli di certosa 2. Cf. anche
Pier Damiani nel suo opuscolo detto Dominus vobiscum (ca.
1048-1055), ove proprio riguardo alla cella dice:
«Ti trovano come porto di tranquillità coloro che sfuggono al
naufragio dei flutti del mondo» (PL 145, 249A).
[88]
Cf. infra, n. 288.
[89]
Questa raccomandazione è fatta propria dagli Statuti (cf. 3.26.1).
[90]
Cf. le Costituzioni di Lamberto 2.
[91]
Il testo originale parla di «dispensatori», ma trattandosi dei
capitoli che si riferiscono al procuratore sembra ovvio che si parli
ancora di lui. Comunque pare che un “dispensiere” sia esistito
all’inizio della fondazione certosina, ma al tempo di Guigo il
compito che era gli era proprio, ossia di distribuire il cibo, era
adempiuto dal cuoco. Altre sue funzioni, invece, furono attribuite
al procuratore (cf. J. DUBOIS,
L’institution des convers au
XIIe siècle, pp. 223-224).
[92]
Gli Statuti 1.4.5 riprendono nella sostanza questi paragrafi.
[93]
Gli abitanti del vicino villaggio di Saint-Pierre avevano già
aiutato Bruno e i suoi compagni a costruire le loro celle e avevano
assistiti, in parte, procurando loro del cibo. Anche gli abitanti
del villaggio de La Ruchère sembra che all’inizio li avessero
soccorsi offrendo loro ospitalità.
[94]
Cf. Lc 10, 40-41.
[95]
Cf. 1Pt 2, 21.
[96]
Sal 45,11.
[97]
Sal 76,7.
[98]
Sal 34. 13.
[99]
Sal 84, 9.
[100]
Cf. 1Cor 13, 12.
[101]
Cf. Sal 33, 9.
[102]
Lc 10, 42.
[103]
I paragrafi 2-3 sono confluiti negli attuali Statuti dell’Ordine
certosino (cf. 1.3.9).
[104]
Guigo vuol dire qui che le risorse della comunità non sarebbero
sufficienti per donare ai poveri ciò di cui essi avrebbero bisogno,
e i monaci sarebbero perciò costretti ad andare in giro a far la
questua (su ciò Guigo si è espresso nel capitolo precedente a
proposito delle cavalcature degli ospiti).
[105]
Guigo si riferisce qui ai monaci girovaghi, dalla cui condotta
riprovevole Bruno stesso aveva messo in guardia i suoi fratelli (Lettera
ai suoi figli di certosa 4). L’espressione «a spese» traduce il
latino «periculo»: “a
danno”, e dunque, in questo caso particolare, “a carico”, “a spese”.
[106]
Cf. Mt 7, 5.
[107]
Gal 6, 10.
[108]
Per tali esempi si vedano, rispettivamente, 1Re 11, 1-10 (le mogli
straniere di Salomone); 2Sam 11-12 (il peccato di Davide per e con
Betsabea); Gdc 16, 4-21 (Sansone tradito da Dalila); Gen 19, 30-38
(l’incesto delle figlie di Lot); Gen 6, 2-4 (i figli di Dio con le
figlie degli uomini; unico riferimento letterale tra tali esempi);
Gen 3, 6 (Adamo che pecca su invito di Eva).
[109]
Cf. Pr 6, 27-28.
[110]
Cf. Sir 13, 1.
[111]
Cioè che chiede di essere accolto. Tale formula era usuale
nell’ambiente monastico del XII secolo.
[112]
Cf. Regula Benedicti 58, 8:
al novizio «si preannuncino tutte le durezze e le asperità
attraverso le quali si va a Dio», e PIER DAMIANI nella sua Regola
per gli eremiti (PL 145, 342D).
[113]
Cf Statuti 5.36.3.
[114]
Cf. Gb 7, 15.
[115]
2Tm 2, 11.
[116]
Cf. Sal 16, 4.
[117]
Cf. Mt 5, 23-24. Gli Statuti riprendono sostanzialmente anche questo
paragrafo (cf. 1.8.7 e 2.17.7).
[118]
Cf. Lc 19, 8.
[119]
Cf. infra, cc. 78-79.
[120]
Cf. Gen 50, 21. Già la Regula
solitariorum di Grimlaico (secoli IX-X) utilizzava questa
espressione in riferimento al novizio («blande leniterque
suscipiatur ad destinatum propositum», PL 103, 593C).
[121]
Con tale espressione si indicava la professione.
[122]
Cf. Regula Benedicti 58,
24, ma con una differenza riguardo alle persone cui distribuire i
beni: «Se ha qualcosa, lo distribuisca prima ai poveri, oppure,
fatta legale donazione, lo trasferisca al monastero».
[123]
Lc 11, 8. Già nella Regula
Benedicti 58, 3-4 tale versetto è applicato al novizio: «Se
dunque colui che arriva persevererà nel bussare e se dopo quattro o
cinque giorni si vede che è paziente nel sopportare il rude
trattamento riservategli e le difficoltà dell’ammissione, e se
persiste nella sua richiesta, gli si conceda di entrare ...».
[124]
Cf. Regula Benedicti 58,
20: «Tale petizione la scriva di sua mano; oppure, se non sa
scrivere, preghi un altro che la scriva per lui, e il novizio vi
apponga un segno e la metta di propria mano sull’altare».
[125]
Cf. Regula Benedicti 58,
17-18: «Colui che deve essere accolto, nell’oratorio, davanti a
tutti, prometta la propria stabilità, conversione dei costumi e
obbedienza davanti a Dio e ai suoi santi».
[126]
È la stessa formula che si usa ancor oggi (cf. St. 1.10.9).
[127]
Sal 118, 116: «Accoglimi secondo la tua parola, Signore, e avrò
vita, non deludermi nella mia speranza». Sia per la recita e la
ripetizione di questo versetto da parte della comunità, sia per il
successivo atto di prostrazione ai piedi dei fratelli e la richiesta
che preghino per lui, cf.
Regula Benedicti 58, 21-23.
[128]
Ora si dice: «prega per me, fratello».
[129]
Probabilmente si riferisce con ciò sia al colore chiaro dell’abito,
sia al fatto che l’abito monastico era semplice e povero.
[130]
Cf. Rm 13, 14 e Gal 3, 27.
[131]
Si tratta del mantello nero col cappuccio.
[132]
Cf. Ne 8, 8.
[133]
Cf. Regula Benedicti 58,
20 (cf. supra, nota 124).
[134]
Cf. Statuti 5.36.14.
[135]
Cf. Gv 14, 6.
[136]
Mt 11, 28.
[137]
Eb 12, 1.
[138]
Cf. Sal 33, 9.
[139]
Cf. Gv 10, 3.5 e 12, 26.
[140]
Forse, sul considerarsi «estraneo a tutte le cose del mondo», cf.
Regula Benedicti 4, 20:
«Farsi estranei ai costumi del mondo (sæculi
actibus)», anche se il testo delle
Consuetudini ha: «ab
omnibus quæ mundi sunt».
[141]
Cf. Regula Benedicti 58,
24-25: il novizio, fatta la professione, distribuisca i propri beni
«senza riservare nulla per sé, consapevole che da quel giorno non
avrà facoltà di disporre nemmeno del proprio corpo» e Cassiano,
Institutiones 2, 3 (in
cui è detto riguardo al monaco).
[142]
Il paragrafo 2° e le prime righe del 3° sono ripresi ancora
letteralmente da St. 1.10.11 e 2.18.13.
[143]
1Sam (1Re) 15, 22-23.
[144]
Cf. Regula Benedicti 2,
19 e 63, 1.4.7-8.
[145]
Cf. Nm 26, 2. La concezione della vita monastica, e in genere della
vita spirituale cristiana, come lotta è tradizionale. Cf. già
Regula Benedicti, Prol.
3: «A te, dunque, si rivolge ora il mio discorso, chiunque tu sia
che, rinunciando alle tue proprie volontà per militare per Cristo
Signore, vero re, prendi su di te le fortissime e gloriose armi
dell’obbedienza». Sulla lotta spirituale si vedano anche, di Guigo,
le Meditationes 86 e 144.
[146]
Cf. supra nota 62.
[147]
Cf. supra nota 131.
[148]
Nell’abbigliamento certosino ancora in uso per
lombare s’intende quella
sottile corda che passando nei passanti del cilicio lo tiene fermo
all’altezza dei fianchi (cf. St. 3.28.7). È evidente il richiamo a
Lc 12, 35 Vulg.: «sint lumbi vestri præcincti». Il lombare diviene
allora il simbolo della prontezza al lavoro, al servizio, a partire
per un viaggio, e per il monaco della vigile accoglienza del Signore
al suo ritorno: «siate simili a quelli che aspettano il loro padrone
quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli
aprano subito» (Lc 12, 36).
[149]
Gli Statuti sono sostanzialmente fedeli a tali prescrizioni (cf.
3.28.8). Su tutto ciò si veda Guigo I,
Meditationes 91.
[150]
Pietra dura tagliata a forma di cilindro, prisma o cono, per
affilare ferri da taglio.
[151]
Striscia, cinghia di cuoio.
[152]
La pietra pomice serviva per levigare le pergamene.
[153]
Ferro sottile e appuntito per fare o allargare fori.
[154]
Ferro appuntito con impugnatura in legno che si adopera per bucare
la pelle o il cuoio per poterli cucire.
[155]
Si potrebbe tradurre con
matita a o di piombo.
Con il piombo, infatti, si tracciavano sulla pergamena le righe
(passato su di essa lascia un leggero segno grigio che si può anche
cancellare) che servivano per scrivere diritto, era, insomma,
l’antico lapis.
[156]
Si tratta di tavolette ricoperte di cera sulla quale si poteva
scrivere con uno stilo di ferro con la possibilità di cancellare e
di poter riscrivere. Era il modo antico di scrivere senza dover
sprecare pergamena.
[157]
Questa espressione è valida ancora oggi (cf. St. 3.23.15).
[158]
Cf. già CASSIODORO, De
Institutione litterarum 30 (PL 70, 1144): «Felice intenzione,
lodevole sollecitudine predicare agli uomini con la mano, aprire le
bocche con le dita, donare una silenziosa salvezza agli uomini, e
con penna e inchiostro lottare contro le illecite suggestioni di
Satana. Satana, infatti, riceve tante ferite quante sono le parole
del Signore che il copista trascrive». Si veda in proposito L.
GOUGAUD, Muta praedicatio,
in Revue Bénédictine 42
(1930), pp. 168-171.
[159]
Questo paragrafo è ripreso dagli Statuti (cf. 1.3.3)
[160]
Gli Uffici della Madonna o della B. V. Maria, «di
santa Maria» nel testo, già in uso nel secolo VIII, a partire
dall’XI secolo si erano molto diffusi in ambiente monastico e
canonicale (ad es. presso i canonici di San Rufo). Generalmente
venivano recitati immediatamente prima o dopo le ore dell’Ufficio
ordinario. Sembra che tale pratica sia stata introdotta in Certosa
dopo il Concilio di Clermont del novembre del 1095. È noto il
racconto, messo per scritto la prima volta da dom Henri Egher de
Kalkar († 1408), dell’apparizione di san Pietro (o di un vegliardo)
ai primi certosini orfani di san Bruno, appena richiamato dal papa
Urbano II a Roma, in cui il messo celeste dichiara che la santa
Vergine assicurerà loro la perseveranza se reciteranno il suo
Ufficio. Per questa tradizione e le altre notizie (storiche,
liturgiche, ecc.) riguardanti l’Ufficio della B. V. Maria in Certosa
si veda il datato – ma ancora utile – articolo di DOM YVES GOURDEL,
Le culte de la très Sainte
Vierge dans l’Ordre des Chartreux, estratto dal II volume di
HUBERT DU MANOIR S. J. (cur.),
Maria, Beauchesne, Paris
1952.
[161]
Cf. supra nota 72.
[162]
È sicuramente su questo punto che in maniera più significativa la
Certosa attuale si discosta dalle sue origini. Infatti nel 1581 fu
stabilito ufficialmente e definitivamente per tutto l’Ordine il
regolamento attuale, che scostandosi dalla prassi antica, fa
iniziare l’Ufficio di Mattutino nel cuore della notte e permette ai
monaci di tornare a riposarsi, cf. DOM AUGUSTIN DEGAND,
Chartreux (Liturgie
des) in Dictionnaire
d’Archéologie Chrétienne et de Liturgie publié par du R.me dom
Fernand Cabrol et du R. P. dom Henri Leclercq, vol. 2/2, coll. 1062,
Paris 1910 (tutto l’a. è interessante). Sembra giusto precisare
quanto segue: il nuovo ordinamento, stabilito per mettersi al riparo
da un abuso che andava sempre più diffondendosi (quello di tornare a
letto dopo Mattutino e Lodi), più che una mancanza allo spirito
originario, si è dimostrato, alla prova dei fatti, un suo
rafforzamento. L’alzata notturna che interrompe il sonno, infatti, è
diventata uno dei punti più distintivi e ascetici della Certosa e
l’ha portata ad approfondire il suo spirito squisitamente
monasticoescatologico: il monaco certosino è letteralmente, secondo
il vangelo, quel servo che è pronto ad aprire al padrone, al Cristo
che viene, proprio quando questi ritorna a metà della notte (cf. Lc
12, 35-40).
[163]
Si noti la differenza tra apparire della luce («primam
lux incoat») e
sorgere del sole («exinde
solis ortus expectat») e
il tutto va considerato in relazione al sito geografico della Gran
Certosa: ad esempio, le alte montagne che la circondano ritardano
notevolmente l’apparire del sole.
[164]
Questa semplice raccomandazione è ripresa da Statuti 1.5.3.
[165]
È una tradizione antica, che viene dai padri del deserto. Anche gli
Statuti attuali vi sono fedeli (cf. 2.15.10).
[166]
Si tratta del Pater noster.
[167]
Gli Statuti hanno fatto propria questa esortazione all’equilibrio
(6.48.8.).
[168]
Cioè nei giorni anniversari della morte di qualche monaco.
[169]
Anche qui gli Statuti sono debitori di Guigo (cf. 1.4.2).
[170]
Cf. Regula Benedicti 31,
18: «Alle ore opportune sia dato ciò che dev’esser dato e sia
chiesto ciò che dev’esser chiesto».
[171]
Statuti 1.4.8 riassume le indicazioni di questi due ultimi
paragrafi.
[172]
Anche questa prescrizione è ripresa dagli Statuti (cf. 1.5.6).
[173]
Ben presto tale disciplina dovette essere rivista e si giunse ad una
astinenza a pane e acqua alla settimana. A questo rigore, però, si è
rimasti fedeli (cf. St. 1.7.2 e 6.48.2).
[174]
Ancora oggi i monaci si attengono a questa disciplina (cf. St.
6.48.6).
[175]
Cf. Regula Benedicti 39,
3: «se vi fosse la possibilità di avere frutti o legumi freschi...».
Circa vent’anni più tardi Guglielmo di Saint-Thierry scriverà ai
certosini di Mont-Dieu a proposito della loro alimentazione: «Pane
di crusca e acqua semplice, verdure e semplici legumi non sono mai
cose piacevoli, ma nell’amore di Cristo e nel desiderio del piacere
interiore diventa davvero piacevole poter soddisfare e gratificare
con queste cose uno stomaco ben abituato» (Lettera
d’oro 89).
[176]
Con il termine “disciplina” venivano indicati, secondo una prassi
penitenziale monastica tipica dell’epoca, dei colpi con le verghe o
con “fruste” di corda. Cf. anche
infra, c. 65.
[177]
Cf. Regula Benedicti 49,
8-10: «Quello che ognuno offre, tuttavia, lo faccia presente al
proprio abate e lo compia con la preghiera e il consenso di lui,
poiché ciò che è fatto senza il permesso del padre spirituale verrà
imputato a presunzione e a vanagloria... Tutto, dunque, sia fatto in
accordo con la volontà dell’abate».
[178]
Cf., rispettivamente, Regula
Benedicti 43, 19: «se a qualcuno viene offerto qualcosa da un
superiore ed egli rifiuta di accettarlo, quando desidererà ciò che
aveva rifiutato o qualche altra cosa non riceva assolutamente nulla
fino a un’adeguata riparazione» e 68: «sull’obbedienza a comandi
“pesanti o impossibili”».
[179]
Cf. Regula Benedicti 2,
2-3: «crediamo che [l’abate] compia nel monastero le veci di Cristo,
dal momento che viene chiamato con lo stesso nome di lui, come dice
l’Apostolo: “Avete ricevuto lo spirito dei figli adottivi, nel quale
gridiamo: Abba, Padre!” (Rm 8r5)».
[180]
Per tale espressione cf.
Regula Benedicti 71, 1: «Il bene dell’obbedienza va offerto da
tutti non soltanto all’abate, ma i fratelli si obbediscano allo
stesso modo anche a vicenda».
[181]
Il medesimo equilibrio esposto in questi tre brevi paragrafi è fatto
proprio dagli Statuti attuali (cf. 1.7.8 e 2.16.8).
[182]
Cioè l’eremo in cui vivevano i monaci (non i conversi, che
risiedevano, invece, nella Casa bassa).
[183]
Cf. Regula Benedicti 3,
1: «Ogni volta che in monastero vi è da trattare qualcosa di
importante, l’abate convochi tutta la comunità ed esponga egli
stesso l’argomento da prendere in esame».
[184]
Cf. Regula Benedicti 3,
2: «Ascoltando, poi, il parere dei fratelli, esamini la cosa dentro
di sé, e faccia ciò che avrà giudicato più utile» e 3, 5: «La
decisione, invece, spetti all’abate, così che in ciò che egli avrà
giudicato più salutare tutti gli obbediscano». Questo paragrafo 1 è
ripreso sostanzialmente da St. 3.24.2.
[185]
Cf., ad sensum,
Regula Benedicti 3, 3:
«Abbiamo detto che a consiglio siano chiamati tutti per questo
motivo: poiché spesso è al più giovane che il Signore rivela ciò che
è meglio»; e 2, 16: «Egli [l’abate] non faccia discriminazioni di
persona in monastero».
[186]
Cf. Regula Benedicti 3,
4: «I fratelli diano il loro parere in tutta umiltà e sottomissione,
e non pretendano di difendere ostinatamente la loro opinione».
[187]
Gli Statuti 3.24.6 si esprimono nello stesso modo.
[188]
Cf. Regula Benedicti 21,
3: «Siano scelti come decani quelli con cui l’abate possa
condividere tranquillamente i propri pesi». St. 3.23.16 danno la
stessa sapiente indicazione al Priore.
[189]
Al Priore si richiede ancora la medesima sollecitudine (cf. St.
3.27.1).
[190]
Cf. Regula Benedicti 36,
4: «D’altra parte, coloro che sono malati riflettano che sono
serviti in onore a Dio, e non rattristino con eccessive pretese i
loro fratelli che li servono».
[191]
Queste esortazioni al malato sono riprese ancora oggi dagli Statuti
(cf. 3.27.3).
[192]
Tutto questo secondo paragrafo è ripreso dagli Statuti (3.27.4).
[193]
Strumento chirurgico usato per la bruciatura terapeutica di ferite
(e similari) superficiali della pelle.
[194]
Intervento con cui, attraverso un’incisione o anche applicando delle
sanguisughe, si sottraeva all’organismo una quantità più o meno
grande di sangue. Per molto tempo i salassi sono stati considerati
come curativi perché toglievano all’organismo gli “umori” in
eccesso.
[195]
Una curiosità: i salassi non vengano più praticati in Certosa, ma
rimangono i tre giorni in cui si prende cibo due volte al giorno,
prima dell’Avvento e della Quaresima. Questo sovrappiù di cibo ora
ha lo scopo di “preparare” i monaci ai digiuni di questi due tempi
forti.
[196]
La fistola («calamus») era una sorta di cannuccia mediante la quale
al momento della comunione venivano aspirate dal calice alcune gocce
di vino. La
consuetudine qui esposta si ispira probabilmente alla legislazione
cistercense, espressa nell’Esordio di Cîteaux (databile al
1123/1124) XXV, 37: «Tutti gli ornamenti del monastero, vasi e
utensili, siano senza oro, argento e gemme, eccetto il calice e la
fistola, le sole due cose che permettiamo siano d’argento o dorate,
anche se mai completamente in oro» (da I PADRI CISTERCENSI, Una
medesima carità. Gli inizi cistercensi, Qiqajon, Magnano (BI) data?,
p. 117).
[197]
Cf. Rm 14, 12.
[198]
Cf. Ger 17, 10.
[199]
Espressioni tratte da Fil 4, 12.
[200]
Cf. Regula Benedicti 43,
1-2: «All’ora dell’ufficio divino, non appena si sia sentito il
segnale, si lascino tutte le cose che si abbiano fra le mani e si
corra in gran fretta, se pure con serietà». Cf Statuti 6.48.14.
[201]
Cioè il Pater noster.
[202]
Sal 123, 8.
[203]
Statuti 6.49.19 si rifanno a queste parole.
[204]
La medesima raccomandazione è ripresa dagli Statuti (cf. 2.12.3).
[205]
Nel testo: obedientia.
Tale termine indica sempre gli specifici lavori dei conversi e\o i
locali ad essi adibiti. Ancora oggi in Certosa viene usato questo
termine.
[206]
Anche in questo caso gli Statuti sono fedeli a tale raccomandazione
(cf. 2.14.5).
[207]
La stessa puntualità è passata negli Statuti (cf. 2.4.2).
[208]
Ancora oggi ai fratelli certosini è richiesta la medesima
riservatezza (cf. St. 2.14.10) che, d’altra parte, era già in
Regula Benedicti 53,
23-24: «Con gli ospiti, poi, non si intrattenga assolutamente e non
si fermi a parlare se non colui che ne ha ricevuto il comando. Ma se
qualcuno li incontra, li saluti umilmente... e chiesta la
benedizione passi oltre, dicendo loro che non gli è consentito
intrattenersi a parlare con gli ospiti».
[209]
Cf. supra 28, 1 e nota
148.
[210]
Gli Statuti 2.15.7 riprendono alla lettera tale prescrizione.
[211]
Gli Statuti si esprimono allo stesso modo ma con un tono più
generale (cf. 2.15.8).
[212]
La grangia, presso i certosini, era semplicemente un magazzino per
la conservazione dei raccolti. Per ulteriori notizie si veda J.
DUBOIS, Grangia. 10. Le g.
dei certosini, in
Dizionario degli Istituti di Perfezione IV, Roma 1977, coll.
1400-1401.
[213]
Di per sé questa parola dovrebbe derivare dal tardo latino arcĕlla,
diminutivo di ărca, e significherebbe cassettina. Qui non si
comprende bene a cosa si riferisce o il motivo perché lo stabile in
cui si fanno i formaggi si chiami in questo modo.
[214]
Anche gli Statuti attuali, rifacendosi a quest’indicazione,
raccomandano che gli affari esterni vengano affidati a dei secolari
(cf. 2.13.2).
[215]
Cf. Regula Benedicti 66, 6-7: «Il monastero, poi, se possibile, deve
essere organizzato in modo tale che per tutto quanto è necessario...
i monaci non abbiano bisogno di andare in giro fuori, poiché ciò non
giova assolutamente alle loro anime».
[216]
Cf. supra nota 43.
[217]
Agli attuali fratelli certosini è raccomandata il medesimo digiuno
(cf. St. 2.16.2 e 6.48.2).
[218]
Nella liturgia certosina (come quella romana anteriore al Concilio
Vaticano II) con Quinquagesima si indica ancora l’ultima domenica
del Tempo dopo l’Epifania (che corrisponde al Tempo Ordinario prima
della Quaresima nel rito romano). Essa cade all’incirca cinquanta
gironi prima della Pasqua.
[219]
Cf. supra nota 15.
[220]
Il pulmentum era tutto
ciò che abitualmente si mangiava insieme al pane (originariamente
con una densa farinata, puls,
di legumi). Non si trattava né di carne né di uova né di formaggio,
ma di altro genere di cibi (in alcune zone potevano essere olive,
fichi e fichi secchi, frutta cotta).
[221]
St. 6.48.6 dipendono da queste indicazioni sebbene sia sopravvenuto
qualche mutamento.
[222]
Non si capisce bene a cosa si stia accennando, sembra comunque che
si tratti di qualche pianta (per esempio i ravanelli) che si
mangiavano crudi nell’insalata. Sembra che non si tratti delle rape
di cui si è già parlato (cf. 43, 4) e che, invece, si mangiavano
cotte.
[223]
Il pane d’avena era il pane
ordinario degli abitanti della regione della Gran Certosa in quel
tempo. I fratelli che spesso venivano da quella terra vi erano più
abituati che al pane di frumento.
[224]
Cf. supra c. 39.
[225]
Per questi indumenti si veda quanto già detto sopra alla nota 62.
[226]
Cf. supra n. 148.
[227]
Cf. supra 28, 1.
[228]
Statuti 3.28.8 riprendono sostanzialmente tali espressioni.
[229]
Per l’espressione cf. Regula
Benedicti 33, 3: «il monaco non pretenda di
avere qualcosa di proprio».
Anche in essa si diceva cosa fare nel caso in cui i monaci
ricevessero dei regali (c. 54), ma mentre lì si ammetteva
l’eventualità che, col permesso dell’abate, il monaco potesse
tenerli, nel caso presente tale possibilità è esclusa a priori. Gli
Statuti sono ancora fedeli a questa indicazione di Guigo (3.28.4).
Sulla necessità della povertà nel cammino verso Dio cf. Guigo I,
Meditationes 353.
[230]
Non si capisce bene per quale motivo questa indicazione si trovi
qui.
[231]
Il latino ha «braccas», oggi si potrebbe meglio tradurre questo
termine con “blusa” o “sopravveste”.
[232]
È sicuramente una prescrizione di natura igienica.
[233]
Statuti 1.6.7 e 2.13.4 sono attenti a non lasciar cadere in disuso
tale sapiente indicazione.
[234]
Sul passaggio che segnava i confini dei possedimenti del Monastero
era stato costruito un ponte. In un documento di datazione incerta,
Ugo vescovo di Grenoble prescrive che, affinché siano tutelati
meglio i confini, su tale ponte sia costruita una Casa.
[235]
Ciò che Guigo diceva del «Custode del ponte», oggi lo si dice per il
portinaio del monastero (cf. St. 2.13.6).
[236]
Il testo originale ha «curiositas»,
che nella letteratura monastica indica l’inquietudine interiore di
colui che non è mai soddisfatto di ciò che trova, e che desidera
sempre fare e conoscere, indistintamente, qualcosa di diverso e di
nuovo (un accenno già in 17, 1, ove tale termine è stato reso con
“curiosità”). Gli Statuti sono ancora fedeli a tale raccomandazione
(3.28.6).
[237]
Sulla «disciplina» cf. supra,
n. 176.
[238]
Cf. supra n. 63.
[239]
Ossia della Casa bassa.
[240]
Cf. supra n. 63.
[241]
Cf. supra n. 21.
[242]
Cf. supra n. 63.
[243]
Tale eccezione nei confronti dei giudei era stata stabilita dal
Pontificale romano: «Bisogna sapere, poi, che quando si pronuncia
l’orazione per i giudei non ci si inginocchia. Infatti, poiché in
questo giorno i giudei si inginocchiarono schernendo il Signore, la
Chiesa, avendo in orrore il loro misfatto, pregando per loro non si
inginocchia» (Pontificale Romanum saeculi XII 31, 6, in
Hebdomada sancta, II. Fontes historici.
Commentarius historicus, a cura di H. A. P. Schmidt,
Romae-Friburgi Brisg.-Barcinone 1957, p. 790). Di fatto, però,
coloro che durante la passione si inginocchiarono davanti a Gesù
schernendolo (cf. Mt 27, 29-31) non furono dei giudei, ma dei
soldati del governatore romano, e dunque dei romani.
[244]
Ossia il Pater noster.
[245]
Cf. supra n. 63.
[246]
La stessa “beatitudine” è annunciata dagli Statuti attuali (cf.
3.27.2).
[247]
Anche oggi monaci e fratelli si attengono a questa “monastica” forma
di cortesia (cf. St. 2.14.6).
[248]
Cf. Regula Benedicti 63,15-17: «Dovunque, poi, i monaci si
incontrino, quello più giovane chieda al più anziano la benedizione.
Quando passa uno più anziano, il più giovane si alzi e gli
lasci il posto a sedere ... perché sia come sta scritto:
“Prevenendosi a vicenda nell’onore” (Rm 12, 10)».
[249]
Ancora nell’Ordine certosino non si fanno differenze tra padri e
fratelli a questo riguardo (cf. St. 2.17.7). Cf. supra n. 112.
[250]
Cf. Mt 5, 23-24.
[251]
Cf. Tb 2, 14 secondo la Vulgata (assente nel testo ebraico) e Col 1,
23.
[252]
Cf. supra, n. 125.
[253]
È la stessa formula di professione usata ancora oggi (cf. St.
2.18.10).
[254]
Da qui fino alla fine della formula il testo è preso letteralmente
dalla regola per gli eremiti di Pier Damiani, che in tale sezione
tratta dei conversi (Autore?, Die Briefe des Petrus Damiani
2, p. 93; PL 145, 342 C-D).
[255]
Questa chiusura che ci può sorprendere e anche urtare, in realtà è
una forma di difesa: essa aveva come effetto quello di sottrarre gli
interessati alla giurisdizione civile e di legarli solamente a
quella ecclesiastica, più clemente. In una forma nuova di vita
religiosa come la certosina questa misura risolveva a vantaggio dei
conversi (i religiosi restavano laici ed erano specificati come
tali: fratelli laici) ogni dubbio eventuale circa la loro
appartenenza di diritto alla vita religiosa. Nello stesso tempo era
una manifestazione della fede profonda nella grazia della
professione.
[256]
Cioè al c. 23, 2 e, per l’orazione, al c. 25.
[257]
Dall’inizio del periodo cf. Regula Benedicti 33, 3-4:
nessuno pretenda «di possedere qualcosa di proprio, assolutamente
nulla: né un libro, né tavolette, né stilo, ma, in modo assoluto,
nulla, poiché [ai monaci] non è consentito di avere a loro
disposizione né i loro corpi né le loro volontà». Le stesse forti
parole sono riprese dagli Statuti 2.18.13.
[258]
Cf. supra, cc. 13-14.
[259]
Troviamo la medesima saggezza in Statuti 2.13.5.
[260]
Le Certose si fondano ancora oggi sul medesimo principio (cf St.
3.29.5).
[261]
Questa esortazione finale è ripresa dagli Statuti (cf. 3.29.6).
[262]
Si veda ad esempio l’elogio che fanno della vita eremitica GIROLAMO
nella sua Epistula ad
Heliodorum (Ep. XIV);
EUCHERIO DI LIONE col suo De
laude eremi; e PIER DAMIANI nel suo
Opuscolo detto Dominus
vobiscum, (PL 545, 246C251 B).
[263]
Da questo punto in poi fino al 12 (che verrà ripreso però sono nelle
prime righe) il testo di Guigo è passato interamente negli Statuti
(cf. 0.2.3-9.11-12)
[264]
Cf. Gen 24, 63.
[265]
Cf. Gen 32, 24-25.31 (23-24.30).
[266]
Es 24, 18.
[267]
1 Re 19, 9-14.
[268]
Re 2, 10-15. Il riferimento a Mosè, Elia, Eliseo, e, in seguito, a
Giovanni Battista e a Gesù tentato nel deserto a proposito della
vita eremitica, come anche il successivo rimando a Paolo e Antonio,
era stato compiuto anche da PIER DAMIANI nella sua
Regola (Die
Briefe des Petrus Damiani 2, p. 83; PL 145, 337 D - 338 A).
Riguardo a Mosè ed Elia si veda anche CASSIANO,
Conlationes X, 6: «Così,
infatti, nella solitudine apparve a Mosè e parlò con Elia».
[269]
Cf. Ger 15, 17.
[270]
Cf. Ger 8, 23.
[271]
Ger 9, 1 (2).
[272]
Lam 3, 26.
[273]
Lam 3, 27. Per questi ultimi due riferimenti a Geremia in
riferimento alla vita eremitica cf. PIER DAMIANI nel suo
Opuscolo detto Dominus
vobiscum, in Die Briefe des
Petrus Damiani 1, p. 275 (PL 145, 249 B).
[274]
Ger 15, 17; Lam 3, 28.
[275]
Eb 11, 16 e Col 3, 2.
[276]
Lam 3, 30.
[277]
Cf. Mt 11, 11. Su di lui cf. anche
supra, n. 268.
[278]
Cf. Lc 1, 15-17.
[279]
Cf. Lc 1, 80.
[280]
Cf. Mt 21, 32.
[281]
Cf. Lc 3, 16; Mt 3, 13-17.
[282]
Cf. Mt 14, 3-12.
[283]
Cf. Mt 4, 1-11. Su tale episodio cf. anche
supra, n. 268.
[284]
Cf. Mt 14, 23.
[285]
Cf. Mt 26, 36. 39-44. È utile far notare che mentre il testo latino
ha «exoraturus» (pregare
vivamente, con insistenza) l’attuale versione italiana degli Statuti
traduce come se ci fosse semplicemente «oraturus».
[286]
A questo punto dell’Elogio
della solitudine di Guigo gli attuali Statuti certosini
inseriscono un altro paragrafo che dipende dalla
Nova Statutorum Collectio
del 1582: «Non possiamo passar qui sotto silenzio un mistero che
merita tutta la nostra attenzione: lo stesso Signore e Salvatore del
genere umano si degnò di darci nella sua persona il primo modello
vivente del nostro Ordine, col dimorare solo nel deserto, attendendo
alla preghiera e agli esercizi della vita interiore, macerando il
corpo con digiuni, con veglie e altre pratiche di penitenza, e
vincendo le tentazioni e il nostro avversario con le armi
spirituali».
[287]
La vita di Paolo e quella di Ilarione erano state narrate da
GIROLAMO (Vita Pauli, Vita
Hilarionis); La vita
di Antonio da ATANASIO
(tradotta ben presto in latino); quella di Benedetto da GREGORIO
MAGNO (Dialogi II). Sul
riferimento a Paolo e Antonio si veda anche supra, n. 268.
[288]
Guigo comprende qui la preghiera liturgica e quella personale, che
tratteggia già in quei quattro momenti della lectio divina (cf. già
un accenno in 16, 2), di cui tratterà estesamente Guigo II: lettura,
preghiera, meditazione, contemplazione.
[289]
Cf. Mt 7, 13-14.
[290]
In questa finale, che può
sembrare una “vanitosa” apologia
pro domo, Guigo non fa
altro che rifarsi ad una lunga tradizione di testi a firma di grandi
nomi come san Basilio, san Giovanni Crisostomo, san Girolamo, la
Regola del
Maestro, ecc., che si
fondano tutti sul tema della via stretta del Vangelo.
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5 aprile 2022 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net