Guigo II

Meditazioni X e XI

Estratto da “IL CRISTO” Volume IV, a cura di Claudio Leonardi

Fondazione Lorenzo Valla – Arnoldo Mondadori Editore 2001

Il testo originale comprende molte note esplicative

Link al testo latino

 

Meditazione decima

«Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna.» (Ev. Io. 6, 55). Insegnaci, o maestro buono, l’unico che «insegni all’uomo la sapienza» (Ps. 93, 10), insegnaci come dobbiamo mangiare la tua carne e bere il tuo sangue. Sappiamo, infatti, o Signore, che le tue «parole sono spirito e vita» (Ev. Io. 6, 64); l'uomo carnale invece non comprende quello che viene dallo Spirito di Dio. Per questo coloro che volevano comprendere da soli questa parola, «litigavano fra loro» (Ev. Io. 6, 53), e perciò non gustarono «il miele della roccia» (Deut. 32, 13); persino alcuni dei «discepoli», rottisi il capo, «si tirarono indietro» (Ev. Io. 6, 61. 67) dicendo: «Questo linguaggio è duro» (Ev. Io. 6, 61). Ma tu, o Signore, hai battuto la pietra, e ne sgorgò «acqua in grande abbondanza, in modo che la bevessero il popolo e gli animali» (Num. 20, 11). E il popolo «beveva dalla roccia spirituale che li accompagnava» (1 Ep. Cor. 10, 4), mentre non possono berne gli animali, proprio perché sono animali.

Hai inclinato i tuoi cieli, o Signore, e sei sceso ai modi più umili del nostro linguaggio, ma di nuovo «hai fatto delle nuvole il tuo cocchio» (Ps. 103, 3), per trasportarci sino allo spirito attraverso la tua carne. Diversamente «la carne non serve a niente» (Ev. Io. 6, 64), se si rimane solo nella carne; serve invece a coloro che ne fanno uno strumento per arrivare sino allo spirito. E noi sappiamo, o Signore, che la tua carne viene mangiata fisicamente e il tuo sangue realmente bevuto; ma ti preghiamo di farci insegnare dal tuo Spirito in che modo questa stessa carne è mangiata spiritualmente e lo stesso sangue bevuto, dal momento che lo spirito non mangia e non beve.

Ma se saliamo allo spirito sulla nube, passiamo dalle cose note a quelle sconosciute, così che dai modi in cui la carne mangia e beve comprendiamo come lo spirito mangi e beva a suo modo. Ad esempio, quando mangiamo questo pane materiale e sensibile, poniamo in bocca prima un boccone, staccato dallo stesso pane, e poi, masticato coi denti e sciolto con la saliva, lo ingoiamo, così che il cibo, giungendo nell’intestino, distribuisca energia e nutrimento al corpo. Ma il pane dell’anima è Cristo, «pane vivo disceso dal cielo» (Ev. Io. 6, 51), che ora alimenta i suoi mediante la fede, in futuro con la visione di sé. Mediante la fede, infatti, Cristo abita dentro di te, la fede di Cristo significa Cristo stesso nel tuo cuore. Tu possiedi Cristo nella misura in cui credi in Cristo. E certamente Cristo è un solo pane, perché «un solo Signore, una sola fede» (Ep. Eph. 4, 5) per tutti i credenti, sebbene alcuni accolgano di più il dono della fede, altri meno. E non ci sono tante fedi quanti i credenti: altrimenti non sarebbero i credenti soggetti alla fede, ma la fede ai credenti. Ora invece, poiché una è la verità, così anche una sola fede in una sola verità governa e alimenta tutti i credenti, e «un solo spirito ripartisce a ciascuno come vuole» (1 Ep. Cor. 12, 11).

Tutti, quindi, viviamo di un solo pane, e uno per uno riceviamo tutti la nostra parte, e tuttavia Cristo è intero per tutti, tranne per quelli che scindono l'unità. Non intendo intero nel senso che tu possa comprendere Cristo quanto Cristo stesso si comprende, cosa che nemmeno gli stessi angeli in cielo possono, né può alcuna creatura. Ma nel dono che ho avuto io posseggo tutto Cristo, e Cristo mi possiede tutto, come un membro posseduto da tutto il corpo a sua volta tutto lo possiede. Perciò quella porzione di fede che hai ricevuto in sorte è il boccone nella tua bocca; ma se non mediti spesso e devotamente su ciò in cui credi, e non lo sminuzzi triturandolo e rigirandolo coi denti, cioè con i sentimenti del tuo animo, non supererà la gola, cioè non arriverà sino alla mente. Come si può capire infatti quello che si pensa di rado e con negligenza, soprattutto se si tratta di cosa tanto sottile quanto invisibile? Perché la fede propone oggetti invisibili, e occorre sudare con grande fatica della mente prima di poter ingoiare qualcosa. Se infatti la saliva della sapienza, «scendendo dal Padre delle luci» (Ep. Iac. 1, 17), non sciogliesse il cibo secco, faresti una fatica inutile; perché quello che raccogli meditando non penetra fino all’intelletto. Perciò il beato Giobbe dice: «Prima di mangiare, sospiro» (Iob 3, 24), e la sposa: «L'anima mia si scioglie, quando parla il mio amato» (Cant. 5, 6). Tu hai una fede oziosa, se non «ti nutri con la fatica delle tue mani» (Ps. 127, 2), ricorrendo a una frequente meditazione. E tuttavia non puoi riflettere contemporaneamente su tutto quello in cui credi, né capirlo tutto insieme, ma lo puoi a poco a poco, e quasi briciola a briciola: così partorirai con violenti gemiti il tuo cibo.

Allo stesso modo la fede è nella coscienza come una madre invisibile, che non può partorire il suo figliuolo se non viene fecondata dalla rugiada del cielo, e se non soffre molto. Questa è la parola dell’intelligenza, mediante la quale la fede può essere vista con maggiore evidenza, come attraverso una sua immagine somigliantissima. E non cesserà di generare finché tutta la fede non si sarà trasformata in visione; allora «non ricorda più l’angoscia, ma è felice perché è venuto al mondo un uomo» (Ev. Io. 16, 21), che prima era chiuso nel ventre e viene generato dopo sforzi e sofferenze così lunghi. Maledetta è l’anima sterile, che non genera continuamente questo figlio. Attraverso la meditazione la legge di Dio sia quindi sempre sulla tua bocca, perché generi una comprensione sempre adeguata. Mediante la comprensione, in realtà, il cibo spirituale passa nell’affetto del cuore, perché tu non trascuri quello che hai capito, ma lo ricapitoli con cura mediante l’amore. Avresti capito inutilmente, infatti, se non amassi ciò che hai capito, perché la sapienza sta nell’amore. Perché l’intelletto precede lo spirito di sapienza, gusta il cibo come di passaggio (come se fosse liquido): l'amore invece lo gusta solido. Qui, nell’amore, è presente tutta la forza dell’anima, qui confluisce ogni nutrimento vitale, da qui la vita si diffonde attraverso tutte le membra delle virtù. «Con ogni cautela custodisci il tuo cuore, perché dal cuore sgorga la vita.» (Prov. 4, 23).

L’amore è dunque posto al centro, come il cuore, e verso l’amore avanzano e si rafforzano i tre elementi che lo precedono, la fede, la meditazione, l’intelletto, e dall’amore derivano e si dipartono i successivi. Dall’amore proviene anzitutto l’imitazione. Chi infatti non vuole imitare ciò che ama? Se non amerai Cristo, non lo imiterai, cioè non lo seguirai. Per questo Cristo disse a Simon Pietro, dopo averne provato l’amore: «Seguimi» (Ev. Io. 21, 19), cioè imitami. Giuda seguiva Cristo solo con i piedi, mentre con il cuore seguiva l'avidità; e Giezi seguiva Eliseo, non perché era mosso dalla pietà ma dalla cupidigia. Cristo va seguito con questi piedi, cioè con tutto il nostro amore. Mifiboset non seguì il re Davide quando si trovò in difficoltà, perché era storpio ai piedi; ma Cristo va seguito in tutto, e soprattutto nelle sofferenze, perché l’amico si vede nelle necessità. «Chi non prende la sua croce e non mi segue», egli dice, «non è degno di me.». E porta la sua croce, e segue Cristo, un certo Simone Cireneo, ma non arriva fino al supplizio della croce. Bisogna seguire Cristo, stargli vicino: non bisogna abbandonarlo fino alla morte. «Vive il Signore e vive l'anima tua! io non ti lascerò» (2 Reg. 2, 2), dice (Eliseo); e fu sempre vicino al maestro, fino a che non si elevò sul carro di fuoco. Seguivano Cristo settantadue discepoli; ma quando sentirono un discorso che non potevano capire, si ritirarono. Pietro seguiva Cristo durante la passione, ma da lontano, poiché lo avrebbe rinnegato. Solo un ladrone lo seguì fino alla morte di croce. Cosa si deve dire, che il ladrone ha seguito Cristo fino alla morte di croce, o Cristo il ladrone? Certamente Cristo ha seguito il ladrone finché questi non poté più fuggire; ma quando perse la possibilità di fuga, fu il ladrone a seguire Cristo, ed entrò con Cristo in paradiso.

Bisogna perciò seguire Cristo, unirsi a Cristo. «Il mio bene sta nell’unirmi a Dio» (Ps. 72, 28) dice (la Scrittura); «a te si unisce l’anima mia, la tua destra è posata su di me» (Ps. 62, 9). «Chi si unisce al Signore, diventa un solo spirito con lui» (1 Ep. Cor. 6, 17): non soltanto un solo corpo, ma anche un solo spirito. Dello spirito di Cristo vive tutto il suo corpo. Attraverso il corpo di Cristo si perviene allo spirito di Cristo. Sta nel corpo di Cristo con la fede, e un giorno sarai un solo spirito con Cristo. Già sei unito al corpo con la fede, con la visione ti unirai anche allo spirito. Tuttavia senza spirito non si può avere qui, sulla terra, la fede, e lassù, nei cieli, lo spirito non sarà senza il corpo: perché anche i nostri corpi allora saranno spirituali, pur non essendo spirito. «Voglio, o Padre», dice (il Cristo), «che anche questi siano in noi una cosa sola, come tu e io siamo una cosa sola, affinché il mondo creda.» (cfr. Ev. Io. 17, 21). Ecco l’unione per fede. E poco dopo: «affinché anch’essi siano perfetti nell’unità, e il mondo lo sappia» (Ev. Io. 17, 23). Ecco l’unione attraverso la visione.

Questo significa mangiare spiritualmente il corpo di Cristo: avere in lui una fede pura, e sempre cercare di meditarne la verità; e trovare con l’intelletto ciò che cerchiamo, e una volta trovato amarlo ardentemente, imitando quanto possiamo colui che amiamo; e imitandolo stargli sempre vicino, e standogli vicino unirsi eternamente a lui.

 

Meditazione undecima

E ora passiamo al calice. Prima, infatti, si mangia la carne, poi si beve il sangue. È proprio dei perfetti ricevere il calice della salvezza, che è il calice di Gesù, cioè accettare di buon grado le sofferenze. Per questo nell’ottava beatitudine si dice: «Beati coloro che sono perseguitati per causa della giustizia» (Ev. Matth. 5, 10). Nelle sette beatitudini precedenti si mangiava il corpo di Cristo, nell’ottava si beve il suo sangue. Infatti, come il cibo si digerisce masticandolo a lungo, e ciò richiede qualche sforzo e tempo, mentre la bevanda scorre rapida e gradevole, così anche la regola morale e la fermezza delle virtù si imparano lentamente e con difficoltà, mentre le sofferenze dei perfetti sono per loro dolcissime e sembrano passare più velocemente, «perché il tuo calice mi inebria col suo splendore» (Ps. 22, 5). Splendida e amabile, quell’ebbrezza muta il dolore in dolcezza, e «le sofferenze di questo tempo presente» che è così breve, «non sembrano a essi avere proporzione con la gloria futura» (cfr. Ep. Rom. 8, 18).

Infatti, quale sapiente, che capisca la misericordia di Dio (cfr. Ps. 106, 43), non vorrebbe accettare il calice della benedizione dalla mano del Signore, bevendo e partecipando alle sofferenze di Dio? «Prendendo il calice, rese grazie», dice (la Scrittura) (Ev. Matth. 26, 27). Chi lo prende non solo deve accettarlo, ma ringraziare, perché è stato ritenuto degno dal Signore di un onore così grande da meritare di bere al suo calice. Il primogenito, il primo tra tutte le creature, lo prese per primo, e bevve, e rese grazie, e poi lo diede ai discepoli dicendo: «Bevetene tutti» (Ev. Matth. 26, 27). Non escluse nessuno: volle che tutti partecipassero alla sua gioia. Prese per primo e benedisse: allora fu consacrato il calice della passione. Se infatti non ci fosse stata prima la passione di Cristo, che benediceva anche la nostra sofferenza, a che ci varrebbe la nostra? La nostra passione non sarebbe per noi benedizione di dolcezza ma calice di amarezza. La morte di Cristo, invece, ha trasformato l'amarezza della nostra morte in grande dolcezza. La fede della passione di Cristo viene offerta dunque a chi sta per bere il suo sangue, «perché Cristo ha sofferto per noi, lasciandoci un esempio» (1 Ep. Pet. 2, 21).

Ma nella contemplazione della sua santa passione, come quando si offre una bevanda più ardente si eccita la sete, così si eccita il desiderio di sopportare la sofferenza. Per questo nella guerra dei Maccabei «fecero vedere agli elefanti il succo dell’uva e delle more per aizzarli alla battaglia» (1 Macc. 6, 34). Dopo la sete si riceve il calice, quando il desiderio della sofferenza giunge a compimento. Chi beve infatti, se non ha sete? Anche Cristo, quando era in croce e beveva, aveva sete. «Ho sete», disse, «e gli offrirono una spugna imbevuta d’aceto, ma egli l'assaggiò e non la volle bere.» Non bevve infatti l’aceto dell'antica malizia dalla spugna di un cuore vuoto e fraudolento, ma il vino della nuova letizia da un calice semplice e puro. Chi beve, dunque, cioè chi soffre, non soffra in tristezza ma nella gioia. Per questo Giacomo dice: «Fratelli miei, considerate come motivo di piena gioia le diverse prove alle quali voi potete essere esposti» (Ep. Iac. 1, 2); «e» gli apostoli «se ne andarono contenti dal sinedrio, perché erano stati giudicati degni di patire oltraggi per il nome di Gesù» (Act. Ap. 5, 41). Questo significa bere e inebriarsi: rallegrarsi per le sofferenze. «Mangiate, amici», dice (la Scrittura), «bevete e inebriatevi, carissimi.» (Cant. 5, 1). Quelli che mangiano sono considerati amici, quelli che bevono e si inebriano, carissimi. Ci sono poi quelli che bevono ma non si inebriano, perché sono senza gioia, ma in tristezza quando vengono colpiti. «Noè bevve il vino, e si inebriò», e poi si addormentò (cfr. Gen. 9, 20-1). Anche Cristo si addormentò durante la passione, come egli stesso dice: «Mi ero già assopito nel sonno» (Ps. 3, 6). E anche la sposa dorme: «Io dormo, ma il mio cuore veglia» (Cant. 5, 2). Lungo la strada dormiva Giacobbe, che con vigile cuore ammirava i misteri straordinari che vedeva. Cosa significa infatti dormire, se non allontanare la mente dai sensi del corpo, perché possa vegliare su quelli interiori? E allora dorma la carne, e il cuore vegli.

Occorre infatti dormire, e riposarsi. Ma chi può riposare, se il cuore non veglia? «Riposo nella pace», dice (Cristo), «e mi addormento subito» (Ps. 4, 9). E ai discepoli: «Dormite, ora, e riposate» (Ev. Matth. 26, 45; Ev. Marc. 14, 4l). Dormite esteriormente, e riposate nel vostro intimo. «Il sabato è il giorno del riposo, e in questo giorno mortificate le vostre anime.» (Lev. 23, 32). Come può essere il sabato del riposo, se le anime sono mortificate? Il riposo non è nella mortificazione; ma quando si mortifica la carne, lo spirito riposa; quando si crocifigge la carne, l’anima ha il suo sabato di riposo. E in questo sabato si deve intendere un duplice riposo: la sospensione dal lavoro materiale e il godimento dell’amore spirituale. «Ogni anima che non si mortificherà in questo giorno sarà esclusa dal popolo.» (Lev. 23, 29). Chi non parteciperà alle sofferenze di Cristo non parteciperà nemmeno alla sua gloria. Dal sabato del riposo si giunge all'ottavo giorno della resurrezione, in cui è la vita eterna, e a questo fine tende il mangiare il corpo di Cristo e il bere il suo sangue. Egli dice: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna» (Ev. Io. 6, 55). L’ha già in predestinazione, benché non l’abbia ancora in compimento. Chi mangia in spirito questo corpo e beve questo sangue «non vedrà la morte in eterno» (Ev. Io. 8, 51). Perché gli empi, anche se lo masticano, tuttavia non mangiano questo corpo con lo spirito; per questo sono già morti, e abitano in sepolcri viventi.

Ma per riassumere in breve quanto si è detto, la fede offre il calice, il calice eccita la sete, la sete induce a bere: ma la bevanda inebria, e l’inebriato dorme, e dormendo riposa, e riposando possiede la vita eterna.

 


Ritorno alla pagina iniziale "Guigo II il Certosino"


| Ora, lege et labora | San Benedetto | Santa Regola | Attualità di San Benedetto

| Storia del Monachesimo | A Diogneto | Imitazione di Cristo | Sacra Bibbia |


13 aprile 2022                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net